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Grandi imprese, se lo Stato gli è vicino

Bella mattinata (ma che alzataccia) a Omnibus su la 7 a parlare di Meridione con persone interessanti. Alcuni spunti che non voglio lasciar cadere e che ribadisco qui sotto.

*

Il gruppo Fiat nel 2010 aveva un fatturato di circa 56 miliardi di euro. L’equivalente di 28000 piccole aziende italiane con 2 milioni di fatturato.

Ci sta.

Ci sta, che ambedue, la Fiat e l’esercito di PMI, soffrano di questa austerità e che non investano. Io non lo trovo sorprendente. Che ambedue non trovino sbocchi nella domanda interna, così importanti per loro, e dunque non investano, non lo trovo sorprendente. Credo che c’entri poco in questo caso la “qualità del modello Fiat” e credo che per una volta possiamo fare a meno di dire che “piccolo” è diverso da “grande”.

Alla fine, le grandi austerità mettono a repentaglio anche le dimore più sicure, come uno tsunami.

E allora ascrivere anche certe scelte Fiat all’austerità che ci siamo auto-imposti masochisticamente non è così folle. Discutibile, forse. Ma non folle.

*

Sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’insistita enfasi in trasmissione, specie ma non solo da parte del Sottosegretario Rossi Doria (bella persona!), sul proteggere con politiche pubbliche le piccole imprese. Specie quelle che affogano o non affiorano a causa di contesti sociali debolissimi e suscettibili di perire a causa di una tra le mille possibili discriminazioni. Come a Scampia, Napoli.

Mi sovviene, e l’ho detto in trasmissione, del contesto in cui operavano alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti le cosidette MBE, Minority Owned Businesses, piccolissime aziende detenute da minoranze etniche, specie da individui afroamericani o asiatici. Tim Bates è un economista americano che ne ha ripercorso la loro storia, a partire da quando “nei primi anni settanta, esse erano composte di fatto da piccole imprese concentrate nei servizi alla persona e nel commercio al dettaglio. Questi imprenditori di una data minoranza etnica tipicamente cercavano di sopravvivere gestendo imprese marginali: era una comunità di aziende vincolate da limiti di accesso al credito, da limitate opportunità di istruzione e di conoscenza basilari, e dagli stereotipi dei bianchi su quale fosse il giusto spazio per queste MBE nella società del tempo.”

Per esempio, per gli americani di etnia cinese, prima degli anni settanta l’occupazione era fortemente concentrata su due sole linee di business: ristoranti e tintorie. Ma non perché i cinesi sapessero fare solo quello, dice Bates: ma piuttosto perché tintorie e ristoranti erano settori in cui veniva tollerata la loro presenza da parte della società dominante, i cui “nativi” bianchi tipicamente non sceglievano di aprirvi aziende.

A questa situazione negli anni settanta, con la crescita del movimento dei diritti civili e l’arrivo dei primi sindaci di etnia afro-americana specie nelle città industriali del Nord degli Stati Uniti, si cercò di porre rimedio riservando a queste aziende parte degli appalti pubblici, trovando tra l’altro nella maggioranza di imprese “bianche” grandissima resistenza ed opposizione.

Questa struttura forzosa degli appalti creò un ulteriore problema: la cattiva qualità dei servizi svolti dalle imprese protette, detenute da minoranze etniche i cui imprenditori erano ancora poco competenti ed efficienti, per le pubbliche amministrazioni locali. Molte di queste, però, nel tempo, grazie a questa domanda pubblica “protetta”, crebbero, impararono a produrre e servire e divennero imprese “vere”, capaci di svincolarsi dalla protezione pubblica e di competere naturalmente nel Paese e a volte nel mondo.

Sin qui Bates. Torno su Scampia, le nostre 100 Scampia.

Abbiamo lì un contesto durissimo, dove non fiorisce, se non in condizioni di enorme disagio, la pianta sana dell’imprenditoria. Sono queste le imprese minuscole che dovremmo far crescere con piccoli appalti riservati. In tutta Italia, certo, ma specie nelle zone ad alta densità mafiosa o criminale. Certo, facendo attenzione al loro “pedigree” e certo, prendendosi dei rischi e, certo, controllando con attenzione lo sviluppo di queste imprese: ma non c’è dubbio che questi lavori pubblici “riservati” potrebbero far nascere un tessuto vitale di giovani imprenditori.

Un giorno, da Scampia, lanceranno la sfida al mondo e, soprattutto, alla mafia, su un terreno sul quale questa non può competere: la legalità e la bellezza.

11 comments

  1. leonardo quagliata

    17/09/2012 @ 09:10

    Sono d’accordo purchè le regole di accesso delle piccole imprese agli appalti loro riservati consentano di verificarne con maggior cura (es. prestanome) sia ex ante sia ex post la loro legalità (così come più o meno accade per le altre imprese che desiderano aggiudicarsi appalti pubblici). Anzi rilancio, sarebbe bello che si favorissero con agevolazioni (non solo fiscali) reti d’impresa e accordi tra piccole imprese in modo da supportare la loro “crescita” e, così, il miglioramento dei servizi da loro erogati a parità di costo per la collettività.

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  2. Giacomo Gabbuti

    17/09/2012 @ 20:56

    No prof non capisco il passaggio sulla Fiat. Che c’entra l’austerità? Qui c’entra ben altro, e la reazione di Romiti e Della Valle è significativa.
    Qui c’è chi ha strategicamente mirato a pagare meno gli operai con la complicità di un sindacato non lungimirante e da anni non produce un modello che non sia una nicchia per amatori. E che ha in sprezzo totale non solo le relazioni sindacali, ma l’onestà.
    Se Romiti, che licenziò tutte assieme 23.000 persone, rimprovera i modi a Marchionne, che ha sistematicamente preso in giro questo Paese, io non vedo cosa c’entri l’Austerità. Persino Giannino riesce a dirlo: un imprenditore serio fa capire chiaro e tondo che vuole andarsene (legittimamente è un discorso relativo, soprattutto da che spettro temporale consideriamo).
    Al governo andrebbe semmai posto il problema di non aver pensato, né per le grandi né per le piccole, una politica industriale; e per uscite come la Fornero che sostiene di “non avere il potere di convocare un imprenditore, gli ho dato una serie di date disponibili, vediamo che dice…”

    Reply
      • E’ vero che c’è la crisi in Europa e in Italia è anche più forte, ma i dati delle immatricolazioni sono impietosi:

        Gennaio – Agosto 2012/11
        Vendite UE 27 esclusa Italia -5,1%
        Vendite Fiat nella UE 27 esclusa Italia -13,4%

        Quindi la Fiat ha qualche problema, che non può imputare alla crisi economica generale, se nel mercato europeo perde più del doppio.

        Con l’Italia sarebbe:
        UE 27 -7,1%
        Fiat -17,1%

        Reply
          • Ma il -7,1% l’ha avuto anche il gruppo VW.
            Eppure le loro vendite sono rimaste sostanzialmente invariate (-0,1%). Non credo che questi risultati siano stati ottenuti evitando di fare investimenti, ricerca e sviluppo e lancio di nuovi prodotti.

          • Può darsi che mi sbaglio ma non credo che VW abbia annunciato una Fabbrica Germania nel 2010. In generale, sono certo che VW abbia ridotto i suoi piani di investimento, dichiarati o no, a causa di questa austerità.

          • Far gli annunci sono capaci tutti.
            Soprattutto se poi non vengono mantenuti.

            Quanto a VW il 22/11/10 le riviste specializzate (http://www.alvolante.it/news/volkswagen_investimenti-367171044)
            pubblicano la notizia:
            “Volkswagen: investimenti massicci per diventare il numero uno
            Il gruppo tedesco investirà 51,6 miliardi di euro e presenterà 70 novità nei prossimi 5 anni per superare la Toyota e diventare il primo costruttore al mondo”.
            Ma soprattutto:
            “circa 15 dei 51,6 miliardi totali, saranno investiti in Germania per aggiornare o “rafforzare” gli impianti tedeschi”.

            15 saranno pure meno di 20. Ma in realtà, secondo il Sole 24 Ore del 15/9/12, p.19, quelli relativi all’Italia erano solo 5 miliardi, sicché il confronto corretto è 51,6 contro i 20 “annunciati” da Fiat e 15 miliardi in Germania programmati da VW contro i 5 in Italia previsti da Fiat.
            Con la differenza che i tedeschi gli investimenti li fanno sul serio, mentre in Italia la Fiat spende 800 milioni e chi si è visto si è visto.

            L’anno scorso VW ha portato gli investimenti complessivi per i prossimi cinque anni a 62,4 miliardi.

            Loro mantengono gli impegni, in Italia … verba volant

      • Giacomo Gabbuti

        19/09/2012 @ 16:27

        Non ho a portata i numeri e le date precise, ricordo solo che è un paio d’anni almeno che Marchionne rimanda il lancio di modelli nuovi sostenendo che la crisi “li avrebbe mangiati” e che, però, sarebbe stata breve.
        Di fatto ha scommesso su una crisi breve – e vorrei capire su quali presupposti. Ma con una crisi lunga, senza auto innovative, senza motivi per invogliare chi ha ancora pochi soldi a spenderli, non si va da nessuna parte. Recentemente ha sostenuto: “Abbiamo fatto la migliore Panda di sempre a Pomigliano e rimane invenduta!”
        A parte che è un restyling, il pianale etc. rimangono gli stessi. Ma sempre una Panda è. L’ha mai guidata una Polo Marchionne? VW non farà gli investimenti ora – come credo le coreane – perché i modelli già ce li ha, e ora gode di fette di mercato sufficienti a star tranquilli a far passare ‘a nuttata.

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