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Recupera recupera recupera, meraviglioso uomo dell’ottava corsia

Grazie per una meravigliosa infanzia italiana all’ombra del tuo esempio.

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Siam mica qui a governare, eh!

Il mio giovane nipote Gaetano ed io condividiamo una forte passione per la figura misteriosamente gentile di Bersani. Per questo mi sento di postare la sua bellissima vignetta. Grazie Gaetano!

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Georgia (and Italy) on my mind

Georgia, Georgia, 

No peace, no peace I find 

Just this old, sweet song

*

Barcellona. Conferenza europea sullo sviluppo dell’e-procurement, gli appalti pubblici sostenuti da modalità elettroniche.

Ennesima occasione per noi italiani per aprire la bocca sbigottiti, arrabbiati, scoraggiati.

Perché il resto del mondo corre e noi continuiamo a vivere nel passato, pensando di essere (forse) il centro del mondo. Errore, try again, quelli erano gli anni sessanta e settanta, forse ottanta. Ormai il mondo corre, e non ci aspetta.

E così ci tocca ascoltare la presentazione del Presidente dell’Autorità dei Contratti Pubblici della Georgia. Stanno a Tblisi, ma per noi stanno sulla luna.

Con grande eleganza ci fa vedere la piattaforma per gli appalti sul suo Ipad. E’ in corso una gara tra fornitori, me la fa vedere in tempo reale. Tra poco finirà e tutta la Georgia in due secondi potrà vedere l’offerta tecnica, il prezzo proposto ed il nome di tutte le aziende che hanno partecipato alla gara. Ogni cittadino potrà controllare. Come l’Autorità.

Tutte le gare georgiane (sopra i 3000 dollari) sono postate prima, svolte dopo, aggiudicate infine, sullo stesso portale. Non è la Consip, no, che fa le gare per gli altri. Ogni stazione appaltante qui fa la sua gara in piena indipendenza. L’Autorità controlla solo che tutto sia fatto nel modo giusto. Non c’è centralizzazione delle gare, c’è centralizzazione del luogo dove fare le gare.

Quindi in tempo reale l’Autorità georgiana sa valutare la bontà della singola gara rispetto alle altre dello stesso bene o lavoro, alzare le bandierine rosse su quelle che paiono sospette, andarle a controllare.

Andiamo a pranzo. Chiedo al Presidente, un uomo di 43 anni e chiaramente sveglio affiancato dal suo assistente volitivo e ancora più giovane, quanto è costato tutto ciò.

“Oh, abbiamo chiamato i migliori al mondo, i coreani di Koneps (è vero, sono i più bravi, NdR) e ci hanno fatto una offerta di 10 milioni di euro più manutenzione per adattare il loro modello al nostro. Ci siamo fatti un po’ di calcoli e abbiamo deciso di farlo da soli. Abbiamo ricevuto 300.000 dollari dalla Banca Mondiale per l’infrastruttura e poi il resto ce lo siamo fatti in casa. In 1 anno, i coreani ci chiedevano 5 anni per andare a regime”

Lo guardo basito. E quante persone hanno lavorato sul progetto?

“Oh, noi due, poi un giurista per adeguare il sistema. E poi 5 informatici. Certo non abbiamo dormito per un anno, ma ne valeva la pena.”

5 informatici. 300.000 dollari.

Guardo i miei colleghi italiani sconsolato. Ecco. Tutto questo è così facile da fare. Costa nulla. In tempo reale potremmo trovare la vera strada per la vera spending review, quella che scova gli sprechi, li taglia e genera risorse per fare spesa vera. Per generare sviluppo.

Ma nessuno si azzarda a farlo, in Italia. Nell’Autorità dei Contratti Pubblici georgiana ci sono 30 persone al lavoro. 30.

Non ho mai sentito che si alzasse dai passati Governi una voglia di essere come la Georgia. Di spendere due lire per ottenerne in cambio 20.000. Euro, scusate, euro.

Si può fare, si può fare, si può fare. Nel Programma per l’Italia dei Viaggiatori c’è. Basta pretenderlo mi dico. Basta unirsi per portare a casa quanto serve per uscire da questa idiotica recessione, ridare occupazione e speranza al Paese.

Per ora me ne torno a Roma, with Georgia in my mind. Anzi, con un invito ad andare a Tbilisi, a dargli una mano, mi dicono che ancora alcune cose necessitano di qualche miglioramento e vogliono il nostro aiuto, Tor Vergata si è creata questa fantastica reputazione internazionale sul tema. Sorrido, un po’ sconsolato. Un altro viaggio, bene, ma quando viaggeremo in Italia?

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PS su Cipro e sulla insipienza europea

Non volevo scrivere altro su Cipro, ma siccome gli sviluppi paiono non finire mai annoto su questo diario:

a) il piano cipriota prevede anche fondi europei. In cambio di austerità. E’ certamente la solita stupida austerità. Ma con una ciliegina: la manovra prevista con la patrimoniale sui depositi farà sparire liquidità e dunque credito proprio quando l’economia cipriota ne avrebbe più bisogno. Parafrasando Giorgio Gaber, “due miserie in un colpo solo”.

b) mi chiedono i giornalisti se dobbiamo temere il “contagio”. Come no. Certo. E’ il contagio che pervade l’Europa, di disillusione sul progetto europeo, sulla sua mancanza di solidarietà (tassare i depositi è a questo riguardo così simbolico!), sul suo muoversi a casaccio e con pressapochismo, perché non vi sono valori forti che guidano questi leader.  Sarà questo contagio che invaderà le piazze in assenza di una risposta, sarà questo contagio che porterà gli spread a crescere, e non viceversa. Perché i mercati sanno bene che là dove non c’è un progetto unitario basato sulla solidarietà reciproca il destino di tante anime diverse è uno solo, quello di percorrere ognuna la propria via.

c) un’ultima ironica constatazione. Leggo ora sul Financial Times che i russi sono furibondi con l’Europa per la questione della patrimoniale sui depositi ciprioti (che probabilmente tocca molti cittadini russi). Mi viene poco da sorridere quando rileggo la dichiarazione di Van Rompuy di 2 giorni fa al termine del Consiglio europeo sulla Russia in cui si dichiarava pomposamente che:

durante la sessione della mattina il tema centrale è stato lo stato dei nostri rapporti con la Russia… Con la Russia la nostra cooperazione bilateriale è ampia. Sia loro che noi diamo grande importanza a questa partnership strategica. Oggi abbiamo avuto una discussione fruttuosa sui nostri interesse in comune e le sfide e così anche su come spingere più avanti le relazioni tra UE e Russia“.

Un caos ed una incompetenza senza fine. Viene solo da chiedersi dove erano durante queste discussioni e decisioni i rappresentanti francesi ed italiani.

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La scodella di lenticchie a Cipro che non abbiamo voluto pagare. La pagheremo, cara.

Facciamola breve.

Per ottenere 6 miliardi di euro dai depositanti ciprioti, tassa altamente regressiva (perché i cittadini più ricchi non detengono che una quota molto bassa della loro ricchezza in depositi bancari e perché tipicamente i più ricchi queste cose le vengono a sapere prima, in tempo per scappare) e altamente ingiusta (perché basata su contingenze del quotidiano e non di una effettiva e certa capacità di contribuire di colui che subisce l’imposta), l’Europa è riuscita nell’incredibile performance tafazziana di contemporaneamente:

a) perdere il supporto di una larga parte della popolazione cipriota sul progetto europeo;

b) aumentare la paura dei risparmiatori mondiali sugli investimenti nell’area euro, con tutti i connessi impatti sui rendimenti richiesti sulle attività in euro e sulla (accresciuta) probabilità di un effetto contagio sui depositi delle banche degli altri Paesi euro in caso di future notizie macroeconomiche negative appunto in quel Paese.

“Siamo in un nuovo mondo, una nuova era”, dice l’economista americano al New York Times. Preistorica direi.

Un’era preistorica, dove per 6 miliardi di euro, meno dell’1 per mille del PIL dell’area dell’euro, ma che costituisce 1/3 del PIL cipriota (che, ricordiamolo, ha una economia con un PIL pari all’1% di quello italiano), abbiamo deciso di correre gli immensi due rischi di cui sopra. Ci sarebbe costato una scodella di lenticchie ad ognuno di noi, venire incontro ai ciprioti nel momento di difficoltà.

Ripetiamolo. Per un piatto di lenticchie che non abbiamo voluto mettere a disposizione dei cittadini ciprioti (manco fosse colpa loro la cattiva sorveglianza del sistema bancario locale e dei suoi eccessi, e che le autorità europee non c’entrassero per nulla) ci ritroviamo con un rischio interno ed esterno molto più grande di prima.

E’ un’Europa dove la solidarietà, anche quando c’è, non appare mai per quello che dovrebbe essere: convinta, trasparente, equa, proporzionale.

Complimenti ai nostri leader europei: siamo un passo più vicini al baratro, per non aver voluto pagare un piatto di lenticchie.

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Europe’s 2 haircuts for not sparing the change for Cyprus

Let me get this straight.

Fact 1: Cyprus economy has an annual GDP of approximately 18 billion euro, 1% of Italian GDP;

Fact 2: The bail-out engineered by Europe for Cyprus amounts to approximately its annual GDP;

Fact 3: The 6 billion euro sequester of people’s bank deposits in Cyprus amounts to 1/3 of its annual GDP.

Fact 4: 6 billion euro amount to less than 1 per thousand of euro countries GDP.

Now, I wonder.

A Europe-driven wealth tax on deposits during a week-end, for which ” Jeroen Dijsselbloem, the Dutch finance minister who chairs the group of  eurozone finance ministers that hashed out the deal in all-night talks, declined  to categorically rule out hitting depositors in future bank bailouts” and which hits not the richest segment of the Cyprus population (richest people typically hold wealth not in bank deposits and are more likely to have received advance warning of what was coming), for mistakes that clearly do not relate so much to it, has 2 main consequences:

a) popular support in Cyprus for the euro-project has now suddenly and strongly been hit by a large haircut;

b) savers in the euro area and outside of the euro area will consider giving a substantial haircut to the belief that investing in the euro area is a wise thing. This implies a greater likelihood of 1) a confidence crisis following any negative news regarding the area and of 2) a structural increase in real rates requested for investment in euro-zone financial assets.

Why did we do all this? Because Europe could not spare 6 billion euro to save the ailing banking sector of Cyprus? I.e. Europe could not allocate less than one per thousand of its GDP to remedy the mismanagement of financial institutions whose conduct was supposed to be monitored also by European financial authorities and not by Cyprus citizens?

6 billion euro??

Europe could not spare the change? Well done guys! Now instead of small change we will all pay a huge sum for the destroyed credibility of what looks day after day less and less a political project of global dimensions and more and more a financial mess of local incompetence.

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L’elefante indiano e quelle farfalle che non sono moscerini

Ci piace molto ricordare regolarmente, a noi economisti, il miracolo dei Paesi scandinavi o, se per questo, anche del Lussemburgo, che scalano le classifiche del reddito pro-capite e degli indicatori di sviluppo umano con grande scioltezza. Siamo particolarmente invidiosi delle loro performance e suggeriamo modi per fare altrettanto, ricordandone il modello sociale di sviluppo, la loro capacità competitiva, l’enfasi sull’istruzione e sull’uso non improprio che fanno dei proventi della tassazione.

Mi pare giusto.

Peccato però che poi in tutto questo can can finiamo per scordarci spesso come conti, a volte molto di più, il PIL totale di un Paese. Meglio guardarle le classifiche del PIL mondiale.

E così sparisce la bellissima Svezia, che produce annualmente lo 0,5% del PIL mondiale. Per far posto a chi?

Beh, a tagliare il mondo a fette, 1/5 del PIL mondiale viene dagli Stati Uniti, 1/5 da Cina ed India, 1/5 da Giappone, Germania, Francia, Regno Unito ed Italia ed 1/5 da Russia, Brasile, Messico, Corea del Sud, ed un altra decina di paesi emergenti. Il resto è riservato, appunto, al resto del mondo.

Quando conta il PIL totale per capire il mondo? Tanto se parliamo di geopolitica, di eserciti, di potere negoziale, di investimenti diretti esteri.

C’era un tempo in cui chi aveva il reddito pro-capite più alto, pensiamo al G-7 occidentale, aveva in mano il pallino della produzione mondiale di ricchezza. Oggi non più.

Perché rileva per noi tutto ciò?

Da sempre, i Paesi grandi lasciano spesso il pallino su quali imprenditori (e di quale Paese) far entrare a fare investimenti dall’estero ad una ristretta cerchia di decisori politici locali. Che possono tranquillamente scartare una intera classe imprenditoriale di un Paese se quest’ultimo non gli aggrada: tanto fuori del Palazzo dell’Imperatore c’è una file lunga fino al mare di Paesi pretendenti all’ingresso delle proprio imprese.

Lo dico perché forse invece di fare un Ministero del Commercio Internazionale dovremmo fare un bel Ministero dei … 15 grandi clienti, quelli che comprano in massa i nostri investimenti esteri. E trattarli con molta cura, questi grandi clienti. Capire meglio le loro culture, cosa li colpisce nell’orgoglio, su quali vincoli politici non possono soprassedere. E anche perché no, rafforzare le nostre sedi diplomatiche ed accogliere a braccia aperte i loro studenti.

Domani il Messico supererà l’Italia nella top-10, che dovremo abbandonare.

Oggi l’India ha superato il Giappone al terzo posto della classifica del PIL assoluto. L’India al contrario di tanti altri Paesi tra quelli emergenti citati ha anche una grande tradizione democratica, istituzioni forti, una stampa quasi … troppo libera. Le va tributato il rispetto che merita. Come all’Italia ed alle sue giuste prerogative. Ma nel rispetto reciproco.

Il mondo è cambiato. Noi restiamo forse troppo attaccati ad un mondo che non c’è più. Sarà bene che ne prendiamo atto, prima che i grandi elefanti si scrollino rapidamente di dosso, come di un fastidioso stormo di moscerini, le centinaia di bellissime nostre imprese che non hanno nulla da invidiare al resto del mondo quanto a capacità di innovare ed esportare prodotti essenziali. Le nostre farfalle non sono moscerini, ma il rischio che non se ne accorgano c’è.

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L’Italia vota, la Germania attacca, la Francia risponde: comincia la sfida per l’Europa

Heinrich Freiherr von Stackelberg

C’è un gioco, in teoria dei giochi, si chiama il gioco di Von Stackelberg, dal nome dell’economista dei primi del 900 che lo inventò.

Mi piace molto, il suo gioco. Ha 2 giocatori. Ha un leader, ed un gregario.

Chi è il leader? Colui che si muove per primo, annunciando i suoi piani, finendo per condizionare l’avversario e chiuderlo nell’angolo che ha costruito per lui. E finendo per guadagnare per se ben di più del gregario.

Ma attenzione, non basta annunciare i propri piani. Non bastano mere parole. Bisogna che tale annuncio sia credibile, che lo si porti a termine. Per essere credibile, deve essere terribilmente costoso per chi fa l’annuncio poi rinnegarlo.

Certo, potremmo trovarci di fronte a due leader, che ingaggiano una guerra portentosa, fatta di annunci ambedue credibili, per ottenere la primazia e il maggiore guadagno, ognuno per se. E’ la c.d. guerra di Von Stackleberg, che può terminare o male per tutti e due, oppure bene, con un accordo di coesistenza fatto di guadagni equilibrati che si spartiscono ambedue i giocatori.

*

Penso a Von Stackleberg quando leggo l’articolo del Financial Times sull’incredibile decisione tedesca di muoversi per primi con mossa a sorpresa, prima dell’avvio del Consiglio europeo di oggi e domani:

“Wolfgang Schäuble, il ministro delle finanze tedesco, ha detto mercoledì che il bilancio 2014, fatto di tagli di spesa di più di 5 miliardi di euro … è un “forte segnale per l’Europa”. Il piano implica che la Germania raggiungerà l’equilibrio di bilancio nel 2015, un anno prima di quanto richiesto dalle sue regole costituzionali sul debito. Ha descrito il piano di spesa 2014 come un “consolidamento fiscale pro-crescita (growth-friendly consolidation)”, volto a dimostrare al resto dell’eurozona che  “consistenti e sostenibili finanze pubbliche e crescita non sono mutualmente esclusive”. Philipp Rösler, Ministro dell’economia, ha affermato che le finanze pubbliche tedesche sono “l’invidia del mondo”. La pubblicazione della manovra di bilancio è stata deliberatamente anticipata di una settimana per far uscire i dati prima del summit dell’Unione europea, spiegano funzionari tedeschi. Malgrado i forti tagli nella sanità, nel welfare e all’ambiente, il piano è stato fatto passare con la massima velocità – e decisamente prima di quanto previsto – dal consiglio dei Ministri“.

Ecco, mi dico, ci siamo, il gioco è cominciato. La Germania si muove, per prima, legandosi le mani sull’austerità, quell’austerità tedesca che più di qualsiasi altra austerità europea fa male, perché è la più gratuita e la meno necessaria, anche ad ascoltare tanti falchi europei dell’ortodossia fiscale. Ma che una Merkel votata a minimizzare i rischi di sconfitta elettorale non vuol per nulla mettere in dubbio. Un annuncio dal quale non potrà più tornare indietro, ora che è stato fatto, e che il Consiglio europeo non potrà bloccare o modificare.

Così facendo la Germania cerca di mettere all’angolo i paesi dell’euro del Sud: visto che io faccio austerità, io che sono messa bene quanto a finanze pubbliche, tu dovrai fare altrettanto.

Tu Hollande, che a questo Consiglio europeo arrivi dichiarando a tutti che bisogna fare il contrario dell’austerità. E se tu capitolerai, se farai austerità come me, io avrò dimostrato di essere il leader e tu il gregario.

Una sfida mica male. Ma che farà Hollande?

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Intanto portiamo a casa questo dato di fatto: la Germania va all’attacco, come un animale ferito. E’ uscita dalla tana, con veemenza. Si sente minacciata, forse per la prima volta. Potenza delle elezioni italiane?

E dunque cosa farà Hollande, l’altra fiera europea? Ha tre alternative.

Può chinare il capo. Più probabilmente può dire che non farà l’austerità per poi finire per farla, come accaduto sinora: parole, non mosse credibili.

Oppure, può semplicemente fare esattamente quello che ha fatto la Germania. Non come scelta di politica economica, ma come strategia. Ovvero, non più austerità, ma più deficit. E non meri annunci. Una dichiarazione ufficiale che tale deficit sarà assolutamente al centro della propria (francese) futura manovra di bilancio.

Insomma, scatenare una guerra di Von Stackelberg. Con il rischio di cortocircuitare il processo decisionale europeo. Con l’obiettivo, in attesa che la Merkel rivinca le elezioni a settembre e si rilassi un po’ finalmente, di bloccare la macchina dei tecnocrati della Commissione europea e delle loro prescrizioni austere sui Paesi che soffrono della crisi.

Con l’obiettivo di risedersi poi al tavolo decisionale a settembre, al fine di ripartire con maggiore cooperazione e minore imposizioni unilaterali, per raggiungere un risultato non ottimo per uno e pessimo per l’altro, ma buono per ambedue: meno austerità in tutta l’Europa, con decisione presa di concerto da parte di tutta l’Europa. Così da convincere anche i mercati, che si nutrono positivamente di unità di intenti della politica.

*

Ecco perché è così importante che i nostri politici italiani si sveglino, per il bene del Paese e dell’Europa, e corrano a Bruxelles a supporto di Hollande: perché anche se ho sempre insegnato il gioco di Von Stackleberg con due giocatori, nulla osta che si possa giocare in tre, e con le stesse, identiche, sfide.

Basta essere sempre dalla parte giusta. Ovvero, contro la stupida austerità.

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Le Fond Monetaire International

A questo punto non si può più negare che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) stia ingaggiando tutte le sue forze a disposizione per svegliare l’Europa dal suo austero sonno. Immagino che sia il modo per la Francia, che ha nella Lagarde un rappresentante al vertice dell’istituzione di Washington, per stuzzicare i tedeschi. Se così fosse, sarebbe certamente troppo poco. Forse M. Hollande dovrebbe darsi una mossa e puntare direttamente alla giugulare della coalizione dell’euro Nord. Ma tant’è accontentiamoci.

Di cosa?

Dell’ultimo studio FMI (firmato anche da … un francese) sui danni che l’austerità causa. A … PIL e occupazione? No, ormai quelli sono così ovvii che non vale la pena occuparsene (i moltiplicatori della spesa sul PIL esistono eccome: meno spesa pubblica, meno PIL!). No, all’indicatore principe della stabilità dei conti pubblici, il rapporto debito-PIL. Che, afferma il FMI, specie nei paesi ad alto debito di partenza e in situazioni di crisi economica condita da manovre finanziarie recessive protratte nel tempo, può … aumentare ulteriormente.

Già, aumentare. Lo sapevamo, lo diciamo da più di un anno, ma meglio se lo dice il Fondo, no? Eccolo il grafico.

La riga blu è quella che forse ci riguarda da vicino: ci mostra cosa avverebbe al debito pubblico sul PIL per 5 anni (fino al tempo t+5) se effettuassimo dal tempo “t” in poi manovre di austerità con impatti permanenti su di un’economia già in difficoltà. Insomma, Monti per voi.

E, sorpresa sorpresa, il debito su PIL sale.

L’austerità non solo uccide l’economia, uccide anche la stabilità dei conti pubblici.

Lascio chiudere ai due economisti del Fondo:

La nostra analisi suggerisce 3 principali conclusioni operative, che risultano essere particolarmente rilevanti per l’Europa oggi:

Primo, … non tenere esplicitamente da conto i moltiplicatori o sottostimare i loro valori potrebbe portare le autorità a fissare obiettivi di debito (e di deficit) irraggiungibili e di calcolare male l’ammontare di aggiustamento necessario per ridurre il debito. A sua volta, non raggiungere gli obiettivi stabiliti potrebbe minare la credibilità dei programmi di aggiustamento fiscale dei governi.

Secondo, … utilizzare il rapporto debito-PIL come target operativo presenta dei rischi. Se le autorità si fissano di raggiungere certi livelli debito su PIL di breve periodo (come col Fiscal Compact, NdR), potrebbero effettuare svariate serie di manovre austere per ridurre il debito su PIL verso il valore obiettivo, minando la fiducia e avviando una spirale viziosa di bassa crescita, deflazione e ancora austerità.

Terzo, … i risultati indicano come il ritardare l’austerità fino a quando tornino a prevalere condizioni economiche più normali ridurrebbe sostanzialmente la dimensione e la durata dell’impatto negativo dell’austerità sulla crescita.”

Insomma, tutto quello che l’Europa sta facendo attualmente è sbagliato. E, aggiungono, si sa cosa si deve fare. Svegliati Europa.

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Incompresa. La spesa pubblica tra inferno e paradiso

Spesso in questi anni mi sono chiesto perché molte persone non riescono proprio a digerire il concetto che da questa recessione si può uscire facendo più domanda pubblica di beni, servizi, infrastrutture. Lo ritengono impossibile.

Come se non credessero che esista qualcosa chiamata “domanda” che influenza la produzione e l’occupazione e che quest’ultima, nelle recessioni del tipo che stiamo sperimentando, si fa piccola piccola perché il settore privato non domanda più, terrorizzato com’è del futuro, preferendo tesoreggiare, non consumare, non investire. E che solo lo Stato può in queste occasioni portarci fuori dalle secche della recessione. Domandando beni, servizi, infrastrutture – appunto – alle imprese. E così generando occupazione e ricchezza.

Le ragioni possono essere tante. Le più ovvie: posizionamento ideologico contro lo Stato (compresa l’idea che spesa statale sia uguale a 100% di spreco) o l’ignoranza.

Sulla prima, io non ho dubbi che un buon 20% di spesa in Italia per acquisti sia spreco, vuoi per corruzione o incompetenza. E che vada combattuta molto molto meglio. Ma vedo in questo contesto anche il bicchiere mezzo (anzi quattro quinti) pieno. Detta in altro modo, che 80% di spesa pubblica in Italia per acquisti sia vera domanda che genera, in questa recessione, ricchezza ed occupazione perché non spiazza un settore privato che sul mercato, lo ripeto, non ci vuole proprio andare.

E Dio solo sa se abbiamo bisogno di quell’80% di domanda vera.

Ma c’è anche tanta ignoranza. Prova ne è che due anni di austerità hanno cambiato tante posizioni: questo blog, per esempio, con le sue argomentazioni anti austerità all’inizio sembrava fantascientifico (o sovietico), adesso per fortuna siamo tanti e gli argomenti passano con molta più facilità.

Abbiamo imparato che l’austerità fa male. Ma sembriamo resistere ancora all’idea che l’anti austerità faccia bene. L’informazione cioè serve, ma non muta la posizione sulla politica ideale/necessaria.

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A questo pensavo dopo aver letto l’interessante saggio di 4 economisti prvenienti dalla crema degli atenei Usa: Berkeley, Columbia, Harvard e MIT.

Che esaminano come cambiano le loro opinioni su temi economici a sfondo sociale le persone quando sono esposte a un bombardamento di informazioni oggettive. E la risposta è: proprio tanto, divenendo consce di problemi sociali che prima non consideravano.

Ma da qui a portare queste persone a chiedere che qualcosa cambi in termini di politiche pubbliche … ce ne vuole. Anzi, più la gente comprende, grazie alla maggiore sensibilizzazione a cui è stata esposta … più mostra … sfiducia nell’azione della mano pubblica, dei governi.

Come se, argomentano gli autori, “enfatizzare la severità di un problema sociale o economico apparentemente mina la disponibilità dei rispondenti a fidarsi del governo per risolverlo, come se l’esistenza stessa di un problema potesse apparire come la prova della scarsa capacità del governo di risolvere in generale i problemi “.

E così, per mancanza di fiducia, il problema è noto ma non viene risolto, affogando nello scetticismo generale.

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Non c’è dubbio. In un certo senso è ovvio: scoprire che la causa dei nostri mali è l’austerità e che la sua esistenza è dovuta ai governi che non hanno saputo contrastarla mina la nostra fiducia che un governo, qualsiasi esso sia, possa sapere farlo un giorno.

Ma c’è di più. Come dico spesso, apprendere che la spesa pubblica è fatta di sprechi che sono anch’essi concausa rilevante della stagnazione di questo Paese, fa sì che la soluzione più ovvia per uscire da questa, fare spesa pubblica buona, quando proposta riceva poca attenzione.

Un macigno terribile, vincere questa sfiducia. Ci vuole un monumentale sforzo per far capire, far credere e far sì che dalla passata mala gestione della spesa – che spiega in così tanti modi la crisi di oggi – si possa passare a partiti e uomini che sappiano invece usarla per fare quello che solo lei oggi può fare: farci uscire dalla crisi e ridare splendore alle infrastrutture cadenti di quello che un tempo, anche per le sua crescita grazie al motore degli investimenti pubblici, era un Paese invidiato ed ammirato nel mondo.

Ma va fatto. E per fare questo, bisogna prima di tutto fidarsi di chi tiene il bastone del comando.