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Il Nerone di Bruxelles canta

Ah, leggere la Banca Centrale Europea. E scoprire che i prestiti ora costano meno e gli ostacoli al finanziamento per le imprese sono calati ulteriormente.

Eppure le cose non vanno bene.

Ci dice l’ultimo (importante) rapporto semestrale della BCE sullo stato della finanza (http://bit.ly/1XhBfzh) per le piccole e grandi imprese che … lo stato della finanza conta poco per le imprese. Che la disponibilità di finanziamenti e le loro condizioni migliorino, dunque, è irrilevante. Come è possibile? Basta far parlare il rapporto: “l’accesso alla finanza è considerato dalle PMI (piccole e medie imprese)europee come il minore dei problemi”. Il più importante, il più menzionato? Sempre quello, “la mancanza di clienti”.

Cresce la differenza tra la disponibilità di fondi da parte delle banche e le necessità delle PMI di quei fondi. E perché mai domandare prestiti se non si intravedono clienti? Che fare di questa liquidità così abbondante? Nulla. “La maggioranza delle PMI, sia a livello euro, che a livello nazionale, riportano che semplicemente non hanno bisogno di prestiti bancari”. Quanto grande è questa maggioranza? Enorme. Il 70%. Settanta per cento.

E le cose peggiorano: rispetto al semestre precedente in Spagna, Irlanda, Olanda e Slovacchia meno piccole e medie imprese riportano profitti crescenti, mentre in Belgio, Italia, Francia e Grecia sono più numerose le imprese che riportano profitti in declino.  

La politica monetaria della BCE dunque è monca. Inutile. Porta l’acqua all’ospedale ma l’assetato non si presenta. Ha probabilmente bisogno di essere portato in ospedale, da solo non ci arriva. Manca l’ambulanza della politica fiscale espansiva, che garantisce alle imprese che ci sono clienti, anzi, che c’è IL cliente, l’unico capace di assicurare domanda alle imprese, la Pubblica Amministrazione, con la sua domanda via appalti pubblici. E mancherà fino a quando non aboliremo il Fiscal Compact e la sua nefanda incertezza che porta nell’economia, preannunciando ogni anno austerità per 5 lunghi anni che blocca i piani di investimento pubblici e privati.

Altro che acqua. Ci si diverte a portare fuoco. L’Europa di carta va bruciando. Il Nerone di Bruxelles è all’opera. La Gran Bretagna si defila da questa follia e l’incendio europeo prende più baldanza: chi mai farebbe investimenti di medio termine quando si profila all’orizzonte l’uscita del Regno Unito dall’Europa, e poi della Scozia dal Regno Unito e allora chissà se non quella della Catalogna dalla Spagna?

Il Nerone di Bruxelles canta, presto si suiciderà, ma quando esulteremo sarà forse troppo tardi.

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L’elicottero della rivoluzione

“Viewed in abstract, the Federal Reserve System had the power to abort inflation … It did not do so because the Federal Reserve was itself caught up in the philosophical and political currents that were transforming American life and culture … It is illusory to expect central banks to put an end to an inflation …. that is continually driven by political forces… (and that) will not be vanquished … until new currents of thought create a political environment in which the difficult adjustments required to end inflation can be undertaken”. 

Il passato Governatore della Fed statunitense Arthur Burns, discorso del 1979.

“The Magyar Nemzeti Bank (MNB) launched several programmes in 2014 not related to monetary policy, including a real estate investment programme, a programme to promote financial literacy and a programme involving purchases of Hungarian artworks and cultural property. The ECB assessed these operations from the perspective of their compliance with the prohibition of monetary financing for the first time as part of its 2014 annual monitoring exercise, as mentioned in the 2014 ECB Annual Report. This assessment concluded that, in view of their number, scope and size, the programmes could be perceived as potentially in conflict with the monetary financing prohibition, to the extent that they could be viewed as the MNB taking on government responsibilities and/or otherwise conferring financial benefits on the state. As the ECB points out in its 2015 Annual Report, its concerns were not dispelled in the course of 2015, and it will therefore continue to closely monitor the MNB’s operations, with a view to ensuring that their implementation does not conflict with the prohibition of monetary financing.

Lettera del Presidente della BCE a Mr. Csaba Molnár, MEP, sul tema della legislazione ungherese e sulla politica monetaria della Banca Centrale Ungherese, 22 aprile 2016.

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Con un pragmatismo maggiore dei suoi colleghi bocconiani, Guido Tabellini si distingue prendendo in mano il dibattito di politica economica con un qualche coraggio, chiedendo una modifica dei Trattati che permettano il finanziamento monetario della spesa, privata o pubblica che sia, per abbattere deflazione e disoccupazione in Europa. Un elicottero che voli sulla città, inondandola di banconote.

http://bit.ly/1WuJjKE

Negli stessi giorni il suo ex-collega Mario Draghi fa percepire l’oggettiva distanza delle istituzioni tecniche come la BCE dalla sua proposta. Nel rispondere ad una interrogazione di un parlamentare europeo dell’Ungheria, Draghi ricorda come la Banca Centrale dell’Ungheria si è dedicata a curiose operazioni di acquisto, simili a quelle suggerite da Tabellini: immobili, programmi di servizi di istruzione, acquisto di opere d’arte ungheresi. Condannandole.

Che direbbe Draghi del progetto dell’economista di acquistare con soldi stampati della BCE patate ed I-Pad regalando banconote ai cittadini dell’Unione?

Tabellini si dice conscio che il problema è politico, più che tecnico, e che ha a che fare con la minaccia che la sua proposta comporta per l’indipendenza della Banca Centrale Europea. E cerca di argomentare arrampicandosi un po’ sugli specchi come questa non sia a rischio: “la banca centrale resterebbe indipendente a avrebbe la responsabilità tecnica di decidere che è giunto il momento di fare ricorso a questo strumento eccezionale. E il governo avrebbe la responsabilità politica di scegliere se e come allocare le risorse a sua disposizione.”

Ma la banca centrale non è mai indipendente. La banca centrale, ricordava il Presidente della Fed Arthur Burns a sintesi del suo mandato caratterizzato dalla forte inflazione degli anni settanta, è prigioniera dei suoi tempi, e – soprattutto in regimi che aspirano alla democrazia – dipende da quello che i movimenti sociali dell’epoca pretendono da lei. Negli anni settanta il combinato disposto dei movimenti giovanili e sindacali pretese inflazione per avere più occupazione, e lo ottenne. Giusta o sbagliata che fosse questa ricetta per generare occupazione, visto che alla fine si incartò in una spirale meramente inflazionistica.

Oggi ci troviamo con una società più vecchia, dove dominano i risparmiatori e le banche, molte delle quali private: la loro domanda ai politici è di tutelarli dall’inflazione, avendo in portafoglio tanta ricchezza a reddito fisso che viene minacciata di sparire via inflazione.

E’ inutile oggi chiedere alle banche centrali ed alla politica di fare quello che si fece negli anni settanta, finanziando i disavanzi dei governi: bisogna che nasca un movimento politico che lo richieda con la stessa forza degli anni settanta. Bisogna che nasca un movimento all’interno del quale vengano rappresentati gli interessi non dei risparmiatori, ma dei giovani e di coloro che soffrono quella disoccupazione che è alimentata dalla deflazione. E che questo movimento sia così forte da soffiare un vento rivoluzionario, non populista e non xenofobo, in Europa. Tutto il resto sono chiacchiere da bar di economisti amanti dei modelli o senza un senso della storia e delle sue mutevoli sensibilità.

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E’ facile essere amici dei grandi. Delle Piccole meno.

Gran parte della nostra mancata crescita dipende dalla scomparsa, da oltre un decennio, di aumenti di produttività… Il secondo motivo è la dimensione delle nostre imprese, che sono troppo piccole. La produttività è tanto più bassa quanto più piccole sono le imprese. Perché imprese troppo piccole non hanno risorse sufficienti per investire in ricerca e sviluppo o anche solo nelle costruzioni di siti internet che consentano di gestire operazioni interne all’azienda o di dialogare con fornitori e clienti. In Francia e Germania le imprese grandi (con più di 250 addetti) sono intorno al 40 per cento del totale. In Italia sono la metà, mentre le micro imprese, quelle con meno di 10 addetti, sono il 45 per cento in Italia, a fronte del 15 per cento in Germania. Le ragioni hanno radici lontane e soluzioni non ovvie, ma anziché illuderci che per riprendere a crescere basti qualche intervento sulla domanda, vogliamo mettere questo tema in cima all’agenda di politica economica?

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

 http://www.corriere.it/economia/16_aprile_19/economia-slancio-perduto-a6282004-066f-11e6-98ad-d281ab178a74.shtml

C’è molto da recuperare, perchè la realtà, purtroppo, è quella indicata dal Professor Gustavo Piga, ordinario di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata: in Europa le Pmi generano il 58% della ricchezza nazionale, ma vincono soltanto il 29% delle gare d’appalto, con un indice di discriminazione del 29% nelle gare d’appalto europee. in Italia, il Paese delle Pmi, questa discriminazione è massima, e raggiunge il 47%. Per colmare questo gap – sostiene Merletti – occorre vigilare sull’attuazione del Codice con un meccanismo che garantisca alle piccole imprese l’effettiva partecipazione alle gare. Nulla di strano o eccezionale, visto che negli Stati Uniti è una prassi consolidata e che l’Europa non lo vieta. E soprattutto mi auguro che il Governo dia un segnale chiaro di attenzione alle piccole imprese, presentando finalmente alle Camere il disegno di legge annuale per la tutela e lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese, previsto dallo Statuto delle imprese. Altrimenti saremmo autorizzati a pensare che il premier Renzi condivide il giudizio espresso oggi sul ‘Corriere della Sera’ da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina che hanno così scarsa stima e conoscenza delle piccole imprese italiane da sbagliare addirittura il loro peso percentuale sul totale delle aziende italiane, riducendolo dal 95%, certificato dall’Istat, ad un improbabile 45%.

Comunicato stampa Confartigianato.

http://www.confartigianato.it/2016/04/p42868/

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Perché le imprese italiane sono piccole e come fare per farle crescere? Da Alesina e Giavazzi non è dato ricevere risposte.

Da Confartigianato invece arriva la risposta chiarissima: mancanza di attenzione.

Immaginate di avere un figlio, appena nato, e di non proteggerlo nei primi 10 anni della sua vita. Di fargli attraversare la strada da solo. Di non mandarlo a scuola per imparare. Di chiedergli di correre gare di 100 metri assieme a maggiorenni ben più veloci di lui. Di fargli pagare una tassa sull’acquisto della sua bici per ottenere risorse per contrastare l’inquinamento causato dalle auto che lui non guida. Che futuro pensate avrà vostro figlio, riuscirà a sopravvivere? Improbabile.

Da Renzi ci si aspetta che emani un disegno di legge per le PMI da 2 anni. E’ obbligatorio farlo, se non lo farà entro il 30 giugno sarà il terzo anno consecutivo che violerà un suo specifico compito, battendo addirittura Monti e Letta quanto a ripetizione dell’infrazione. Renzi manca di soluzioni come Alesina e Giavazzi? Si sforzi, si guardi intorno.

Protegga le piccole per farle crescere. Gli consenta gare di appalto riservate come negli Stati Uniti, sul sotto soglia, per le PMI europee, l’Europa non fiaterà. Metta un rappresentante delle piccole in ogni stazione centrale d’acquisto per verificare che i capitolati grandi non discriminino contro le piccole. Permetta che ogni amministrazione pubblica statale, regionale, comunale che ha il potere di emettere norme, regolazioni, determine o circolari, sia autorizzata a farlo solo dopo che abbia dimostrato che questa non pesi di più sulle piccole che sulle grandi, minandone la competitività e produttività. Anche perché probabilmente quelle regole sono state messe per danni che generano le grandi, non le piccole. Gli Stati Uniti lo hanno fatto con il Regulatory Flexibility Act, noi perché no?

E’ facile essere amici dei grandi. Ma un leader si riconosce dalla sua capacità di stare vicini ai più deboli, si ricordi Presidente.

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Per non essere piccoli, fate 3 cose per la Piccola (e Micro) Impresa

Il DEF appena uscito, nelle sue riforme menziona poche volte le micro e piccole e medie imprese. (http://www.mef.gov.it/inevidenza/DEF_2016/documenti/Sezione3/W_-_DEF-2016-Sez_III-PNR_2016.pdf )

Per lo più si rivolge a quelle più innovative e appena nate (start-up) e cerca di facilitare la quotazione di quelle già esistenti: di fatto rivolge la sua attenzione a una minuscola minoranza di questo patrimonio italiano che il DEF erroneamente continua a chiamare PMI (escludendo le micro imprese anche dalla nomenclatura della politica industriale italiana). Un’indifferenza che mette tristezza e che prosegue da anni, anche con il Governo Renzi, che da ben due anni si ostina, come i precedenti governi Monti e Letta, a non presentare alle Camere come è suo obbligo il disegno di legge per le piccole imprese.

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Tanto può essere fatto per le piccole là dove subiscono maggiormente i danni del contesto normativo: in particolare nella regolazione pubblica e nella domanda pubblica, veri e propri teatri di un imbarazzante favoritismo verso le grandi imprese che, come le recenti cronache giudiziarie hanno chiaramente evidenziato, comincia dall’atteggiamento supino verso le grandi che da sempre ha il Ministero dello Sviluppo Economico. Ministero che andrebbe trasformato esclusivamente in Ministero per le MPMI: tanto le grandi, come si è visto, il loro giardino se lo sanno facilmente curare da sole.

Nella regolazione, ispirandoci alla legislazione americana del Regulatory Flexibility Act, dovremmo impedire qualsiasi regolamento, determina, circolare o norma (locale o centrale) che abbia un impatto più oneroso per le piccole che per le grandi, e ideando una regolazione differenziata in tal caso.

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Negli appalti pubblici tre potrebbero essere le direttrici chiavi che dimostrerebbero un vero interesse del Governo alle sorti delle micro e piccole imprese. Prendiamo spunto in larga parte dall’esperienza di successo della Corea del Sud, che ha una struttura di piccole imprese dominanti come in Italia, seppure ruotanti attorno ad un sistema industriale di grandi imprese diverso da quello italiano. Per capire di più del sistema di appalti in Corea del Sud, autentica best practice mondiale, una squadra di economisti dell’OCSE si è recentemente recata a Seoul.

Il rapporto resoconto di tale missione è su http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/governance/the-korean-public-procurement-service_9789264249431-en#page1

E’ anche da quanto leggiamo su quel rapporto (che consigliamo vivamente ai consiglieri di Renzi appassionati di riforme irrilevanti per il Paese e ai burocrati del Ministero dell’Industria) che traiamo le tre possibili misure da adottare.

Primo. Nel sistema di appalti della Corea del Sud, è previsto un Fondo di rotazione a disposizione di micro e piccole imprese per eliminare qualsiasi ritardato pagamento, fattore questo essenziale per permettere partecipazione alle gare pubbliche e aumentare le possibilità di vittoria alle stesse. Il 70% del pagamento avviene in anticipo, con pagamento entro 4 ore di fronte a presentazione della fattura. Prestiti da parte dello Stato (a seguito di accordo con 15 banche commerciali) pari all’80% del valore del contratto sono a disposizione delle piccole senza garanzie, né fisiche né finanziarie. Cosa costerebbe al Tesoro italiano strutturare un tale Fondo e porre fine alla vergogna dei ritardati pagamenti verso le piccole imprese?

Secondo. Nel sistema coreano, per 207 prodotti specifici la Pubblica Amministrazione acquista solo dalle piccole imprese, a trattativa addirittura diretta sotto i 42.400 dollari (la stessa cosa avviene nei lavori pubblici sotto soglie di circa 100 milioni di dollari). Alle piccole imprese certificate dal Governo come di eccellenza e/o innovative vengono dati più punti in gara che alle imprese grandi, così da non essere completamente sfavorite quando competono in gara. A livello locale esistono obblighi di aggiudicare ad imprese locali. Dal 2009 al 2014, grazie a queste legislazioni, la quota di euro aggiudicati alle piccole imprese è salita dal 53,6% al 71,9%. Cosa aspetta il Tesoro a restringere il sottosoglia esclusivamente alle micro, piccole e medie imprese dell’Unione europea?

Terzo. Negli Stati Uniti, per aggregare i fabbisogni pubblici in un’unica gara c’è bisogno di dimostrare che i risparmi superino un certo ammontare, altrimenti l’aggregazione è sconsigliata perché impedisce alle piccole imprese di partecipare e di vincere. In Italia abbiamo deciso di fare il contrario, chiedendo che su certe merceologie si possa procedere con gare grandi anche se costano di più. Il passaggio a poche grandi stazioni appaltanti è stato richiesto dal Governo italiano ed avrà un impatto significativamente negativo sulle piccole imprese a causa della crescita della dimensione del valore delle gare pubbliche. A meno che… A meno che non si faccia come negli Stati Uniti e si inventi la funzione pubblica dell’Ambasciatore della Piccola Impresa. Costui dovrà rappresentare gli interessi delle piccole impresa dovunque le gare superino una certa dimensione ed esprimere richieste formali di cambiamenti dei capitolati di gara per facilitare la partecipazione e la possibilità di vincita delle PMI. In particolare, la presenza di un Ambasciatore della Piccola, nominato in accordo con le organizzazioni di categoria delle piccole italiane, dovrebbe essere resa obbligatoria per quanto riguarda il Tavolo dei 35 aggregatori, le 35 stazioni appaltanti regionali e delle grandi città metropolitane che insieme alla Consip coordinano le scelte a livello nazionali su quanto e cosa mettere a gara, e come.

Se il Governo Renzi riuscirà a muoversi su queste tre direttrici avrà dimostrato un qualche interesse alle sorti del nostro patrimonio della Piccola impresa. Altrimenti, quanto vediamo ogni giorno avvenire in termine di distruzione di base imprenditoriale non potrà che essergli addebitata esattamente come abbiamo fatto con i due governi precedenti, assolutamente obnubilati dagli interessi delle grandi imprese e dei freddi dettami europei.

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6 domande sulla sparizione degli investimenti in Italia

Qual è la sindrome della malattia economica italiana?

Gli investimenti.Nel periodo 2005-2015 calano del 26,3% contro il 3,5% dell’area euro (quasi 100 miliardi di euro in meno (in euro del 2010)). Il tasso d’investimento è ai minimi storici dal 2007.

Perché non si investe in Italia?

Perché manca ciò che dovrebbe stimolare gli imprenditori a investire. Mancano le due leve essenziali per far scattare la molla a rischiare da parte delle imprese: 1) un contesto favorevole a fare impresa e 2) l’ottimismo imprenditoriale.

Qual è il contesto favorevole che manca?

La Commissione europea stima che 3 imprese su 4 italiane considerano le infrastrutture del proprio Paese inadeguate, contro meno della metà per le imprese in Europa: 76% Italia vs. 46% Ue 28.

Non esiste un economia di mercato al mondo che sia competitiva senza la presenza, forte e vicina, di uno Stato che sostiene l’impresa con adeguati investimenti pubblici. Ma gli investimenti pubblici italiani sono costantemente al di sotto della media dell’Unione europea e ai suoi minimi da sempre dal dopoguerra, al 2,2% del PIL.

Beffa delle beffe, l’ultima legge di stabilità taglia nel 2016 la spesa in investimenti più di quella corrente: come volete che un imprenditore scommetta lui investendo se lo stesso Governo ha per primo paura di scommettere sul futuro?

E perché manca l’ottimismo? 

Semplice. Perché il Governo, il più importante produttore di ottimismo che esiste nell’economia di qualsiasi Paese che funzioni, in Italia ha clamorosamente fatto flop, scrivendo documenti pluriennali che deprimono le aspettative degli imprenditori.

Un esempio? L’ultimo DEF, documento ufficiale del Governo, prevede che nel 2019 gli investimenti in costruzioni siano ancora sotto del 30% (del 10% quelli per attrezzature e macchine) rispetto al 2007. Ma che senso ha dichiarare pubblicamente che nel 2019, cioè tra 3 anni e più, lo stesso Governo non crede nell’efficacia delle proprie politiche? Aspettiamo di vedere cosa dirà tra pochi giorni su questo il nuovo DEF, ma il pessimismo regnerà nuovamente sovrano, ne siamo certi.

E come rimanere ottimisti se il Governo stesso dice urbi et orbi che non garantirà nessun supporto tramite gli investimenti pubblici alla domanda privata? Se annuncia, come ha fatto lo scorso aprile (e come scommetto ripeterà tra pochi giorni) che il deficit pubblico verrà ridotto in 3 anni dal 2,2% raggiungendo addirittura un surplus di bilancio dello 0,3%, con una riduzione di 2,5%, 40 miliardi di euro di manovre che uccidono l’economia?

Cosa servirebbe per ripristinare fiducia e competitività per far ripartire gli investimenti?

Prima di tutti abbandonare la costruzione europea del Fiscal Compact. La flessibilità renziana non basta. Come ha detto pochi fa il Centro Studi di Confindustria: la flessibilità permette di avere “una minore riduzione del deficit di bilancio strutturale pari a 0,6 punti di PIL (più di quella consentita pari a 0,4)” ma “nel 2017 e nel 2019, se si desse seguito a quanto previsto dal Patto di stabilità e crescita la restrizione dovrebbe essere almeno dello 0,5% del PIL l’anno. Se si tiene conto delle clausole di salvaguardia che sono ancora attive, la correzione nel 2017 dovrebbe essere di 1,4 punti di PIL, circa 24 miliardi, l’anno successivo di ulteriori 0,2 punti e nel 2019 di 0,5 punti di PIL.”

Quanto basta per ammazzare il malato e a fare rinunciare a qualsiasi impresa di investire in Italia, terra di austerità e mancanza di opportunità.

Basterà far fuori il Fiscal Compact?

Ma no che non basta. A livello negoziale in Europa e per aiutare effettivamente il contesto italiano e la domanda pubblica a creare le giuste condizioni per la ripresa abbiamo bisogno di imparare a spendere bene, una volta per tutte.

Una spending review si rende dunque improrogabile: ma una spending diversa da quelle perorate sinora, fatte di idiotici tagli a casaccio. Una spending mirata a identificare gli sprechi, eliminarne le fonti (corruzione ma soprattutto insufficienti competenze), utilizzare i risparmi scovati per investire in competenze nel settore pubblico e per finanziare quegli investimenti pubblici di cui imprenditori e cittadini sentono oggi un bisogno indicibile.

Tutto qua.

Dati (e figure) ottenuti grazie al Centro Studi di Confartigianato.

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Ricerca batte Studenti 75 a zero: l’Università muore

59. 59 volte le parole ricerca o ricercatori. E’ questo il numero di volte che sono state utilizzate da alcuni ricercatori vincitori del prestigioso bando ERC nella lettera appello a cui ha fatto eco immediata la risposta del Presidente Renzi, pronto a raccogliere addirittura in due soli giorni la “sfida” a lui lanciata, con risorse e riforme a favore del rientro dei cervelli in Italia. Il Premier stesso ha utilizzato quelle due parole 16 volte. Un totale di 75 nelle due lettere.

http://bit.ly/1oghrMB

http://www.repubblica.it/scienze/2016/03/26/news/renzi_ricercatori-136316684/

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Zero volte.

Zero è il numero di volte con cui sia i valenti ricercatori che il nostro Premier hanno menzionato la parola studente, studentessa o studenti.

Non è un caso. E’ il segno della totale indifferenza degli estensori delle due lettere al destino di questi ultimi. E pensare che la parola “universitates” stava anche a indicare quelle associazioni costituite dagli studenti a tutela dei propri diritti, come a Padova nella prima metà del Duecento.

In realtà, non volendo parlare di indifferenza, si potrebbe argomentare che altre sono le ragioni: che la ricerca è cosa separata dalla didattica e dall’insegnamento; oppure al contrario che parlare di ricerca è cosa equivalente a parlare di didattica (un buon ricercatore è un buon insegnante). Balle.

E’ che non interessa ai più, certamente non al nostro Premier. Più facile vincere la battaglia mediatica con qualche soldo per qualche ricercatore bravo che rimettendo l’Università nel suo complesso al centro del XXI secolo italiano, come lo fu nel Medio Evo nella nostra penisola, con atenei che nascevano come funghi, da quello che è oggi il Veneto sino alla Campania e più giù. Più facile mettere la patina esotica allo straniero che rientra dall’estero piuttosto che attribuire il merito a chi resta in trincea tutto sporco di fango e soprattutto più semplice che adottare una riforma coraggiosa e non più differibile?

I risultati di questa indifferenza agli studenti, una delle materie prime del nostro Paese, non sono attribuibili solo a quest’ultimo Governo, ma si toccano con mano: “per la prima volta negli oltre 150 anni di storia unitaria il numero degli studenti universitari si riduce. La quota di studenti universitari sul totale della popolazione, dall’unità d’Italia ad oggi aveva conosciuto un costante aumento: da meno dell’1 per mille fino all’età giolittiana e meno del 2 durante il fascismo, si passa a circa il 6 per mille all’inizio degli anni Sessanta, al 18 un ventennio dopo, fino a sfiorare il 30 nei primi anni del nuovo secolo. Rispetto al momento di massima dimensione (databile, a seconda delle variabili considerate, fra il 2004 e il 2008), al 2014-15 gli immatricolati si riducono di oltre 66 mila, passando da circa 326 mila a meno di 260 (-20%).” Fondazione RES, Rapporto 2015.

E questo mentre il nostro Governo si è impegno a raggiungere entro il 2020 il 40% di laureati nella fascia di popolazione tra i 30 ed i 35 anni. Oggi l’Italia, il Paese dove nacque l’Università, giace ultima nell’Unione europea, al 23%. Drammatico. Forse Renzi pensa che riuscirà a raddoppiare gli studenti con i 500 professori in un triennio che menziona nella sua lettera a Repubblica? Impossibile, a fronte dei crolli di quest’ultimo decennio, in cui i docenti da poco meno di 63 mila sono scesi a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 mila a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%) e il fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) diminuisce, in termini reali, del 22,5% (dati Fondazione RES 2015)? Anzi ipocrisia pura, solo una facciata. Dietro la facciata, lo ribadisco, l’indifferenza più totale.

Se soltanto gli estensori delle due lettere a Repubblica dessero uno sguardo ai dati, scoprirebbero che l’Università italiana degli studenti sta diventando meno aristocratica ma per i motivi sbagliati: “alcune prime stime lasciano (…) pensare che il calo riguardi in particolare gli studenti provenienti dalle famiglie meno abbienti” (Banca d’Italia 2014, citata da Fondazione RES 2015) mentre i figli dei più abbienti sempre di più si dirigono all’estero, senza che entrino in Italia altrettanti studenti stranieri.

Le ragioni? E’ importante per rispondere comprendere innanzitutto che l’Università italiana non attrae i talenti presenti nelle fasce meno abbienti (secondo Cooper e Liu che scrivono sulla prestigiosa collana degli NBER papers, l’Italia ha un tasso molto alto di “undermatching” dove i ragazzi di maggiore talento decidono di non accedere all’Università) http://papers.nber.org/tmp/67657-w22010.pdf

e che, come menziona Avvisati dell’OCSE, “in Italia il tessuto industriale fatto di piccole e medie imprese appare più restio che altrove ad assorbire i laureati” (forse a ragione visto quanto scoprono i due ricercatori americani?). Fatto sta che il vantaggio relativo della laurea ai fini di un impiego si è assottigliato al punto da essersi rovesciato: il tasso di occupazione di chi ha fatto l’università è di un punto percentuale inferiore a chi ha solo il diploma (62% contro il 63%).

http://www.corriere.it/scuola/universita/15_novembre_25/ocse-italia-laureati-ultima-educaton-glance-universita-eac49a02-9357-11e5-a439-66ba94eb775e.shtml

E dunque? Qual è la radice del problema dell’Università italiana? Era proprio questa che ci aspettavamo di leggere nell’attacco della lettera del nostro Premier, che forse dovrebbe ascoltare, prima ancora dei 15 bravi ricercatori, la massa silenziosa di migliaia di studenti che disertano sempre più le nostre aule. Gli avrebbero spiegato, ma è un segreto di Pulcinella, che i mali si chiamano fuoricorso, fenomeno solo italico (“nei corsi triennali e a ciclo unico, nel 2011-12, era fuoricorso il 47% degli studenti al Sud, il 45% al Centro e il 35% al Nord; fra i laureati nel 2013 erano al quinto anno fuoricorso (in nettissimo ritardo), circa il 20% al Sud, poco meno al Centro, meno del 10% al Nord”- Fondazione RES) e abbandoni (ancora la Fondazione RES: “comparazioni internazionali riferite ad anni a cavallo dell’inizio del secolo, mostrano che la percentuale di abbandoni era in Italia la più alta in un vasto gruppo di paesi dell’Ocse; addirittura più della metà degli studenti non arrivava alla laurea, il doppio rispetto al Regno Unito e Germania. Dati recenti mostrano che una significativa quota di studenti abbandona i corsi universitari dopo il primo anno: il 12,6% al Nord, il 15,1% al Centro e il 17,5% al Sud (con una varianza molto elevata fra atenei e punte fino al 25%). A ciò si aggiunge che circa un terzo degli studenti del Centro-Sud, sempre al termine del primo anno hanno ottenuto meno di 15 crediti formativi (il 28% al Nord)”).

Come si fa ad avere più iscrizioni, meno abbandoni, meno fuori corso? Alcune soluzioni intelligenti e semplici le ha proposte un mio collega di Padova

http://www.corriere.it/scuola/universita/16_gennaio_20/vietato-rifiutare-voto-universita-ingegneria-padova-proposta-019afb60-bf4d-11e5-b186-10a49a435f1d.shtml

con il divieto di rifiutare il voto. Ma è evidente che abbiamo bisogno di più strutture, più amministrativi a supporto degli studenti, possibilmente che abbiano una conoscenza della lingua inglese se vogliamo attrarre studenti da tutto il mondo, docenti bravi al primo anno che non spaventino ma motivino i ragazzi.

Sarebbe a questo riguardo interessante sapere se i vincitori dei bandi internazionali di ricerca sarebbero disposti ad insegnare, come avviene negli Stati Uniti ai giovani bravi appena assunti, al primo anno, in classi con 200 studenti, seguendoli e motivandoli e venendo da questi giudicati ai fini della progressione della carriera. Certamente l’attuale politica tutta rivolta a premiare la ricerca scientifica ha generato l’opposto: i nostri bravi ricercatori (e Dio sa se ne abbiamo, tantissimi, la enorme maggioranza, e andrebbe detto a Rizzo e Stella che sembrano dimenticarlo, vista l’attenzione che riservano esclusivamente alle mele marce dell’Università) si rifiutano di farlo per dedicarsi alla ricerca e prediligono per questo l’insegnamento breve in aule piccole di anni avanzati o addirittura di Dottorati, senza capire che tanti giovani bravi che avrebbero potuto formare con qualità hanno abbandonato l’Università perché non li hanno conosciuti e non si sono potuti motivare a sufficienza per trovare le energie per proseguire gli studi.

Ma è ovvio che la vera risposta è poi nel cosa diamo a questi ragazzi. Nel XXI secolo globalizzato, dovremmo poter sperimentare corsi nuovi e valutarli alla luce dei risultati ottenuti e non bocciandoli a priori perché non rispettano le vetuste griglie ministeriali scritte da persone nate 60 anni fa e dovremmo stanziare risorse per quei corsi che attraggono studenti dall’estero perché l’università deve, assolutamente deve, insegnare ai nostri ragazzi a vivere nella diversità.

Per fare questo non bastano i 75 milioni di cui parla Renzi, o i 280 in un triennio, ci vogliono almeno dieci miliardi di euro e soprattutto ci vuole qualcosa che Renzi non ha nella sua testa perché non vi è interessato, un Progetto. Un Progetto che porti i meno abbienti a rinunciare a tre o cinque anni della loro vita lavorativa per formarsi in una Università del XXI secolo che dà strumenti, conoscenze, esperienza, confronto. Che insegna a dibattere, a lavorare in squadra, a negoziare.

Sarebbe una cosa di sinistra? Forse. Ma soprattutto sarebbe la cosa giusta.

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Il ponte verso la Turchia che non vogliamo costruire

“Non ho nessuna religione e, a volte, vorrei vederle tutte in fondo al mare. E’ una guida debole, colui che ha bisogno della religione per mantenersi al governo, è come se volesse intrappolare il proprio popolo. Il mio popolo imparerà i principi della democrazia, i dettati della verità e gli insegnamenti della scienza. La superstizione deve finire. Ognuno ha la libertà di adorare chi vuole e seguire la propria coscienza, a condizione che non interferisca con la razionalità e che non agisca contro la libertà dei suoi simili 

(Mustafa Kemal Atatürk, 1928)

E così l’accordo con la Turchia è andato. Con poche capitolazioni rispetto al “ricatto” turco di accelerare il processo di adesione della Turchia all’Unione europea.

Sì perché così è stato considerato dai più, un “ricatto” di un Paese non democratico e per di più troppo arretrato per aspirare a entrare a far parte del club dei ricchi europei.

Tempo addietro, un decennio orsono, la Turchia voleva veramente entrare in Europa. E il nostro costante rifiuto veniva in quel Paese così commentato: “ma come? Alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia, poveri e appena usciti da regimi dittatoriali avete detto: entrate in Europa, crescerete economicamente e acquisirete il nostro DNA democratico. A noi invece dite: non potete entrare fino a quando non sarete democratici e ricchi economicamente”.

Così andò, che a forza di porta sbattute in faccia, la Turchia guardò altrove, a Oriente. E pian piano è scivolata via da quel laicismo che ne costituiva l’orgoglio nazionale, avviato dal leader storico Atatürk, verso un fondamentalismo crescente.

Gravissimo errore. L’accettazione della Turchia avrebbe mostrato al mondo il carattere aperto dell’Europa e lanciato un ponte verso l’Islam moderato di imparagonabile potenza simbolica. Oggi, nessuno certo ha la palla di vetro, è probabile che vivremmo una stagione di confronti internazionali con i popoli mediorientali ben meno drammatica di quella odierna.

Tutto questo per dire che, per quanto la Turchia di oggi è ben più difficilmente avvicinabile di quella di soli 10 anni fa, la recente richiesta di accelerare il dialogo per l’adesione turca all’Unione europea non è un ricatto ma una fantastica occasione per rimediare a un incredibile errore strategico commesso da una classe dirigente miope.

La stessa classe dirigente che pochi anni dopo avrebbe gettato il Continente europeo in una recessione evitabile da cui non riusciamo ad uscire.

La stessa classe dirigente che avrebbe cominciato a costruire muri invece di ponti.

Chiamiamo a noi la Turchia, dentro l’Unione europea, diamole accesso ad ulteriore crescita economica e democratica. Saremo più forti.

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I 7 anni che hanno portato alla deflazione

Qualche lustro fa, Lorenzo Bini Smaghi, allora membro della BCE, presentò a Villa Mondragone, al consueto bell’evento estivo di Tor Vergata,  questa tabella della BCE sulla deflazione. La sua opinione rifletteva quella degli analisti intervistati dalla BCE per il 2009: la deflazione non è un evento probabile.

Prese subito dopo la parola Jean-Paul Fitoussi e disse una cosa che mai dimenticherò: “la deflazione – affinché possiamo dichiararla sconfitta – non deve essere “improbabile”, deve essere “impossibile”; troppo pericoloso è scherzare col fuoco e lasciare anche il seppur minimo dubbio che questa possa materializzarsi, anche con una probabilità minima”.

Aveva ragione. Abbiamo giocato col fuoco, e ora è diventato un incendio, quello della deflazione che aumenta i tassi reali per i debitori in difficoltà ed i salari reali  forzando le imprese a licenziare e a non assumere.

Ora è troppo tardi, le probabilità si sono rovesciate e quello che è divenuto improbabile è che la BCE raggiunga più il suo obiettivo del 2%. Peggio ancora, le aspettative – in 7 anni di fallimenti epocali da parte della BCE - si sono consolidate attorno a prezzi stabili o decrescenti e solo un cambio di regime monetario impensabile, uno che fissi ad esempio l’obiettivo d’inflazione al 5%, forse potrò riportarci fuori dalle sabbie mobili, aiutato da una politica fiscale massicciamente espansiva.

Cominciando ora, a parlare a Francoforte di un’inflazione del 5%, forse tra 7 anni possiamo sperare di essere tornati stabilmente a quota 2%.

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Il cannone spuntato di Draghi

La decisione di Draghi ha eccitato molti. In realtà è il segnale della disperazione di Francoforte per l’impotenza del suo cannone di politica monetaria contro una crisi che non se ne va e che umilia ogni giorno di più la BCE, sempre più incapace di raggiungere il suo obiettivo del 2% di inflazione nell’area euro. Finita la speranza che il commercio mondiale avrebbe ravvivato il continente, ci troviamo di fronte alle nostre miserie e siamo obbligati a prenderci delle responsabilità che speravamo maldestramente di evitare: finalmente il nemico bussa alle porte, non ci sono più scuse, bisogna guardarlo in faccia e combattere.

E Draghi fa il suo, per quanto possibile. Non tanto con la decisione di abbassare i tassi, né tantomeno con l’effetto a sorpresa di pagare queste banche se prestano, che altro non è che un (ingegnoso) modo di abbassare i tassi sotto quota zero. Queste misure aiuteranno un po’, quanto hanno aiutato in passato (cioè poco), a stimolare la domanda interna di investimenti privati che langue. In realtà se consideriamo che l’inflazione è diminuita ancora (e di tanto, inaspettatamente) l’abbassamento dei tassi nominali della BCE è in parte compensato dall’abbassamento dei prezzi per le imprese e dunque è unguento maggiore su una ferita che si allarga.

Piuttosto, Draghi spariglia con una frase, una piccola frase, alla fine del suo discorso. Una frase che di nuovo denota il coraggio della disperazione. Eccola qui: “infine, guardando avanti, tenendo in considerazione l’attuale scenario per la stabilità dei prezzi, il Consiglio della BCE si attende che i suoi tassi di interesse di riferimento rimangano all’attuale o a un minore livello per un periodo di tempo prolungato, e ben al di là dell’orizzonte temporale del nostro piano di acquisti di attività finanziarie nette”.

Ecco il messaggio chiave, un po’ sullo stile Fed americana, volto a influenzare l’unica cosa che può far ripartire a questo punto la depressa economia europea: le aspettative degli operatori. Draghi dice, urbi et orbi, legandosi le mani e legando soprattutto le mani della Bundesbank tedesca, che rimane sempre all’opposizione interna nella BCE, che da una politica espansiva, fino a quando l’inflazione non tornerà verso quota 2%, non si smuoverà. Il che significa che manterrà questi tassi anche a fronte di aumenti dei prezzi, promettendo dunque agli imprenditori tassi reali sui loro debiti sempre più bassi mano a mano che la ripresa dell’inflazione prenderà forza. Un incoraggiamento notevole, perché tocca i conti dell’azienda esattamente là dove deve: nei loro programmi di medio e lungo periodo, nelle tabelle Excel direbbe qualcuno, dei loro piani di investimento, abbattendo i costi del rischiare in maniera significativa.

Basterà? Non credo.

La battaglia è così ardua, il pessimismo o il timore di scommettere sul futuro così pervasivi, che anche sotto queste condizioni pochi se la sentiranno di rischiare. Anche perché l’alleato di Draghi nella battaglia se la dà a gambe levate e questo, ovviamente, dà baldanza proprio al nemico dell’Europa, il pessimismo. Quell’alleato si chiama politica fiscale, investimenti pubblici, che restano al palo perché in mano a Governi che non se la sentono di prendere l’ascia e combattere come Draghi. Certo quest’ultimo non si fa un favore quando alla fine del suo discorso compensa il coraggio di cui sopra affermando come “le politiche fiscali devono supportare la ripresa economica, ma rimanendo rispettose delle regole fiscali dell’Unione europea. La piena e coerente attuazione del Patto di Stabilità e Crescita è cruciale per mantenere la fiducia nella costruzione fiscale”.

Certo, è probabilmente il prezzo che deve pagare alla Bundesbank per potersi esporre sulla politica monetaria. Ma così mortifica il suo impatto positivo sulle aspettative degli operatori, confondendole, perché con una mano, di suo, dà e con l’altra conferma che l’Europa toglie: dare liquidità ma al contempo chiedere ai Governi di ridurre il loro sostegno all’economia riducendo i loro deficit pubblici è messaggio contraddittorio.

Questa contraddizione uccide contemporaneamente l’Europa e la mossa di Mario Draghi: Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta non cadde nell’errore, chiedendo non solo alla Fed di fare quello che Draghi dice oggi che farà con la politica monetaria, ma anche obbligandosi ad essere “fiscalmente irresponsabile”, promettendo cioè ai cittadini una politica fiscale dove la manona pubblica, ben visibile, avrebbe supportato a suon di appalti, le vendite del settore privato, riportando l’ottimismo necessario.

Se non vi piace Roosevelt perché lo trovate agé, accontentatevi del Premio Nobel Sims, che pochi anni fa ebbe modo di ricordare all’Europa cosa andava fatto da parte delle politiche economiche per risvegliare il Continente: “una politica fiscale espansiva oggi, senza un impegno a tagliare le spese, oggi o domani, o ad aumentare le imposte”. Facile? Mica tanto. Sempre Sims: “purtroppo la gente è molto convinta che questa non è la politica fiscale che abbiamo e che per averla dovremmo richiedere un cambiamento radicale nelle politiche e nei discorsi dei politici e delle banche centrali affinché questa gente si convinca che un cambiamento di questo tipo avverrà. Tutto ciò richiede un sistema politico capace di legarsi le mani nel tempo e di non modificare le sue promesse espansive, cosa difficilissima per i politici”.

Ecco, rispetto al discorso del 2014 di Sims una prima gamba per combattere nel viscido terreno europeo ora c’è: il discorso di Draghi va in questa direzione, di influenzare a lungo le aspettative. Adesso i Governi vigliacchi e maldestri facciano la loro parte, modificando la Costituzione europea, rovesciando il Fiscal Compact, e permettendo di sostenere credibilmente nel tempo la domanda pubblica come Draghi cerca di sostenere quella privata: se non la faranno non solo manderanno a casa Draghi, manderanno a casa il progetto europeo.

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Se create un mercato dei ritardi a scuola …

Questa storia degli asili e delle scuole che caricano un prezzo ai genitori degli studenti ritardatari scatena i miei ricordi su un lavoro di Gneezy e Rustichini citato da Dan Ariely.

Raccontano di una scuola che si reggeva da tempo su un equilibrio di norma sociale e non di mercato dove i genitori ogni tanto facevano tardi nel recuperare i figli a scuola e la scuola non caricava nessuna penale. In assenza di un prezzo, i genitori, sentendosi  in colpa rispetto ai maestri, non facevano tardi spesso.

Malgrado ciò la scuola decise di caricare un prezzo, un piccolo prezzo, per i ritardatari. Si decise dunque di abbandonare una norma sociale e di entrare in una norma di mercato. La reazione dei genitori fu sorprendente per la scuola: aumentarono notevolmente i recuperi-figli fatti in ritardo. I genitori smisero di sentirsi in colpa e valutarono che il costo caricato era notevolmente inferiore al beneficio di arrivare in ritardo. La scuola incassò denaro, ma si ingolfò con troppo extra lavoro per i maestri che restavano ancora di più coi ragazzi dei genitori ritardatari finita la scuola.

Si cercò di tornare indietro, al vecchio regime di norma sociale, abolendo la penale. Ma, sorpresa, i genitori smisero di pagare ma non smisero di arrivare spesso in ritardo: una volta abolita una norma sociale per una norma di mercato, è difficile ripristinarla. Il senso di colpa non c’era più.

Ecco, modesto consiglio a chi inserisce un prezzo là dove prima non c’era: ci pensasse due volte, perché il suo mondo rischia di cambiare per sempre, e non sempre in meglio.