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La morte delle élite liberali o del Fiscal Compact?

Il mio pezzo di oggi su Formiche.

Viviamo in tempi interessanti. Che Fukuyama si sbagliasse, che la Storia non fosse finita, lo sappiamo da tempo. Forse che bussasse nuovamente e così presto alle porte della nostra Europa, facendone saltare in pochi mesi i confini effettivi ad Occidente ed Oriente con l’uscita di scena di Regno Unito e Turchia, ci pare ancora irreale ed irrazionale. Ma invece è reale, è avvenuto. E, come ci ricorda Polito nel suo bel pezzo sul Corriere di ieri, ciò che è reale è razionale.

http://www.corriere.it/opinioni/16_luglio_25/sbagliato-sottovalutare-de2fc384-51cf-11e6-a1bb-4fa8da21b0a1.shtml

Viviamo tuttavia anche tempi angoscianti. Perché la Storia si ripete. Basterà (ri)leggersi l’Uomo Senza Qualità di Musil che dipinge un’Europa del primo 900 (chiamata Cacania) “incapace di andare d’accordo con se stessa” o le Conseguenze Economiche della pace di Keynes che si dispera della “stoltezza politica dei nostri statisti” del primo dopoguerra, per ritrovare in quegli anni lo stesso clima che avrebbe condotto poco dopo ad una crisi economica piena di pessimismo imperante che così tanto assomiglia a quella odierna da cui non riusciamo a districarci. Che la Storia si ripeta dovrebbe essere rassicurante: avremmo a disposizione l’esempio degli errori passati per non ripeterli. Eppure, siccome abbiamo dimenticato, da rassicurante questa sensazione di ripetizione si tramuta in angosciante, perché sappiamo bene, almeno questo lo ricordiamo, dove finirono gli anni Trenta nati con una crisi economica. Lo stesso Polito non riesce a non ricordare che siamo già allo “stato d’emergenza” in Francia.

Polito invita (implora?) le élite liberali a comprendere la posta in palio, solleticando non il loro senso etico della solidarietà verso chi soffre ma ricordando che i loro interessi particolari sono a rischio di “sconfitta” se non “prendono sul serio i loro nemici” interni, il cosiddetto “popolo”. Potrà sembrare cinico, e lo è, ma è necessario: sono anni che la richiesta di maggiore solidarietà in tempo di crisi verso le classi sociali più in difficoltà viene delusa e anzi respinta con crescente disinteresse. Tanto vale fare appello agli interessi più bassi dell’attuale classe dirigente per farle elaborare una strategia “per curare le ferite” di chi soffre. Farle capire che l’onda della rivoluzione non pacifica è vicina più di quanto non si creda e che val la pena rinunciare a qualcosa pur di sopravvivere.

Ma quale strategia? L’opinionista del Corriere sostiene che il tema non sia la disuguaglianza e che “scambieremmo tutti volentieri dieci anni di crescita sostenuta dei nostri redditi con un po’ di più di disuguaglianza”.  Gli direi che la sua frase è vera ma un po’ meno di questa qui: “vorremmo tutti volentieri dieci anni di crescita dei nostri redditi con un po’ meno di disuguaglianza”, visto che quest’ultima è cresciuta proprio in questi anni di crisi insieme alla stagnazione dei redditi.

Polito ci lascia però sul più bello con l’acquolina in bocca: quale sarebbe questa strategia che le attuali élite liberali dovrebbero mettere in atto per salvare il paese, così da salvare anche se stesse, generando quella crescita sostenuta così effettivamente essenziale? Non è dato sapere. Strano: un pudore incoerente con la sua lucida analisi. Tanto più che egli debutta ricordando (onestamente e subito) che la classe giornalistica appartiene di diritto alle élite liberali di Occidente che devono definire ed attuare questo piano strategico di crescita. Che delusione vedere che lui per primo si astiene dal farlo!

Sarebbe importante che proprio dal Corriere partisse l’ammissione che questa Strategia esiste, da tempo. E’ già stata elaborata, più di due anni fa, da una ventina di persone di varia estrazione – di centro, di destra e di sinistra – per abolire con un referendum quella idiotica Costituzione Fiscale chiamata Fiscal Compact approvata nel 2011 che ha impedito all’Italia e all’Europa di far ripartire l’economia abbattendo al contempo le disuguaglianze, come fece Obama appena arrivato alla guida del suo Paese, con una massiccia iniezione di domanda pubblica che ha rimpiazzato quella privata congelata come negli anni Trenta dal pessimismo pervasivo.

Scendemmo con un qualche coraggio in piazza, raccogliemmo “solo” 350.000 firme, nel silenzio generale dei media controllati dalla stampa delle élite liberali, assolutamente convinte che l’austerità ci avrebbe salvati, e con la totale opposizione del Governo Renzi che appena arrivato a Palazzo Chigi aveva tuonato a parole contro l’Europa austera, al contempo sottoscrivendo documenti di economia e finanza coerenti con il Fiscal Compact, capaci solo di perpetuare pessimismo e stagnazione.

Non è più tempo, care élite liberali, di nascondervi dietro riforme e austerità. Se veramente volete salvare voi stesse, fateci un favore: ammettete che è improrogabile fare investimenti pubblici e dare occupazione a manovali e restauratori, spendere in stipendi per maestri, giovani, ricercatori, poliziotti, aggiudicare gare alle piccole imprese piuttosto che alle grandi multinazionali.

Ecco il Piano strategico che ci aspettiamo da voi. Non c’è più bisogno di un referendum, basta ritirare la firma sul Fiscal Compact. Una exit? No un’uscita di sicurezza. Il resto è solo sterile compiacimento di una élite destinata a uscire di scena. 

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Abolire il Fiscal Compact per combattere la paura

Gli effetti macroeconomici del terrore ci sono, malgrado la probabilità oggettiva che avvenga qualcosa nelle nostre vite sia molto minore di quella soggettiva. Dati e studi ce ne sono, anche di più di quanto non sospettassi.

Toccano il turismo (non locale), in particolare, ma anche tutte quelle attività della nostra vita che non riteniamo indispensabili. I media (ed i loro titoloni cubitali) poi giocano un ruolo significativo nell’influenzare al ribasso la reazione di consumi, risparmi, investimenti e dunque di produzione ed occupazione.

E’ ovvio che dato questo scenario l’impatto finale sui nostri tenori di vita dipenda da come si pone la domanda pubblica rispetto a questo ritrarsi della domanda privata.

Non parlo solo della politica della difesa e della sicurezza che senza dubbio in Europa, sia a livello simbolico, sia a livello di efficacia, sia a livello di impatto occupazionale, può giocare un ruolo.

Parlo di investimenti pubblici in generale, che stabilizzano il reddito dei cittadini quando questi ultimi incartano l’economia nazionale con il loro braccino del tennista, pauroso e pessimista, non consumando e non investendo.

C’è bisogno ora più che mai di abolire il Fiscal Compact e spendere pubblicamente. Spendere nelle scuole, nelle università, nei giovani, nelle infrastrutture fisiche e nella conoscenza pubblica dei dati (non lasciandola in mano a Google), nelle strutture per l’accoglienza e il controllo dell’immigrazione, nella gestione dei rischi naturali e finanziari, nella protezione e valorizzazione non solo del patrimonio artistico ma della cultura in generale. Tutto quello che abbiamo smesso di fare da almeno un decennio.

Quando l’economia italiana ed europea avevano appena cominciato a riprendersi dalla prima recessione, nel 2010, ecco che nel 2011 ci siamo inventati il Fiscal Compact e la nostra economia è crollata all’indietro in una devastante seconda recessione. Ci manca solo che anche questa minuscola e insufficiente ripresina sia uccisa per la seconda volta dall’idiozia del terrorismo. Aboliamo il Fiscal Compact ora per combattere la paura e ridare forza e fiducia al nostro Paese.

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La Turchia ed il muro dei quaquaraquà europei

Perché è nato Erdogan?

Rileggendo la sua recente affermazione, “per 53 anni abbiamo bussato alla porte dell’Unione europea e ci hanno lasciato fuori, mentre altri entravano” mi è tornata alla mente la mia lettera al Corriere del 2004, al Dott. Mieli, che così recitava:

Caro Mieli, leggo sulla sua rubrica lettere scettiche sull’allargamento alla Turchia dell’Unione Europea. Grecia, Portogallo e Spagna, quando uscite da un periodo buio quanto al rispetto delle norme democratiche, furono accettate nella Comunità Europea – pur con redditi nazionali relativamente modesti – sulla base del ragionamento «vi aiuteremo a crescere». Alla Turchia, anch’essa uscita da un periodo oscuro, opponiamo invece il «crescete ancora, diventate più democratici e vi accetteremo». Un trattamento alquanto diseguale nonché sospetto. Ma soprattutto un trattamento così miope da lasciare stupefatti.

Forse solo chi ha viaggiato in quel magnifico Paese e conosciuto i suoi straordinari abitanti può capire la portata per il mondo occidentale di questa occasione, forse irripetibile: utilizzare la Turchia come chiave di volta per una pacificazione duratura con il mondo islamico. (Gustavo Piga – Università di Roma Tor Vergata)

Conoscevo la Turchia dal 1999, avendoci lavorato come consulente. Nel 1999 il Paese era pronto ad entrare, entusiasta, nell’UE. Già nel 2004 il mio disagio cresceva per i troppi NO inspiegabili per la popolazione turca: la porta andava chiudendosi.

Oggi l’ultimo spiraglio si è chiuso e con esso è svanita la luce della speranza. Abbiamo perso per sempre la Turchia e poco vale consolarci con le barbarie e le violazioni dei diritti umani a cui assistiamo per dire “abbiamo fatto bene a non ammetterli”. No, sbagliammo allora e i responsabili di quell’errore – quaquaraquà della politica europea – sono ormai spariti, inghiottiti da note a pié di pagina dei libri di storia.

Quello che questi 20 anni con la Turchia ci insegnano è che il nostro destino è nelle nostre mani e che una serie di impercettibili errori – da parte di una leadership che ha eretto muri invece che ponti – ha conseguenze infinitamente più drammatiche e permanenti di quanto non riusciremmo mai a sospettare.

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L’emorragia dei giovani non si arresta

Ecco l’evoluzione dal dopoguerra della percentuale di studenti diplomati presso la scuola superiore che accedono al primo anno di università.

Me li ricordo quegli anni verdi della mia università, quando in tanti, tantissimi, ci spingevamo la mattina presto ai cancelli per entrare per primi ed apprendere. Tra il 1982 ed il 1995 l’accesso dei maturati all’università sale dal 48,5% a 76%: oh sì se ci credevamo nell’università italiana e nel suo miracolo!

Certo potremmo notare (cerchio blu) che nell’immediato dopoguerra quel numero era ancora più alto, superando quota 80%: vero, ma molti meno erano i diplomati. Quei pochi che terminavano la scuola in quegli anni sicuramente sarebbero finiti sui banchi universitari, figli delle élites abbienti.

Ma guardate all’oggi: al crollo (cerchio rosso) della percentuale dal 2000 al 55,7% odierno (vedi anche mini riquadro). I giovani diplomati non credono più nell’università italiani e vi si iscrivono sempre meno. Per la prima volta dall’unità d’Italia (quasi 160 anni!) il numero d’iscritti è in calo. No, non è come negli anni 50 (cerchio viola) quando il calo drammatico della percentuale fu dovuto al crescente numero di diplomati, non al crollo degli iscritti universitari come oggi.

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Queste statistiche drammatiche hanno una loro spiegazione, ovviamente. Una università che non si raccorda col mondo del lavoro e dell’impresa e viceversa (il tasso di occupazione dei laureati italiani ad 1 anno dalla laurea è di poco più del 40% contro il 75% dei paesi OCSE). Una università esausta senza risorse, uccisa da anni di austerità (dal 2004 ad oggi, docenti da poco meno di 63 mila a meno di 52 mila (-17%); il personale tecnico amministrativo da 72 mila a 59 mila (-18%); i corsi di studio scendono da 5634 a 4628 (-18%), il fondo di finanziamento ordinario delle università (FFO) che diminuisce, in termini reali, del 22,5%). Una rivoluzione organizzativa che non si materializza mai all’interno dei nostri Atenei.

Questo Governo non è diverso dagli altri, nella sua politica indifferente all’emorragia di giovani in fuga, via dalle nostre università verso quelle del resto del mondo. Si può arrestare questa emorragia? Certo, ma ci vuole la volontà politica di farlo, ci vogliono le risorse per farcela, ci vuole la competenza per non sbagliare. Il nostro destino è sempre nelle nostre mani.

Grazie a Francesca Sica per le sue elaborazioni e analisi, a breve pubblicate sulla Rivista di Politica Economica.

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Lo scempio contro le PMI negli appalti pubblici

Dalla Relazione Annuale di ieri dell’ANAC presieduta da Raffaele Cantone leggiamo questo passo drammatico nella sua chiarezza rispetto all’andamento delle gare pubbliche in Italia:

La figura 6.5 evidenzia come nel … quinquennio 2011-2015 il valore medio dei lotti per tipologia di contratto, (e) vede rispetto al 2011 un aumento cospicuo dell’importo medio per i servizi e per le forniture (+85,0% e +50,5%) …. Tali dati sono abbastanza coerenti con le evidenze degli ultimi anni che vedono la riduzione del numero delle procedure di affidamento associarsi a un maggior importo a base di gara, per effetto soprattutto di appalti banditi da centrali di committenza e SA di grandi dimensioni.

È confermata, altresì, la tendenziale riduzione del numero di gare dal 2011 che trascina con sé, in modo quasi perfettamente parallelo, il numero dei lotti. Nel 2015, infatti, il numero totale dei lotti (131.665) è pari a circa il 73,7% di quelli del 2011 (178.656), mentre il numero totale di gare del 2015 (108.849) è pari a circa il 70% del numero di gare del 2011 (155.586). Pertanto, il numero medio di lotti associato a ciascuna gara rimane sostanzialmente costante.

Si conferma, come nel recente passato, che la stabilizzazione degli affidamenti e l’aumento dei valori a base di gara non sembrano essere accompagnati da un incremento significativo del numero dei lotti. Pertanto, le procedure bandite dalle SA hanno ad oggetto lotti di importo mediamente più elevato, che hanno raggiunto nel 2015 il valore medio più alto degli ultimi cinque anni.

Sembra, quindi, che anche per questo anno continui a valere la considerazione per cui la struttura della domanda non sia particolarmente favorevole alla partecipazione delle piccole e medie imprese (PMI) al mercato degli appalti pubblici.

In un anno sia le gare di servizi (viola) che le gare di forniture (rosso) hanno visto una crescita media del 20%. Del 20%, incredibile. Una mazzata per le piccole imprese, che si vedono sottrarre ogni anno di più l’ossigeno essenziale, specie in questi tempi difficili, della domanda pubblica per rafforzare la loro competitività e prepararsi alla globalizzazione. Un tessuto industriale, specie quello italiano, basato sulle PMI, viene affondato da scelte specifiche del nostro legislatore, con la sua spinta verso le centrali di committenza. Il numero di lotti non cambia, le gare crescono, contro il dettato delle Direttive Europee. E’ come se il giardiniere, in tempo di siccità e di scarsità d’acqua, orientasse il suo getto verso le piante grandi che pescano con le loro lunghe radici l’acqua sotto terra dove ce n’è ancora, piuttosto che verso le piante più giovani e fragili, ma più promettenti per arricchire il giardino di nuovi colori, che moriranno in assenza di acqua. Che tristezza infinita.

Tanto più che nello steso momento, al di là dell’Atlantico, c’è un giardiniere saggio che non finisce di abbeverare le sue piccole piante, che crescono. Ecco cosa è avvenuto negli anni della crisi in Ohio, Stati Uniti, dove un Governatore saggio e una legislazione attenta stanno facendo esattamente l’opposto che in Europa, aumentando le quota di appalti riservate alle piccole imprese (in questo caso detenute da minoranze etniche). Il loro giardino fiorirà e diventerà florido.

Chiedo che la Commissione Europea si interroghi immediatamente su questo disastroso trend italiano, permesso da una sado-masochistica voglia di risparmiare qualche spicciolo oggi per perderne a valanga domani. Fermi, la Commissione Europea che a parole si dice vicina alle PMI, questo scempio del Governo Renzi e dei suoi predecessori.

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Uscita di sicurezza per l’Europa

Non è solo Brexit che preannuncia la fine dell’Europa. E’ il prossimo voto austriaco, forse più temibile ancora, figlio dell’intolleranza perché abbiamo creato con la nuova Costituzione europea fiscale una assoluta distanza da chi soffre. La storia ce lo ha insegnato, noi lo abbiamo dimenticato.

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L’incendio nel Cinema Europa, mentre guardiamo beoti il film romantico di un’Unione Europea di cartapesta, prende vigore. Dobbiamo scappare, trovare un’Uscita di Sicurezza per l’Europa, non per l’Unione europea. Dobbiamo, come dice il mio amico Thierry Vissol della Commissione europea, coltivare l’europeità, non l’europeismo.

Un’”Uscita di sicurezza“. Riprendo i racconti brevi di Ignazio Silone, nel volume dallo stesso titolo, sicuro di trovarvi le giuste parole.

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Eccole. Sappiamo bene che l’Europa è sparita, lasciando spazio solo all’Unione europea, quando si è cominciato a costruirla su teorie e non valori. Teorie elaborate da tecnici seduti sui banchi delle università e non della vita. Ecco cosa Silone aveva da dire su questo:

«Quanto più le teorie … pretendono di essere scientifiche, tanto più esse sono transitorie; ma i valori … sono permanenti.

La distinzione tra teorie e valori non è ancora troppo chiara nelle menti di quelli che riflettono a questi problemi eppure mi sembra fondamentale.

Sopra un insieme di teorie si può costituire una scuola e una propaganda; ma soltanto sopra un insieme di valori si può fondare una cultura, una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini.» Una Europa.

Rimane da capire quali valori.

Ma anche qui aiuta la lettura di Uscita di Sicurezza, il primo racconto, Visita al carcere.

Racconta di un figlio. E di un padre. E dei valori che il secondo cerca di instillare al primo, sin da piccolo, quando lo avverte:

«Non si deride mai un detenuto» disse mio padre

«Perché no?»

«Perché non può difendersi. E poi perché forse è innocente. In ogni caso perché è infelice … aveva piuttosto l’aria di un derubato»

Anni dopo, il figlio è cresciuto. Lavora nei campi, col padre. Quest’ultimo ha dimenticato il tabacco a casa, ha bisogno di fumare. Il figlio attende che passi qualcuno per strada per chiedere un mozzicone per il padre. Ha una moneta in mano. Si avvicina un contadino, un umile. Questi gli dona il mezzo sigaro che ha in bocca.

«Non accettate la moneta? Perché?» gli chiesi

«Un mezzo sigaro lo si regala, oppure lo si rifiuta» disse il contadino

Già, la solidarietà non si cura del denaro. Si dà.

Qualche tempo dopo, il destino riavvicina chi si scambiò solidarietà e un mezzo sigaro:

Una sera, con le Favole di Fedro sulle ginocchia, vidi passare, ammanettato tra 2 carabinieri, proprio quell’uomo del mezzo sigaro.

«Bisognerebbe portargli qualche regalo» propose mio padre

«Il meglio sarebbe qualche sigaro» io suggerii

«Eccellente idea» disse mio padre.

Funziona così una società di diversi messa in comune. Con il valore della solidarietà, che non si nega, che non si negozia, che sempre viene ripagata, con gli interessi, positivi, gli interessi della solidarietà. Tutto il resto, ce lo insegnano le favole di Fedro, finisce per essiccarsi, spezzarsi, morire.

Non credo ci sia molto più tempo. Questo blog sta perdendo la sua utilità, manca l’ossigeno, si soffoca, il fumo dell’incendio ci sta penetrando nei polmoni. L’uscita di sicurezza, per favore, è lì, a portata di mano.

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Brexit? Figlia del Fiscal Compact che uccide l’Europa

E così Brexit è avvenuta. Per 5 anni questo blog ha sostenuto in tutti i modi possibili e immaginabili come un’uscita di un primo “qualcuno” fosse sempre più vicina, e come questo evento sarebbe stato più che evitabile se solo lo si fosse voluto. E’ chiaro ora più che mai – Brexit e le reazioni di molti ad essa lo dimostrano in maniera lampante – come questo desiderio di non combattere e arginare questa crisi sia stata una scelta POLITICA. Una scelta di non esercitare solidarietà da parte di quella consistente fetta di elettorato che dalla crisi non è stata inizialmente colpita, per un egoismo miopico di breve periodo. Perché si sa, la solidarietà costa. Però ha un grande vantaggio: viene sempre ripagata da chi ne ha beneficiato, con gli interessi della stabilità e dello sviluppo sostenibile ed equo. Di converso, se la solidarietà si nega a coloro che soffrono, un giorno, spesso prima del previsto, ci si troverà a diventare uno di loro, in un equilibrio instabile fatto di sconvolgimenti, involuzione sociale e stagnazione economica.

E così la minoranza dei senza casa europea sta diventando ovunque maggioranza.

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“Non abbiamo un Trattato che preveda le crisi”. A questa frase che mi ha spiattellato davanti Giulio Tremonti l’altra sera Porta a Porta, sono rimasto basito.

http://www.portaaporta.rai.it/puntate/speciale-porta-a-porta-brexit/#play

E non tanto perché è stato proprio Giulio Tremonti ad avere apposto la sua firma per l’Italia nella primavera del 2011 a quel nuovo Trattato, chiamato Fiscal Compact (FC), che avrebbe generato la fine della ripresina europea e la trasformazione della crisi americana (USA senza FC) in crisi europea

e l’inizio del distacco tra performance inglese (Regno Unito senza FC) e del resto dell’Europa.

No. Perché non solo quella frase è drammaticamente vera, ma perché ne implica un’altra ancora più drammatica: “un Trattato che non prevede le crisi, le autogenera”. Eh già. Perché se imprese e famiglie sanno che in tempi bui non verranno aiutati dall’unico attore che può fornire “assicurazione sociale e protezione”, lo Stato (come fece negli anni Trenta Roosevelt in America e come in parte ha fatto Obama a questo giro della ruota) non rischiano: risparmiano e non investono.

Il Fiscal Compact introdotto nel 2011 ha questo di drammatico: aver cristallizzato il pessimismo nelle aspettative di chi deve farsi un’idea del futuro prima di agire per lo sviluppo, come gli imprenditori. Ha obbligato e obbliga ogni Governo a scrivere astrusi e irrealistici piani di rientro fiscale a 5 anni (5 anni!), dove non solo gli investimenti pubblici sono vietati come leva per sostenere l’economia, ma dove si crea anche un pessimismo di lungo periodo che blocca qualsiasi iniziativa autonoma del settore privato.

Ecco allora che proposte che leggiamo oggi sui giornali, come quelle del Ministro italiano dello Sviluppo, Calenda, che l’Italia porterà al tavolo dei negoziati una proposta di battersi per “l’eliminazione di investimenti pubblici incrementali nel calcolo deficit nel Patto di Stabilità” fa ridere dalla disperazione. Come usare il cucchiaino per salvare la nave cha affonda piena d’acqua.

Il Premio Nobel Amartya Sen l’ha detto chiaramente: “sull’euro non si può tornare indietro, su austerità sì. L’austerità è all’origine della grande disaffezione verso UE”, per la sua strutturale mancanza di solidarietà verso chi soffre, aggiungiamo noi.

Se Matteo Renzi vuole fare la cosa giusta, l’unica soluzione, e sottolineiamo unica, è quella di chiedere immediatamente una sospensione del Fiscal Compact. Tutto il resto vorrà dire che Matteo Renzi ha scelto di rappresentare ancora una volta la classe di elettori che non sente il dolore di questa crisi, sempre più minoritaria. Avrà scelto dunque di far morire l’Unione europea, ormai vicina all’agonia, oltre ovviamente a se stesso, cosa meno rilevante.

Addendum posticipato: se Tremonti ha firmato il Fiscal Compact, la sua attuazione piena e perniciosa è ovviamente da datare al Governo Monti. Così per chiarezza.

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Cosa avrebbe votato Churchill?

Ma quanti quanti richiami a Winston Churchill questi ultimi giorni sui media. Noti opinionisti, meno noti nipoti dello stesso leader, e chissà chi altro mi sono perso. (Ri)esumato poco elegantemente per farlo partecipare alla votazione su Brexit, per lo più per schierarlo (non senza un qualche disagio, va detto) nel campo dei contro all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.

Ma basta un piccolo sforzo, leggendosi per esempio il suo famoso discorso di Zurigo del 1946, sull’importanza di muoversi verso gli Stati Uniti d’Europa, per capire come avrebbe votato e cosa avrebbe fatto.

http://www.churchill-society-london.org.uk/astonish.html

I colpevoli vanno puniti. La Germania dovrà essere privata del potere di riarmarsi e di fare un’altra guerra di aggressione”, diceva. Una frase da tenere a mente. E proseguiva: “ma quando avremo fatto ciò, come faremo, come stiamo facendo, dovrà cessare il castigo. Ci dovrà essere… un atto benedetto di oblio”.

Atto da cui nasceranno gli Stati Uniti d’Europa come li immaginava il grande statista. Val la pena descriverli con le sue parole:

La struttura degli Stati Uniti d’Europa, se costruita bene e effettivamente (“truly”), sarà tale da rendere la forza economica (“material”) di ogni singolo stato meno importante. Le nazioni più piccole conteranno tanto quanto le grandi e guadagneranno il loro onore con il loro contributo alla causa comune”.

Per Churchill gli Stati Uniti d’Europa non erano “di per loro” una struttura giusta. Doveva dimostrarsi innanzitutto costruita bene e in maniera non meramente formale. E, fattore decisivo, doveva far sì che nessuna nazione fosse più rilevante delle altre. Anzi, doveva esaltare il contributo delle più piccole. Con una Grecia che contasse quanto una Germania, per intendersi.

La Germania. Churchill aveva le idee chiare, malgrado la sua disponibilità all’oblio delle atrocità della guerra da essa causate, sul ruolo tedesco all’interno di questa costruzione. Il suo ragionamento è tanto sottile quanto preciso:

Gli antichi stati e principati della Germania, liberamente uniti insieme per mutuo interesse in un sistema federale, potranno, ognuno di loro, assumere individualmente il loro posto negli Stati Uniti d’Europa.”

Eccola la Germania che Churchill riteneva dovesse essere funzionale al progetto europeo. Una Germania così piccola da essere rappresentata in maniera decentrata da ogni singolo Länder all’interno del dibattito politico europeo. Per evitare che riassumesse la sua posizione dominante, contraria allo spirito degli Stati Uniti d’Europa. 

Winston Churchill, vista l’aria che tira, avrebbe levato il suo consenso a questa Unione europea così sbilanciata e germano-centrica. Non ho dubbi.

Avrebbe votato Brexit? Macché. Mai isolazionista, si sarebbe pappato in un boccone Mr. Schauble, e avrebbe, con due ceffoni, ridato i sensi alla addormentata Cancelliera Merkel, ricordandolo i suoi doveri. Di unire l’Europa, non di tornare a distruggerla.  

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Dopo Brexit, rien ne va plus

Il mio articolo oggi su Il Foglio.

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Immaginare una Brexit è praticamente impossibile per tutta una generazione di britannici nata dopo o attorno al 1973, l’anno d’ingresso nella Comunità europea. Forse per questo il New York Times sottolinea come potrebbero essere i giovani a salvare il Regno Unito Europeo; se solo gli andasse di perdere quella mezza giornata per registrarsi per il voto. Ma tant’è, l’Europa dei giovani è quella che abbiamo voluto diventasse: un curato progetto low-cost per la generazione Erasmus privo di un senso di direzione, di ideali e di solidarietà.

Eppure immaginare una Brexit è doveroso. Non solo perché è uno scenario probabile e perché una non-Brexit è quanto di più noioso e prevedibile possa avvenire per noi europei continentali, con quel nostro inevitabile proseguire da “business as usual” che ha caratterizzato l’Europa tutta dopo svariate crisi superate al filo di lana, come in Grecia ed Austria. Ma anche per assaporarne le implicazioni politiche. Non quelle economiche, perché alla fine dei conti è vero che, sterlina più sterlina meno, ci sarà sì chi guadagnerà e chi perderà dall’uscita, ma la somma complessiva di lungo periodo che verrà buttata ai pesci nell’Atlantico sarà minimale: altre sono le determinanti di lungo periodo della crescita di un Paese, ci insegnano proprio gli economisti. E la funzione di assicurazione sociale che avrebbe potuto offrire l’Europa per i cittadini UK in caso di difficoltà, beh… sappiamo che la solidarietà europea non è stato il “bread and butter” dell’Unione in quest’ultimo decennio.

Vedo due conseguenze politiche vere, che potrebbero portare la gente a votare diversamente. La prima, e riguarda forse più loro che noi, il fatto che il “piccolo Regno Unito” post-Brexit ha un’alta probabilità di diventare una “piccola Inghilterra”, a causa di una rapida e susseguente uscita (almeno) della Scozia da una Unione (la loro) verso un’altra (la nostra). Tenuto conto delle ripercussioni strategiche di un simile effetto domino locale, comprese le questioni culturali, energetiche e militari, la campagna referendaria sull’uscita dall’Europa avrebbe dovuto giocarsi ben di più su questo tema, ma forse troppo aperta era ancora la ferita del recente referendum per l’uscita scozzese. Tant’è: il conto verrà presentato ugualmente a fine pasto.

La seconda conseguenza politica riguarda noi europei e indica forse un vantaggio dalla vittoria dei favorevoli all’uscita britannica. E’ evidente infatti che il Regno Unito uscirà, se esce, per l’irrilevanza (“at best”) o, peggio, l’incapacità politica mostrata dall’Unione europea. Incapacità di mobilitare, come per i giovani, il consenso tramite un progetto ideale; ma anche incapacità di rassicurare i cittadini europei che vi sarebbe stata una vicinanza e un supporto della politica in caso di difficoltà.

Come rimuovere tale percezione di incapacità, così ormai radicata che opprime sia loro che noi, rendendoci quasi indifferenti ad un comune destino europeo? Non, lo abbiamo detto, aggirando per un pelo le crisi. Se Grecia ed Austria qualcosa hanno mostrato, è che i nostri politici europei sono incapaci di percepire un (grave) pericolo scampato e di attivarsi per cambiare lo stato delle cose. E allora la soluzione – l’ultima, paradossale, speranza europeista ed eurista – non può essere che quella di un materializzarsi di una crisi forte, come per esempio la Brexit. Perché questa possa risvegliarci, a noi europei, e spingerci all’azione, ad uscire da queste sabbie mobili in cui ci siamo impantanati da soli. Per salvare un Continente unito, che così tanto può dare al mondo se ben concepito nei suoi obiettivi.

Ecco, si porrà poi la questione di quale Europa dovrà prevalere dopo un’uscita britannica. Un’Europa senza regole, dice qualcuno. No, un’Europa con regole precise, che apprenda dal colosso statunitense qual è il collante finale che ha tenuto insieme stati con culture e società diverse: la solidarietà in caso di difficoltà, inevitabile frutto del federalismo Usa nato durante la Grande Depressione per merito di Roosevelt. Per non essere da meno, l’Europa dovrà subito sbarazzarsi del macigno più ingombrante e masochistico, il Fiscal Compact, e darsi appunto una regola di solidarietà europea quando necessaria, una regola di assicurazione sociale tra i suoi membri che dia ai più in difficoltà da chi sta meglio. Se qualcuno dovesse rifiutarlo, questo cambio di regole, è evidente che quel qualcuno debba abbandonare il progetto comune europeo e costruirsene uno a propria immagine somiglianza, con tutti i  rischi del caso.

Certo in questo scenario perderemmo il Regno Unito e difficilmente lo recupereremmo. Ma che sia chiaro: sarebbe, Brexit, l’ultimo, paradossalmente generoso, contributo ad una vera “unione degli europei” di un Paese che, in fondo – come disse Churchill a Zurigo nel 1946 nel perorare la causa degli Stati Uniti d’Europa – poteva ben cavarsela da solo: “We British have our own Commonwealth of Nations”.

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Ecco perché la crisi perdura

Arrestata l’emorragia della recessione qualcuno aveva tirato un sospiro di sollievo, convinto che il malato (occidentale, europeo, italiano) fosse stato salvato.

Ora però siamo pervasi da un senso di angoscia: il malato parla, capisce quanto gli si dice, ma non si rialza che a malapena per qualche attimo. Operato, arrestata l’emorragia, la debolezza è così importante da non permettergli che qualche passo nella propria stanza prima di tornare a letto, esausto. Il tasso di crescita dal 2015 rimane miserando, non consentendo la ripresa dell’occupazione e del ritorno rapido ai livelli di produzione ante crisi.

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Di questo si occupa uno dei più brillanti giovani macroeconomisti neoclassici, Lee Ohanian, recensendo il volume keynesiano dello storico Barry Eichengreen “Hall Of Mirrors: The Great Depression, the Great Recession and the Uses and Misuses of History” ed adottando una prospettiva interessante: quella di chiedersi se veramente questa crisi prolungata del malato occidentale sia identica a quella che lo abbatté nel 1930, altrettanto lunga.

http://papers.nber.org/tmp/17624-w22239.pdf

Ambedue le crisi infatti si prolungarono dopo lo shock ciclico iniziale, il che le rende uniche nell’arco dell’ultimo secolo. Ma con una cruciale differenza, nota Ohanian. Negli anni 30, dopo il picco della recessione, la produttività crebbe rapidamente, tutto il contrario di quanto sta avvenendo in questa crisi. La capacità di crescita di lungo periodo dell’economia occidentale sembra infatti sparita: i tassi di creazione di nuove aziende sono diminuiti del circa 30% dai primi anni 80. La metà di questo declino è avvenuto dal 2009. Si lega dunque a filo doppio ad una cattiva gestione di questa crisi.

Questo blog ha sempre sostenuto che tale effetto di lungo periodo della crisi del 2007 è stato reso possibile dalla mancanza di sostegno tramite maggiore domanda aggregata da parte dei Governi alle aziende in difficoltà, in particolare le piccole e le nuove imprese, destinate a soccombere per la loro intrinseca fragilità. Ohanian adotta tuttavia una prospettiva diversa, direi complementare alla mia, che mi sento di condividere appieno, specie se guardo alle scelte degli ultimi Governi italiani ed alla nostra miseranda performance economica.

C’è un ciclo di vita per le aziende, ed una economia in crescita sistematicamente rialloca risorse da imprese mature, che divengono relativamente più piccole con il passare del tempo, a imprese giovani capaci di crescere. E’ interessante notare come in questa ultima recessione le politiche hanno protetto produttori maturi e dominanti nel mercato. Queste politiche hanno aiutato banche ed imprese … a galleggiare allocandogli risorse, ma questi salvataggi possono avere impedito il naturale processo di riallocazione necessario per la crisi economica.

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Malgrado Ohanian parli degli Usa, i dati italiani al riguardo sono drammatici. Basterà notare dal grafico come la crisi abbia impattato in questi anni sul tasso di crescita delle piccole imprese italiane: il numero percentuale di imprese anziane è drasticamente aumentato in questi ultimi 5 anni.

Perché? Due ragioni: 1) la crisi uccide più facilmente le più piccole e 2) l’Italia è un paese che strutturalmente non protegge le sue più piccole. Ricordo distintamente un incontro a porte chiuse con un policy-maker italiano che ha avuto in mano il pallino decisionale della politica industriale in questi anni. Parlò per più di un’ora, con dovizia di dati, di tutti i piani di salvataggio che aveva attivato e che seguiva in prima persona per le grandi imprese in difficoltà. Gli feci notare alla fine della sua presentazione che mai una volta aveva menzionato le “piccole imprese”. Mi guardò con sana perplessità, come si guarda ad un marziano.

Il Governo Renzi come i suoi predecessori non solo non ha salvato le piccole imprese in difficoltà ma non ha nemmeno attuato politiche appropriate per generare nuove imprese. Come ha fatto giustamente rilevare il Centro Studi di Confartigianato, gli aiuti alle start-up “innovative” hanno fallito, aiutando solo una quota parte minuscola delle imprese innovative. Dal 2012 l’iscrizione nella sezione speciale del Registro delle imprese riservata alle startup innovative consente infatti – per un massimo di 5 anni dal momento della costituzione – di poter beneficiare di agevolazioni fiscali e semplificazioni burocratiche. “Dall’esame dei dati di Unioncamere-Infocamere, al 14 marzo 2016 si rilevano 5.324 startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese, di cui 4.928 società si sono iscritte tra il 2013 e il 2015. Si tratta di un intervento sicuramente limitato e troppo selettivo: se consideriamo che nell’arco dello stesso periodo (2013-2015) si sono iscritte 1.127.167 imprese, di cui in media il 51,1%, rappresentano “vere nuove imprese” e il 4,0% di queste nasce al fine di sfruttare un’idea innovativa (Unioncamere-Ministero del Lavoro, 2015) ne consegue che tra il 2013 e il 2015 si stimano 23.057 vere nuove imprese con propensione all’innovazione, oltre quattro volte le startup innovative “per legge” iscritte nello stesso periodo.”

Padoan e Renzi vogliono veramente aiutare il malato Italia a riprendersi? Smettano di pensare a proteggere i più grandi e i più potenti e si diano da fare per pensare in piccolo e giovane. Una vera rivoluzione, ma temo siano troppo vecchi e potenti per capirlo e farlo.