Ecco l’intervento (stralcio abbondante oggi sul Foglio) del mio intervento di ieri a Milano, in occasione della presentazione del libro dell’Ambasciatore Sergio Romano (con introduzione di Fabrizio Saccomanni) “Breve storia del debito da Bismarck a Merkel” edito da Vitale&Co a cui hanno partecipato anche, oltre a Sergio Romano e Fabrizio Saccomanni, Enrico Morando, Peter Bofinger e Giorgos Papakonstantinou.
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Sui banchi universitari abbiamo imparato che ci sono due ragioni ottimali per l’esistenza dei debiti pubblici, su cui sia i keynesiani che i classici concordano: shock esogeni dovuti a guerre e recessioni inattese.
Vi sono poi altre ragioni, endogene, all’esistenza dei debiti pubblici, ampiamente menzionate nel libro di Romano, di cui si può dibattere a lungo: in particolare fallimenti dello Stato, come corruzione o sprechi, o del settore privato, come i salvataggi bancari.
Soprattutto nel caso in cui i debiti pubblici emergano per ragioni “giustificabili”, si pone in momenti storici e politici di particolare gravità anche un’altra questione: quella dell’opportunità di un loro ripudio se il rispetto delle obbligazioni contrattuali in esso contenute violi un nostro senso istintivo di “ragionevolezza” o di “solidarietà”.
Dato che la richiesta a Romano di parlare della Germania debitrice di allora si lega ad una, importante, richiesta di comprendere la Germania creditrice di oggi, è facile far scivolare il paragone tra Germania di allora alla Grecia debitrice di oggi (o all’Italia). Permettetemi di farlo.
Lo chiedo, il permesso, perché Romano di fatto non me lo concede. Con grande chiarezza, e non a caso nelle ultime tre righe del suo stimolante saggio, nega la possibilità di un’analogia.
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Dalla fine della prima guerra mondiale, ci ricorda, al debitore tedesco fu in 4 occasioni (due prima e due dopo la seconda guerra mondiale) consentito di essere “insolvente”. Le cause di queste insolvenze “consentite” Romano le attribuisce, a mio avviso giustamente, al fatto che il debito in queste situazioni emerse a seguito di una “guerra perduta” combinata con “la miopia dei vincitori” (sulla guerra perduta: essa sì diede origine al debito, ma qui è essenziale rammentare come una guerra perduta di per sé non genera un debito dello sconfitto e che la sconfitta tedesca in questione non si accompagnò alla richiesta “di un mero indennizzo”, ricorda Romano, ma all’attribuzione di una “colpa da espiare”. Da qui la nascita di un debito a fronte della scarsità di risorse tedesche volte a soddisfare immediatamente quanto preteso).
Due fattori, quelli degli errori dei creditori, che “giustificano” un’insolvenza.
Mi siano consentite subito due parentesi. La prima sugli errori dei creditori.
Saccomanni, nella sua bella introduzione, cita Timothy Geithner che afferma come le crisi sono “dovute ad un misto di avidità, ignoranza e stupidità, caratteristiche eterne ed immutabili degli esseri umani, contro cui nulla possono le autorità monetarie e finanziarie, che hanno la possibilità di intervenire soltanto ex-post per limitare i danni causati dalle crisi” e prende a supporto giustamente Balzac per ribadire la fallibilità umana. Nessuno meglio di Balzac capirebbe la posizione del Dott. Saccomanni: “Un mari, comme un gouvernement, ne doit jamais avouer de faute”! Sta di fatto che il saggio di Romano ci ricorda, in questo seguendo Keynes più di Saccomanni, come tanti piccoli fuochi sono divenuti devastanti incendi per la benzina che l’avidità, l’ignoranza e la stupidità dei regolatori vi hanno gettato sopra.
Seconda parentesi. Sergio Romano non entra tanto nella questione quasi religiosa-psicanalitica della esistenza o meno della colpa (la prima toccata magistralmente da Saccomanni con i suoi riferimenti alle diverse traduzioni nel Vangelo, a seconda delle culture di riferimento, della frase “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, la seconda che si gioverebbe di una rilettura del caso dell’uomo dei ratti, paziente di Freud, alle prese con un debito da ripagare che non esiste) quanto del suo anacronismo, in particolare al fatto che in Germania vi sia stato un “cambio di regime” tedesco, verso la democrazia, che ha consentito a questa di dimostrare di “essere diversa da quella che aveva contratto il debito”.
Ma torniamo alla negazione di Romano di un confronto tra l’attualità europea e la storia tedesca. “Oggi le crisi del debito sono provocate da altre cause e non possono essere curate con le stesse terapie” (queste terapie essendo la non restituzione del debito o, più in generale, la solidarietà verso altri Stati debitori da parte dei creditori), chiude Romano, privandoci dell’acqua che il suo studio aveva messo nella borraccia di noi assetati contemporanei in cerca di una lezione dal passato.
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Ma, Romano mi lascia una possibilità di confrontarmi con lui. Se riuscissi in effetti ad argomentare come le cause del debito greco di oggi e quelle tedesche di allora siano le medesime, potrei dunque con successo richiedere che alla Grecia, o all’Italia, sia concessa analoga possibilità, di solidarietà (che non necessariamente deve prendere al forma di un default).
Per riuscirci dovrei mostrare come nell’attuale crisi economica europea, vi siano 1) vincitori e vinti, e mi pare che non sia troppo complesso, e 2) che i primi siano particolarmente miopi, questione più affascinante e su cui mi appresto a dire qualcosa. Devo forse poi dimostrare come vi sia stata una attribuzione di una colpa da espiare, nei confronti dei Paesi debitori, non necessariamente sbagliata ma anacronistica, perché paesi come la Grecia hanno (mi spetta forse dimostrarlo) ormai provato di essere usciti da una logica sbagliata, come la Germania dalla colpa a lei addebitata delle due guerre.
Certamente vi è una colpa, la intravedo, che ha portato alla pretesa attuale che i greci onorino il loro debito. Ed è dovuta alla loro percezione di “spendaccioni” non rigorosi, per la quale acconsentire ad un default comporterebbe un assenso a continuare in politiche di sprechi e corruttela. Io aggiungo, per onor di cronaca, per chi crede che la Grecia sia sempre stata una economia poco efficiente, una pecora nera nella famiglia onesta dei paesi europei, che questa è una visione piena di stereotipi e vuota di dati. McKinsey riferisce come tra il 1999 e il 2009 la crescita annua della produttività è stata: USA + 2%, + 1,1% nell’UE, Continentale UE + 1,6%, Europa del Sud + 0,7%, Nord UE + 1,6%, Grecia + 2,4%! Che le riforme siano state attuate lo dice un indicatore spesso citato per ricordare i fallimenti italiani, il Doing Business Report della Banca Mondiale in cui la Grecia è passata dal rango di 109 in tutto il mondo fino alla 61° posizione. In soli cinque anni i tagli alle pensioni pari al 48%, i dipendenti pubblici sono diminuiti del 25% mentre il deficit si è ridotto dal 15,6% del PIL al 2,5%. E, aggiungo io, di conseguenza la disoccupazione è salito al 27% e il debito su PIL per 180%.
Ma la questione chiave, lo ripeto, rimane l’aver dimostrato di essere cambiati rispetto alla colpa originaria, che sia vera o presunta. Ovviamente Romano è ben conscio come vi sia stato un “cambiamento di regime” anche in Grecia, voluto tra l’altro – aggiungo io – dai cittadini greci, stufi dei trucchi contabili di governi precedenti corrotti (e le cui improprietà erano ben note spesso ai governi dei creditori ed alle banche che li finanziavano). Romano non lo ritiene sufficiente e questo gli basta per creare uno iato fra la Germania di allora a cui fu accordata (tardi ma comunque accordata) la solidarietà e la Grecia (l’Italia?) di oggi.
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Ma credo che non sia questo il problema vero e non mi metterò a discutere su questo piano con lui. Credo piuttosto che Romano non consideri come nel 1945, quando venne esteso alla Germania il Piano Marshall e anche nel 1953, quando nella conferenza di Londra si decise l’annullamento di circa i due terzi del debito tedesco, il “cambiamento di regime” tedesco fosse poco visibile alla maggior parte del popolo europeo quanto lo è oggi per lui quello greco. Credo invece, come lo stesso Romano ribadisce in un’altra parte del suo racconto, che gli Stati Uniti si mostrarono generosi non perché avessero la prova definitiva del cambiamento tedesco (poi certamente avvenuto) ma perché vi fossero quelle che lui chiama “motivazioni politiche”, in particolare quella di rispondere alle “tentazioni comuniste delle società occidentali” con una “combinazione di democrazia e capitalismo”. Democrazia figlia e non madre delle concessioni rispetto al debito, dunque: non tanto concessioni al debito nate perché vi fosse un regime “democratico”, quanto piuttosto concessioni al debito per permettere ad una democrazia (capitalistica) di fiorire impermeabile alla pressioni di oltre cortina di ferro.
Perché? Perché non vi era tempo. Bisognava agire subito per creare “equilibri” strategici funzionali ai desideri della leadership geopolitica occidentale di allora. Giustamente, il tempo conta eccome.
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Eccomi arrivato all’oggi. Oggi come ieri, non c’è tempo per chiedere alla Grecia, all’Italia, alla Spagna, al Portogallo virtù “riformiste” che si acquisiscono nel tempo. Adesso è tempo di solidarietà. E’ inutile che mi intrattenga sui rischi distruttivi dei crescenti populismi, revanscismi, xenofobie che politiche non solidali portano alla costruzione di un’Europa comune e del suo disegno liberale (e non liberista) basato sul rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. E’ inutile che ricordi come la nostra indifferenza verso i destini della Turchia solo 10 anni fa ha spinto quell’area così strategica nelle braccia di un fondamentalismo che gli era lontano.
C’è poi anche bisogno, è vero, di tanto tempo. E’ altrettanto inutile infatti che ricordi come gli Stati uniti d’America siano diventati Uniti con la U maiuscola nel 1933, quando nasce uno stato federale basato su trasferimenti permanenti dagli Stati più ricchi ai più poveri in risposta ad una crisi devastante, simile per molti versi alla nostra attuale, tuttavia dopo più di un secolo di lento avvicinamento culturale.
Trattasi dunque di non essere miopi e di esercitare leadership geopolitica. Trattasi dunque di trovare quegli strumenti immediati che mettano a tacere l’idea che questa costruzione europea non sia basata sulla solidarietà. Trattasi di guadagnare tempo, in attesa di un avvicinamento culturale che non può che essere lento. Possiamo discutere di quale sia il metodo, purché sia chiaro (contrariamente a quanto credono Saccomanni e Romano) che una Europa “centralizzata” OGGI, con il budget nelle mani di Bruxelles-Berlino, non farebbe che rafforzare l’idea che siamo di fronte a un’Europa tedesca, una non soluzione, se non peggio. In attesa di una Germania europea, cerchiamo i simboli e le politiche tampone che diano un senso di progettualità comune. L’esercito comune può certamente essere uno di quei simboli, ma non è pensabile che basti senza la riforma, come chiede oggi Renzi, dell’idiotico Fiscal Compact e della sua ottusa austerità.