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Non solo austerità: la confusione renziana che uccide la ripresa

I famosi moltiplicatori della spesa pubblica. Quelli che ci dicono di quanto aumenterà il PIL (e con esso l’occupazione) se aumentassimo la spesa pubblica produttiva e quanto diminuirà il PIL (e con esso l’occupazione) se la riducessimo. Quelli che le varie autorità dei paesi occidentali hanno ignorato durante la fase più acuta della crisi per odio ideologico di tutto ciò che è pubblico, commettendo errori mostruosi di valutazione dei danni dell’austerità. Danni che hanno generato disoccupazione e sofferenza, specialmente in quella parte di Europa che più aveva bisogno di ossigeno dalla politica economica. Danni con effetti duraturi che non permettono alle economie, ancora oggi, di riprendersi. Danni non ancora incorporati nella logica austera del Governo Renzi che continua a ridurre il deficit verso il pareggio, malgrado annunci l’opposto sbandierando il vessillo della “lotta all’austera Europa”.

E generando grande confusione nella testa degli operatori. Un amico e bravo giornalista della Stampa, Stefano Lepri, a un mio tweet che indicava come questo Governo rimanga austero perché riduce il deficit, ha replicato: “però penso abbia ragione Prometeia a sospettare che (il deficit) non scenderà, anzi potrebbe risalire”.

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Ora, si dà il caso che le scelte di politica fiscale, e soprattutto la modalità con cui vengono annunciate, giocano un ruolo decisivo nel ridare o meno fiducia a imprese e famiglie nelle loro decisioni di spesa, fossero esse di investimenti o di consumi.

Abbiamo già detto mille volte http://www.gustavopiga.it/2015/89-dellausterita-verra-prima-delle-elezioni/ su questo blog quanto poco facciano, per migliorare le aspettative e ridare ottimismo, annunci di “minore austerità oggi” che però promettono contemporaneamente, per gli anni a venire, manovre ancora più dure per raggiungere ne giro dei soliti 3 o 4 anni il solito equilibrio di bilancio. Di fatto la costruzione del Fiscal Compact, con i suoi piani pluriennali di rientro del deficit – a cui Renzi obbedisce senza se e senza ma, ottenendo briciole di sconti per l’oggi – rendono vani gli sforzi per ricreare un clima di fiducia, cosa a cui anela il nostro Premier.

D’altro canto la fiducia, al di là della questione di annunci incoerenti a livello pluriennale, non si restaura con i tagli di spesa e del deficit (secondo errore di Renzi), che hanno moltiplicatori negativi, ma con l’aumento degli investimenti pubblici, ossia della spesa produttiva.

Ormai gli studi su questo aspetto sono infiniti, con buona pace di Alesina e Giavazzi. L’ultimo in ordine di tempo che ho letto, quello di un bravo dottorando dell’Università di Padova, Juan Manuel Figueres, che immette un’altra bella dimensione nel dibattito sui moltiplicatori. Lavoro che potrebbe essere utile a Renzi, se solo smettesse di usare modelli macroeconomici sbagliati per guidare l’economia italiana. http://economia.unipd.it/sites/decon.unipd.it/files/20150202.pdf

Figueres nel suo lavoro conferma prima di tutto come la spesa pubblica ha moltiplicatori alti (e dunque serve) nelle recessioni ma non nei momenti in cui l’economia già va bene. E va beh, lo sapevamo già. Ma siccome siamo in un momento nero, il messaggio è chiaro ed è bene ribadirlo a chi è duro di comprendonio: fai più spesa produttiva e uscirai dalle secche della crisi. L’opposto di quanto fatto da Renzi, che né riduce gli sprechi né aumenta gli investimenti pubblici.

Ma tramite quale canale? Qui le cose grazie a Figueres si fanno interessanti. Egli mostra come tutto l’impatto positivo generato dalla maggiore spesa pubblica in recessione passa per un effetto “fiducia” su consumi e investimenti privati, che ripartono al mero “annuncio” di un futuro supporto all’economia tramite, appunto, investimenti pubblici. Aumenti a sorpresa della spesa, sostiene ancora il giovane economista, non influenzando le aspettative del settore privato, non hanno praticamente alcun impatto anche se avessero la stessa dimensione dei programmi chiaramente e credibilmente annunciati e ancora da attuare concretamente.

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Nella sostanza cosa dovrebbe capire Renzi da questo lavoro?

Due cose che non vanno fatte ed una che va messa al centro dell’azione di Governo.

Da non fare:

Renzi non dovrebbe andare in televisione e urbi et orbi annunciare che “se ci bocciate questa manovra (austera, anche se meno di prima) noi la ripresentiamo”, perché, siccome è austera, non ridà ottimismo.

Né deve fare quel che dice Prometeia, ripreso dal mio amico Lepri, che da un lato all’Europa dice che fa austerità (minori deficit) ma in realtà alla fine farà sì che il deficit sarà più alto, nascondendo la manina birichina. Perché questo non ha impatto alcuno su ottimismo e voglia di investire e consumare del settore privato, confuso da annunci incoerenti.

Da fare:

Il nostro Premier dovrebbe andare in televisione e dire: “noi per i prossimi cinque anni restiamo con un deficit pari al 3% del PIL, aumentandolo dal livello attuale e in più ridurremo gli inutili sprechi e con quelli ci finanzieremo ancora maggiori investimenti pubblici” e “se voi europei ci bocciate questa nostra moratoria sull’assurdo Fiscal Compact, noi la ripresentiamo”.

Ce la farà a non essere austero o birichino ma un vero leader pieno di fatti concreti e non di mera berlusconiana comunicazione? Bah. A me il tempo pare scaduto.

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Riduzione della spesa da parte di Renzi? Non credibile

Dal mio pezzo su Panorama oggi.

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Sono passati due anni “fiscali” da quando il Governo Renzi si è insediato: ha avuto modo di proporre due documenti di Economia e Finanza in ogni aprile, due note di aggiornamento degli stessi a settembre e ora si prepara a portare alle Camere la seconda legge di stabilità. Il segno concreto e tangibile dell’azione di politica economica non si misura sulle parole ma sugli atti concreti e sono questi documenti che, tra mille difetti, contengono la cifra renziana fino ad oggi.

In tal senso, è ovvio che l’occhio degli esperti corra immediatamente ad analizzare le decisioni di spesa pubblica avvenute finora. Tanto più che per misurare l’impatto effettivo degli annunci, ormai ripetuti quotidianamente, di tagli della tassazione, si deve giocoforza misurarne la loro credibilità. Annunci di tagli della tassazione non credibili, ritenuti da famiglie ed imprenditori irrealistici e/o non sostenibili, sono destinati a non mobilitare consumi e investimenti come sperato. E per essere credibili i tagli delle tasse devono garantire che non verranno abbandonati nel giro di pochi anni, a seguito di un peggioramento delle finanze pubbliche. Ma, a loro volta, per che le finanze pubbliche non s’incartino c’è bisogno che dall’altro lato del libro mastro dei conti pubblici, quello delle spese, vi sia il contributo essenziale del taglio degli sprechi (la spesa cattiva) e del rilancio degli investimenti pubblici (la spesa buona): senza di questi non vi sarà sviluppo a sostenere la domanda di beni e la stabilità dei conti pubblici e il progetto governativo finirà con le gambe all’aria.

Quando si presentò ad aprile del 2014, Renzi, per il triennio 2014-2016 prevedeva un totale della spea pubblica pari a circa 804, 818 e 832 miliardi di euro: in crescita, seppur moderata. Un anno e mezzo dopo, avendo avuto modo di esercitare le leve del comando, il Paese si ritrova con un livello si spesa per quei tre anni pari rispettivamente a 826, 831 e 840 miliardi. Maggiore? Eccome, tanto più se si considera che quando iniziò il Governo prevedeva una spesa per interessi di 82, 82 e 85 miliardi e quella realizzatasi grazie all’aiuto di Draghi è stata ben inferiore: di 75, 70 e 71 miliardi. Il resto della spesa, insomma ha sforato di circa 20 miliardi ogni anno rispetto agli annunci di inizio mandato. Non un bel modo di garantirsi una forte dose di credibilità come tagliatore di spesa: è probabile che gli operatori privati guardando a questa performance si chiedano quanto valga la pena scommettere su strategie di diminuzione della pressione fiscale che nel giro di poco tempo rischiano di essere smentite.

Ma non è solo questione di diminuire gli sprechi. C’è anche bisogno di fare più investimenti pubblici. E anche qui le cose mostrano come il Governo Renzi non abbia saputo prendere in mano le redini del Paese: per ammissione dello stessa relazione di aggiornamento al DEF appena uscito, “gli investimenti pubblici nel 2014 sono calati del 6,9%”, toccando un minimo storico clamoroso.

E’ possibile ridurre gli sprechi e spendere di più, mi direte? Certo che sì, sotto una specifica ed irrinunciabile condizione, utilizzata da tutto il mondo avanzato: la c.d. spending review. Che non è taglio della spesa a casaccio, come è stato interpretato malamente in questi anni in Italia, ma paziente e certosino lavoro volto da un lato, appunto, a diminuire la spesa cattiva (anche chiamati sprechi, che non generano produzione e valore ma solo un trasferimento dai malcapitati contribuenti a qualche imprenditore e burocrate che si arricchiscono impropriamente) e ad aumentare quella buona o quella ritenuta strategica: basti vedere l’esperienza britannica al riguardo che ha deciso di scommettere su istruzione e sanità. L’Italia si divide invece tra due partiti dell’ossimoro: quelli che credono che la “spesa buona” non esista, liberisti ad oltranza che chiedono che il settore privato faccia le cose che non sa evidentemente fare la Pubblica Amministrazione, e quelli che credono che sia la “spesa cattiva” a non esistere, collettivisti ad oltranza che accettano a malincuore (anche se non lo confesseranno mai) l’esistenza del settore privato. In realtà a studiare le realtà occidentali che funzionano, scopriremmo che 1) privato e pubblico vanno inevitabilmente a braccetto e 2) che anche realtà con livelli molto diversi di presenza del settore pubblico, come i paesi anglosassoni e i paesi scandinavi, sono accomunate da una caratteristica evidente: i loro settori pubblici sanno spendere decisamente bene i soldi dei contribuenti. Cosa che noi assolutamente non sappiamo fare, ultimo governo incluso. Come mai?

A studiare la fonte degli sprechi si finirebbe per scoprire che sono spesso più dovuti ad incompetenza che a corruzione, e che comunque le due cose vanno a braccetto: dove c’è incompetenza la corruzione vince facile, dove c’è corruzione non vi è interesse a diventare competenti. E quindi? Quindi bisogna spendere per risparmiare, questo sì un vero ossimoro, spendere per dotarsi di stazioni appaltanti competenti e professionalizzate (ma qual è quel bravo acquirente così masochista da lavorare per il pubblico quando il privato paga tre volte tanto?), spendere per pagare ricecatori universitari bravi così da generare conoscenza e sviluppo (ci siamo mai chiesti perché i nostri giovani più bravi vanno a lavorare nelle università d’oltre frontiera e non tornano, anche se lo desiderebbero ardentemente?). Una volta che si impara a spendere bene è facile, molto facile, tagliare la spesa cattiva.

Ma i numeri del Governo Renzi descritti sopra e la percezione che la spending review non sia una priorità di questo Governo lasciano intendere che il percorso scelto rimane quello di tagli a casaccio, spesso nocivi per il Paese, dettati dall’emergenza di soddisfare gli assolutamente ottusi rilievi europei, anch’essi indifferenti alla qualità della spesa e esclusivamente concentrati a raggiungere obiettivi di bilancio che, a causa della mancata crescita che queste regole generano, non vengono mai raggiunti.

Aspettiamo conun ansia un segno d’inversioen di tendenza: dalla vera spending review passa l’unica vera ripresa economica del Paese, non quella sospinta da Draghi e dal commercio mondiale che merito italiano certo non è.

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La trasparenza che fa male alle PMI

Ci sono un numero non piccolo di obiezioni da portare al disegno di legge delega sul recepimento della nuova Direttiva sugli appalti or ora approvato alla Camera, e magari ne parleremo in un altro post.

Ora è tempo di congratularsi col lavoro della Commissione, e dell’On. Raffaella Mariani in particolare, per avere mandato in soffitta l’anacronistica richiesta, proposta dal Senato, di “prevedere in ogni caso la pubblicazione degli … avvisi e bandi in non più di due quotidiani nazionali e in non più di due quotidiani locali, con spese a carico del vincitore della gara“.

In Portogallo ogni gara, in qualsiasi momento della sua fase, è gestita informaticamente, senza alcun passaggio cartaceo. Semplice anticipo temporale della Direttiva europea che ci chiede di adeguarci e essere come loro nel giro di pochi anni. E non sembra che vi sia meno trasparenza delle gare, anzi.

Ma in Italia non riusciamo nemmeno a far passare la fase più semplice, quella della pubblicazione del bando. Eh già, perché la decisione della Commissione alla Camera è stata così accolta dal Presidente della Commissione Ambiente Realacci: “presenterò un emendamento alla Camera già lunedì, perché credo che i bandi degli appalti debbano essere descritti e pubblicati sui giornali. È una bella misura di trasparenza che va reintrodotta (con) una norma che garantisca la piena legalità delle gare. Preciso che non costerà un solo euro alle tasche dei contribuenti perché le spese ricadranno, come già in passato, quando la cosa è stata applicata efficacemente, sulle società vincitrici dell’appalto“.

Ma va. Un costo che non passa sui contribuenti? E secondo Realacci cosa faranno le imprese tartassate una volta che verrà reintrodotto questo costo addizionale? Non lo scaricheranno per caso sul prezzo in gara d’appalto così che alla fine lo pagherà proprio il contribuente? E non ha pensato Realacci che la sua misura è l’ennesimo costo fisso che pesa più sulle piccole imprese che sulle grandi?

Non è solo questione di sussidiare coi soldi dei contribuenti l’industria dell’editoria, misura politica su cui il Parlamento può certo ragionare ma senza gettare nebbia sulle ragioni vere della proposta, è dunque anche questione di scoraggiare partecipazione e crescita delle imprese.

Personalmente spero che Realacci perda la sua battaglia e che cerchi, se lo ritiene utile, di aiutare l’editoria con misure meno distorsive.

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La donna che salvò l’occupazione giovanile e che non c’è oggi

Il mio intervento (aggiornato ad oggi) alla Tavola Rotonda “Nuove proposte concrete per rilanciare l’economia e l’occupazione”, organizzato dalla CISL.

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Questo Governo non sa come risolvere il problema giovanile. Non è la priorità. Lo si capisce. Non è nelle corde del Premier che parla di tasse come se fossero la ragione di vita dell’azione politica. Nessuna empatia.

Proprio non sa farlo. Lo dicono i numeri. “Poco più di un giovane su 10 è disoccupato”. Numeri che raccontano di un contributo all’occupazione sempre negativo (vedi grafico Nota di Aggiornamento del DEF).

Non è la priorità, mi pare evidente. La Garanzia Giovani su cui poggia l’intera strategia governativa è un fallimento, lentissimo a carburare quando ci vuole velocità di azione, risorse, senso di emergenza civile.

Emergenza.

Il rischio terribile che si annida nella mancanza di opportunità quando si è giovani è infatti quello del cadere nella disperazione, nell’indifferenza e infine nell’abbandono di ogni nuova opportunità, facendo sfiorire il potenziale del nostro Paese. 

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Noi l’abbiamo. La strategia specifica. Proposta a Monti e Letta, con migliaia di firme. Ignorata. E la disoccupazione è salita. La nostra proposta è stata sempre ignorata.

La nostra proposta:

18 aprile 2012

Chiediamo al Governo che destini 1% del Prodotto Interno Lordo di ogni anno finanziario del prossimo triennio, 16 miliardi di euro, senza addizionali manovre fiscali – come permesso dal Patto fiscale di recente approvazione dato lo stato di recessione della nostra economia – ad un Piano per il Rinascimento delle Infrastrutture Italiane che veda occupati ogni anno 1.000.000 di giovani ad uno stipendio di 1000 euro mensili, con contratto non rinnovabile di 2 anni, al servizio del nostro Patrimonio artistico, ambientale, culturale e a  quelle iniziative della Pubblica Amministrazione che siano volte a rafforzare il nostro sistema produttivo nazionale riducendo barriere e ostacoli che si frappongono allo sviluppo di idee, progetti e, domani, di imprenditorialità.

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Ma non è più questione di proposte o di appelli. Ma di strategia specifica. Di nervosa e precisa determinazione a scacciare per sempre quest’incubo dalla società italiana. Imparando dai successi del passato.

C’è stato un tempo. Un leader. In cui questa determinazione ha superato ogni ostacolo. Ha ridato linfa. Nel 1933. Negli Stati Uniti. Una donna.

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Prima donna americana a rivestire una carica ministeriale. Ministro del Lavoro per il grande Presidente Franklin Delano Roosevelt dal primo giorno del suo mandato nel 1933 fino alla sua morte poco dopo Yalta. Senza di lei forse non saremmo stati qui a raccontare del New Deal. Frances Perkins.

La racconta, la vita di Frances Perkins, nella bellissima biografia “The Woman Behind the New Deal”, Kirstin Downey. http://www.amazon.com/The-Woman-Behind-New-Deal/dp/1400078563

Capace di far partire i CCC, i Civilian Conservation Corps, a pochi giorni dall’inaugurazione del primo mandato del Presidente democratico. Roosevelt chiese subito che fosse dedicato a impiegare persone senza lavoro nei parchi e nelle foreste.

Per 1$ al giorno, 540 dollari al mese attuali: se ci aggiungete che vitto, alloggio e scarpe erano coperti, arriviamo ai 1000 € della nostra proposta. Cifre di gran lunga superiori a quelle stanziate per il nostro servizio civile.  

La Perkins non è convinta: “cosa faranno nei parchi e nelle foreste?” Roosevelt non ha esitazioni: “costruiranno dighe e tuteleranno l’ambiente (preservation)”.

Pochi giorni dopo, Frances Perkins relazionava al Congresso per far approvare in quattro e quattr’otto la proposta. Che passa infatti un mese dopo, tra le contestazioni e le perplessità di molti (compreso il sindacato, il cui capo, Green, ebbe modo di definirlo un progetto intriso di … “sovietismo”, critiche identiche a quelle che il nostro piano ha ricevuto da più parti in Italia, specie quelle liberiste).

Per metterlo in piedi, la Perkins ideò il National Reemployment Service, un network di uffici di collocamento coordinati a livello nazionale, avviando in sordina l’inizio del progetto federale statunitense in cui il potere di Washington cominciò a prevalere su quello dei singoli stati: nascevano gli Stati veramente Uniti di America.  Inizialmente fu immaginato solo per gli uomini tra i 18 e 21 anni: in larga parte i figli maggiori che le famiglie lasciavano andare vagabondando per le città e le campagne, per carenza di mezzi di sostentamento. Nell’agosto del 1933, solo 5 mesi dopo, il programma dava lavoro a 300.000 maschi.

Nell’aprile del 1936, erano stati creati 2158 CC Camps, ognuno di loro con circa 160 occupati, 60% dei quali sotto i 19 anni. Poco più di 85% di loro inviava regolarmente denaro a padre e madre.

Ma evidentemente lo scopo travalicava quello di mero sollievo economico. Da una lettera del direttore del programma, Persons, alla Perkins: “il suo effetto più importante è quello di dare a giovani non ancora maturi, che si trovano sulla soglia degli anni d’ingresso nel mondo del lavoro, importanti abitudini verso lo sforzo e utili abilità. Tutto ciò mentre si formeranno fisicamente e acquisiranno – grazie al raggiungimento di soddisfazioni in un ambiente decoroso – quegli elementi di sicurezza di sé, cooperazione e visione più ampia delle cose, tutti aspetti essenziali per mantenere un morale alto.”

I CCC non si estero alle donne se non in maniera minimale (28 campi). Esso creò problemi razziali specie nel Sud degli Stati Uniti. Ma complessivamente fu un enorme successo: più di 3,5 milioni di americani parteciparono al CCC nei 9 anni di esistenza. Altro che servizio civile all’italiana che occupa un numero esiguo di ragazzi.

Nacque poi, poco tempo dopo, con 500 milioni di dotazione, circa 10 miliardi di dollari odierni, cifra simile a quella che chiedemmo a Monti prima e Letta poi, la Federal Emergency Relief Administration: progetti locali di edilizia, parchi, parco-giochi. Iniziato con in mente i giardinieri, divenne rapidamente fonte di occupazione per storici, archeologhi, musicisti. Soldi che andarono a finanziare il lavoro di artisti che ridipinsero con fantasia gli uffici postali e le biblioteche pubbliche. Guadagnando tempo prezioso in attesa della ripresa.

Ci tenne a precisare Franklin Delano Roosevelt: lavoro pagato, non sussidio di disoccupazione. Non voglio, disse, amministrare “narcotici, un sottile distruttore dello spirito umano”. Già.

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Monti, Letta, Renzi: nessuno di loro volle o vorrà avviare il piano di Frances Perkins per i giovani, quando invece la situazione che li tocca assomiglia molto a quella degli anni Trenta.

Perché?

E’ evidente che la parola “pubblico” che affianca questo programma li terrorizza, perché tutti e tre hanno creduto e credono fermamente che privato e pubblico siano due sfere “sostitute” e non “complementari”. Che il privato può fare altrettanto bene se non meglio quello che il pubblico tenta di fare con sprechi ed inefficienze. E non che privato e pubblico si rafforzano a vicenda, a volte con il pubblico che ridà ottimismo e energia a un settore privato scoraggiato e disilluso. E’ l’ideologia liberista divenuta dominante in Italia.

Perché? C’è chi sostiene anche oggi di un disinteresse etico per “l’Altro”. Credo che la struttura della crisi odierna aggiunga un’altra dimensione che foraggia indifferenza: la miopia dovuta al fatto che questa crisi è una crisi per alcuni ma non per tutti. Alcuni altri evidentemente si stanno arricchendo: la ripresa al Nord è ad esempio visibile, aiutata dall’euro, dal commercio mondiale, dai tassi d’interesse, e si estende a tutti quei territori dove le imprese sono più internazionalizzate. Ma non altrove.

Miopia. Miopia perché se una torta sempre uguale va in parti crescenti a una sola parte, la parte più affamata chiederà per ben presto di rovesciare il tavolo.

Prima che avvenga, questa miopia va curata. Con occhiali, e dunque occhi, nuovi. Occhi che sappiano capire che perseguire il bene comune rilanciando la battaglia per i più in difficoltà, che allarga la torta a disposizione di tutti. Ma per questo ci vogliono leader diversi, come lo furono FDR e Frances Perkins.

Grazie a Marco D’Agostini

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89% dell’austerità verrà poco prima delle elezioni

Da quando il Governo Renzi si è insediato sono quattro i documenti di Economia e Finanza che ha presentato (due DEF, aggiornati ambedue durante l’anno a settembre): quattro progetti per come gestire le finanze pubbliche nel quadriennio 2015-2018. Progetti che ci aiutano a rispondere ad una domanda chiave: come è cambiato al riguardo Renzi in questi due anni?

La tabella sotto lo illustra molto bene.

In un certo senso non è mai cambiato: ha sempre promesso all’Europa e soprattutto ad imprese e famiglie italiane che avrebbe ridotto il deficit in 4 anni in percentuale del PIL di circa il 2-2,5% di PIL: 40 miliardi circa con 3 manovre restrittive ed austere. Difficile far ripartire l’economia italiana in questo modo.

Ma quello che più colpisce delle decisioni del Governo è come, a parità di dimensione complessiva delle manovre nel quadriennio, è cresciuta nel tempo la quota di queste manovre che vengono affidate al 2017 e 2018. Dal 43% di aprile 2014, l’aggiustamento che avverrà nel biennio 2017-2018 dichiarato nell’ultima nota d’aggiornamento è dell’89%! Trovare 40 miliardi in 2 anni prima delle elezioni è una bella sfida, ce lo immaginiamo Renzi intento a farlo?

E’ duplice il caos che questa politica genera nelle aspettative degli operatori chiave dell’economia, come famiglie ed imprenditori. Prima di tutto, perdendo fiducia nella verità della programmazione economica, confusi, stentano a prendere decisioni coraggiose per il futuro, come quelle di cui avremmo bisogno per ripartire: consumare ed investire. Secondo, vedendo crescere la quota parte di austerità a venire nei prossimi anni, accrescono – invece di ridurre – il loro timore sul futuro.

Questo dicono i numeri: una politica economica gattopardesca relega l’Italia alla serie B europea.

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Da 2,6 a 2,2 si chiama austerità: sono i numeri bellezza

Anche il fatidico rapporto nominale tra deficit e PIL che quest’anno chiude al 2,6%, il prossimo anno salirà al 2,2% dall’1,8% fissato dal DEF varato nella primavera scorsa: in totale si tratta di un “salto” dello 0,8% per cento rispetto al tendenziale (cioè in assenza di politiche) che lo scorso anno andava virtuosamente verso l’1,4%. Dunque una politica espansiva, che fa perno sul deficit, il quale potrà raggiungere – come ha confermato lo stesso Padoan – il 2,4% se verrà approvata la clausola migranti“.

Roberto Petrini, la Repubblica di oggi.

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E’ ripartita la campagna di disinformazione autunnale, in coincidenza con la presentazione urbi et orbi della modifica di politica fiscale del Governo in carica. Ovviamente la stampa come quella citata sopra non analizza, fa meramente da grancassa del potere.

Da dove cominciare?

Forse dalla definizione di cosa sia una politica fiscale espansiva, magari su questo siamo più d’accordo che su altri temi: diciamo che possiamo concordare nell’individuarla in una politica capace di aumentare il livello del deficit pubblico sul PIL? Ma sì, dai.

Siccome il Governo Renzi porterà il deficit dal 2,6% del PIL di quest’anno al 2,2% o al 2,4% del 2016, riducendolo, la manovra del Premier è da definirsi a tutti gli effetti come restrittiva e portatrice di ulteriore austerità. Punto e basta.

Forse sarete interessati a sapere perché allora la Repubblica ed il Governo la chiamano espansiva. Ma certo, vi accontentiamo. Siccome il governo ha annunciato l’anno scorso: “l’anno prossimo porteremo il deficit dal 2,6% all’1,8% del PIL” e ora invece lo portano dal 2,6% al 2,2% o 2,4%, i nostri leader cercano di intorbidire le acque.

Immaginate di essere un prigioniero condannato per sbaglio a 15 anni di galera a cui è stato detto 6 mesi fa che la pena sarà portata a 18 anni e che ora viene a sapere che no, in realtà verrà portata solo a 16 anni. Come vi sentireste? Già arrabbiati per essere stati condannati ingiustamente (l’Italia vive in un contesto di politiche fiscali sbagliate che la condannano ingiustamente a crescere meno di quanto potrebbe), avete saputo 6 mesi fa che la vostra pena aumenterà di molto (il deficit scenderà dal 2,6 all’1,8%) e adesso vi dicono che no, la pena aumenterà, ma di meno (da 2,6 a 2,2 o 2,4): felici?

Ma certo che no.

Ma come è possibile che Renzi parli di minori tasse e noi lo si definisca austero? Semplice. Ricordatevi quanto diceva il giornalista di Repubblica sopra: a politiche “invariate” il deficit 2016 avrebbe viaggiato virtuosamente (sic) all’1,4% del PIL: Cioè, se Renzi avesse confermato le politiche dei predecessori (le sue comprese, quelle del primo anno di Governo) l’austerità sarebbe stata altissima, riducendo il deficit dal 2,6 all’1,4%. Ma il termine “invariate” è ingannevole: quelle politiche sono sempre nelle mani di Renzi, ed è dunque lui che ha deciso di confermarle. Ad esempio, se nelle nostre scuole o università la spesa per stipendi cala perché i precedenti Governi hanno deciso di non aumentare gli stipendi nemmeno adeguandoli all’inflazione e/o di ridurre l’occupazione tramite il blocco del turnover, lasciando questi due settori strategici per il Paese in serie B rispetto al resto d’Europa, Renzi poteva bene rovesciare questa decisione. Ma non l’ha fatto, confermando le scelte dei suoi predecessori e di se stesso l’anno scorso.

Renzi ci dirà delle minori tasse che intende effettuare. Dubito che ci ricordi delle altre che aumenteranno, specie a livello locale. Sono certo però che non ci dirà nulla sulle spese utili che ha deciso di continuare a ridurre, condannando il Paese a performance di serie B come quelle che Confindustria ha ben illustrato nel suo recente rapporto.

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Appalti pubblici: gare sempre chiuse alle (M)PMI

L’On. Raffaella Mariani giustamente ricorda al Sole 24 Ore come la legge delega sul recepimento della Direttiva europea sugli appalti pubblici ora all’esame della Camera deve “contenere maggiori riferimenti alle micro, piccole e medie imprese (MPMI), anche in coerenza con il tessuto produttivo italiano… recuperando in pieno lo spirito e l’ottica originaria delle Direttive”. Mentre in Europa le MPMI generano il 71% del PIL europeo, esse si aggiudicano solo il 42% degli appalti pubblici. Questa differenza, il 29%, che viene generalmente chiamato indice di discriminazione verso le MPMI negli appalti pubblici, in Italia, paese in cui le MPMI dovrebbero essere al centro di ogni attenzione politica, è massima tra quelle europee, arrivando al 48% (in Germania è pari al 5%): un masochismo inaudito.

I fattori che concorrono a questa situazione sono svariati e a volte sinergici: corruzione (le imprese grandi avendo al riguardo più “influenza”), collusione (le MPMI partecipano più raramente ai cartelli), incompetenza abbinata ad avversione al rischio delle stazioni appaltanti (che porta queste ad andare sul sicuro, comprando sempre dagli stessi grandi fornitori storici) e centralizzazione crescente delle gare. Al riguardo di quest’ultimo fattore, non può essere lasciato cadere quanto sottolinea la relazione annuale dell’ANAC che il valore medio dei lotti in Italia è cresciuto, dal 2011 al 2014, del 33%, da 600.000 a 800.000 euro, fattore che rende sempre più arduo per le MPMI partecipare.

La legge delega sfiora alcuni di questi temi, ma quando lo fa è destinata, se le cose rimarranno come sono ora, a avere un impatto praticamente irrilevante su questo stato delle cose.

Prendiamo la questione della maggiore professionalizzazione delle stazioni appaltanti. E’ menzionata là dove si prevede che l’ANAC possa “valutare l’effettiva capacità tecnica ed organizzativa” di queste. Buone intenzioni, certamente. Ma come pensare che a valle della valutazione sulla qualità delle stazioni appaltanti l’ANAC non possa esprimere altro che non un “pollice verso” visti gli scarsissimi investimenti che il Paese dedica alle competenze dei responsabili, pagandoli cifre irrisorie e non approntando per essi carriere professionali decorose e stimolanti come quelle per magistrati e diplomatici? Sarebbe utile destinare almeno gli incentivi del 2% alle pubbliche amministrazioni e ai dipendenti pubblici menzionati dall’On. Mariani proprio ad acquisire maggiori professionalità, anche perché la legge delega parla proprio di non meglio specificate “misure premiali per coloro che coinvolgono le MPMI nelle procedure di gara”.

Se è da sottolineare positivamente il ruolo che la legge delega affida all’ANAC, non si può non notare con preoccupazione l’assenza di qualsiasi riferimento al ruolo che può giocare l’Antitrust a favore delle MPMI. Non solo perché la collusione che questa ha il compito di individuare fa male alle piccole e rafforza la corruzione, ma anche perché sarebbe l’istituzione naturalmente preposta a far sì che le gare d’appalto siano scritte in maniera tale da favorire la partecipazione delle MPMI. Sullo stile della normativa statunitense, in cui in ogni grande stazione appaltante un dipendente della Small Business Authority americana ha l’obbligo di valutare ogni capitolato per esaminare se è stato scritto in maniera tale da non danneggiare l’accesso delle MPMI, così l’Antitrust italiana potrebbe essere delegata a dare il suo parere al riguardo di ognuna delle gare delle 35 stazioni appaltanti che aggregheranno gran parte degli appalti di beni e servizi in Italia, possibilmente dopo aver consultato rapidamente la associazioni di categoria esclusivamente delle piccole imprese.

Infine, sulla questione così importante dei lotti, pensare che vietando “l’aggregazione artificiosa degli appalti” si sia fatto un passo avanti è peccare di ottimismo: la questione chiave è chi controlla tale “artificiosità”. Anche qui, in assenza di un vero Garante della Piccola che stenta a dare segni di vita, l’Antitrust dovrebbe e potrebbe giocare un ruolo importante.

Le gare d’appalto sono come quelle di atletica: far correre il campione mondiale juniores contro Usain Bolt porterà a vedere il primo sempre sconfitto e alla fine a rinunciare alle corse, perdendo per sempre un talento. Aiutiamo le MPMI a correre una gara giusta, e le vedremo crescere e diventare i campioni del futuro.

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La triplice dimenticanza di Matteo Renzi

“Pensano di spiegarci cosa fare sulle tasse? Le tasse che tagliamo le decidiamo noi”.

Matteo Renzi alla radio.

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Sono tre le cose che Matteo Renzi dimentica e che condanneranno l’Italia che lui governa alla stagnazione.

Prima dimenticanza: tagliare le tasse (o perlomeno annunciare di tagliarle) senza aver fatto (né messo in moto!) alcuna credibile riforma nel mondo degli appalti pubblici e degli stipendi pubblici (le due principali componenti della spesa pubblica che influenzano generazione di PIL e benessere collettivo) non serve a nulla. Perché la gente spende soldi che si ritrova in tasca solo se ha la  certezza che non glieli chiederanno indietro pochi mesi o anni dopo. Ma un governo che non sa tagliare gli sprechi manda un messaggio chiarissimo ai contribuenti: che alla fine per pagare il buco che si crea nelle finanze pubbliche a causa del taglio delle tasse ricorrerà a un aumento di altre tasse. E quindi il saggio contribuente metterà da parte tutto il taglio/bonus ricevuto e non lo spenderà, in attesa di ripagare a breve quanto gli verrà richiesto con nuovi balzelli.

Seconda dimenticanza: se mai il Governo riuscisse invece a trovare le risorse per tagliare le tasse tramite il taglio della spesa farebbe un altro errore grosso come una casa. Se infatti il taglio delle spese fosse a casaccio (vengono chiamati “tagli lineari”) senza distinguere tra spesa buona e spesa cattiva, verrebbe a mancare all’economia una decisiva domanda pubblica alle imprese di servizi, beni e lavori, con un impatto sul PIL ben maggiore del taglio delle tasse e con effetti nefasti su occupazione e redditi. Se invece per miracolo il taglio della spesa non fosse a casaccio (“tagli non lineari”, ma quando mai arriveranno?), andando a colpire i veri sprechi, e quindi senza incidere su PIL reale e occupazione, le risorse così ottenute sarebbero ben più fruttuosamente utilizzate in investimenti pubblici di qualità – con immediata produzione da parte di imprese di beni, servizi e lavori pubblici. Capaci di dare ben più occupazione e sviluppo che non minori tasse, che sarebbero in parte ancora essere risparmiate, anche perché un Governo che sa individuare gli sprechi nella spesa sa anche spendere bene.

Terza dimenticanza: che si taglino le tasse o si rilancino gli investimenti pubblici, non c’è speranza di ottenere alcuno stimolo di consumi e investimenti privati se permane l’ottusa austerità euro-renziana che ci vincola a portare il deficit allo 0% nel giro di 3 anni, comunicando a famiglie ed imprese che anche se oggi l’austerità sarà minore, domani riprenderà indefessamente la sua velocità a suon di manovre da 10 miliardi l’anno.

E’ clamoroso sentire Renzi urlare ai quattro venti “le tasse che tagliamo le decidiamo noi” ma farsi piccolo piccolo quando si tratta di ribadire a voce alta anche che “i deficit li decidiamo noi”, portandoli a quei livelli – simili a quelli di Francia e Spagna – che consentirebbero al volano della domanda interna di lanciare la ripresa dopo anni di assurda stagnazione.

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La Spagna che dà fastidio a Giavazzi e ai noeurini

Leggere Giavazzi intervistato sul Corriere (28 agosto) sulla Spagna è come al solito interessante e paradossale. L’elemento chiave del recente successo macroeconomico iberico secondo l’economista bocconiano? “L’aggiustamento fiscale sul fronte della spesa. Si è deciso di creare maggiore disavanzo pubblico (al 5,6% del PIL nel 2014) non alzando le tasse“.

Sorvoliamo sul fatto che finalmente anche secondo Giavazzi gli ampi deficit pubblici in crisi come queste funzionano eccome, altro che riforme di lungo periodo. Ma secondo Giavazzi funzionano perché li si è prodotti con meno tasse e meno spesa. Meno presenza dello Stato dunque. Ideologia o verità?

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E’ importante capire perché la Spagna tira. C’è molto in ballo.

La Spagna conta eccome, perché “tira nell’euro”, e quindi dà fastidio ai noeurini senza massa che pensano che non si possa crescere nell’euro.

Ma bisogna capirla bene, la performance spagnola. Non come la capisce, perché così gli fa comodo, il Prof. Giavazzi. Perché se la si capisse bene, allora darebbe fastidio pure a lui.

Sopra l’intervista campeggia un bel grafico dove si vede che la ripresa spagnola parte dal 2013. E cosa è successo a spesa e entrate strutturali (al netto degli effetti ciclici) spagnole in questo periodo?

Basta chiederlo ai dati prodotti dalla Commissione europea (Tavola I.1.5).

http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/european_economy/2014/pdf/ee9_en.pdf

Le entrate strutturali salgono (salgono!) dal 37,5 al 38,5% del PIL. In Italia nello stesso periodo salgono, ma “solo” dello 0,2%. Le spese strutturali salgono (salgono!) dal 39,9% al 40,8% del PIL, praticamente quanto le entrate. In Italia salgono, ma solo dello 0,2%.

Ci si chiede di cosa parli Giavazzi, dunque. Ideologia pura, come al solito, la sua interpretazione del successo spagnolo.

Ma soprattutto ci si dovrebbe accorgere che ambedue i Paesi (Italia e Spagna), in questi 3 anni, hanno usato una classica politica fiscale c.d. in pareggio, aumentando cioè le entrate circa quanto le spese. Manovra che generalmente può portare a risultati espansivi, come abbiamo sempre argomentato in questo blog, perché l’aumento delle spese genera più produzione (appalti direttamente rivolti alle imprese) dello scoraggiamento che comporta un pari aumento delle entrate.

La differenza? Che la Spagna il c.d. “moltiplicatore del bilancio in pareggio”, come viene chiamato, lo ha usato con una forza 5 volte tanta quella italiana (1 vs 0,2): non dovrebbe stupire che la Spagna tra 2013 e 2015 abbia ripreso a correre ben di più che l’Italia.

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Oltre i noeurini senza massa e gli abbienti austeri

Adesso finalmente abbiamo il partito anti-euro in Grecia. Non fosse stato a sufficienza chiaro durante i drammatici giorni del referendum, avremo modo di misurare inequivocabilmente e definitivamente quanta parte della popolazione ellenica sposa la soluzione della moneta locale per la Grecia del XXI secolo.

Facile prevedere l’esito. I “noeurini” greci, privi di massa, diverranno irrilevanti politicamente come lo sono tutti i loro simili in tutti i Paesi dell’area euro.

Una ragione di questo perdurante e dominante desiderio di euro dovrà pur esserci, proprio nel bel mezzo di una performance economica dell’area che più disastrosa è difficile immaginare. E non si tratta di una ragione di difficile comprensione: una buona metà dei pro-euro in ogni Paese (Italia compresa) della moneta unica ne sta godendo o non ne sta soffrendo, mentre l’altra metà, che patisce le conseguenze negative della crisi, pensa evidentemente che la recessione si possa curare con altri strumenti che non quello dell’abbandono dell’euro. In particolare, come è risultato chiaro dal referendum greco, dal rifiuto del dogma dell’austerità.

Con l’assenza di massa dei “noeurini”, condannati all’oblio ovunque visto che si rifiutano di combattere la battaglia anti austerità dentro l’euro, rimane il puzzle di come riuscire a far sì che questa battaglia possa avere successo dato il fallimento di Tsipras in Grecia in tal senso.

L’Italia sarebbe il Paese chiave per tentare un nuovo approccio di sfida politica al dogma europeo dell’austerità: impensabile trattarla come la Grecia. Una nostra eventuale decisione – ad esempio – di bloccare fino a fine crisi il deficit al 3% del PIL invece che allo 0% previsto dall’attuale Governo, equivarrebbe di fatto a rendere gli investimenti pubblici fuori dal computo del deficit da correggere fino al raggiungimento dell’equilibrio. Una mossa che farebbe ripartire il Paese e il Continente sfiniti dalla mancanza di domanda alle imprese, specie quelle più piccole e meno internazionalizzate.

Ovviamente ci vorrebbe, per farlo, un Governo diverso da quello attuale. Il Governo Renzi rappresenta infatti a tutti gli effetti quella parte della società italiana soddisfatta di stare in questo euro e desideroso di cedere ulteriore sovranità fiscale, come ha ben scritto Paolo Savona nella sua lettera aperta al Presidente della Repubblica.

http://t.co/6gXnoHXIYs

Ma il Paese è sempre più diviso in due. Qualcuno dovrà pur rappresentare chi vuole restare nell’euro senza austerità, acquisendo quella massa mancante ai simpatici e masochisti “noeurini”. E’ inutile lamentarsi e dire che in Europa non vige democrazia: va svegliata. Ed è possibile farlo, è questo il solo lascito significativo di Tsipras. Tsipras I, quello del referendum.