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Il Carnevale autunnale dell’austero Governo Renzi

Non sarà difficile chiudere quest’anno al 2,6%, il prossimo si prevede all’1,8%, e il pareggio nel 2017. E qui si inserisce il piano del Governo. Ovvero mirare a un deficit un po’ più alto per il 2016, tra il 2,2 ed il 2,5% (ma ben sotto il 3%) così da liberare risorse per gli investimenti. Facendo poi slittare il pareggio di bilancio al 2018 o al 2019. Una politica classica di deficit spending insomma”.

La Repubblica, 17 agosto.

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Di frasi come queste, nel prossimo mese ne leggeremo a bizzeffe, grazie a giornalisti utilmente foraggiati da fonti governative. Il mantra di settembre?  “Il Governo si impegna a fare politiche fiscali espansive di deficit spending”. Una musica, o meglio una cacofonia, identica a quella dello scorso anno.

Nel 2014, al suo arrivo, Renzi annunciò – in un momento di difficoltà estrema per l’economia – una sequenza quanto mai recessiva di interventi fiscali: dal 2014 al 2018 deficit su PIL in discesa dal 2,6% a 1,8% a 0,9% e 0,3% per chiudere in bellezza con un avanzo complessivo di 0,3% nel 2018. 3% di PIL di deficit in meno in quattro anni, manovre di 10 miliardi l’anno capaci di ammazzare qualsiasi ripresa la svalutazione dell’euro o i bassi prezzi del petrolio gli avrebbero regalato qualche tempo dopo.

Nel 2015, governo identico e quindi politiche identiche. Dal 2015 al 2019 annuncio di deficit su PIL in discesa dal 2,6% a 1,8% a 0% a addirittura, come potrebbe mancare, il fantascientifico +0,4% per il 2019.

Notate bene: la discesa temporale del deficit annunciata è identica se non superiore a quella dell’anno prima. Quindi stesso effetto: ancora recessione e calo dell’occupazione (in assenza ovviamente di qualsiasi spending review seria fatta nel tempo, con calma e precisione, individuando gli sprechi e non basata su tagli a casaccio come oggi, specie degli investimenti pubblici e delle spese per scuola, università e ricerca e sviluppo). Ma come, non avevano gridato “vittoria” parlando di austerità flessibile e addirittura di “espansione fiscale”?

Come no. Ma allora dove sta il trucco? Semplice. Nel fatto che nel 2014 avevano promesso per il 2015 un deficit all’1,8% e quest’anno invece il deficit sarà chiuso al 2,6%, sforando nelle promesse all’Europa, come nel 2014 quando abbiamo chiuso al 3% invece che allo 1,8% promesso nel … 2013 dal Governo Letta. Dunque: le politiche sono sempre recessive, non solo perché comunque portano a un continuo ridursi del deficit sul PIL nel tempo, ma soprattutto perché annunciano sempre e comunque urbi et orbi a imprenditori e famiglie tagli pluriennali sostanziali che tolgono la voglia di investire e consumare. Ma, al contempo, Renzi e Padoan ogni anno si possono permettere, proclamandosi per l’anno in corso meno austeri di quanto l’anno prima non avevano promesso che sarebbero stati, di preannunciare piani di tagli di tasse epocali, che ovviamente sono nella realtà compensati da altre tasse e tagli di spesa a casaccio ancora maggiori perché comunque il deficit deve calare.

Una classica politica di austerità, insomma, travestita come a Carnevale è in corso di arrivo con la Nota di Aggiornamento del DEF autunnale. Basta ricordare che chi ci perde è il Paese. 

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Non c’è piu’ la spesa pubblica di una volta. E perché

“Le incognite sulla prosecuzione, sull’intensità e sull’ampiezza della ripresa di oggi sono riassumibili guardando alle caratteristiche riassuntive di quelle del passato.

In poche parole, i dati del passato suggeriscono che le riprese nell’economia italiana di oggi non sono più quelle di dieci o quindici anni fa.

Alla fine degli anni novanta, a metà degli anni duemila e anche nel 2009-11, il ritorno alla crescita fu agevolato da una rapida crescita dell’economia mondiale (vicina al +5,5 per cento annuo in ognuno degli episodi). Oggi invece il mondo – malgrado il petrolio basso e il denaro che non costa – cresce solo del 3,5 per cento annuo, e così il volano della crescita mondiale è meno efficace.

La minore intensità e ampiezza della crescita di oggi ha una pesante implicazione, e cioè che per un bel pezzo la ripresa non porterà la fine della crisi.”

Francesco Daveri, La Voce (e l’Adige).

http://www.lavoce.info/archives/36460/non-ci-sono-piu-le-riprese-di-una-volta/

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Girando qua e là per le montagne mi imbatto sull’Adige che riporta l’interessante articolo del collega Francesco Daveri sulle ultime 4 riprese italiche: quella avvenuta dal primo trimestre del 1999 al primo del 2001, quella dal secondo trimestre 2005 al secondo trimestre 2007, quella dal terzo trimestre 2009 al secondo 2011 ed infine quella appena avviata attuale (ringrazio Francesco per avermi fornito queste precisazioni).

E’ una interessante e bella intuizione quella di studiare le precedenti riprese per capire di più il potenziale di questa appena avviata. Sulla quale Daveri esprime un forte pessimismo: lo stanno a confermare sia oggettivamente i minori valori della crescita odierna rispetto a quella degli altri tre periodi nei primi due trimestri di avvio (0,25% questa, 0,3%, 0,7%, 0,5% le altre) sia il sospetto che la minore crescita mondiale di questo periodo possa pesare non poco. Ma Francesco chiude con una nota di speranza affidandosi all’impatto sperabilmente positivo delle riforme (uno strano argomento visto che l’articolo è basato sull’analisi di elementi ciclici di breve periodo e non strutturali di lungo periodo) e rapidamente menzionando la possibilità che si possano sfruttare “gli scarsi margini sul deficit pubblico consentiti da Bruxelles (inevitabilmente risicati per un paese con il 132 per cento di rapporto debito-Pil)”.

Ecco, appunto. Il sospetto che sorge immediatamente leggendo l’articolo di Francesco è che non ci sia soltanto il commercio mondiale a spiegare la differenza tra oggi ed allora (anche perché uno potrebbe sostenere che tassi d’interesse e prezzi del petrolio così bassi oggi rispetto alle altre riprese del passato dovrebbero consentire di fare quantomeno tanto bene quanto allora), ma soprattutto le finanze pubbliche ed il loro sostegno all’economia. Forse che la debolezze della ripresa attuale possa essere spiegata da un minore peso di quella parte della spesa pubblica che impatta sul PIL e cioè stipendi, appalti ed investimenti pubblici?

Ricostruire l’andamento della spesa pubblica al netto dell’inflazione sulla base dei dati Istat per i periodi individuati da Daveri è cosa abbastanza rapida, seppur tediosa, da fare. E ne vale certamente la pena.

Riassumiamo qui i risultati più significativi, tenendo conto che per parlare nell’ultimo periodo (la ripresina attuale) del contributo della spesa pubblica abbiamo utilizzato i dati dal secondo trimestre 2013 al primo trimestre 2015, gli ultimi disponibili.

Cominciando dagli stipendi pubblici: che come andamento medio di crescita trimestrale sono passati dal +2,5% del 2000-2001 al +3% del 2005-2006 ante crisi al -1,2% del 2009-2010 del picco della prima crisi. E questi ultimi 2 anni? Anche qui, -1,2%. Le manovre Berlusconi, Monti, Letta, Renzi che hanno depresso questa componente trascinandone gli effetti nel tempo hanno chiare responsabilità.

Argomento meno chiaro per i consumi intermedi strettamente intesi che dopo un +5% irripetibile del 2000-2001, si attestano ad un tasso medio reale che va da -0,5% a +0,5% a +1% nell’ultimo periodo.

Non a sorpresa, sono gli investimenti pubblici a demarcare la netta frattura tra questa ripresa e le precedenti: crescenti del 3% nel 2000-2001 ed addirittura dell’11% nel 2005-2006 (non a caso l’avvio di ripresa più forte nei dati di Daveri è proprio riferito a questo periodo con un +0,7%), nel 2009-2010 crollano del 6,75% e, con l’introduzione dell’idiotico Fiscal Compact, scendono ulteriormente del 5,4%.

Queste sono le ragioni che spiegano la ripresa che non c’è: la spesa pubblica che non c’è. E non c’è debito pubblico su PIL che tenga per escluderne un uso sostanzioso per uscire da questa crisi: sappiamo tutti benissimo che il debito pubblico è alto rispetto al PIL perché nel momento in cui la domanda privata si è ritirata indietro, ostaggio di un pessimismo permanente, non si è osato far entrare la domanda pubblica in gioco come si fece negli anni Trenta, e con ciò deprimendo il PIL e con esso le entrate e facendo salire il debito. L’Europa non c’entra: se questa sbaglia il Governo Renzi ha il dovere di andare avanti lo stesso, spiegandone le ragioni, accelerando gli investimenti pubblici in maniera ben superiore ai numeretti che circolano oggi.

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Ma questo Governo non ha nessuna intenzione di aumentare gli investimenti pubblici di quanto il Paese (il Meridione in particolare, ma non soltanto esso) necessiterebbe per far ripartire la ripresa creando i posti di lavoro che, toh ma che strano, non paiono arrivare malgrado tutte le riforme del mondo.

E la prova migliore di questo disinteresse sta nel modo in cui questo Governo interpreta la spending review.   Nessun Governo “onesto” potrebbe continuare ad affermare di essere capace di eliminare gli sprechi e al contempo rifiutarsi di fare gli investimenti. Ha ragione da vendere, sul Corriere della Sera di martedì scorso, Gerardo Villanacci, quando esclama “è assurdo, e deprimente, rinunciare a realizzare un’opera pubblica solo perché questa insiste su un’area geografica a rischio infiltrazione e corruzione. Se un’opera serve alla collettività, non è inutile ma porta sviluppo, la si fa e basta, nel rispetto delle leggi e della trasparenza”. Soprattutto, lo ribadisco, la fa un Governo che dice dalla mattina alla sera di saper mettere fine agli sprechi come il nostro.

Se non la fa, quest’opera, la ragione è una sola: una motivazione nascosta ed ideologica votata a ridurre il peso del pubblico nell’economia a favore del privato, facendo credere che questi due siano sostituti e che il privato sappia fare tutte le cose meglio del pubblico. Apparentemente non lo pensa nemmeno il settore privato, che in attesa di veder riapparire gli investimenti pubblici (per esempio nel settore dell’edilizia) non si azzarda nemmeno un po’ a investire da solo. Si metta in pace questo Governo: in nessun Paese al mondo che sia prospero e sappia ben utilizzare i denari pubblici “privato” e “pubblico” sono avversari; sono piuttosto alleati strategici per la ripresa e lo sviluppo dell’occupazione e del benessere.

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L’Europa dell’euro di Habermas? Sì grazie ma non troppa.

Il mio commento all’intervista rilasciata dal filosofo tedesco Habermas.

http://bit.ly/1OiztFt

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È difficile fare più danni di così. Eppure il governo tedesco ha fatto questo quando il ministro delle Finanze Schäuble ha minacciato l’uscita della Grecia dall’euro, rivelandosi quindi spudoratamente come il supremo rigorista europeo. In quell’occasione, il governo tedesco ha per la prima volta affermato manifestamente la sua egemonia in Europa -  è comunque così che è stato percepito nel resto d’Europa, e questa percezione definisce la realtà che conta. Temo che il governo tedesco, compresa la sua fazione socialdemocratica, si sia giocato in una notte tutto il capitale politico che una Germania migliore aveva accumulato in mezzo secolo -  e per “migliore” intendo una Germania caratterizzata da una maggiore sensibilità politica e mentalità post- nazionalista“.

Concordo con questa frase del filosofo tedesco. Il passaggio sottolineato: perché Habermas ha sentito la necessità di aggiungerlo? E’ fondamentale quel passaggio.

E’ possibile infatti che Merkel e Schäuble abbiano intenzioni e siano in procinto di attuare strategie verso la Grecia solidari. E’ molto possibile che abbiano ragionato tenendo conto della necessità di fare la faccia cattiva per ottenere l’ok del Bundestag, del Parlamento tedesco, e convincere un’opinione pubblica nazionale oggi avversa ad un accordo e favorevole piuttosto ad un Grexit. Per poi passare invece a deliberare il riscadenziamento del debito greco, su cui le 7 pagine del documento dell’eurogruppo erano rimaste non a caso particolarmente vaghe.

http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2015/07/12-euro-summit-statement-greece/

Ma, come dice Habermas, quello che conta è la percezione, colei “che definisce la realtà”. La percezione che rimane è quella di una Germania onnipotente e onnivora, e nessun accordo “sotterraneo”, per quanto solidale, per esempio sul debito, rimuoverà facilmente questa visione.

E’ questa visione che conta, che ispira i movimenti nazionalisti e populisti a soffiare sul fuoco dell’anti-europeismo e a raccogliere consenso. Essa prefigura la fine, domani, tramite l’unico canale rilevante, quello delle elezioni nazionali, di un’Europa Unita che pare sempre più un miraggio prima ancora che un sogno.

Ed è vero che le responsabilità dei leader tedeschi a riguardo di questa “percezione” sono enormi. Ricordiamo ben altri leader, come Kohl, che con opposizioni nei sondaggi e istituzionali (vedi Bundesbank) ancora più feroci e diffuse di quelle odierne seppero imporre la loro volontà esplicitamente e convincere un elettorato confuso e sospettoso (quello della Germania dell’Ovest) dei vantaggi della solidarietà verso la parte più bisognosa (quella dell’Est).

E a poco serve dire che la Grecia non è la Germania dell’Est: se la Germania vuole l’Unione monetaria non può adoperarsi per metterla a rischio. Altrimenti si decida ed esca essa stessa dall’Unione dell’euro: cosa che evidentemente non vuole fare. Ma nessuno può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Se la Germania vuole l’Unione deve, come per ogni unione, simbolicamente accettarla, abbracciarla.

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Io non capisco come un ritorno agli Stati-nazione da gestire come grandi società di capitali in un mercato globale possa contrastare la tendenza alla de-democratizzazione e alla crescente diseguaglianza sociale, a cui, appunto, assistiamo anche in Gran Bretagna.”

E’ un punto importante, questo di Habermas, una risposta ovvia a chi oggi dice, con ancora più forza di prima dopo la drammatica escalation greco-tedesca, che “euro=austerità” e che il trilemma “euro-democrazia-austerità” da noi forgiato su questo blog (con il quale intendiamo che delle tre cose solo due sono capaci di sopravvivere insieme) è sbagliato. Che bisogna dunque uscire dall’euro per far smettere l’austerità.

http://www.gustavopiga.it/2012/il-vero-trilemma-europeo/

Chi dice questo si illude di trovare al di fuori dell’euro un mondo miracolosamente “democratizzato”, privo di “disuguaglianze sociali”. E come avverrebbe questa magica trasformazione del ranocchio in principe? Non è dato sapere: è ovvio che se non la si sconfigge prima, l’ideologia che impone austerità e liberismo standardizzato, essa permarrebbe pure fuori dall’euro. E che, altra faccia della stessa medaglia, se vi è la forza politica di uscire dall’euro vi è ancor prima quella di liberarsi dall’austerità.

La battaglia è una sola: via dall’austerità tramite l’azione politica, altro che via dall’euro. Vincendo la prima, ti tieni la forza globale unificante di una moneta comune e ridai sviluppo equo ovunque.

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Tali tendenze possono essere contrastate, semmai, solo con un cambio di orientamento politico, portato avanti dalle maggioranze democratiche in un “nucleo europeo” più fortemente integrato. L’unione monetaria deve acquisire la capacità di operare a livello sovranazionale. Alla luce del caotico processo politico innescato dalla crisi greca non possiamo più permetterci di ignorare i limiti del metodo attuale di compromesso intergovernativo“.

Da tempo Habermas fa questo salto illogico, pericoloso, sospetto: che facendo fare un passo ancora più in alto all’Europa si risolvano i problemi in basso. Non è così: la foresta è fatta di alberi, se mancano questi la foresta sparisce. L’Europa politica nascerà solo dalla disponibilità unanime dei singoli Stati a cedere sovranità fiscale. E questo avverrà solo quando ci si sentirà “protetti” maggiormente dall’Europa che non al proprio interno, ovvero quando vi sarà la certezza in ogni Stato che la solidarietà che si è sempre avuta nazionalmente sarà ancora presente a livello europeo. A sua volta questo potrà avvenire solo quando l’Europa si sarà mostrata generosa, in maniera esplicita e convinta. Fino a quando ciò non avverrà, la proposta di Habermas equivale a cedere controllo politico globale a un’entità oggi già dominante, onnipotente e omnivora: la Germania o perlomeno quella che essa è divenuta nell’immaginario collettivo, un orco che mangia la democrazia.

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Il racconto del lunedì piu’ buio della storia europea dal dopoguerra

Oggi il mio articolo sul Tempo.

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Una unione di diversi con una moneta unica come funziona? Forse bisognerebbe chiederlo agli italiani del Nord e del Sud; oppure ai tedeschi dell’est e dell’ovest; oppure ancora agli abitanti del Tennessee e del Massachusetts. A guardarli bene, sono tre casi che si assomigliano alquanto: in ognuno di essi vi è una collettività, marcata geograficamente, che siamo abituati a chiamare più produttiva ed un’altra meno (direi strutturalmente, e non momentaneamente, in ritardo) e in cui la parte “più produttiva” del Paese trasferisce risorse alla parte più debole, che spende queste risorse meno bene di quanto non avrebbe fatto la prima.

Perché non si separano, adottando ognuno la sua moneta, queste “regioni-bozzolo”, tramutandosi in “Stati-farfalla”? Li unisce una voglia di stare insieme che è superiore ai costi evidenti per ognuno: un misto di affinità culturale, lascito storico, ambizione geopolitica di crescita o difesa più efficace.

Va di moda accusare di egoismo ed insensibilità verso “l’altro” i tedeschi. Eppure solo un quarto di secolo fa la Germania Ovest rovesciò sugli improduttivi ed arretrati cugini dell’Est un insieme di risorse che non ha avuto pari nella storia del XX secolo europeo. Il Presidente della Banca Centrale tedesca di allora, Pohl, si oppose alla richiesta di Kohl di procedere ad una unione monetaria basata sul cambio del marco 1:1, ritenuto dal primo troppo generoso verso i più poveri tedeschi orientali senza che questi avessero fatto le “riforme” prima. Kohl non lo ascoltò, esercitò la sua leadership politica, e Pohl finì per rassegnare le dimissioni. La Germania si unì e oggi nessuno più ricorda Pohl, ma Kohl sì, con gratitudine.

Il racconto del lunedì notte più buio della storia europea dal dopoguerra si spiega tutta qui. Nella sconvolgente decisione della Germania – e nel supino e disdicevole silenzio degli altri, Italia in primis – di dire no, un no totale, alla solidarietà verso la parte più debole del progetto comune europeo. La Grecia è condannata a soffrire inutilmente ancora per un po’. Ma non morirà, statene certi.

Chi è morto – per mancanza di leadership – è il futuro di pace europeo dei nostri figli, costruito con sacrificio dai loro nonni.

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“Il Re è nudo, il Re è nudo!” Così urlarono i sudditi

Dovremo per sempre dire grazie alla Grecia per avere preteso di esprimersi democraticamente con il referendum. E per avere forzato l’Europa, di fatto, a fare essa stessa un referendum sulla propria identità.

I toni della scorsa notte tra Ministri delle Finanze (e Mario Draghi) sono stati a volte durissimi. E non solo per ragioni negoziali, che vedevano Schauble deciso a porre la Merkel nella “migliore” posizione negoziale di partenza possibile.  Non solo. Erano durissimi perché la Grecia con la sua decisione irremovibile di indire il referendum, e l’esito dirompente dello stesso, ha forzato tutti a svelare la nudità del re a tutti: ha fatto cessare gli ammiccamenti finti, i silenzi ipocriti, i minuetti di questi ultimi 5 e più anni, l’idea impossibile che si potessero sotterrare per sempre le differenze culturali che da sempre dividono l’Europa e che da sempre la portano a guerreggiare e distruggersi tra nazioni che ne fanno parte. Perché di cultura trattasi: per queste differenze culturali gigantesche, ricordiamolo, abbiamo fatto l’Unione europea, per lentamente rimuoverle, e avvicinarci generazione dopo generazione. Queste differenze culturali che rendono così difficile trovare la politica economica giusta comune per tutti.

Ma è noto che la vita non aspetta mai a metterti di fronte alle tue contraddizioni e debolezze. Così il fato, sì proprio lui, ha voluto che la peggiore crisi economica dell’ultimo secolo (quella partita negli Usa nel 2008) sia avvenuta a soli 10 anni di distanza dall’avvio dell’euro, quando il bambino era più gracile e fragile mentalmente. Ma tant’è. Non ci si può lamentare del fato, c’est la vie.

Prendiamo atto che il referendum greco ha finalmente fatto risuonare le stanze dei tanto ottusi e grigi incontri di Ministri grigi sempre uguali e uguali tra loro, a una vera battaglia di urla e posizionamenti appassionati. Meglio così. Meglio le urla delle bombe, dei campi di concentramento, dei totalitarismi. Qui dovevamo arrivare, questo blog da sempre l’aveva detto che qui dovevamo arrivare, a questo salutare scontro.

Ora, anzi forse tra poche ore, sapremo come è finito il secondo referendum. Vedremo se si parlerà di taglio del debito o meno, l’unica cosa che interessa Tsipras. Vedremo se la gente greca scenderà in piazza e devasterà i Bancomat, se interverrà la polizia con i bastoni, se la Grecia alla fine uscirà. Vedremo poi che cosa succederà in Italia, in Spagna, in Portogallo, in Francia dopo che i suoi cittadini avranno finalmente capito, grazie alla Grecia ed al suo referendum, i vestiti che ha voluto indossare l’Europa: quelli puritani tedeschi o quelli pagani del Mediterraneo o un mix dei due. E speriamo abbiano il coraggio di scegliere democraticamente, come la Grecia, e non abbassare il capo, chino, come un suddito timoroso di dire nulla ad un Re chiaramente e ridicolmente nudo, l’Europa delle regole uguali per tutti e dell’ottusa austerità senza se e senza ma.

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A Little non-Economic History of Europe (and United States)

Some American readers ask me to shed some light on the weird turn of affairs in Europe these days. I thank them for this opportunity. I will ask them to be patient with me if it seems I am taking the long road to get my point through. And one point above all: all what follows has less to do with economic issues and much more with political ones: wear new glasses and proceed to read.

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It turns out that another country, the USA, involved in creating a credible and long-lasting monetary union, handled a similar situation better, much better. By understanding how it worked it out, we might in the process figure out more clearly the reasons of the current standstill.
Some United States financial history is therefore needed, bear with me. One has to travel to more than a century ago, in the first century of the US monetary union, we might call them the “early years” of a United Monetary Union, just like in Europe today: many different states, with very different cultures and beliefs, much larger anyway than today.

So let us go back in time, to … Tennessee, XIX° century, a State certainly neither too rich nor productive, yesterday like today, within the realm of US States. We will go to a specific point in time, when the (US) state of Tennessee was facing tough repayment problems with its public debt, 1872. It will actually take 12 years to sort them out and this is the short tail of what happened and why and how it ended.

To understand why did the problems of Tennessee’s government budgets arise, let us go back even further, to 1850, quite a bit of time before the crisis erupted. Just like many other States of the US, Tennessee launched itself in a heavy program of public investment to sustain productivity in its local economy, mainly through the development of railroads. Differently from other States, however, it goes at it by borrowing money in the market and lending it back to private railroad companies in exchange for collateral such as stock, bonds and contracts of those same companies.
Until 1865 everything runs smoothly: loans were largely well-allocated and the cost of debt was compensated by interest revenues from companies.

Minor parenthesis and a first parallel between Greece and Tennessee: for those who say that Greece has always been an underperforming economy, a shameful black sheep in the honest family of European countries, think again. Indeed, McKinsey reports how between 1999 and 2009 annual productivity growth was: USA +2%, EU +1,1%, Continental EU +1,6%, Southern EU +0,7%, Northern EU +1,6%, Greece +2,4% !

Let us go back to growing-Tennessee. In 1865, suddenly, everything unravels: following the first crisis due to the end of the Civil War and a series of loans to the wrong companies, fraud and corruption, the State of Tennessee finds itself as the owner of valueless paper credit and collateral.
Notice: we are talking about a crisis that is born both from internal mistakes and external circumstances, a parallel that again allows us to compare Greece today (hit by the consequences of the 2007 financial crisis and also by the discovery of its window-dressing of public accounts during the entry in the euro in the early 2000s) and Tennessee then.

Cumulated debt in Tennessee rises to very high levels. All of a sudden, however, between 1872 and 1883, it halves from 40 to 20 million dollars. What had happened?
A default, the State declares it annot repay its debts. Yes, a default, contrary to what happened so far in Greece. Ah ha! A first difference here emerges, you might say. Indeed. How did this default come about? After a lengthy but democratic process.
The Democratic Party of the time – dominant across Tennessee – was divided across two party-lines: the State Credit Wing – favorable to debt repayment to creditors (internal and external to the State) and the Low Tax Wing – favorable to save a heavy burden to local taxpayers. Well, it turns out that taxpayers won and default occurred, with a loss for the creditors, including New York bankers and all those United States citizens that had taken the risk to lend to Tennessee.
The then President of United States, Ulysses Grant, did not care that much for the internal drama of Tenneesseans nor of the markets. He actually did the right thing: leave it up to Tennessee citizens to decide what to do with the debt, even if a potential default would have somewhat endangered the already full pockets of a few rich bankers in the state of New York.

This did not happen in Greece. Europe got involved in the relationship between foreign investors and Greece and decided to contradict its initial constitutional rule of “no-bail out”. It bailed out (reckless?) banks that had lent to Geece at the beginning of the XXI century, and took charge of the Greek debt. All of a sudden Greek creditors from private actors had become European taxpayers.
And European Governents started asking Greece to do all the wrong policies: extreme austerity was ordered from above (something Tennessee citizens would have never allowed then), GDP and employment in Greece collapsed and, guess what, public debt over GDP skyrocketed, making public finances unsustainable.

While you will hear that Greece has done nothing to fix its own problems, one might argue, to the contrary, that it has done too much, following the wrong advice of European creditors. In just 5 years pension cuts amounted to 48%, public employees declined by 25% while the deficit shrank from 15,6% of GDP to 2,5%, and as a result unemployment rose to 27% and the debt over GDP ratio to 180%. Reforms were implemented (Greece rose in the World Bank indicator Doing Business from the rank of 109th in the world to the 61st position), but as we know these take time to change growth performance, while austerity hits immediately and painfully. This is probably why Greeks voted 2 days ago to stop austerity imposed from outside: they knew better than to repeat for a sixth consecutive year the same mistake that had ben forced on the without advantage.

Two additional lessons here are to be drawn for a case, today’s Greek one in the euro area, that looks similar to the case of Tennessee in the XIX century: letting democracy work, however imperfectly, is the only solution that keeps societies united. Intervening from above, with little electoral mandate, is bound to make disaster more likely, as it did in the European case. Much of the desider of Greeks to vote was indeeed due to a sense of political imposition, and how can you think to go ahead without bumps when you are dealing with the country where democracy was created?

Oh, and by the way, let us not forget lesson number 2.
You might have not noticed but it is also true that the thought never crossed the mind of President Grant to “ask” for small and unproductive Tennessee to leave the dollar union, as instead a growing numer of Europeans are today!
He probably knew better than that: as my colleague Prof. Whelan has aptly reminded us for Greece (“pushing the Greek government further than their current position will generate infinitesimally small financial gains for European citizens while risking a Greek exit threatens unquantifiably large potential costs”) the cost of a political disruption would have largely outweighted any small gain for a few rich lenders. He kept Tennessee in the (ultimately) successful project of the US since he was aware of a basic truth: that a union becomes a Union with capital U only when you keep the weakest part of the chain tied to the rest.

But it is never too late: listening to the desires of Greek citizens, who insist in wanting to remain in the euro but at a pace that is compatible with non disruptive and too much an abrupt and painful change, might prove to become the trick that will save Europe and Greece alike. Pushing usa head in the construction of the United States of Europe.
But how can an agreement among countries that seem so stubbornly to resist it come about?
Contrary to what is generally thought, it will be very hard to convince the Germans to reduce the Greek debt. Not because Germans are “selfish”: just 2 decade ago they implemented one of the largest transfer of resources ever made in a country. Yes, to its East German brothers who had just come out of communism. But, indeed, these were brothers, unlike Greeks who are today at most a distant 6-degree cousins.
Now, however, here is the potential miracle of the European Union family: it works opposite to a regular family, where each generations becomes ever more distant: first brothers, then first-degree cousins, then second-degree etc. We have built this European project to make sure that over time each generation gets closer: from cousins of sixth degree to… brothers, maybe the grandson of my grandson will be the brother of the grandson of the grandon of a German citizen of my same age today.
But to arrive there you need … time. United States became a federalized system in the 1930s, following more than a century of slow social convergence where each State was very jealous of its own prerogatives to begin with, not allowing Washington DC to decide how much to spend, how much and what to tax. It took a Civil war, the invention of the train that increased mobility, a First World War that increased the awareness of the USA of being a global power and, finally, a President, FDR, that managed to unite a country in the face of hardship in the 1930s.
Europe is facing the same problems of slow convergence of very different cultures that the USA faced in the XIX century.

So to go back to debt cuts, hard to believe that German will allow a transfer to Greek citizens. But less austerity everywhere, in Germany like in Greece, might have a higher chance of being accepted by all parties. It is not an explicit transfer and it benefits everyone. Lower taxes in Germany (that can be spent in nice vacations in Greece) and higher public investment in Greece that can sustain recovery of competitiveness, will go a long way in restoring growth and hope across all of Europe, and stabilizing at the same time the public finances of the weakest countries.
This is what Greeks voted upon with their NO.

Now only a minor matter remains: agreeing on such measures. The alternative? Letting Tennesse, I mean, sorry, Greece go out of the euro area and the European Union. Of course, formally what I say is incorrect: Greece, even out of the euro, would remain in the European Union, like the United Kingdom (for how long?) or many other Eastern European and Scandinavian countries. But it would remain in a very different position from the latter: as a country expelled from the euro union, not as a country that initially exercised its democratic will not to join it. A difference that will make Greek citizens humiliated and unwanted, and thus cause them to look around, not only in terms of new and different economic policies but also of foreign policy and strategic alliances. It is not science fiction: the democratic and secular Turkey to which only 10 years ago entry into the European Union was refused, humiliated, decided to look elsewhere and has rapidly become a less secular society, much closer to Islam and distant from the West.
Losing Greece in the euro, then, means to risk losing Greece in the Europe, bringing it closer to other geopolitical areas as the Russian one with which it shares, among other things, a greater closeness of religious belief.

After Greece will have gone, somebody else’s turn will come about. Nobody realizes that once the weakest link is let go, another weakest link will take its place and will be attacked by markets and ignored by richer neighbours. What is needed is a Constitution that specifies clearly that when a State is in trouble, in some way the others are going to give a helping hand. Otherwise, why unite? It is this Constitution, different from the current one, that many people, not just the Greeks, are seeking to obtain.

One last thing. When we will look, I hope not, to this disastrous outcome, to a European failure of voting for another Europe of the euro, please do not blame the euro. The single currency will have been just that: a symbol, a mere symbol, of a willingness to stay together for a long-term project. Just like a ring in a wedding. If the marriage does not stand up, do not blame the ring, but the lack of a project based on mutual solidarity and sustainable development. And if the ring slips off, please do not expect the two divorcees to go back living together.

Information on Tennessee taken from “A Financial History of Tennessee Since 1870” by James E. Thorogood

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A different euro Union is possible: why I choose NO

The paradox of this referendum is that it is not clear on what we are really voting. It remains, in the form – and form is substance, as Aristotle said, even more so in a continent where many challenges were judged often on the basis of questionable legal arguments – a referendum on austerity, without any implication for the abandonment of the euro area. It is an important point because it implies an idea in which the Tsipras government has always believed in (and myself too). The idea that we as Europeans can live well, together, within a common currency area like the euro, provided that there are non-austere fiscal policies during difficult times. Add to that the non-minor addendum that it is impossible to stay in the euro with austerity when an economy is affected by major cyclical difficulties, unless an external diktat emerges and one is willing to tolerate its most harmful consequences: high unemployment and the collapse of production.
In substance, however, the Greek referendum will appear, to posterity for those who will study it in a few decades, more than a democratic move, a referendum on democracy itself in Greece. A YES vote for the European package of austerity measures – obtained under the conditioning of fear and external threats exerted more or less covertly by non-Greek politicians and bankers – will have just one obvious meaning, that the policy in Greece is determined outside its own borders, adopting choices that are distant from what is desired by Greek citizens. An outcome that will have an evident contagion effect: it will exacerbate the growth of national populism in all Member States, by exacerbating the anti-European sentiments that are rising everywhere in Europe where the economy is suffering, in the name of a national sovereignty that is not fair to crush from the top. An outcome to which, as a European citizen, I would never subscribe. This is why I would never vote for a YES.
And if the NO prevails? When the referendum result will be studied by historians, what kind of referendum will it prove to have been in the end? It will depend heavily on the dynamics that will be unleashed by the choice of the other European leaders after the outcome of the vote. If “German Europe” (and the ECB that is bound to follow its choice) decided to finally accept the Greek demands, abandoning austerity, we will know that it had been a referendum on the nature of Europe, finally no longer austere but just and equitable, as its founding fathers had imagined. In this unlikely case Europe would owe again to Greece a good part of its reason to exist, finding renewed energy and social cohesion that are the key elements of any successful project of a joint union. This is the only reason, though admittedly based on a faint hope, that pushes me to take sides with the army of NO in the referendum: in this case it would be as if we had voted a strong YES to yet another Europe, launching the contagion of solidarity.
Obviously there is another possible future that awaits us, one in which Germany and the ECB maintain their intransigent position. At that point actually the Greek referendum will prove to have been a referendum on the euro, with the exit of Athens from the common currency. The scars will remain forever on a fragile Europe. This event will be sanctioned by the end of monetary union; and the birth of an agreement of fixed exchange rates between European countries (the dream come true of any perverse speculator, as we know very well from past exchange rate crises in Europe) will turn out to be its most likely consequence. Even in this scenario, just as with the YES vote for austerity, we will see growing populism and demands for greater national sovereignty everywhere that will be hard to resist.
In this case the question of the referendum could also be read, always with the hindsight of history, in another, more subtle, way, such as: “you Greek citizen, do you agree to exit the European Union?” Of course, formally what I say is incorrect: Greece, even out of the euro, would remain in the European Union, like the United Kingdom (for how long?) or many other Eastern European and Scandinavian countries. But it would remain in a very different position from the latter: as a country expelled from the euro union, not as a country that initially exercised its democratic will not to join it. A difference that will make Greek citizens humiliated and unwanted, and thus cause them to look around, not only in terms of new and different economic policies but also of foreign policy and strategic alliances. It is not science fiction: the democratic and secular Turkey to which only 10 years ago entry into the European Union was refused, humiliated, decided to look elsewhere and has rapidly become a less secular society, much closer to Islam and distant from the West.
Losing Greece in the euro, then, means to risk losing Greece in the Europe, bringing it closer to other geopolitical areas as the Russian one with which it shares, among other things, a greater closeness of religious belief.
One last thing. When we will look, I hope not, to this disastrous outcome, to a European failure of voting for another Europe of the euro, please do not blame the euro. The single currency will have been just that: a symbol, a mere symbol, of a willingness to stay together for a long-term project. Just like a ring in a wedding. If the marriage does not stand up, do not blame the ring, but the lack of a project based on mutual solidarity and sustainable development. And if the ring slips off, please do not expect  the two divorcees to go back living together.

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Voto NO

Oggi sul quotidiano Il Tempo

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Il paradosso di questo referendum è che non è ben chiaro su cosa si stia veramente votando. Esso rimane, nella forma – e la forma è sostanza come diceva Aristotele, ancor di più in un Continente in cui tante sfide si sono giudicate spesso sul filo di discutibili argomentazioni giuridiche – un referendum sull’austerità, senza implicazione alcuna per l’abbandono dell’area euro. E’ un punto importante perché sottintende un’idea in cui ha sempre creduto il Governo Tsipras, ed il sottoscritto: che si possa vivere bene tutti insieme all’interno di un’area valutaria comune come quella dell’euro, purché vi siano politiche fiscali non austere durante i momenti di difficoltà e che sia invece impossibile restare nell’euro con l’austerità quando un’economia è colpita da difficoltà cicliche, a meno di un diktat esterno di cui si tollerino le sue conseguenze più nefaste, di alta disoccupazione e crollo della produzione.

Nella sostanza tuttavia il referendum greco apparirà, ai posteri che lo studieranno tra qualche decennio, più che una mossa democratica, un referendum sulla democrazia in Grecia: un voto per il SI al pacchetto di misure austere europee – ottenuto sotto il condizionamento della paura e delle minacce esterne esercitate più o meno velatamente da politici e banchieri non ellenici – assumerà infatti un solo significato evidente, quello che la politica in Grecia è decisa all’esterno dei propri confini, anche distanziandosi da quanto desiderato veramente dai cittadini greci. Un esito che avrà un effetto contagio evidente: esso acuirà la crescita dei populismi nazionali in tutti gli Stati membri, facendo esplodere l’enfasi anti-europea già montante ovunque in Europa l’economia soffre, in nome delle sovranità nazionali che non è giusto vengano schiacciate dall’alto. Un esito a cui, come cittadino europeo, non mi sentirei mai di contribuire nel segreto dell’urna.

E se prevalesse il NO? Quando lo studieranno gli storici, che referendum si rivelerà essere stato in fin dei conti? Dipenderà dalle dinamiche che si scateneranno all’interno del gruppo degli altri leader europei successivamente all’esito del voto. Se l’Europa “tedesca” (e la BCE che la segue) decidessero di finalmente accedere alle richieste greche, abbandonando l’austerità, sapremmo di aver assistito ad un referendum sulla natura dell’Europa, finalmente non più austera ma solidale come chiedevano i suoi padri fondatori. In questa, non certo probabile, evenienza l’Europa si troverebbe a dovere nuovamente alla Grecia una buona parte della sua ragione di esistere, ritrovando quelle energia e coesione sociale che sono al centro di ogni progetto di unione di successo.  E’ l’unica ragione, seppur basata su una flebile speranza, che mi spinge a schierarmi con l’esercito del NO in questo referendum che diverrebbe un forte SI per un’altra Europa, avviando il contagio della solidarietà.

Ovviamente c’è un altro possibile futuro che ci aspetta: uno nel quale Germania e BCE mantengano la loro posizione intransigente. A quel punto effettivamente il referendum greco sarà stato un referendum sull’euro, con l’uscita di Atene dalla moneta comune. Le cicatrici permarranno per sempre sulla fragile Europa: verrà sancita la fine dell’unione monetaria e la nascita di un accordo di cambi fissi tra paesi europei (il sogno perverso di qualsiasi speculatore, come la crisi del 1992 in Italia ha ben dimostrato) è la conseguenza più probabile. Anche in questo scenario, come quello del SI, vedremo crescere populismi e richieste di maggiore sovranità nazionale ovunque a cui sarà difficile resistere.

In questo caso la domanda del referendum potrebbe anche essere letta, sempre con il senno di poi dello storico, in un altro modo, più sottile, ovvero: “volete voi cittadini greci uscire dall’Unione europea”? Certo, formalmente non è corretto quanto affermiamo: la Grecia, anche fuori dall’euro, rimarrebbe nell’Unione europea, come il Regno Unito (per quanto?) o tanti paesi scandinavi e dell’Europa dell’Est. Ma vi rimarrebbe in una posizione diversa da questi ultimi: da paese espulso, non da paese che ha inizialmente esercitato la sua volontà democratica di non entrare nell’euro. Una differenza sostanziale che farà sentire i cittadini greci umiliati e non graditi, e dunque li spingerà a guardarsi intorno, non solo in termini di nuove e diverse politiche economiche ma anche di politica estera e di struttura della propria società. Non è fantascienza: la Turchia democratica e laica a cui solo 10 anni fa rifiutammo l’ingresso nell’Unione europea (malgrado la posizione favorevole dell’Italia), umiliata, decise di guadare altrove ed è rapidamente divenuta una società ben meno secolare e più orientata verso l’Islam di allora. Perdere la Grecia nell’euro significa dunque rischiare di perdere la Grecia in Europa, avvicinarla ad altre aree geopolitiche come quella russa con la quale condivide, tra l’altro, una maggiore vicinanza di credo religioso.

Un’ultima cosa. Quando guarderemo, spero di no, a questo disastroso esito, a questo fallimento europeo di votare per un’altra Europa dell’euro, per favore non diamo la colpa all’euro. La valuta unica sarà stata solo questo: un simbolo, un mero simbolo, di volere rimanere insieme per un progetto di lungo periodo, come un anello in un matrimonio. Se il matrimonio non si regge in piedi, non colpevolizzate l’anello, ma la mancanza di un progetto volto a costruire un percorso comune fatto di solidarietà reciproca e sviluppo sostenibile. E se l’anello si sfila, non aspettatevi nemmeno che i due divorziati continuino a vivere assieme come prima del matrimonio.

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La disfatta europea per un europeista dell’€

La mia intervista a Formiche di ieri.

Di chi sono le responsabilità di questo braccio di ferro? Quali le conseguenze sul progetto europeo? E quali scenari si aprono adesso?

Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con l’economista Gustavo Piga, professore ordinario di Economia politica presso l’Università di Tor Vergata a Roma.

Professore, quali sono le colpe di Berlino e del Fondo Monetario Internazionale nella crisi greca?

Diverse. In primo luogo l’idea di imporre riforme identiche a tutti i Paesi, indipendentemente dalla loro cultura e dalle loro caratteristiche di partenza. Poi nel 2010 c’è stato il clamoroso errore di non costringere la Grecia a risolvere faccia a faccia, all’interno, il problema con i suoi creditori privati. E nel 2012 si è preferito invece estendere la questione scaricandola sul pubblico, ma imponendo ad Atene condizioni che mai avrebbe potuto sostenere. Se a questo si aggiunge che la Lagarde (che si sta giocando un rinnovo del mandato) subisce la pressione dei Paesi emergenti che si lamentano che alla Grecia venga prestato denaro senza troppe premure, tutto si chiude. Forse è utile ricordare che anche gli Usa hanno vissuto svariati casi simili a quello greco, ad esempio quello del Tennessee nel 1870. Allora il presidente degli Usa si rifiutò di intervenire e disse allo Stato di risolvere da sé la questione con i suoi creditori (i mercati di New York). Il Tennessee scelse democraticamente il default, ma nessuno mai si sognò di chiedere la sua uscita dagli Stati Uniti, perché era ben chiaro a tutti quale fosse il progetto di lungo periodo e l’importanza che alcuni segnali, come la perdita di un pezzo di Unione, potevano avere sulla coesione dei restanti pezzi. Qui sta accadendo esattamente il contrario.

Da cosa dipende questo atteggiamento?

Le istituzioni dell’Unione non sono forti, quindi il dolore greco non arriva a Strasburgo. Gli eletti polacchi, per fare un esempio, non devono rendere conto all’elettorato greco. Questo fa sì che ogni Paese agisca secondo logiche personalistiche, che non tengono più conto dell’idea per cui è nata l’Ue, ovvero che l’unione fa la forza. Effetto non secondario di ciò: come pensiamo di sederci allo stesso tavolo con Usa e Cina, se procediamo in ordine sparso?

Cosa dovrebbe preoccupare maggiormente?

Siamo di fronte a un momento storico di crisi, di profondo cambiamento verso l’ignoto. Bisogna essere ben consci di quello che sta accadendo. L’Europa rischia di dare vita per l’ennesima volta a una fase buia della sua storia, e proprio di nuovo partendo da una crisi finanziaria. L’Ue nacque soprattutto per sanare una volta per tutti il rapporto tra debitori e creditori nel Vecchio Continente, rapporto che aveva di fatto portato all’ascesa di Hitler ed alla seconda guerra mondiale a causa del trattamento ricevuto dalla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. Il senso del progetto europeo era legarsi per stare insieme, e questo l’euro lo rendeva altamente possibile, e discutere allo stesso tavolo. Oggi si sancisce il fallimento di questa idea. Si torna ad esaltare al massimo la singolarità delle culture nazionali, dimenticandoci di progredire lentamente ma inesorabilmente verso l’unione culturale, ma si assiste contemporaneamente a un calo impressionante della qualità della leadership in Europa. Manca la visione che invece avevano i Padri fondatori dell’Ue, disposti a sacrificare ognuno qualcosa per un progetto più ampio.

Alexis Tsipras non ha alcuna responsabilità in questa situazione? E che ne pensa del referendum annunciato?

Qualcuno dice che Tsipras abbia fatto peggiorare lo stato dell’economia greca in un momento in cui andava già male. Se ciò è vero non lo sapremo mai. Quel che sappiamo per certo è che Tsipras ha ricevuto l’ordine di applicare l’ennesima ricetta lacrime e sangue di austerità che non solo ha prodotto nessun risultato negli scorsi 4 anni, ma che sarebbe andata anche contro il mandato dei suoi elettori. Detto ciò, il referendum è l’unica arma di breve periodo nelle sue mani per non far cadere tutto, compreso il suo governo.

Quali sono gli scenari della consultazione?

Se vincerà il sì a favore dei creditori prenderemo atto di trovarci di fronte a una nuova Grecia, che verrà probabilmente travolta dall’austerità. Se invece vincerà il no, senza l’aiuto della Bce, che non può comunque far scelte diverse rispetto a quanto stabilito dalla maggioranza dei Paesi, è difficile che la Grecia possa fare default senza lasciare l’euro.

Che cosa può succedere ora?

Può accadere di tutto, l’Ue non è mai stata così debole. Per pochi spiccioli si affonda un progetto di tale importanza come quello europeo. Bisognerebbe guardare all’Europa in termini non solo ragionieristici, ma anche politici. Di certo, da ieri credo che un’uscita dalla Grecia dall’euro sia più facile. Uno scenario a cui dovrebbe guardare con estrema preoccupazione anche il nostro Paese.

L’Italia è a rischio contagio?

Sbaglia il nostro Ministro dell’Economia a limitarsi ad affermare che non vi sarà contagio ed a non essersi schierato con la Grecia per paura del contagio. Non bisogna dimenticare che c’è sempre un Sud, perché l’Europa, come ricordava Jean Monnet, è una somma di diversità. Fatta fuori la Grecia, di chi sarà poi il turno?

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Il cinghiale greco, il cavallo italiano ed il cacciatore tedesco

IL CINGHIALE, IL CAVALLO E IL CACCIATORE Esopo
Un cinghiale e un cavallo andavano a pascolare nello stesso posto. Ma il cinghiale calpestava continuamente l’erba e intorbidiva l’acqua al cavallo, il quale, per vendicarsi, chiese aiuto al cacciatore. Questi gli rispose che non poteva far nulla per lui se non si lasciava mettere il morso e le briglia e non lo prendeva in groppa. Il cavallo acconsentì a tutte le sue richieste. Allora il cacciatore salì sul cavallo, uccise il cinghiale, ma poi condusse il cavallo nella stalla e lo legò alla mangiatoia.

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Al termine del mio intervento (il lettore può accedervi su http://yanisvaroufakis.eu/2015/06/28/as-it-happened-yanis-varoufakis-intervention-during-the-27th-june-2015-eurogroup-meeting/, testo in inglese, NdR) il Presidente dell’Eurogruppo (Jeroen Dijsselbloem, NdR)con l’accordo degli altri Stati membri – ha rifiutato la nostra richiesta di un’estensione, ed ha annunciato che l’Eurogruppo avrebbe prodotto un comunicato attribuente la responsabilità di questo arresto delle trattative alla Grecia e suggerente che i 18 ministri (ovverosia i 19 ministri delle Finanze eccezion fatta per quello greco) si sarebbero riuniti poco dopo per discutere del come proteggersi dai danni conseguenti.

A quel punto ho chiesto aiuto legale dal segretariato per capire se un comunicato dell’Eurogruppo poteva essere effettuato senza la convenzionale unanimità e se il Presidente dell’Eurogruppo poteva convocare una riunione senza invitare un Ministro delle Finanze di uno Stato membro dell’eurozona. Ho ricevuto la seguente straordinaria risposta: “l’Eurogruppo è un gruppo informale. Dunque non è legato a Trattati o regolazioni scritte. Benché l’unanimità è convenzionalmente richiesta, il Presidente dell’Eurogruppo non è legato a regole esplicite”.”

Yannis Varoufakis, Ministro delle Finanze greco (mia traduzione).

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E così l’Italia ha accettato di lasciare fuori la Grecia da un incontro tra Stati membri, dopo non aver fatto nulla in questi mesi per fermare questo clamoroso fallimento europeo.

Lo ha fatto ovviamente per non essere confusa con la misera Grecia, per evitare il … contagio.

Ma così facendo ha accettato di legarsi per sempre, supina, al cacciatore. Il pascolo e l’acqua di cui godeva non saranno più suoi. Un giorno i libri di storia giudicheranno -oltre ai Don Rodrigo ed i suoi bravi – i Don Abbondio che fecero morire l’Europa. Statene certi.