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Greece Robbed of what it Earned with its Blood for Europe

It is not even funny. Not one bit.

““Woman’s Head”, a 1939 oil on canvas, had been given by Picasso to the Greek state in 1949 in recognition of the country’s resistance to Nazi Germany, the police said in a statement.”

This news has the theatrical flavor of absurdity.

 

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Da Raphael Rossi a quella domanda pubblica di consulenze che purtroppo vietiamo

La storia di Raphael Rossi è fuori dal comune. Chi la vuole percorrere nella sua interezza riveda Report di allora.

Oggi Rossi è nuovamente e maggiormente al centro della bufera dopo la sua nomina a Presidente presso Asia azienda raccolta rifiuti di Napoli, e il suo abbandono pochi mesi dopo una controversia con il Consiglio comunale di Napoli. Accusato da alcuni, ha visto bene di difendersi in tempo reale, rinviando correttamente le spiegazioni là dove si è aperta una inchiesta.

Qui vorrei aprire però una finestra laterale sulla questione. Avrete notato come parte delle accuse/diatribe/illazioni/fandonie su Rossi riguardino il fatto che abbia dato delle consulenze. Delle consulenze vorrei parlare. Delle consulenze nella Pubblica Amministrazione.

In Italia hanno un connotato negativo. Sono considerate tangenti. E’ una idiozia totale, come fa capire anche Rossi nella sua replica. Servono eccome, le competenze specifiche per la P.A. che non sono spesso disponibili all’interno della P.A. e che non significano per nulla che la P.A. non funzioni, ma semplicemente che non ha bisogno permanentemente di certe competenze o che non può spendere permanentemente quelle risorse per ottenere servizi qualificati.

In tutto il mondo le Pubbliche amministrazioni domandano servizi di consulenza per migliorarsi. Nel fare ciò si ottiene un ulteriore vantaggio a livello di sistema Paese: si crea una domanda pubblica per servizi di consulenza che crea una forte industria nazionale che riuscirà ad imporsi col suo export, generando ricchezza e occupazione. In questo modo in Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti sono nate grandi multinazionali delle consulenze. Case di consulenze che sono le vere Sette Sorelle del mondo occidentale del XXI° secolo, che aiutano le loro imprese nazionali ad ottenere lavoro all’estero, scatenando un virtuoso e sofisticato schema di successo come Sistema Paese.

Ma tant’è. Con tutto l’ingegno che abbiamo in Italia, con tutta la necessità che abbiamo, per resistere alla crescente concorrenza asiatica sul manufatturiero, di essere forti sui servizi, vietiamo o rendiamo la vita impossibile a chi desidera consulenza nel settore pubblico. I dati parlano chiaro, per esempio, li traggo dall’ultimo rapporto Assoconsult sul Management Consulting:

… questo quadro pone l’Italia come fanalino di coda, assieme alla Spagna, rispetto ai paesi dell’Unione Europea analizzati dalla ricerca FEACO – Federazione Europea delle Associazioni di Management Consulting (ovvero Germania, UK, Francia, Spagna e Italia); in Italia il contributo del Management Consulting al PIL è pari allo 0,20% rispetto a 0,74% in Germania, 0,61% nel Regno Unito e 0,32% in Francia.

Il PIL che perdiamo è dovuto al fatto che in Italia non si sta sviluppando un’azienda forte della consulenza. E il divieto e la strumentalizzazione che si fa del consulente nella Pubblica Amministrazione deprime un mercato strategico.

Certo che parte della corruzione in Italia passa per i contrattini per gli amici, e allora? Vogliamo buttare il bambino con l’acqua sporca solo perché facciamo finta di non avere gli strumenti per identificare quali contratti di consulenza sono veri e quali sono finti? Allora vogliamo bloccare tutte le autostrade d’Italia e le loro manutenzioni? O vogliamo piuttosto finalmente fare esplodere la domanda pubblica di consulenze, mettere al lavoro e far crescere tanti giovani che escono dalle università con migliaia di idee per come migliorare la P.A. facendo nel contempo crescere le loro aziende, e mettere invece la Corte dei Conti e chi deve farlo alla ricerca della vera qualità nelle forniture di beni, lavori e servizi senza per questo vietarla a priori?

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Dal nostro banchiere Gerontius all’ex banchiere Passera

Riceviamo volentieri pubblichiamo questa lettera del nostro banchiere Gerontius

Gli analisti economici prevedono una caduta dell’uno per cento del GDP (PIL, ndr) per l’area dell’euro nel 2012. La seconda e la terza economia di questa zona, Francia e Italia, sono in recessione. Gli indicatori economici della Germania a dicembre davano qualche segnale positivio, ma se il resto dell’area non cresce anche la Germania ha poche possibilità di ripresa.

Nel frattempo la Signora Merkel predica la dottrina dell’austerità fiscale e delle sanzioni economiche  per quelli che non seguono le regole. Sarkozy gli fa il controcanto puntando ad un nuovo trattato per fissare regole fiscali più stringenti. Il Prof. Monti va avanti con le sue riforme dal lato dell’offerta sperando per questa via di riguadagnare  credibilità e abbassare il famigerato spread. Che ben vengano le liberalizzazioni dei servizi pubblici e delle professioni o l’introduzione del contratto unico nel mercato del lavoro, ma questi provvedimenti da soli non possono farci uscire dalla crisi. La ripresa economica passa attraverso l’aumento della domanda aggregata, consumi ed investimenti. Se non aumentano questi aggregati, gli investitori punteranno sulla  liquidità, i prezzi degli assets rimarranno depressi e gli spread elevati. La dottrina dei due tempi, sposata dai leader delle tre maggiori economie europee, prima si mettono a posto i conti pubblici poi si pensa alla crescita, semplicemente non funziona. I conti pubblici si possono aggiustare solo se l’economia riprende.  E l’economia riprende solo se si fanno politiche di stimolo della  domanda. I nostri però non vogliono ascoltare questa campana. La storia come sempre ripete se stessa. I nostri leader sembrano voler ripercorrere gli errori commessi dal presidente americano Herbert Hoover che si rifiutò nel 1930 di creare deficit di bilancio per finanziare politiche di welfare o quelli del cancelliere tedesco Heinrich Bruning che negli stessi anni perseguì una politica fallimentare di austerità fiscale. Alle politiche fallimentari di Hoover pose rimedio il più illuminato Roosevelt. Il fallimento politico di Bruning invece aprì le porte al nazionalsocialismo di Hitler. E’ interessante osservare che né il repubblicano Hoover, né Bruning  erano fermi assertori di politiche di lassairfaire, ne erano contrari in principio all’intervento pubblico nell’economia, ma su un punto erano intransigenti: il rigore fiscale ed il pareggio di bilancio! Potrà forse sorprendere ma anche  Keynes era un assertore del bilancio dello stato in pareggio quando l’economia si trova sul sentiero di crescita di piena occupazione, anzi Keynes si spingeva anche oltre ritenendo che nei momenti normali lo Stato dovesse perseguire addirittura una politica di avanzo di bilancio. Ma al contrario di Hoover e Bruning,  riteneva che di fronte a recessioni persistenti,  quando l’economia non mostra di ritrovare l’equilibrio di piena occupazione attraverso i suoi meccanismi di autoaggiustamento, si dovesse mettere in piedi politiche di stimolo senza curarsi del deficit di bilancio.

Saremmo felici di essere smentiti, ma temiamo che mettere al centro della questione economica da parte dei leder delle più grandi  economie europee il rigore fiscale e non la crescita economica ci possa condurre verso uno stato di severa depressione economica e forte instabilità finanziaria data anche la  estrema fragilità in cui si trova il sistema bancario europeo, il cui esito finale potrebbe essere la disintegrazione dell’euro e la balcanizzazione dell’Europa. Un esito del quale i nostri leader credo non vorrebbero mai assumersi la responsabilità.

Mettere al centro la crescita economica significa cambiare rotta sul piano della politica fiscale individuando soluzioni di stimolo della domanda. Una soluzione possibile è quella di un piano triennale di investimenti in infrastrutture, trasporti ed energia rinnovabile per i paesi dell’area dell’euro. Una opportunità per rinnovare e ampliare strade, reti ferroviarie, porti ed interporti e potenziare le attuali capacità di produrre energia rinnovabile. Può essere fatto con un minimo di dispendio per le finanze pubbliche utilizzando principalmente fondi privati. Deve essere almeno pari a 300 miliardi di euro, circa il 3% del GDP (PIL) dell’eurozona e può essere finanziato attraverso l’emissione di project bonds. Un ruolo centrale può essere giocato dalla BEI sottoscrivendo le tranches piu rischiose di questi bonds, mentre le tranches meno rischiose possono essere sottoscritte dai fondi  pensione dei paesi europei, dalle assicurazioni e dagli investitori istituzionali internazionali. L’impegno finanziario degli stati per un piano del genere è minimo. Si tratta eventualmente di ricapitalizzare le BEI per sostenere  nuovi impegni finanziari. Molti dei progetti sono già pianificati, altri devono essere individuati.

Gerontius

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Chiudiamo l’appello. Ma non la battaglia per discutere apertamente dello stupido Patto.

Chiudiamo qui la raccolta firme per l’appello al Presidente del Consiglio Mario Monti sulla richiesta di attivare l’eccezione al Trattato – per una grave recessione – al raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013. Siamo giunti a 177 firme ed in calce vedrete i loro nomi. Persone a cui devo un ringraziamento enorme per essere riusciti, “affidando” il loro consenso, a sollevare dubbi, interrogativi, dibattito all’interno del Paese sulle modalità di politica fiscale europea. Un grazie anche a qualche giornalista che ci ha seguito ed incoraggiato.

Che la conoscenza dei fatti, la trasparenza, il dibattito aiutino le democrazie ed i Governi a migliorarsi è vero ovunque ma è specialmente vero per questa Unione europea la cui crisi è in parte dovuta a mancanza di trasparenza passata e a cattiva gestione della politica fiscale, ambedue elementi che spaventano i mercati e mantengono svantaggiose le condizioni del credito agli emittenti sovrani.

Aggiungo già che ci sono che mi è stata segnalata la presenza del testo della bozza sull’accordo fiscale su un sito italiano, con tanto di emendamenti parlamentari. Lo potete scaricare qui, certo della sua veridicità, data anche la qualità dell’istituzione che lo pubblica, anche se non sono al corrente della sua attualità. Rimango sbigottito del come versioni di questioni così importanti per il nostro futuro come la nostra futura Costituzione europea vengano allegramente rese disponibili qui e lì, ma non ufficialmente.

Comunque sia dal testo noterete per esempio che all’art. 4 viene effettivamente proposta una riduzione del debito pubblico per l’Italia delle dimensioni da noi annunciate (3% del PIL ogni anno per l’Italia) e vedrete anche gli emendamenti proposti dal Parlamento europeo che supportano una visione più benigna dell’aggiustamento fiscale richiedendo di tenere conto del ciclo economico. Resta (a mio personalissimo avviso) un Patto stupido che non centra le esigenze di sviluppo e solidarietà dell’area richieste anche dai mercati che vogliono vedersi materializzare una vera Unione fiscale e non un manuale per monelli che non rispettano le regole con tanto di punizioni per aver rubato la marmellata.

Bene che il Presidente Monti si stia dando da fare per andare nella stessa direzione del Parlamento europeo. Fosse stata coinvolta più ampiamente la popolazione italiana in questo dibattito sono certo che il Presidente sarebbe volato in aereo  a Bruxelles con dietro la aggiunta forza di milioni di persone che lo supportano completamente su questo fronte. Ma tant’è. Speriamo che la voglia dei cittadini di partecipare continui. E’ quello di cui la vecchia Europa ha bisogno per tornare giovane e vogliosa di imporsi con i suoi valori nell’arena mondiale.

Grazie a:

ELEONORA ARIENZO, PIER FRANCESCO ASSO, ALBERTO  BAGNAI, GUSTAVO BARATTA, ORAZIO BASSANO, NEREO BENUSSI, LUIGI BERNARDI, GIAN MARIA BERNAREGGI, ALESSANDRO BERTI, MARTA BEZZINI, SALVATORE BIASCO, PIERO BINI, ROBERTO BISCARO, CHIARA BISOGNO, LETIZIA BORGOMEO, SIMONE BORRA, AURELIO BRUZZO, ANTONELLA BUCCI, STEFANO CAIAZZA, MICHELE CANALINI, RICCARDO CAPPELLIN, ALESSANDRO CAPRASECCA, CESARE CARASSITI, ENRICA CARBONE, MARIA ROSARIA CARILLO, RAFFAELE CARUSO, SABRINA CASSAR, MARIO CASSETTI, ANNALISA CASTELLI, MARCO CECCHINI, MARCO CIANFANELLI, ROCCO CICIRETTI, DANIELE CIRAVEGNA, RICCARDO COLANGELO, LILIA COSTABILE, BRUNO COSTI, DOMENICO DA EMPOLI, GIUSEPPE DE ARCANGELIS, SERGIO DE NARDIS, GIORGIO DALLE, FABRIZIO DE FILIPPIS, PASQUALE DE MURO, ROBERTA DE FILIPPIS, SERGIO DE STEFANIS, CARLO DEIDDA, INA DHIMA, GABRIELLA DI CAGNO, CLAUDIO DI LAZZARO ANTONIO DI MAJO, MATTEO DI PAOLO, ANDREA DI PASQUALE, AMBRA DI TOMMASO, NICOLA DIMITRI, GIOVANNI DOSI, MARTA FANA, SALVATORE FANA, NICOLA FAVIA, GIUSEPPE FIORE, DAMIANO FIORILLO, MASSIMO FLORIO, GUGLIELMO FORGES DAVANZATI, MAURIZIO FRANZINI, FABIO FRATERNALI, MICHELE FRATIANNI, GIANCARLO GANDOLFO, PATRIZIA GARDELLA, GIUSEPPE GAROFALO, ANDREA GHISELLINI, ADRIANO GIANNOLA, CARLO GIANNONE, MATTEO GIANOLA CARINI, ERGIO GINEBRI, IGNAZIO GIURDANELLA, PATRIZIO GRAZIOSI, ELENA INNOCENZI, STEFANO INTINI, STEFANIA JACONIS, BRUNO JOSSA, SIMONE LAMBERTINO, RICCARDO LEONI, GABRIELLA LIGGIERI, FRANCO LO SURDO, ERNESTO LONGOBARDI, ANTONIO LOPES, JACOPO LOREDAN, FRANCESCO LUCAT, PATRIZIA MACCARI, ANNA MAFFIOLETTI, ALFREDO MANZO, DARIO MARESCA, MARIA LUISA MARINELLI, VERONICA MAROTTA, LIVAN MARRANZINI, DOMENICO MARRAZZO, PATRIZIA MARTA, ROBERTA MARTA, SIMONE MARTINELLI, ANDREA MARTINO, RAINER MASERA, PIETRO MASINA, SIMONE MERAGLIA, MARIA MESSINA, MARIA AUGUSTA MICELI, MAURIZIO MISTRI, MARIA ROMANA MONGIELLO, GIOVANNI NEGRI, ANTONIO NICITA, FERDINANDO OFRIA, STEFANO OTTOCENTO, FABRIZIO PADUA, PAOLO PAESANI, FRANCESCO PALUMBO, SERGIO PARRINELLO, RICCARDO PATERNO’, ANTONIO PEDONE, GIUSEPPE PENNISI, MAURO PERGOLESI, STEFANO PERRI, PAOLO PESCUCCI, ELISABETTA PETRINI, PAOLO PETTENATI, HELGA PINNA, MATTIA PREZZI, PAOLO PIACENTINI, MASSIMILIANO PIACENZA, ALESSANDRO PIERGALLINI, GIOVANNI PIERSANTI, EMANUELE PIMPINI, ANTONELLA PISANO, GIOVANNI PITTALUGA, MARCO POLIDORI, PIERLUIGI PORTA,  FIORELLA POTENZA, MATTIA PREZZI, PAOLO PREZZI, ROBERTO RACE, FABIO RAVAGNANI, PIERCARLO RAVAZZI, ANGELO REATI, MARA RENZI, ANDREA RESTA, LUIGI RICCI, EVELINA RIZZO, LORENZO ROBOTTI, STEFANO ROCCHI, VIRGILIANA RONDINARA, ENZO ROSSI, VINCENZO RUSSO, LUCA SALVATICI, DOMENICO SARNO, DOMENICO SCALERA, GIOVANNI SCARANO, GIULIO SCARDINI, MARIO SEMINERIO, SERGIO SGARBI, ELIDE SORRENTI, FABIANO SPEDICATO, ARSENIO STABILE, FABIO MASSIMO STORER, ROBERTO TAMBORINI, VALTER TANZI, RENATA TARGETTI, NOEMI TEMPESTA, DANIELA TESSARO, MARIO TIBERI, TEODORO DARIO TOGATI, CHIARA TRANQUILLI, CORRADO TRUFFI, GIOVANNI VAGGI, ALBERTO ZANARDI, GIORGIO ZINTU, NICOLA ZOCCO, MARCO ZUCCONI.

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Riforme da fare e controllare tutti insieme e senza scordare la (maggiore) spesa pubblica

Interessante lavoro uscito dalla prestigiosa collana dei temi di discussione della Banca d’Italia.

Che si chiede: cosa succederebbe all’economia tedesca (ma immaginiamo che risultati simili potremmo ottenere per un’economia altrettanto grande, come quella italiana) se nei prossimi 5 anni mettesse a regime una riforma del suo settore terziario (settore meno concorrenziale rispetto al proprio manifatturiero ma anche rispetto al settore dei servizi del resto del mondo extra-euro) e  una riforma del mercato del lavoro, capaci di ridurre l’una i prezzi dell’output e l’altra i costi degli input? E cosa succederebbe se queste riforme avvenissero invece che in un solo Paese in tutti i paesi dell’area dell’euro simultaneamente?

Di fatto la Germania questa cosa qui l’ha già fatta. Ma val la pena esaminarne l’impatto per vedere la bontà della loro analisi e poi immaginarlo comunque per il futuro per l’Italia.

Caveat: come tutti gli studi, contiene assunzioni forti. Per esempio, prescinde dal fatto che siamo in una recessione dove le riforme possono funzionare più lentamente e con maggiori ostacoli. Inoltre ritiene che i consumatori credano completamente che la riforma avrà successo negli anni a venire. In ultimo, non guarda ai problemi distributivi che si potrebbero creare tra classi diverse di vincenti e perdenti. Immaginiamolo dunque, il loro studio, come “il miglior mondo possibile” che potremmo ottenere con tali riforme con tanto ottimismo.

In grassetto trovate alcuni loro risultati, mentre sotto vengono riportate le mie interpretazioni, che non necessariamente coincidono con quelle degli autori.

Risultato numero 1. Muoversi sul sentiero della riforme senza aspettare gli altri paesi fa bene all’economia nazionale.  Pochissimo fa alle altre economie dell’area dell’euro, ma si creano divergenze negli andamenti delle bilance commerciali.

Detto con altre parole. La Germania ha fatto (in parte) le riforme, bene gli ha fatto, ma ciò ha esasperato gli squilibri di competitività, ricchezza, bilancia commerciale.

Detto in altre parole ancora. Se l’Italia facesse le riforme da sola andremmo pian piano a risolvere questi squilibri di competitività.

Detto in un terzo modo. Se invece di essere stati per l’ultimo a decennio a controllare il pelo nell’uovo (il mio deficit pubblico sul PIL è 3,1% , oh mio Dio, come faremo! Il tuo deficit sul PIL è 3,43% oh mi spiace ma ti devo punire! e tutti i trucchi contabili a ciò legati) meglio avremmo fatto ad impegnarci seriamente a controllare che tutti facessimo le riforme assieme. Anche perché ….

Risultato numero 2. Fare le riforme assieme ha un impatto economico ben maggiore ma, soprattutto, evita gli squilibri commerciali.

E dunque, avrebbe evitato la crisi dell’euro. Avete detto poco.

Risultato numero 3. Il primo anno il PIL cala perché i consumatori rinviano il  consumo a quando le riforme dispiegano i loro effetti. L’effetto pieno delle riforme si ottiene entro 7 anni. Ed è pari alla fine a circa l’8% in più del PIL.

Dunque le riforme fanno bene ma non aspettiamoci che siano loro a salvarci nei prossimi mesi o nei primi anni successivi alle riforme. Ci vuole ben altro per salvare l’euro. Ma le riforme creano spazio fiscale aggiuntivo per maggiore spesa pubblica senza debito.

Risultato numero 4. Sale sempre l’occupazione mentre i salari reali crescono solo nel caso delle riforme del settore dei servizi ma non nel caso di riforma del mercato del lavoro, in cui diminuiscono.

Questo rende ottimale iniziare prima dalle riforme dei servizi e solo successivamente con la riforma del mercato del lavoro così da sostenere i salari durante il processo di riforme.

Quindi, riassumendo (Piga, non gli autori del saggio).  Monti si attivi per le riforme, non aspetti che esse abbiano effetto subito e dunque faccia ripartire la domanda tramite maggiore spesa pubblica non finanziata in deficit e chieda che nel Fiscal Pact le penalità siano per chi non fa le riforme e non per chi non raggiunge irrilevanti criteri di debito o deficit pubblico.

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La Befana ed i suoi doni ci porteranno fuori dalla recessione

La festa della Befana nasce come celebrazione pagana del femminile e della fertilità, Madre Natura. A gennaio, “ormai vecchia e rinsecchita, era destinata a morire per poi rinascere giovane e bella”. Nel tempo, l’elemento della bruttezza diede ambivalenza a questa festa, esaltandone anche l’elemento misogino della stregoneria.

Non pare sia facile scrollarsi anche oggi da questa ambivalenza. In nessuna società al mondo. Ricerca fatta nella Tanzania rurale, ci ricorda l’economista Esther Duflo del prestigioso MIT di Boston, mostra come durante periodi di raccolti cattivi con poco cibo l’omicidio di “streghe” (quasi sempre vecchie donne) è due volte più probabile che in anni di raccolto normale. E’ anche vero che le cose possono cambiare. Con la crescita economica si sono sviluppati strumenti per ridurre l’impatto dei periodi dei cattivi raccolti. In Sudafrica, alla fine del periodo di apartheid nei primi anni novanta furono introdotti programmi pensionistici per tutti (prima erano riservati solo ai bianchi). Da allora l’uccisione di “streghe” è drasticamente diminuita. Ma c’è di più. La Duflo ha mostrato che le ragazze che vivono con una nonna che ora riceve una pensione pesano di più rispetto alle ragazze con una nonna che non riceve ancora la pensione e soprattutto che raggiungono un’altezza maggiore a causa del migliore nutrimento. Al contrario questi effetti non si trovano se la pensione è ricevuta da un uomo.

Ci sono due storie in una, in questi esempi. Lo sviluppo economico aiuta le donne ad ottenere più diritti (non essere uccise come streghe) e maggiori diritti alle donne permettono maggiore sviluppo per l’economia (l’altezza delle bambine).

La Duflo è anche attenta a non idealizzare questa relazione: aiutare le donne, sostiene, spesso sposta le preferenze sociali verso quanto da esse desiderato. A volte ciò si rivela ottimo per la società, a volte inutile. Per esempio, dare più potere politico alle donne nei comuni mostra come le gare di appalto si spostino dalle “strade” al “miglioramento della qualità dell’acqua”. Anche quando poi si dimostra che l’acqua era perfettamente potabile e forse ci sarebbe stato maggior bisogno di strade.

Torniamo a casa nostra dove parlare della questione del femminile non è inutile. E le analogie con quanto sopra abbondano. La recessione italiana va combattuta anche perché il mercato del lavoro tende a far uscire da esso prima i “più deboli”, giovani e donne, appunto. Strumenti generali (politiche fiscale espansive) e specifici (il telelavoro) possono combinarsi. Ma c’è anche da lavorare su di un ritardo rosa che ci caratterizza come pochi altri paesi occidentali.

Claudia Olivetti, nostra valente ricercatrice a Boston University, in un bellissimo lavoro mostra come guardando all’Italia nella sua interezza il nostro problema di discriminazione uomo-donna, contrariamente per esempio ai paesi scandinavi, sta non tanto nel fatto che i salari uomo-donna sono diversi quanto che lo sono le possibilità occupazionali. In realtà, usando la lente d’ingrandimento e guardando alle situazioni regionali vediamo una notevole differenza tra un centro-nord italiano, simile ad un mondo  scandinavo dove il problema al femminile è quello della differenza salariale, a un centro-sud dove invece il problema rispetto agli uomini è decisamente occupazionale. Addirittura in Sicilia i salari sono in media più alti per le donne: quelle poche che lavorano sono talmente brave che in media sono più pagate degli uomini.

E’ importante sapere dove si annidi la causa del gap di genere: a poco servirebbero per la Sicilia politiche volte a garantire uguaglianza salariale e molto di più potrebbero politiche volte a ridurre il costo di ingresso nel mercato del lavoro (part-time, asili nido ecc.).

Comunque sia. La Befana è fonte di doni. Trattiamola bene e vedrete che questi tanti doni (non il carbone!) aumenteranno la nostra felicità e ci aiuteranno a uscire dalla recessione.

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Women and empowerment on the Befana day

We Italians celebrate every 6th of January the Befana, that ugly looking lady smiling on the picture to your left, taken by Trisha. She has other names, the Befana. Frau Holle or Frau Berchta, in Germay. The witch Posterli, in Switzerland. Its tradition comes from pagan celebrations, through which one used to celebrate fertility, Mother Nature and the feminine. In January, old and bare, Mother Nature’s fate is death and rebirth, awaiting Spring time.

Female and witch. A complex and ambivalent vision that is still present in modern society, where gender discrimination goes often hand in hand with an increased role in society for women, that generates new opportunities for all. You don’t believe me?  Esther Duflo, economist at MIT, in her beautiful review  cites, for example, “research conducted in rural Tanzania (which) shows explicitly how the vulnerability of women increases when households face a crisis. When the harvest is bad, due to droughts or floods, and food is scarce, the murder of “witches” (almost always old women) is twice as likely to occur as in normal years.” Sure, things can change. With development, for example, which makes droughts more easily manageable and preventable. In Southafrica, Duflo again, “at the end of apartheid, in the early 1990s, old-age pension programs, previously limited to whites, were expanded to cover South Africans of all races. Since the introduction of the program, witch killings in rural Northern Province have dropped dramatically (Singer, 2000).” More than that. Indeed, Duflo finds that “girls who live with a grandmother who receives the pension are heavier than those who live with a grandmother who is not quite old enough to receive the pension. Moreover, when she looks at height, Duflo finds that older girls, who were born before the pension was in effect, are smaller when they live with a pension recipient (male or female) than when they live with a non-recipient. However, among young girls, who have lived their lives since the pension system was put in place, those who live with a grandmother who receives the pension are taller than those who live without one. This suggests that pensions received by women do translate into better nutrition for girls. While the weight of the older girls catches up immediately, deficit in early nutrition continues to be seen in height even after good nutrition has resumed, and this is why the older girls remain smaller. We estimate that for girls, living with a grandmother who receives the pension is enough to bridge half the gap between the size of children in the U.S. and in South Africa. In contrast, no such effect is found when the pension is received by a man.”

2 stories in one therefore. Economic development helps women to obtain more empowerment (not being killed as witches) and more empowerment for women boosts development (girls’ height). Without, however, falling prey to misguided enthusiasm. For example, more empowerment for women changes political decisions that are taken, sometimes toward better outcomes sometimes less clearly: “to understand the effect of having women as policy makers, Chattopadhyay and Duflo (2004) study the reservation policy for women in India mentioned above. A constitutional amendment required states to both devolve power over   expenditure for local public goods to rural village councils, and to reserve a third of all council seats and council presidencies for women. As a result, the political representation and participation of women has increased. A comparison of the type of public goods provided in reserved and unreserved village councils showed that the gender of the council president impacts investments. Women invest more in infrastructure that is directly relevant to the expressed development priorities of women. In West Bengal, where women complained more often than men about water and roads, reserved councils invested more in water and roads. In Rajasthan, where women complained more often about drinking water but less about roads, reserved councils invested more in water and less in roads…… While this reform was clearly good for women (whose preferences were now taken into account), it is less clear whether it is overall welfare improving or not: in order to answer this question, one would need to decide whether water was more important than schools or roads. There is no obvious way to do this calculation: in West Bengal, we tested all water wells, and found most of them to be completely clean. The extra investment in drinking water infrastructure may thus have been primarily a matter of convenience for women.”

She concludes that “on the one hand, economic development alone is insufficient to ensure significant progress in important dimensions of women’s empowerment, in particular, significant progress in decision-making  ability in the face of pervasive stereotypes against women’s ability. On the other hand, women’s empowerment leads to improvement in some aspects of children’s welfare (health and nutrition, in particular), but at the expense of some others (education). This suggests that neither economic development nor women’s empowerment is the magic bullet it is sometimes made out to be. In order to bring about equity between men and women, in my view a very desirable goal in and of itself, it will be necessary to continue to take policy actions that favor women at the expense of men, and it may be necessary to continue doing so for a very long time. While this may result in some collateral benefits, those benefits may or may not be sufficient to compensate the cost of the distortions associated with such redistribution. This measure of realism needs to temper the positions of policy makers on both sides of the development/empowerment debate.”

I forgot to tell you that the Befana we celebrate today in Italy carries with her sweet presents for kids and everyone else. Celebrating Mother Nature, fertility and exorcising witches is all right by me, but we should make sure we understand the gifts that are brought to society  by a larger empowerment of women and by a simultaneous effort to expand growth and opportunities for all.

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Quei difficilissimi anni ottanta, quando nacque il debito ma si salvò l’Italia?

Incredibilmente interessante il passaggio dell’articolo sul Tempo di Cirino Pomicino sulle cause del debito pubblico italiano che vi metto in calce. L’autore sostiene che vi furono due momenti chiave del rialzo. Uno, secondo lui inevitabile, negli anni 80. L’altro, evitabilissimo, in quest’ultimo decennio. Ma mi interessa qui, come fonte di archivio storico degli eventi del nostro Paese, non lasciar cadere le frasi scritte da una persona che è stato testimone privilegiato (e discutibile secondo alcuni o molti) del suo tempo e condividere con voi perché e come la politica, sedutasi a tavolino, decise scientemente di lasciare andare il debito pubblico negli anni Ottanta. E’ una spiegazione affascinante che fa percepire in tutta la sua drammaticità l’epoca che vivemmo allora e l’impossibilità spesso di sganciare l’economia dal sociale.

Al divorzio BI-Tesoro avrebbe dovuto da subito affiancarsi una politica di bilancio diretta a contenere l’evoluzione della spesa corrente e ad aumentare la pressione fiscale, che nel 1981 era di appena il 31,1% a fronte di circa il 43 in Francia e in Germania. Così non avvenne ma per un ragionamento politico in cui si riconobbero la Dc di De Mita, il Psi di Craxi, il Pri di Visentini e gli altri due partiti di governo, il Psdi e il Pli. In cosa esso consistesse è presto detto. Nel biennio ’80-’81 successivo alla morte di Aldo Moro le brigate rosse avevano scatenato la campagna meridionale con l’assassinio di due consiglieri regionali della Dc in Campania e con il rapimento Cirillo e la strage della sua scorta. Tutte le informazioni dei servizi segreti e dei corpi speciali delle forze dell’ordine convergevano su un’unica certezza: il terrorismo non era finito e cercava di trarre nuova linfa dal disagio sociale del mezzogiorno, trasformandolo in ribellismo urbano che rappresentava un humus fertile dal quale il brigatismo rosso poteva facilmente reclutare nuove e disperate energie. Mettere in moto una politica di bilancio restrittiva e riequilibratrice dei conti pubblici con più tasse e minore spesa pubblica avrebbe realizzato una miscela esplosiva fatta di minore crescita, più bassa occupazione, ridotta massa spendibile delle famiglie, elevata inflazione e terrorismo. Una miscela che avrebbe impedito di battere il terrorismo (ancora nel 1982 a Napoli vennero gambizzati due assessori comunali, uno comunista e uno democristiano) e che avrebbe reso impossibile accelerare il rientro dall’inflazione con l’accordo del 1984 sulla scala mobile fortemente contrastato dalla sinistra sindacale e politica. Di qui la decisione di puntare a sconfiggere innanzitutto i due veri nemici della democrazia, dello sviluppo economico e della coesione sociale e cioè il terrorismo e l’inflazione. Il costo di questa possibile vittoria l’avrebbe naturalmente pagato Pantalone. E così fu. Dalla tabella 1 si vede che per effetto delle politiche poste in essere l’inflazione venne progressivamente ridimensionata come già detto dal 21,2% dell’80 al 5% dell’88; il debito, nello stesso periodo, passò dal 58,2% del Pil al 90,8%, oltre 32 punti in più, un aumento più che doppio rispetto al periodo ’71-’79 in cui l’inflazione accelerava. Per lo stesso meccanismo descritto precedentemente per gli anni ’70, il ridimensionamento dell’inflazione nel decennio ’80 ha contribuito a far emergere il peso del disavanzo e del debito; in questa direzione operava anche l’orientamento rigoroso della politica monetaria che, riportando i rendimenti dei titoli pubblici al di sopra del tasso d’inflazione, accresceva la spesa per interessi. Dal punto di vista fattuale l’esplosione del debito fu dovuta: 1)a una bassa pressione fiscale (nel periodo ’81-’88 pari in media a poco meno del 35%, a fronte del 45 in Francia e del 42,5 in Germania) che consentì a molte famiglie italiane di accumulare parte di quegli ingenti risparmi di cui oggi meniamo vanto in Europa. 2)a una abnorme crescita della spesa per interessi (dal 5,1% del Pil dell’81 all’8,3% del 1988) 3)a una modesta crescita del complesso delle altre spese correnti (due soli punti di Pil in 7 anni) che si attestò al 37,2% nel 1988. Sono questi i dati economici frutto di quella decisione politica dei partiti di governo che riconsegnò agli italiani nel 1988 un’Italia “normalizzata” sul terreno democratico (l’uccisione nel 1988 del senatore democristiano Ruffilli fu solo il colpo di coda del terrorismo brigatista morente) e su quello della coesione sociale (nel 1990 dopo un decennio di lenta ma progressiva discesa per la prima volta il tasso di occupazione nel Sud tornò ad aumentare giungendo al 32,7% e il reddito pro-capite salì al 59,3 rispetto al Centro-Nord). Restava, naturalmente, il nodo del debito pubblico, il costo cioè di questa normalizzazione. Un debito che era per il 90% direttamente o indirettamente nelle mani delle famiglie italiane; esse se, per ogni componente, avevano, come si diceva, 30 milioni di debiti avevano in media anche 28 milioni di crediti. Per dirla in breve, quel debito non intaccava assolutamente la sovranità nazionale come purtroppo accade oggi dal momento che la metà del nostro debito è nelle mani di investitori stranieri.

Per aggiungere dati, non ci fu recessione in Italia nei primi anni ottanta, ma nel triennio 81-83 di cui si parla ci fu una stagnazione con tassi di crescita del PIL vicini allo zero. Dall’84 in poi la crescita riprese vigorosa e l’inflazione si quietò. E fu proprio allora che partì verso l’alto il rapporto debito-PIL. Ma il risparmio delle famiglie aumentò, in parte saggiamente, assicurando le future generazioni dall’aumento inevitabile che sarebbe arrivato un giorno, delle tasse per ripagare quel debito. Con il senno di poi, forse la crescita avrebbe potuto essere sfruttata meglio per non lasciare andare via verso l’alto i saldi di finanza pubblica ma col senno di poi, come sappiamo….

Non ci sono lezioni da imparare da periodi così unici e irripetibili. Una sola la voglio buttare nell’arena del dibattito. Le recessioni spesso si accompagnano con fasi di tensioni sociali, spesso le causano, altre volte vi gettano benzina sul fuoco altre ancora sono causate dalle stesse (scioperi ecc.). Combattere le recessioni dunque vuol dire combattere anche queste fasi di tensione e contribuire alla loro risoluzione. Gli strumenti che la politica deve usare nelle recessioni devono  essere sofisticati e non meccanici, credibili ma anche flessibili e devono avere un occhio di riguardo per le situazioni più intricate dove si annida fortemente il disagio. Nelle recessioni gli economisti servono ma, per carità, non solo loro.

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Leggete della nostra Pompei e poi esigete il nostro Rinascimento

Leggete, leggete. Leggete della nostra Pompei e del suo triste abbandono. Leggete, leggete e rileggete:

Mezza Pompei sta per crollare, oggi sulla Stampa.

Avete letto? Non proseguite prima di aver letto, se ci tenete a questo nostro bellissimo Paese.

E poi pensate un attimo. Fermatevi solo un secondo. Non chiudete la pagina web dicendo: che schifo di paese, l’Italia. Non dite: non c’è speranza. Né rallegratevi perché … Dopo mesi di annunci e promesse, è arrivata in soccorso l’Unione europea con 105 milioni di euro. Con questi soldi, che saranno accreditati nei prossimi mesi, il piano straordinario può partire. Il nuovo monitoraggio durerà dal 2012 al 2014 e farà da guida ai restauri. La soprintendenza ne ha già una trentina nei cassetti, finora bloccati per carenza di quattrini. La previsione è di metterli a gara non prima dell’estate. Dunque i lavori partiranno nel prossimo autunno. Il 2 gennaio hanno preso servizio i sospirati nuovi assunti.

Continuate a rileggere, con calma. Leggete: Il 2 gennaio hanno preso servizio i sospirati nuovi assunti. In questo caso, l’attesa è stata solo parzialmente ripagata: 9 architetti (in tutto diventano 16), 13 archeologi (ce n’era solo uno!) e un funzionario amministrativo. «Un’iniezione di energia indispensabile», spiega la soprintendente. Continuano a mancare geometri per seguire i cantieri (incarico fondamentale) e custodi. Ora sono solo 30 per ciascun turno su una superficie di 40 ettari. Un anno dopo. E’ passato oltre un anno dal crollo della Scuola dei gladiatori, definito dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «vergogna per l’Italia». All’epoca, si gridò che bisognava fare tutto e subito per «salvare Pompei». Dopo un anno sono arrivati venti funzionari. Ci vorranno tre mesi per i quattrini e un altro anno per far partire i restauri straordinari. Sui contributi finanziari privati siamo fermi agli annunci. Insomma, né tutto né subito.

Ora ancora. Non chiudete la pagina, rileggete questo ultimo passaggio.

105 milioni di euro. Arrivati finalmente. Autunno. 105 milioni. Dall’Europa. Perché non abbiamo i soldi. “Invece se collassa, te ne accorgi solo dopo”.

Ho pensato, in macchina. Il PIL italiano. 1600 miliardi di euro. Il 10% di 1600 sono 160 miliardi. L’1% sono 16 miliardi. Lo 0,1% sono 1,6 miliardi. Lo 0,01% sono 160 milioni di euro. 0,01% di PIL. 0,01% di PIL.

Ecco. Noi facciamo manovre da 30 miliardi di euro, 2 o 3% del PIL. Per rimborsare il debito. E diciamo che non possiamo spendere. Non possiamo spendere. Chiediamo 105 milioni all’Europa e spenderemo in autunno. In autunno, 105 milioni, dall’Europa.

Ora ditemi che non è possibile. Spendere quello 0,01% di PIL in aggiunta a quanto ci da l’Unione Europea per rendere Pompei al suo antico splendore, quello prima che fosse sommersa da una seconda pioggia di bruttezza ed incuria, due millenni dopo. Per pagare geometri, custodi, architetti, archeologi, pagare pagare pagare. Spendere subito, domani mattina.

 

I primi scavi di Pompei

Fino a quando Pompei non sia tornata al suo antico splendore.

Ecco da dove rinasce l’Italia. Il Rinascimento è a portata di mano, basta pretenderlo.

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Risponde l’On. Cirino Pomicino e apre ulteriori scenari

Ho appena ricevuto via mail dall’On. Paolo Cirino Pomicino un commento che merita un post a sé. Anche perché illumina ulteriormente quel decennio (gli anni 80) così importante che può apparire irrilevante oggi ai più giovani ma che, concordo con lo scrivente, ha lasciato una positiva eredità per il nostro Paese, malgrado tutte le ombre che ancora restano,oscure e silenziose, che articoli e lettere di questo tipo aiutano a diradare. Grazie Onorevole.

Caro Piga,

grazie per l’interesse per il mio articolo sulla ricostruzione del debito pubblico ma, dopo aver letto il suo commento, ritengo dover aggiungere una ulteriore specificazione delle ragioni politiche per le quali, una volta attuato il divorzio Tesoro-Bankitalia, non si aumentò la pressione fiscale visto che nel 1982 era al 34,1% mentre la Germania era al 42,5 e la Francia al 4,5 e  la spesa primaria corrente era al 35,2%, peraltro un livello non drammatico. L’altissima inflazione (nel 1981 era ancora al 17 %) e il terrorismo brigatista con la sua omicida campagna elettorale furono, a mio giudizio, giustamente ritenuti gli obiettivi principali da combattere. In politica, infatti, è buona norma gerarchizzare i problemi quando non si possono affrontare tutti insieme. Se i governi dell’epoca (io non ero né al governo, né in commissione bilancio) alla fine del 1981 avessero fatto le “best pratices” della finanza pubblica aumentando le tasse e tagliando la spesa pubblica primaria (prevalentemente enti locali, pensioni, pubblico impiego) avremmo favorito un fronte sindacale unito e collegato alla sinistra politica che avrebbe impedito l’accordo di san Valentino del 1984 sul raffreddamento della scala mobile che fu possibile proprio perché  governo e maggioranza riuscirono a coinvolgere Cisl e Uil oltre che la componente socialista della Cgil tanto da sottoscrivere l’accordo prima e vincere poi anche il successivo referendum. Quell’accordo fu alla base del crollo dell’inflazione che nel 1988 si abbassò al 5 %. Senza questo risultato l’economia italiana, ma lo stesso Paese, sarebbe andato in rovina con la rincorsa salari-prezzi offrendo alimento gigantesco al brigatismo rosso. La “normalizzazione civile” costa sempre ed infatti costò ma il prezzo era ampiamente sostenibile tanto che nel 1991 già raggiungemmo,  dopo quasi  25 anni, il pareggio del bilancio primario.

Staccata la spina dell’inflazione nel 1984 si ridusse il gettito tributario drogato dagli effetti inflattivi che aumentavano i redditi nominali dei lavoratori dipendenti e il disavanzo crebbe. Infine nel triennio ’81-’83 non ci fu stagnazione ma solo una riduzione della crescita (0,8 nell’ ’81, 0,4 nell’ ’82, 1,2 nell’ ’83)i cui livelli negli anni ’90 e nel primo decennio del 2000 sarebbero stati apprezzabilissimi.

Uno stimolo finale. È certo che la ricchezza e il risparmio di una parte cospicua delle famiglie italiane non fu favorita anche da quella decisione di non aumentare la pressione fiscale da un lato e con l’abnorme emissione di titoli del debito pubblico dall’altro? Ci pensi e vedrà come in politica tutto si tiene per cui gli effetti di quella decisione ridussero l’inflazione, evitarono la rottura della coesione sociale, sconfissero il terrorismo, aumentarono il debito pubblico e favorirono il grande risparmio degli italiani. Negli ultimi 20 anni non c’ è stata né inflazione internazionale, né terrorismo, né altri “nemici” da abbattere e il debito pubblico è aumentato, la crescita si è fermata e gli investimenti sono stati ridotti. E’ inutile ricordare che da 19 anni l’economia italiana è stata messa nelle mani di tecnici autorevoli. Questi i fatti.  Le opinioni possono essere le più diverse.

05-01-2012

Paolo Cirino Pomicino

Odio i giornali quando alle lettere dei lettori aggiungono commenti per smentirli o farsene gioco. Nulla di tutto ciò nell’unica aggiunta che voglio fare. Ci sono tecnici e tecnici. Ce n’era uno, in particolare, che oltre ad essere un tecnico era un uomo. Un uomo pieno di passioni, debolezze forse ma di grandi ideali ed utopie coraggiose. Si chiamava Ezio Tarantelli e fu ucciso da qualche idiota della Brigate Rosse il 27 marzo 1985 nella sua Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Roma La Sapienza, dopo una lezione tenuta ai suoi studenti. Economista e consulente della CISL, venne ucciso per le sue idee. La stele che ricorda il suo barbaro omicidio riporta una sua celebre frase “l’utopia dei deboli è la paura dei forti”. Al Premio Nobel Franco Modigliani e suo maestro scrisse, al riguardo del tema dell’opposizione sul tema dell’indicizzazione dei salari: “Come puoi comprendere sto ricevendo varie e forti pressioni da dentro e fuori il sindacato per una modifica anche parziale di questa impostazione [...] Non ho alcuna intenzione di cambiare linea. Costi quel che costi ai miei rapporti col sindacato e fuori. In questo spero che riconoscerai qualcuno dei tuoi insegnamenti”. La battaglia di cui parla l’On. Cirino Pomicino sulla scala mobile fu vinta grazie anche alla forza ed al rigore delle idee di Ezio Tarantelli. Ci sono tecnici e tecnici, Onorevole, e sono certo che lei sarà d’accordo con me.