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Il cocktail giusto. Qual è?

Dal mio collega Riccardo Paternò ricevo e volentieri pubblico.

Senza che appaia riduttivo, riteniamo che il Governo Monti sia stato “chiamato” essenzialmente per fare quelle riforme strutturali che da anni la politica non riusciva a portare a termine. E la deducibilità dell’Irap, le pensioni di vecchiaia ed anzianità, l’Ici sulla prima casa, la rivalutazione degli estimi, la tracciabilità e la caduta del segreto bancario, vanno appunto in questa direzione. A nostro parere, su ognuno di questi temi, alcune non banali forzature sono state compiute, ma bisogna convenire che nei settori toccati da queste misure, era necessario intervenire. Avremmo certo apprezzato che non si fossero create forti disparità di trattamento pensionistico fra persone che sono divise solo da pochi mesi di età, ovvero avremmo trovato tecnicamente più equa una rivalutazione degli estimi che avesse tenuto conto della anzianità dell’accatastamento, o infine avremmo preferito che la lotta all’evasione fosse stata più centrata sul conflitto di interesse (perché non abbassare radicalmente l’iva sulle transazioni con i privati e ammettere una parziale deducibilità?), che su procedure, forse efficaci, ma certo molto invasive della privacy, ma bisogna anche convenire che il Governo si muoveva sotto l’affanno degli eventi. Tuttavia, il Presidente Monti ha voluto aggiungere alle prime riforme, una serie di tasse, bolli, accise e quant’altro, al solo fine di aumentare il gettito perché, per salvare l’Italia, bisognava raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013, obiettivo ritenuto valido in se e importante precondizione per far abbassare gli spread. Ovvero, aggiungiamo noi, per sperare in più articolati aiuti da parte della BCE. Dunque, la manovra doveva essere pesante proprio per evitare un molto probabile default. Tutte le misure che appartengono a questa logica e che sono quindi dirette solo a fare cassa, ci lasciano perplessi e poiché, fra l’altro, la pesantezza della manovra non ha avuto impatti su spread e BCE, alcune domande sorgono spontanee.

Innanzitutto, abbiamo fieri dubbi che in questo contesto le marce forzate per raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013, siano tecnicamente corrette. Il dibattito fra gli economisti è sul tema molto vivo, ma sempre più sembra emergere il dubbio che la ricetta Merkel sia corretta. E la Grecia sta a li a dimostrarlo. Ma anche l’Italia. Le manovre estive di Berlusconi tese all’obiettivo 2013, sono state vanificate dalla caduta del ciclo (-0,5%) che esse hanno in parte determinato, e le misure di Monti, nate su questa scia, rischiano di essere ugualmente vanificate dal loro stesso esistere, perché subito dopo la loro approvazione sia la Banca d’Italia che la Confindustria hanno rivisto ulteriormente all’ingiù la dinamica del ciclo (-1% e -1,6% rispettivamente). In compenso, la pressione fiscale vera è ora al 54%!

Da anni, dunque, manovre di aggiustamento e cicli piatti, si rincorrono grazie al fatto che – complice una bassa produttività del nostro sistema economico – cresciamo troppo poco per cui ogni manovra va ad insistere su un ciclo già traballante. E poiché questo contesto è noto, sinceramente ci si domanda se non sarebbe stato meglio se il Presidente Monti, con la sua autorevolezza, avesse presa un’altra strada. Se cioè egli avesse detto che nel breve periodo avrebbe fatto solo gli aggiustamenti strutturali comunque necessari, che tali aggiustamenti sarebbero stati severi, ma giusti, evitando con ciò le forzature della presente manovra, e che proprio per evitare effetti recessivi ulteriori, si sarebbe fermato li con le tasse e con i tagli. E crediamo che sarebbe stato rassicurante se avesse anche aggiunto che avrebbe puntato a raggiungere l’equilibrio di bilancio, casomai con qualche mese di ritardo, ma facendo leva sulla crescita, perché contava che liberalizzando, deburocratizzando e riallocando risorse a favore della crescita, finalmente il nostro paese sarebbe uscito dalla sua ventennale stagnazione. Viceversa, si è scelta un’altra strada, che apre però a scenari potenzialmente molto cupi. Ad esempio, il Governo, a giugno 2012, di fronte alla nuova caduta del Pil, farà una ennesima manovra di aggiustamento perché bisogna comunque raggiungere il pareggio di bilancio al 2013? Nella conferenza di fine anno, il Presidente Monti ha detto che ciò non sarà, lo speriamo vivamente con una pressione fiscale oramai al 54%.

Inoltre, e sempre rimanendo in tema, il nostro Governo, di fronte alla probabile imposizione, sempre targata Germania, di operare un aggiustamento pari a un ventesimo all’anno dell’eccesso oltre il 60% del rapporto debito/Pil, si allineerà o no? Il prof Quadrio Curzio ha definito la cosa “impossibile per l’Italia”‘, e pienamente concordiamo, ma cosa ne pensa il nostro Governo?

A queste osservazioni, ci si potrebbe rispondere che il Governo doveva a tutti i costi mantenere l’impegno del 2013 perché i mercati, a torto o ragione, avrebbero comunque apprezzato e gli spread sarebbero diminuiti. Ciò non è però accaduto, né poteva sinceramente accadere perché gli spread scendono solo a due condizioni: che si cresca e che la BCE faccia la sua parte. I mercati si muovono infatti sotto due spinte: il giusto desiderio di ripararsi dai rischi e la meno apprezzabile speranza di poter speculare sui rischi. Tuttavia, per annullare la percezione del rischio, non c’è altra cura che la crescita, perché essa induce a sperare che saremo capaci, in prospettiva, di pagare i nostri debiti. E per battere la speculazione sui rischi, non c’è altra misura che gli interventi congiunturali della BCE, prova ne sia l’ultimissima sua decisione di rifinanziare le banche, decisione che, questa si, ha influito positivamente sulle nostre aste di fine anno. Dunque, gli spread, avranno alcune oscillazioni, ma continueranno a danzare fra i 400 ed i 500 punti base, in attesa dello sviluppo e di un eventuale modificazione dell’atteggiamento della Germania rispetto alla BCE ed alle misure di crescita per l’intera Europa, punto sul quale giustamente il Presidente Monti di recente si è soffermato. Ma abbiamo qualche difficoltà a condividere che l’aggiungere il cocktail di tagli e tasse non collegate a riforme strutturali, fosse essenziale. Ciò che tende solo a fare cassa ha sicuri effetti depressivi, acuisce la probabilità di dover ricominciare da capo, e ha la certezza di non agire sugli spread. Per altro, e per concludere, molte di queste misure aggiuntive hanno un sapore che ci avrebbe fatto piacere non scorgere in un Governo così autorevole. Rompere i patti con il cittadino e tassare non la ricchezza, ma questa o quella sua manifestazione, non ci sembra il meglio che ci si possa aspettare.

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R&R: Ratings and Resiliency

Resiliency. The ability to spring back from and successfully adapt to adversity.

Ok. We had this feeling, here in Italy, that things were working out better after Monti met with Merkel. There was hope. Our PM clearly pushed the German leader in an intellectual and political corner: it is not enough to have stability and not enough might turn sour. We need growth, possibly through  the European Stability Mechanism, possibly with other concerted action. Italy will not sign a Treaty based on austerity.

And then we get hit in the face by this rating agency downgrade. Clumsy and late, as usual. Backward-looking and risk-averse. Downgrading France and Austria, and God knows what else in the next few seconds.  But you can’t blame them, they are like a large ship with  a set course. It doesn’t seem to change its route when it is time to. And when the new direction shows, the timing seems odd. But, you can’t blame them too much. Spreads already anticipated the downgrade. This implies that spreads measuring our euro-area risk should not follow too much a further downward spiral. Even though liquidity will be a rare commodity in the coming weeks, especially for those institutions holding French Treasuries, having to find more cash as collateral.

But this negative event should not distract us or lose momentum. Markets are still waiting for a sign of resiliency from euro-governments.

“One country will not suffice. Markets await a coordinated move based on fiscal expansion to boost demand, on the one hand, and reforms to boost supply, on the other, a market-maker told me”. I agree with him.  With Germany doing more on the demand side and Italy more on the supply front, I add.

He reminds me that “markets are too fast and governments too slow to react. But this is not a problem if markets perceive there is a sense of direction, planning, leadership by governments. Thinking out of the box is what is needed. The danger, pointed out by Mr. Monti in his interview with Die Welt, is that populism lurks behind the corner. Elections are coming soon. In Greece, in France. We should be alert”

But somehow tonight, when everything seems to unravel and dark scenarios are painted, I feel more optimistic than I have ever been in these past few months regarding the future of the euro. Maybe pride will lead us out of this never ending crisis. Maybe something else. Resilience.

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Italia e Germania 4, Recessione 3

SCENEGGIATURA

Immaginate una squadra di calcio che stia perdendo due a zero in casa. Il pubblico rumoreggia e protesta per la scarsa prestazione. I giocatori sono sempre più nervosi ed il gioco s’incarta. Fioccano le ammonizioni.

Ora entrano in campo un paio di nuovi giocatori. Cresce flebile la speranza sugli spalti.

A ragione. Con uno scarto di fantasia uno dei nuovi arrivati spedisce in rete ed accorcia le distanze. E’ 1 a 2. Il pubblico tifa, si riscalda, la squadra migliora.

Ma proprio quando riparte il gioco uno dei nostri ammoniti viene espulso. Forse l’ammonizione non è giusta, l’arbitro ha esagerato in quel momento, ma non c’è dubbio che l’espulso se lo sia meritato. Troppi falli fatti in precedenza.

Siamo in 10. Il pubblico si deprime nuovamente.

Ma chiunque conosca il calcio sa che quando la squadra gioca in 10 accanto alla disperazione sorge anche la speranza. Non sarebbe la prima volta. Che la squadra si unisce, compatta, solidale, motivata. Ritrova energie perdute ed un senso della vittoria. La squadra c’è. Il gioco pure. La difesa è solida e permette di sperare. Ma bisogna segnare, la difesa da sola non basta.

Si può fare. Basta restare uniti. Raddoppiare le energie. Sorprendere l’avversario. Il pubblico non fischia più. Non applaude. Aspetta. Non giudica. Spera e crede.

Un gol non basterà per vincere. Ma per andare ai supplementari. Per dare il segnale che si può fare.

Lì i giocatori si ritroveranno. Per rifiatare. Parlarsi. Incoraggiarsi. Riscrivere la nuova strategia di gara. I ruoli reciproci. Senza barricate, che sennò si perde.

E se spesso si arriva ai rigori, è anche successo che si vincesse prima degli stessi.  Direi 4 a 3, se non fosse che stavolta Italia e Germania giocano assieme.

ATTORI

La squadra: i paesi dell’euro Il pubblico: i mercati

Le riserve che entrano: Monti e Rajoy

Il gol del 2 a 1:Monti, due giorni fa, che sveglia la Merkel sulla lotta per la crescita

L’espulso: non è importante chi

L’arbitro: l’agenzia di rating

La difesa: la BCE

Il gol del 2 a 2: un’altra magia, magari la messa in opera del fondo permanente salvastati (Esm)

La pausa prima dei supplementari: il Consiglio Europeo

 

Schnellinger e Rosato: insieme ed amici.

La nuova strategia di gara: a sorpresa, come dice un mio caro amico che lavora nei mercati finanziari a Londra, a tenaglia. Dal lato della domanda con una politica fiscale espansiva, dal lato dell’offerta con le riforme. Se ci crede lui ci credo anche io. Altro che austerità.

Le barricate: l’austerità

I ruoli reciproci: sulla domanda faccia più la Germania, sull’offerta più l’Italia.

La vittoria: l’euro salvato con la crescita.

Si può fare. Certo. Coraggio.

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Le ali della speranza

« C’est surtout en prison qu’on croit à ce qu’on espère ! » Honoré de Balzac

E’ soprattutto in carcere che si crede a ciò che si spera, diceva Balzac.

Si sbagliava.

Perché non aveva visto le prigioni italiane. Lì, oggi, ormai, non si crede a nulla perché non si spera più nulla.

Ma invece mi sbaglio io. Dovrei piuttosto dire “non si dovrebbe credere più a nulla perché non si capisce cosa ci sia da sperare”. E invece.

Durante la recente visita di Benedetto XVI al carcere di Rebibbia un detenuto di nome Rocco ha chiesto al pontefice “se questo suo gesto (la visita, NdR) sarà compreso nella sua semplicità, anche dai nostri politici e governanti affinché venga restituita a tutti gli ultimi, compresi noi detenuti, la dignità e la speranza che devono essere riconosciute ad ogni essere vivente. Speranza e dignità indispensabili per riprendere il cammino verso una vita degna di essere vissuta.” Speranza. Speranza. Speranza.

Il Partito Radicale denuncia come mai in passato i detenuti ristretti nelle nostre carceri sono stati così tanti, settantamila circa, e il personale di ogni livello così ridotto nel suo organico. I suidici di carcerati e guardie carcerarie cresce. Il Partito radicale chiede l’amnistia.

Noi chiediamo - sia a chi è a favore sia a chi è contrario all’amnistia – di pronunciarsi ora a favore di un piano immediato di costruzione di carceri che restituisca speranza a chi nel carcere rimane. Lo chiediamo innanzitutto a questo Governo.

Nel 2009 Ance, l’associazione dei costruttori edili, stimò per un Piano straordinario di edilizia carceraria, la necessità di circa 1,6 miliardi di euro di cui 1,2 per la realizzazione di 22 nuovi istituti penitenziari e 400 milioni per la realizzazione di 47 nuovi padiglioni o la ristrutturazione di quelli esistenti. Le risorse già disponibili ammontavano a circa 600 milioni; di qui l’esigenza di trovare 1 miliardo di euro aggiuntivi. Il documento Ance menzionava il possibile coinvolgimento dei privati nel finanziamento dello stesso tramite la valorizzazione di strutture carcerarie dismesse o dismettere, spesso in zone urbane centrali.

Il problema con la valorizzazione è che, malgrado sia una buona idea, richiede tempo e qui tempo non ce n’è. Non ce n’è per quei 17129 carcerati che Ance stimava potessero riallocarsi nelle nuove strutture, dando a loro dignità e speranza e dando agli altri cinquantamila più luce, aria e diritti umani. Non ce n’è nemmeno per le imprese edili, specie quelle piccole, che stanno soffocando nella morsa della recessione e che potrebbero essere coinvolte a pieno ritmo nel 2012 su questo progetto, sostenendo il PIL e la loro sopravvivenza.

E dunque che fare? Semplicissimo. Monti riconosce la validità, nel nuovo Trattato Europeo che andiamo ad approvare, dell’inovocare un grave momento recessivo per rinviare l’aggiustamento di bilancio? Ottimo. Usi dunque 1 miliardo dei circa 18 derivanti dall’aumento delle imposte sui consumi approvato in Parlamento a dicembre per finanziare immediatamente il piano carceri. Parte della maggiore spesa sarà compensata dalle entrate derivanti dalla minore recessione che tale manovra comporterà.

Gliene saranno grate le piccole imprese. Gliene saranno grati i cittadini che potranno vantarsi di avere una Pubblica Amministrazione degna di questo nome. Ma soprattutto gliene saranno grati tutti quegli uomini e donne che avranno ripreso a credere perché avranno ripreso a sperare.

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L’Europa Unita, dall’utopia alla realtà. L’Italia eserciti il suo diritto di veto a proposte anti europee.

Ora che l’Europa è in ballo seriamente, ora che sta per alzarsi il sipario su un nuovo atto di una drammatica messa in scena dal finale non scontato, è bene ricordarsi di chi scrisse gli atti precedenti, di quale trama fu riempita e a quale pubblico essi si rivolgevano. Prenderò, uno per tutti, l’allegato filemonnet “L’Europa Unita, dall’utopia alla realtà” pronunciato nel 1972 da Jean Monnet, allora Presidente del Comitato d’Azione per gli Stati Uniti d’Europa, a Losanna.

Solo alcune battute tradurrò. Saranno sufficienti.

“Mi avete chiesto: gli Stati Uniti di Europa, non sono essi un’utopia? Io penso che in ogni grande impresa umana, per che possa riuscire, vi sia sempre una parte di sogno. Ma il sogno, se dura, diventa un giorno realtà, perché allora gli uomini si danno da fare per sormontare le difficoltà necessarie alla sua realizzazione. Gradualmente, il sogno si cancella e appare la sua realizzazione. E’ il nostro caso, è il caso dell’unità dell’Europa”.

“La riconciliazione tra Francia e Germania ha eliminato gran parte degli antichi antagonismi che hanno rovinato l’Europa e insanguinato il mondo. La partecipazione dell’Italia e del Benelux ha facilitato questo riavvicinamento … Ora viene l’Inghilterra. Credo che questo grande evento ci porterà la scintilla che trasformerà una comunità regionale in una comunità d’importanza universale. La Gran Bretagna ci porterà non solo i suoi elementi di forza, ma anche la comprensione e la pratica della democrazia e delle sue istituzioni, oltre che la sua esperienza degli affari mondiali. L’apporto inglese sarà un apporto morale, politico e democratico e non solo materiale.”

“Non cerchiamo la potenza, come spesso altre volte, siamo volti verso la condizione umana ed il progresso sociale e verso l’organizzazione della pace. Per raggiungere e organizzarci verso questo obiettivo … bisogna accelerare l’organizzazione dell’Europa unita.”

“I paesi della Comunità Europea sono in procinto di stabilire tra loro relazioni d’uguaglianza e solidarietà, sarebbe a dire delle relazioni simili a quelle che già esistono in seno ai nostri propri paesi. In effetti, colpisce che i nostri paesi, all’interno delle loro frontiere hanno stabilito delle regole e delle istituzioni di cui uno degli obiettivi principali è di mantenere l’uguaglianza tra cittadini, d’impedire che un gruppo possa imporre la sua volontà su altri, di assicurare una solidarietà tra regioni e categorie sociali. Per ciò delle leggi sono state fatte e delle istituzioni create. La Comunità Europea, gradualmente, persegue la creazione, tra i nostri paesi d’Europa, di relazioni simili”.

“Nessuno dei nostri paesi, separato, può regolare i principali problemi che deve fronteggiare, siano essi economici o politici”.

“Oggi, diversi paesi della Comunità Europea sperimentano grandi difficoltà … In queste situazioni, troviamo un denominatore comune: la costruzione dell’Europa”.

“E’ questa una utopia? La risposta è dentro di noi. La realizzazione dipende da noi, dalla nostra fiducia in noi stessi e dai nostri sforzi”.

Ecco cosa ci lascia la Storia. Una Europa della solidarietà e delle regole, delle uguaglianze e dell’altruismo. Abbiamo già perso un pezzo della grande Gran Bretagna sull’altare dell’egoismo nazionale. Cosa altro vogliamo perdere? E’ tempo che l’Italia diventi, assieme ad altri paesi volenterosi e forti della loro storia europea, la luce che condurrà tutti fuori dal tunnel in cui ci siamo cacciati. Esercitiamo dunque, prima che sia troppo tardi, il potere di veto a qualsiasi disegno che non rispetti la coerenza con la grandiosa rappresentazione teatrale che il mondo di oggi chiama Unione Europea.

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Exclusive Interview with the (former) Minister of the Economy of Iceland.

“The Icelandic crisis started well before the world collapsed in 2008″, Árni Páll Árnason (from now on APA) says. APA was an Icelander Social Democrat MP at the time. He only became Minister of Social Affairs and Social Security in the Spring of 2009, following a general election where citizens voiced their discontent by sending home the then ruling conservative government and electing a leftist coalition to power.

Within his party’s success, APA had his own success, with a strong personal showing. People listened and liked the message this young  politician was proposing. I myself was drawn to look for him after listening to his 2011 speech, as Minister of the Economy, in front of IMF delegates and experts, recounting why Iceland was right and everybody else wrong in dealing with the triple crisis (banking, economic and currency crisis) the way it did. He convinced me. So I looked for him and had the pleasure to interview him. What follows is based on our talk and also from his speech. What you read in italics is taken from his speech that I recommend you also watch on the linked video (to watch it, scroll down the page to the Conference Program and click on Welcoming Program, Webcast. After the speech of the Prime Minister, at the ninth (9th) minute you will listen to him) .

*

In September 2010 APA became the Economic Manager of the country, the Minister of the Economy. But the experience during the crisis in the Ministry of Social Affairs, he recalls, was fundamental to learn about how to deal  with tough economic issues, inevitable cuts and rising unemployment at the same time.

But let’s go back to before the crisis. The krona currency was a major factor in getting us into trouble in the first place. The banking crisis was preceded by a currency crisis. The (independent) Icelandic Central bank raised interest rates to stem inflation. High interest rates in an open economy attracted carry-trade and an endlessly appreciating krona encouraged unsustainable foreign borrowing by households and the corporate sector. The krona had therefore placed us in an economic strait-jacket, well before the events of 2008.

There was a lack of tools to deal with such a difficult situation, he recalls, especially macro prudential tools, but also some inevitability to it: Iceland being a very very open economy with a very very small currency could do little to defend itself from a world crisis and its repercussions.

On top of that, we had a banking crisis that here, as everywhere else, was the result of reckless banking practices and systemic undervaluation of risk. Huge leverage, trading in their own shares, all practices that were not illegal then, by the 3 largest banks mainly, representing 85% of the market, APA continues. Banks which were upgraded by the ratings agencies before the crisis, being considered strategically important and strong. The rating agencies correctly saw that the banks were too big to fail and thus granted them the AAA rating enjoyed by the Sovereign. What they should have done is to see that the three big banks were so huge in relation to the Sovereign that they were in fact too big to rescue. The banks used the AAA rating to borrow at very cheap rates.  The Sovereign was virtually free of debt and the banks benefited from that, he recalls. This all started to fall apart when funding became more difficult and costly in late 2007 and during 2008, with the crisis, access to funding became much more difficult. It started for those banks as a cost of funding problem, not finding cheap money. Their whole business model was based on cheap funding and when that dried up their value started to depreciate quickly, he concludes.

Then came the Government recation. Emergency Legislation came as a natural solution for the Government. We could have considered guaranteeing activities of the banks, like the Irish did. A very difficult alternative …. Where would it have led us? The banking sector was huge, 10 time the Icelandic GDP.

It was not a nationalization. Banks could not operate anymore,  they went bankrupt and the State created new banks with domestic  payment systems in them. We refinanced the new banks. Creditors and shareholders of the old banks lost everything. First, deposit holders were given priority to the bond holders of the banks. Second, all domestic assets were transferred, along with deposits, to new banks at a “fair” value. Insurance for deposits in the Fund amounted to 18 bn IK and there were 1800 bn IK deposits. No insurance system could sustain every single bank.

I think it is safe to say that bondholders of banks were angry at that decision, he recalls.

It was not only an issue of deposit vs bond holders, but also an international issue of Dutch and British foreign currency deposit holders of one of the banks that had considerable deposits in the UK and Holland. Emergency Legislation gave priority to all deposit holders, but we moved deposits in local Icelandic branches into the new banks. Since we did not have enough FX it was impossible for us to move deposits in foreign branches into the new banks. Depositors in UK and Netherlands branches are now being paid out from the estate of the foreign bank and they will all be paid out. 30% of their claim has already been paid out (Iceland has been taken to court by the EFTA Surveillance Authority, which monitors the operation of the EEA-Agreement in a similar manner as the EU Commission does with regard to the EU Treaty, claiming that Dutch and British depositors were discriminated against).

After that, 2 of the 3 banks were fully financed by the old creditors. 1 bank is still owned by the State, because the creditors with priority claims are the Dutch and British government.*

But we also had a drastic downturn which was an unavoidable consequence of the overheating of the economy in the years before. Contrary to the criticism levelled at the IMF in the 1990´s, fiscal adjustment was effectively delayed as the Icelandic IMF plan foresaw us making full use of the automatic stabilisers – the unemployment and welfare benefits – for the first year of the program. It helped us to deal with the situation much more effectively than otherwise would have been the case and helped to avoid a much more severe downturn.

He writes: The Icelanders were unable to smooth their way out of crisis with near-zero interest rate and quantitative easing, like larger currency areas were able to, the macroeconomic adjustment was both rapid and painful led by sharp depreciation in Icelandic krona. The average Icelandic household has seen a 30% reduction in purchasing power since 2008 and the country is now running a merchandise trade surplus of 10% of GDP.

Iceland is now well on its way in achieving an export based recovery. It is therefore easy from the outside to make the case for the Icelandic krona and see only the benefits brought by the floating exchange rate for the economic recovery. That is however only one side of the story. The fall of the krona also exacerbated the problem of overindebtedness of the private sector. With 70% of all corporate lending in foreign currency almost all for anemic investment and growth equity in the corporate sector has been wiped out. This is the biggest single reason: Overindebted companies do not invest. Similary, with the household sector overindebted and nearly the entire stock of mortgages linked to inflation, mortages have increased by more than 30% and interest payments as a share of total disposable income have risen from 20% in 2008 to over 30% in 2010. How are households to smooth consumption over time and make plans for the future when they face such uncertainties? The fall of the exchange rate may therefore have eased the shock in the labour market, but the position of the household and corporate sector has been dire nonetheless due to these severe balance sheet effects.

But, what was seen as a disaster for Iceland three years ago is increasingly being seen as good fortune with the passing of time. Icelanders may have lost their financial system but instead they were spared the burden of nationalizing private debt. Although the banking system defaulted, the Sovereign of Iceland has never defaulted and remains solvent with debt levels close to the European average of between 80% and 90% of GDP. The Icelandic emergency measures in early October 2008 and subsequent policy is founded on a single principle, namely that we cannot accept the socialization of losses.

This approach, he claims, did not draw many supporters. The IMF was, as were others, hesitant towards this approach. The common wisdom at the time – and still is to certain extent, was that governments should, at all costs, prevent banks from failing. Our approach – defining the strategically vital operations of a bank and refinancing those – was widely considered heresy back in 2008. But it is now reflected and recognized in one way or the other in recent reform proposals in most countries.     

*

APA is, I think, a man of vision, which sees reforms as the only way forward for Western societies. But, to him, reforms must point toward one intertwined goal: greater opportunities through greater social cohesion.

All over the western world questions are being asked about the sustainability of the financial system. Most of our countries have for a long time been on an unsustainable path in terms of debt levels and growth prospects. Can we address our problems only through the traditional means of austerity and more borrowing – one or the other? I don’t think so. The longer term success – both economic and democratic – will depend on the level of structural reforms undertaken. We cannot thrive in societies lacking social cohesion. The social contract stands for both an active safety net and equal opportunities for all. We now see groups within society and even entire generations having little hope of meaningful employment and finding themselves excluded, while others enjoy relative job security. Some workers have to make do with the basic pension while others enjoy more generous provisions. These examples are endless. Structural reforms, taking on vested interests and empowering people may be difficult but they are absolutely essential.

We cannot base prosperity on the participation of the few and disillusionment of the many. I am often asked what lessons can be drawn from the Icelandic experience for the wider world. It has certainly been a difficult journey but we have used this experience as an opportunity. Maybe that is the lesson to be drawn: Difficulties provide opportunities. They force you to focus on your relative strenght and enable you to deal with weaknesses, in spite of the general resistance to change. That opportunity needs to be seised by responsible government, in time of crisis.

When the interview is over, he sends me a final mail. That I need to quote from. “I am increasingly fascinated by the challenge facing our societies and my sister (center-left, I think he means, GP) parties in Europe. 100 years ago the social-democratic movement had as its principal purpose to speak for the disillusioned and powerless against those who wanted to preserve their acquired rights. Now, in Greece and Spain at least and maybe also to some extent in Italy, the social-democratic movement is defending the rights of members of trade unions while a new generation grows up disillusioned and powerless, with no realistic prospect of ever holding a job (youth unemployment in Spain is now 46%). It will be an enormous challenge for social-democrats to speak for the outsiders this time around. And if they do not, who will?”

*

At the end of the interview we spoke about Europe. APA said: now, this leads us to the more existential question about whether Iceland can continue to be a part of the European single market with its own very small national currency. I favored  Iceland’s entry in the European Union, he says, for which we have applied for.  I still do, even though Icelanders are divided and a referendum in a few years will solve that.

That the euro area is in a state of a crisis does not scare APA.  He does not seem a man to be easily scared. After facing the IMF, he faced his government running for re-election in 2013 and made sure everyone knew that he was not going to allow a spending binge for that occasion. He asked for continued fiscal discipline. After all making tough cuts in 2009 as Minister of Social Affairs must have been harder. But the political consequences of his acts were hard. For him. Just a few weeks ago he was replaced within the context of a larger coalition re-shuffling. He leaves an economy that in the second semester of 2011 grew at an admirable 4% rate, also thanks to the performance of exports and domestic consumption.

I ask him what he will do next. “I am an MP and many things need to be addressed and I will just do that as an MP and we will see what happens”. Are you very popular? He laughs when I ask him that. “Well, being kicked-out  was very helpful for my popularity. A considerable number of people recognize that I was probably right about putting doubts on the fiscal binge”.

I have a sense that we will hear from him again. I tell him I see bright future for him. He laughs and say  “I hope so”. I know he will. If only for the fact that when I asked him via mail to discuss with me on the phone he responded 20 minutes later with a yes. In Italy, I think, it would have taken 20 years for a former Minister of the Economy to show up.

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2 Senseless Statements Can Imply Interesting Policy Advice

An Italian government bond yield of four percentage points over the German bund, coupled with zero real gross domestic product growth, could prove “explosive” for the country, although a spread of 1.5 percentage points and growth of 1.5% would leave the country solvent, Fitch said.

Two things come immediately to my mind after reading this statement on Italy by the rating agency Fitch.

First, we are in the Fitch explosion scenario, with a recession above -1% of GDP and a spread above 4% of the Bund yield. We did not explode yet, did we? Where do these numbers come from? What economic theory underpins them? And what does “could prove” mean? This is poor economics unworthy of a rating agency.

Similarly poor is the reference to a spread of 1,5% and growth of 1,5% as a safe harbor. What if Bund rates were to jump above, say, 3%? Would an Italian 4,5% interest rate and an Italian growth rate of 1,5% prove sustainable? I dont know. But I am sure Fitch too does not know how to prove that statement.

From two senseless statements however a miracle can come out and an interesting thought can arise. Indeed, whatever the numbers put out by Fitch, the logic they seem to generate is one that the divide between an explosion and solvency is: lower spreads and higher growth.

Now how can you achieve in Italy lower spreads and higher growth? 3 possible ways:

a) lower spreads allow higher growth;

b) higher growth reduces spreads;

c) lower spreads and higher growth are both caused by a third factor.

a) would imply some sort of an investment-driven growth through lower rates of interest. But it remains silent as to the causes of lower spreads.

b) would imply some sort of confidence-driven spread collapse through higher growth. But it remains silent as to the causes of higher growth.

c) makes sense. Two things might generate this for Italy: a sudden burst of world economic growth in an export-driven recovery or the sudden adoption of smart economic policies in a demand or supply-driven recovery. Since one can safely exclude that world economic growth will save Italy next year, we are left with only two possible solutions.

A supply-generated Italian recovery through reforms or a demand-generated recovery through expansive fiscal policy; and from either one of these 2 policies a spread decline would follow thanks to a confidence effect due to better Italian fundamentals.

So now, please tell me, what can generate a recovery from -1% to 1,5% of GDP growth in a brief period (1 year)? Supply-side reforms of the cab-drivers, work-flexibility clauses, opening for longer hours shops? Allow me to smile. This is another senseless statement.

We are left with the obvious that the European consensus denies with sad masochism: only huge demand-side expansive fiscal policy can lead to a pick-up of growth (hardly of an improvement of 2,5% though) and a decline of spreads.

This implies Mr. Monti banging his fist at the negotating table for the new EU treaty and threatening his veto to any proposal that implies fiscal austerity for Italy, only because this would imply, according to Fitch that is, the death of Italy in the euro area and thus of the euro itself.

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Federico Caffè. Rigore e Povertà.

Ricevo da Antonio Capitano e volentieri pubblico. Federico Caffè, nato a Pescara il 6 gennaio 1914 e scomparso nel 1987 è stato un economista italiano, titolare della cattedra di Politica Economica all’Università La Sapienza di Roma. Il titolo di questo post è nostro e Povertà è con la P maiuscola perché così ci è parso di scriverlo.

C’è un bellissimo e significativo articolo di Giorgio Ruffolo, dedicato a Federico Caffè nato il 6 gennaio 1914 scomparso e mai più ritrovato. “Siamo sicuri che questo rigore che spietatamente cade sulla povera gente sia un investimento per l’equità di domani, e non un premio all’ingiustizia di ieri e di oggi”. Una  frase illuminante non scritta di questi tempi, ma agli inizi del 1997. Sotto accusa, di questa frase di Ruffolo è la Politica del Rigore. Lo scritto in questione è “Federico Caffè L’Ultima Utopia” che in poche battute descrive la “presenza” di Federico Caffè nel panorama intellettuale italiano che godeva di grande prestigio ed esercitava notevole fascino sugli studenti e su molti appassionati. Dice ancora Ruffolo, Utopia: una parola che a Caffè piaceva. Lui conosceva perfettamente il testo di Tommaso Moro: in cui a rileggerlo bene, si trova insieme con qualche stravaganza, non il profilo di una società impossibile, ma il calco profetico dello Stato del Benessere. Di una ricchezza redistribuita. Ma l’attualità di Caffè si comprende dalla sua lungimiranza ben sintetizzata da Giuseppe Amauri che sottolinea come “Caffè abbia sempre rifiutato di preferire l’efficienza all’equità, il mercato alla democrazia, la finanza alla produzione”. Una sorta di rivincita di Caffè che keynesianamente aveva molta fiducia in idee che potessero contribuire alla creazione, di una “civiltà possibile”, più equa. Come non apprezzare in questo periodo di sbriciolamento dell’economia la sua battaglia contro il mercato finanziario con una definizione della borsa quale “gioco spregiudicato che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione e il pratico spossessamento dei loro peculi”? Un uomo moderatamente e fermamente contro. Riformista estremo e “rivoluzionario”. Contro l’iniqua equità.

Sembra sentire la sua voce che dice “al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili”. Come non pensare all’attualità di un Governo “distante” chiamato per riequilibrare i conti senza pensare alle attese della povera gente? Può un governo “aristocratico” capire per bene le esigenze delle altre classi sociali e precisamente quelle più “basse”? Un Governo “in vitro” non può riuscire a “sentire” le istanze del popolo. Manca il contatto diretto. Manca il nodo della rappresentanza. E comunque un governo del genere se non è nella condizione di ripristinare “per legge” o con “formule e alambicchi” una giustizia sociale, non avrà raggiunto i suoi obiettivi in tempi in cui le gestioni “allegre”, che Caffè avrebbe biasimato, continuano ad esistere, malgrado una prima mano di “sobrietà” che non riesce a coprire le pareti ancora sporche di un sistema che ha superato ogni limite di decenza.

Ecco perché, per dirla con Ermanno Rea, autore di un bellissimo libro (L’ultima lezione) oggi Federico Caffè è soprattutto “luce riflessa”: quella che continua a provenirci dal suo protagonista, il cui fascino, lungi dall’essere appannato dal trascorrere del tempo, sembra rinverdire di giorno in giorno, e non soltanto per il perdurante mistero che circonda la sua ormai remota scomparsa, ma per la qualità e attualità del suo insegnamento. Con l’impegno di rendere sempre meno sopportabile la distanza tra etica e politica, etica ed economia. Con la parola “uomo” in primo piano, per il suo benessere e le sue speranze.

Caffè è nato il giorno dell’Epifania, che significa, per chi crede, Manifestazione. In quel giorno si è fatta la storia. I Magi partirono verso una meta, in attesa di una stella che poi trovarono. E fu stella polare. Ma “Erode” non è terminato: c’è sempre chi per salvare se stesso, colpisce gli altri. In tempi difficili, cattivi. Caffè vedeva un mondo “disumano” e cercava di umanizzarlo cercando i rapporti con gli altri con una naturale solidarietà sociale. Caffè non tratteneva per se, ma generosamente elargiva la sua “Sapienza” . Anche oggi. Con la stessa lucidità e la stessa lungimiranza.

Sbaglierò – afferma ancora Ermanno Rea – ma continuo a ritenere che se il piccolo professore di via del Castro Laurenziano riesce a essere ancora oggi in mezzo a noi e a parlarci, ciò dipende soprattutto dalla modernità delle sue vedute e delle sue opzioni. Per uomini smarriti e in cerca di ispirazioni adeguate al tempo difficile che viviamo ritengo che egli resti un modello senza alternative, palpitante quanto il suo stesso «enigma» nel quale – almeno questa è la mia opinione – vedo riflessa la sua disperazione di uomo incompreso, di economista incompreso (e deluso).

Ecco perché anche per Caffè, vale quello che Sciascia disse a proposito della scomparsa di Ettore Majorana con l’immedesimazione nelle motivazioni non dette, nella logica e nell’etica segreta del personaggio, che sfiora l’incandescenza della verità. Caffè è stato autorevolmente definito “consigliere del cittadino e non del principe”. Questa definizione è forse la migliori in tempi di un Machiavellismo imperante che travolge tutto e tutti per far spazio ai pochi che hanno reso questa Italia in perfetta solitudine mondiale con la solitudine delle coscienze. Ecco perché, alla fine di questo articolo, per capire fino in fondo il valore di questo straordinario personaggio prendo ancora in prestito le parole di Ermanno Rea, che sono una fotografia sempre attuale che sembra valere e parlare sempre: ” Caffè diceva che dobbiamo preoccuparci per prima cosa dell’uomo: forse è semplicemente qui, in questa parola d’ordine elementare ed eversiva insieme, il segreto del suo duraturo fascino”

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Fitch, Monti e la crescente necessità di mettere il veto alla proposta tedesca

Un rendimento dei titoli italiani del 4% superiore al Bund tedesco, accompagnato da una crescita nulla del PIL reale potrebbe dimostrarsi “esplosivo” per l’Italia, mentre uno spread di 1,5% ed una crescita dell’1,5% lascerebbe il paese solvente, asserisce Fitch.

Ecco il mio primo pensiero: che questa non è un’affermazione degna di un’agenzia di rating.

Primo. Siamo già dunque nello scenario esplosivo di Fitch, con una recessione ed uno spread al 5%. Eppure nulla esplode. Ma Fitch si cautela dicendo “potrebbe dimostrarsi”, quindi avrà sempre ragione. Che coraggio. Chissà quale profonda teoria economica si nasconde dietro a questi numeri giocati al lotto di 4 e zero.

Secondo. Per fortuna che se I numeri giocati al lotto sono 1,5 e 1,5 invece dell’esplosione abbiamo la salvezza (=solvenza). Chissà se possono, lì a Fitch, dimostrare anche questo o se anche questo potrebbe dimostrarsi vero.

Ora però, da due bruttezze può nascere un fiore? Forse. In effetti se mettiamo assieme le due argomentazioni qualcosa di logico vien fuori: che il confine tra solvenza ed esplosione passa per una simultanea riduzione degli spread ed una maggiore crescita.

Ora, come si fa ad avere spread più bassi e crescita più alta. Vedo 3 possibilità.

a)     spread minori che causano maggiore crescita;

b)    maggiore crescita causa minori spread;

c)     minori spread e maggiore crescita sono causati entrambi da un terzo fattore.

a) richiederebbe una qualche sorta di crescita economica generata da maggiori investimenti, stimolati a loro volta dai minori tassi d’interesse (spread): ma cosa genererebbe i minori spread? b) implicherebbe una qualche sorta di discesa degli spread derivante da una sorta di entusiasmo generato da maggiore crescita: ma cosa genererebbe quest’ultima? c) è quella giusta. E qui si aprono 2 ulteriori scenari per l’Italia. O la causa (il terzo fattore) è una crescita mondiale che genera nostra crescita via export  (ma ci credete voi, nell’attuale clima internazionale?) oppure la causa è una politica economica avviata con decisione.

Una politica economica a sua volta può essere di due tipi. O basata su riforme (dal lato dunque dell’offerta) o via spesa pubblica (dal lato della domanda). Che, se di successo, abbasserebbero gli spread assieme alla rinnovata crescita economica. Tertium non datur.

Ora. Mi dite per favore cosa è che porterà in breve tempo (1 anno?) la crescita italiana da -1% a 1,5%? Le riforme dei tassisti? E dell’art. 18? E dell’orario dei negozi? E delle farmacie? Posso sorridere? Dai….

Siamo dunque rimasti con l’unica soluzione a disposizione, quella  a cui il consenso Europeo pare sempre negare il diritto di dimostrare la sua forza, e cioè un piano di forte espansione della domanda pubblica (anche non in deficit) a cui, grazie allo sblocco della crescita economica, farebbe d’accompagno un declino degli spread, creando ulteriore spazio fiscale per maggiori spese utili per lo sviluppo.

Certo ciò significa una sola cosa. Che il Presidente Monti deve porre il veto sulla proposta tedesca della riduzione annuale del debito come clausola da inserire nel Trattato Europeo. Ma sarebbe facile da spiegarsi, il nostro veto: senza di esso lo scenario esplosivo Fitch ci esploderebbe in faccia con tutta la sua violenza, cancellando in un istante quel magnifico progetto di unione pacifica chiamato euro.

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I conflitti d’interesse degli economisti

Non capita spesso che l’industria americana del cinema si occupi della professione dell’economista. Eppure, grazie al film documentario Inside Job (il Boston Globe lo ha definito, con un briciolo di ironia, un “capolavoro più terrorizzante di qualsiasi cosa abbiano mai girato Wes Craven o John Carpenter”)  la stampa ha acceso i riflettori sulla “scienza triste”. Anzi, sui suoi scienziati, che tanto tristi non sembrano. Magari un po’ imbarazzati, questo sì.

Come Frederic Mishkin, notissimo economista della Columbia University, ex Vice Presidente della potente Federal Reserve di New York, che ha accettato di essere intervistato, dagli autori del film, pensando di dovere commentare sulle cause della crisi finanziaria e trovandosi invece a difendere la sua scelta di produrre nel 2006 – senza divulgare di esser stato pagato 124,000 dollari per farlo dalla Camera di Commercio islandese – una ricerca, dal titolo “La Stabilità Finanziaria in Islanda” – che costituisce una lode al sistema bancario di quel paese, poi crollato clamorosamente, poi riportando il titolo del lavoro nel suo Curriculum Vitae, disponibile su internet,  come “l’Instabilità Finanziaria in Islanda” (qui la difesa di Mishkin).

L’IEO (una sorta di Ufficio di Controllo Interno) del potente Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato un rapporto in cui mostra come una parte della dirigenza del Fondo temeva di vedere rovinata la propria carriera se avesse espresso la propria visione contraria a quella dominante (e sbagliata) sul come gestire la crisi. Il New York Times ha aperto una finestra sul mondo dei conflitti d’interesse degli economisti, partendo da uno studio effettuato da 2 economisti della University of Massachusetts, sostenendo come “molti economisti coinvolti nel dibattito lo scorso anno su come modificare la regolazione di Wall Street non hanno rivelato volontariamente il loro ruolo come direttori aziendali, assistenti o consulenti quando hanno testimoniato davanti al Congresso o commentato nei media”.

Codici etici universitari si sono mostrati troppo deboli per arrestare un trend piuttosto diffuso e, comunque, non riguardano  tanti economisti che lavorano nel settore privato o che, addirittura – prima, durante o dopo un lavoro nell’amministrazione del Governo statunitense – ad un certo punto hanno accettato incarichi nel settore finanziario che hanno gettato forse un’ombra sulla loro imparzialità quando dipendenti pubblici (i casi di Timothy Geithner, Larry Summers e Peter Orszag sono i più noti e discussi).

Con ciò si va dunque al di là della critica “à la Tremonti” che gli economisti “non conoscono l’economia” (e dunque sono in parte responsabili di avere causato la crisi, non prevedendola) suggerendo che forse, almeno alcuni di loro, “la conoscono troppo bene”. Il saggio dei due economisti della University of  Massachusetts indica come, dei tredici economisti universitari esperti di regolazione finanziaria considerati che lavorano anche per istituzioni private soggette potenzialmente a tale regolazione,  otto di questi, quando scrivono per la stampa o vengono da essa intervistati su tali temi, non menzionano il loro potenziale conflitto d’interessi dichiarando la doppia affiliazione.

Proprio pochi giorni fa la prestigiosa American Economic Review, la società degli economisti degli Stati Uniti, ha deliberato nuove regole per i propri soci che – quando scrivono articoli anche sui quotidiani - dovrebbero elencare “le parti interessate” che li hanno pagati per consulenze e che hanno un potenziale guadagno dalle opinioni degli economisti.

La questione non è stata ancora studiata per l’Italia, ma possiamo sperare che la Società Italiana degli Economisti (a cui non appartengo) adotti finalmente un Codice di Condotta per i suoi soci? E che i media italiani nel pubblicare le opinioni di o intervistando noti economisti richiedano che questi rivelino potenziali conflitti d’interessi?