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Taxi Driver

Interessante lavoro sui tassisti newyorkesi, uscito sulla prestigiosissima American Economic Review, di Vincent Crawford (Oxford University) e Juanjuan Meng (Università di Pechino).

Dove si dimostra che “la curva di offerta di lavoro dei tassisti non è crescente”. Non è cioè vero che i tassisti vogliono sempre lavorare più ore per guadagnare di più. No. Essi esibiscono anzi preferenze che in linguaggio tecnico chiamiamo “dipendenti da un target (reference-dependent)”, ovvero che mostrano l’impellente bisogno di raggiungere un certo ammontare di reddito ritenuto congruo. Oltre quel reddito preferiscono godersi il tempo libero. Meno di quell’ammontare no, fa molto male ed è considerato dannoso.

Stavo pensando. Se queste sono anche le preferenze dei tassisti italiani, come si profila la questione di una seria e condivisa riforma dei taxi? Non che io sia un esperto, ma dagli strilli non mi pare che ce ne siano tantissimi in giro di esperti di riforma dei taxi, quindi mi avventuro. Con un esempio fittizio ma che rende l’idea.

Immaginate che un tassista voglia assolutamente guadagnare (la cifra non è importante è un esempio) 3000 euro al mese (non 1 euro di più, non uno di meno), 100 euro al giorno, e che per farlo (una corsa in media facciamo che costi 10 euro), debba “imbarcare” 10 clienti al giorno.

Ora la questione è la seguente. In tempi normali per l’economia, ci si mettono 8 ore (supponiamo)  a tirar su 10 clienti. 8 ore di lavoro sono (supponiamo) ritenute accettabili dal nostro tassista e ciò è compatibile con una bassa attesa per un taxi da parte di chi ne desidera uno. Tutto bene dunque, nessun bisogno di riforme.

In tempi di recessione (come quello attuale), pochi clienti (per semplicità teniamo fisse le tariffe, abbassarle sarebbe un incubo politico), ci vogliono 12 ore di lavoro per raggiungere gli agognati 100 euro quotidiani. Certo è dura per il tassista lavorare così tanto, ma se è come il suo collega newyorkese a 3000 euro alla fine del mese deve arrivare, ed è disposto a farlo. Non ci sono code per i taxi e sarebbe assurdo fare una riforma che faccia girare per la città più taxi (più licenze, per esempio): il tassista lavorerebbe più di 12 ore, spesso a vuoto, senza che migliori la felicità dei (pochi) clienti.

Ma ora pensiamo ad un periodo di espansione economica. Tanti clienti che vogliono prendere il taxi. Nel giro di 4 ore il nostro tassista fa i suoi 100 euro e si gode il tempo libero, magari in una piazzola a parlare con gli amici, magari fermandosi a mangiare a casa. Lui sta bene, ma non stanno bene i clienti che non trovano i taxi sufficienti. E’ in questo caso che una riforma diventa pressante ed utile, perché riduce i tempi di attesa per i consumatori trasportati. Ma come attuarla? A me pare semplice. Basta che si crei un’autorità che misura i tempi di attesa dei clienti e che, nel caso questi superino un certo livello, si facciano entrare in tempo reale in giro per la città (“sul mercato”) tassisti addizionali “temporanei”. Che non portano via il lavoro a nessuno e che soddisfano il picco di domanda.

Magari qualcuno ci aveva già pensato, ma non so quanti visto che tutto dipende dalla (strana) struttura delle preferenze dei tassisti documentati dallo studio pubblicato. E comunque siamo sempre lì: un’altra riforma in recessione di cui non si sente bisogno. E, tatticamente, abbiamo bisogno di un Presidente del Consiglio distratto rispetto alle questioni europee? Per quale vantaggio?

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La casa europea

Dal mio collega Stefano Caiazza ricevo e volentieri pubblico

Standard & Poor’s (S&P) ha declassato l’Italia di due notches, assegnando al nostro Paese il rating BBB con outlook positivo, unitamente a quello di altri otto paesi Europei.

Il commento pubblico forse più critico è stato quello di Christian Noyer, governatore della Banca di Francia, che ha dichiarato: «Le agenzie di rating hanno alimentato la crisi nel 2008, e viene da chiedersi se non stiano facendo la stessa cosa in questo momento», evocando una teoria del complotto che ad oggi appare priva di fondamento.

Intanto osserviamo che per lungo tempo le agenzie di rating sono state criticate, anche pesantemente a livello ufficiale per essersi mosse in ritardo rispetto agli eventi (si leggano i comunicati del Financial Stability Board, chiarman Mario Draghi o i risultati della Commissione Lamfalussy sulla crisi dei subprime in Europa) . Pochi mesi fa la stessa agenzia aveva declassato, anche lì tra le politiche, niente di meno che il debito pubblico degli Stati Uniti. Ora, sbagliando o meno, S&P ritiene che il rischio di default del nostro paese sia aumentato. Questo risultato è compatibile con gli spread osservati nei giorni passati, ossia il differenziale di rendimenti dei titoli pubblici italiani rispetto a quelli tedeschi a parità di maturity. Spread che il Governo Monti non sapeva, almeno ufficialmente, spiegarsi visto che i conti pubblici erano stati rimessi in ordine.

In realtà come ha pubblicamente motivato S&P, il declassamento deriva dalle preoccupazioni riguardanti la crescita del Paese. Preoccupazioni che sono state più volte espresse da molti ecnomisti. Il prof. Gustavo Piga ha sostenuto in più occasioni non solo la necessità di politiche rivolte alla crescita, ma concretamente ha anche proposto di re-investire parte delle maggiori entrate diquesta ultima manovra in spesa pubblica di qualità indirizzata a sostenere la domanda aggregata verso i settori a più alto impatto moltiplicativo del Pil. Le sole, eventuali, liberalizzazioni, non sono infatti sufficienti poiché daranno piccoli contributi alla crescita e solo nel lungo periodo. Non che le liberalizzazioni non siano necessarie ma non sono la cura, oggi, per la crescita che manca dal nostro paese da oltre un decennio.

E la crescita manca perché l’Italia ha rinunciato ad affermare le sue idee e si è accodata, come altri paesi, alla posizione tedesca del rigore. L’idea portante che impernia i Trattati Europei, la Banca Centrale Europei, l’azione della Commissione Europea (Patto di Stabilità e Crescita) è quella del rigore dei conti pubblici temendo che un alto deficit e debito pubblico pongano un vincolo all’azione della BCE nella lotta titanica contro l’inflazione, considerata dai tedeschi fondamentale, e a ragione dal loro punto di vista considerando l’iperinflazione che hanno sperimentato nel 1923.

Eppure è dalla sua nascita che l’Europa non cresce. Certo, anche per problemi mondiali (nel 2000 si è conclusa l’onda lunga della crescita del Pil statunitense), ma non si possono tacere le scelte interne compiute del’Europa.

E veniamo all’ultima osservazione. Non sono stati declassati tutti i paesi Europei, ma alcuni paesi appartenenti tutti all’area Euro (Francia, Austria, Spagna, Portogallo). Segno chiaro di una crisi di fiducia sull’euro ma anche segno che la politica economica imposta dai tedeschi e avallata nel caso della Grecia dal FMI è un problema, anzi a nostro avviso, il problema. Perché il vestito che vuole imporre la Germania agli altri Paesi è un abito costruito a misura per quel Paese ma stà stretto, molto stretto agli altri Paesi. Non si può imporre un modello che, prima di essere economico, è culturale e sociale ed si è stratificato nel tempo. Altrimenti gli altri Paesi tentando di indossare quell’abito, soffrono. E i mercati, le agenzia di rating, puniscono questi connubi innaturali. Sofferenza che si traduce in manovre finanziarie impegnative pagate dai contribuenti nazionali e “bruciate” in pochi giorni dai mercati. L’avanzo primario generato dai sacrifici economici viene, anche questo, “bruciato”, mangiato, dal maggior costo degli interessi che lo Stato deve pagare. Il Paese rischia di avviarsi verso manovre sempre più frequenti, sempre più costose socialmente, sempre più recessive, che lo avviano in una spirale non più controllabile.

La casa europea è stata costruita con fatica, e in modo discontinuo, alla metà del secolo scorso.

Questa casa sta bruciando e rischia di crollare. Evitiamo che ideologie economiche e culturali distruggano questa unione.

A meno di non voler pensare che, all’interno di questa casa comune, si stai combattendo una guerra, di tipo economico, in cui il paese più forte sta conquistando quelli più deboli.

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Quando la Banca d’Italia cessa di essere indipendente.

Ecco il primo Bollettino Economico del nuovo Governatore Visco. Il precedente uscì 4 giorni prima della sua nomina.

In esso troviamo alcune evidenze sulla situazione italiana che vanno citate:

a)      Il PIL 2012 è stimato decrescere dell’1,5% contro lo 0,4% delle stime governative (stime che non tenevano conto dell’impatto della manovra). In una criptica parte della sua audizione presso il Parlamento il 9 dicembre il Governatore aveva parlato di un impatto di -0,5% lungo il biennio 2012-13 dalla manovra. Ora siamo ad un impatto di 1% in 1 anno. Le cose peggiorano in fretta!

D’altronde guardate come peggiorano nell’arco di ogni mese le stime del consensus degli operatori: viene quasi da piangere.

b)      in ottobre e in novembre in Italia vi sarebbero stati un calo degli occupati e una ripresa del tasso di disoccupazione, che tra i più giovani ha raggiunto il 30,1 per cento.

c)       Nel corso del 2012 l’inflazione (area euro) tornerebbe sotto il 2 per cento

d)      Le più recenti indagini qualitative condotte presso le imprese indicano crescenti difficoltà di accesso al credito e tensioni sul fronte della liquidità: in base ai risultati dell’indagine condotta dalla Banca d’Italia in collaborazione con Il Sole 24 Ore, circa un terzo delle imprese segnala una posizione complessiva di liquidità giudicata insufficiente per il primo trimestre del 2012.

Poco di nuovo dunque. E poco di buono.

Spicca tuttavia la scarsa qualità dell’analisi Banca d’Italia sulla soluzione alla crisi. Spicca il silenzio sul ruolo che può giocare una politica fiscale espansiva (più spesa pubblica in Italia ed in Europa, senza deficit in Italia, con deficit in Germania). Va citato in particolare:

a)      L’incomprensibile giudizio sugli attuali successi della politica fiscale espansiva degli Stati Uniti. Dove nel  Bollettino si parla “ di un’elevata incertezza circa il processo di consolidamento delle finanze  pubbliche negli Stati Uniti” che causerebbe un indebolimento non meglio specificato delle “aspettative che la crescita delle economie avanzate acquisti progressivamente vigore”. In realtà più avanti si legge come “negli Stati Uniti, qualora non fossero prorogate al 2012 alcune misure di stimolo fiscale attuate gli scorsi anni, la crescita economica nell’anno in corso si ridurrebbe di due punti percentuali.” Decidiamoci: è il consolidamento fiscale o l’assenza di esso che genera minore crescita? Pare del tutto evidente che sia il primo. Tant’è che è proprio l’assenza di austerità negli Usa che fa sì che il differenziale di crescita tra questi e l’area euro cresca nel 2012 (stime OCSE riprese dal Bollettino!) a 1,8% nel 2012 e 1,1 nel 2013! Ci viene da sospettare che non si voglia parlare bene degli Usa perché sennò si dovrebbe parlar male delle politiche fiscali di stupida austerità nell’area dell’euro.

b)      Italia: “ la debolezza della domanda interna è confermata dagli indicatori più recenti e dalle opinioni delle imprese. In riduzione della domanda interna operano anche le manovre correttive di finanza pubblica, peraltro indispensabili per evitare più gravi conseguenze sull’attività economica e sulla stabilità finanziaria”. Di quali più gravi conseguenze trattasi il Bollettino non lo dirà mai. Come mai tanta vaghezza e mancanza di rigore teorico in un Bollettino della Banca d’Italia? Forse perché simulazioni potrebbero mostrare che politiche fiscali espansive genererebbero crescita senza maggiore debito/PIL e ciò andrebbe contro il consenso europeo à la Merkel? Ma la Banca d’Italia non si è mai schierata con la politica, fa analisi. Dunque perché non farle anche in questo caso?

c)       Ma c’è di peggio. Nello scenario ottimistico in cui le cose migliorano, si sostiene che tale miglioramento dell’economia italiana è dovuto a “una normalizzazione delle condizioni dei mercati finanziari e del credito, connessa con il ripristino della fiducia degli investitori nella capacità dello Stato italiano di onorare il proprio debito e, allo stesso tempo, nella piena attuazione delle misure europee.” Fantastico. Ora presumiamo a priori che la crescita sia dovuta all’attuazione delle politiche europee, qualsiasi esse siano. Su quale modello economico la Banca d’Italia basa le sue assunzioni? E da quando ciò che va dimostrato è assunto? Vorrei sapere se Franco Modigliani che ci guarda da lassù non stia storcendo la bocca di fronte a questo uso dell’economia.

d)      Non manca la ciliegia. Il documento riporta le stime del Governo sul rapporto deficit-PIL (pareggio nel 2013) senza ricordare che poche pagine prime le stime sul PIL che sottintendono tale pareggio (-0,4%) sono state smentite seccamente (-1,5%) dal Bollettino e che dunque tale obiettivo è assolutamente irrealistico. Perché non dirlo?

Se la Banca d’Italia si schiera con la politica – sia essa tedesca o italiana – perdiamo un bastione d’indipendenza e di stimolo che è sempre stato essenziale per il nostro Paese. Speriamo sia stato, questo Bollettino, un mero incidente di percorso.

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Ancora su politica e stipendi: un utile distinguo

Dal mio collega Tommaso Nannicini ricevo e volentieri pubblico.

Sono d’accordo con te che per quanto riguarda il parlamento italiano attuale (cioè, con l’attuale numero di parlamentari e con la legge elettorale vigente): – il taglio degli stipendi potrebbe avere effetti positivi sulla selezione, ma non inciderà tanto sui risparmi.

Ma il problema dello stipendio ottimale per i politici è legato a filo doppio al contesto istituzionale. Per es. insieme a Stefano Gagliarducci ho realizzato uno studio sui sindaci italiani (il cui metodo di selezione è molto competitivo e trasparente; la legge 81/1993 per l’elezione diretta dei sindaci resta una delle migliori riforme istituzionali della seconda repubblica) che mostra che un aumento del salario: – attira sindaci con livelli d’istruzione più alti; – aumenta alcuni indici di buona gestione amministrativa.

Gli stessi risultati si trovano in uno studio sui consiglieri comunali in Brasile, realizzato da Claudio Ferraz e Frederico Finan con la stessa tecnica che usiamo per l’Italia (regressione con discontinuità).

Insomma: il diavolo si annida nei dettagli. Come dicono gli anglosassoni, “if you pay peanuts, you get monkeys” (se paghi noccioline, ti becchi le scimmie). In un contesto in cui i meccanismi di elezione funzionano come si deve, pagare di più i politici può essere un modo per attirare i migliori (e non lasciare che scappino tutti nel privato). Siamo d’accordo, però, che il parlamento del Porcellum è lontano da questo benchmark…

PS: lo studio sui parlamentari europei mi sembra non tenga conto del fatto che anche se la variazione è esogena, il punto di partenza non lo è (paesi con salari più alti/bassi sono associati a meccanismi di selezione politica diversi, e l’effetto del salario diverso in un caso o nell’altro potrebbe proprio dipendere da questi punti di partenza)… ma questo ci porterebbe lontano…

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Madrid, Picasso, Europa.

- Chi è questo cavallo?

- Il popolo spagnolo, rispose Picasso.

 

Madrid, giorno 2. Museo Reina Sofia.

Picasso e la nostra Guernica. Stormi di bambini alle elementari, in tuta, riempiono di risate le stanze del bombardamento, dandogli attualità sonora.

La guerra europea è ancora a Madrid, messa alle spalle ma troppo fresca per un democrazia più giovane della nostra. Bene così, è utile non dimenticare.

Intanto dopo l’assurdo furto di Atene che mi ha disperato trovo rinfresco in un altro dono europeo di Picasso, Monument aux espagnols morts pour la France (Monumentos a los españoles muertos por Francia).

E’ così ovvio che l’Europa non si fa coi Patti ma con la cultura ed il viaggio, mi dico.

 

 

 

 

 

 

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How to Implement the New Western Social Contract after the Crisis?

Of all the various interesting things that Alan Krueger chairman of the US President’s Council of Economic Advisers touches upon in his speech on rising inequality, one attracted most my attention. It relates to the evolution over the past century  of the income share of the richest 0.1% and 1% in the US population.

He mentions that “not since the roaring twenties has the share of income going to the very top reached such high levels”.

True. The two most important financial crises of this century have thus been preceded by an … unprecented rise in inequality. Traders and economists and central bankers, please take note. 50 years from now you might be less unprepared.

But more fascinating to me is the fact that the first Depression in the late twenties was followed by a structural and persistent DECLINE in inequality for almost 60 (sixty) years. Even the Reagan years did not manage to reach a level of inequality as large as the one that prevailed before the 1929 crash.

It would be interesting to debate on what were the causes of such radical and long-term change in the way society arranged its redistributive structure. I presume that the “New Deal” invented by Roosevelt unleashed a cultural revolution that needed a whole generation of youngsters at the time to die before being put aside by a new generation that had no memory at all of what occurred then.

Less for historians and more for policy-makers and ourselves is the other issue that this figure reminds us of. Will this new financial crisis linked with large inequality be followed by a similar structural and long-term redistribution – toward those that have less – that might possibly be capable of writing for the Western world a new social contract over which to base a new fertile period of prosperity?

Said in other terms: is there a new Roosevelt in town? Is that Mr. Obama? And what about Europe? Will the Old Continent (less unequal than the US but nevertheless increasingly unequal, see Fitoussi and Saraceno) be capable of shaping its complicated and burocratic institutions into a political project of lower inequality for growth?

Well. Tough to say. But Mr. Roosevelt showed that political strength and cunning agility (yes, no pan intended: his agility was only heightened by his physical immobility, I bet) were necessary requirements to obtain results. I fear that Europe might lack both and that the current inequality might be solved, as it was then, by solutions that are too little democratic.

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Spanish analogy number 1. Analogia spagnola numero 1.

Madrid, Day 1. Visit at the Prado. Madrid, giorno 1, visita al Prado.

From the Prado website: “El retrato muestra la capacidad de Velázquez de captar el cansancio y la melancolía de Felipe IV durante los últimos años del reinado.”

Fatigue. Melancholy. Why? Fatica. Malinconia. Perché?

The Empire is crumbling, he knows it.

L’Impero va a volgere al termine, senza dubbio lo sa.

 

 

What if Europe’s leaders today know as much? E se i nostri leader già sapessero altrettanto dell’Europa?

 

 

 

How would they look? Che sguardo avrebbero?

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Ridurre gli stipendi ai politici non fa solo risparmiare soldi. Per fortuna.

Cosa succederebbe al nostro Paese se riuscissimo effettivamente a ridurre gli stipendi dei politici? Risparmi? Mah, insomma, ho sempre sostenuto che fosse poca roba.

Ma ci possono essere altri effetti. Certo non possiamo immaginare che questi politici, dimezzato il loro stipendio, lavorino quanto prima (anche se secondo alcuni già non lavorano ora… cosa a cui io non credo troppo nel senso che credo che potrebbero anche … lavorare di meno!), né che quelli che prima trovavano attraente entrare in politica lo facciano ancora, né che si ricandidino persone con le stesse qualità medie.

Non è facile trovare conferma a queste supposizioni. Se non che ….

Se non che 3 studiosi Raymond Fisman, Nikolaj A. Harmon e Emir Kamenica che lavorano negli Stati Uniti ed una danese, Inger Munk, hanno appena reso pubblico un loro studio (da validare, cioè da essere valutato attentamente prima di poter essere pubblicato) che ci aiuta tantissimo nell’ottenere una risposta ai nostri quesiti.

Guardando al Parlamento Europeo, questi ricercatori hanno notato che, “prima del 2009, ogni parlamentare europeo riceveva lo stesso salario dei parlamentari della Camera nazionale. Ciò induceva grandi variazioni tra parlamentari europei … nel 2004 i più pagati erano gli Italiani con un salario annuale di €144084 ed i meno pagati, gli ungheresi, ricevevano €10080 annui. E anche parlamentari provenienti da paesi con ricchezza simile percepivano salari molto diversi. Per esempio gli spagnoli erano pagati €38,396 annui, circa il  75% in meno dei colleghi italiani, anche se il reddito pro-capite era simile. Nel 2005, le due camere dell’Unione Europea hanno deciso di effettuare una armonizzazione degli stipendi: dal primo giorno del nuovo mandato che partiva nel 2009 tutti i parlamentari ricevono uno stipendio identico di circa €84,000.”

Per alcuni dunque (come gli italiani) grave perdita, per altri (come gli ungheresi) grandi guadagni.

Come hanno cambiato i loro comportamenti i parlamentari italiani e quelli ungheresi dopo questa riforma? Hanno ancora cercato di candidarsi? Hanno mantenuto lo stesso tasso di assenteismo? E gli eletti nel 2009 erano più istruiti o meno di quelli del 2004?

I risultati sono interessanti.

Primo, raddoppiare il salario di un parlamentare aumenta la probabilità che quello si ricandidi del 23%. I soldi dunque contano, non solo le aspirazioni altruistiche e di servizio pubblico. Anzi, aumentano anche i partiti che propongono candidati.

Tuttavia variazioni del salario non incidono su tassi di assenteismo durante le sessioni. Sul tasso di assenteismo incide piuttosto la nazionalità di provenienza: non solo i parlamentari provenienti da paesi che hanno un indice di corruzione più alto appaiono avere una più alta probabilità di essere assenti alle votazioni, ma hanno anche una più alta probabilità di firmare il registro per ottenere il rimborso (alle 7 di mattina) e poi “scappare” non presenziando in aula (cosa questa che diede luogo ad un noto scandalo al Parlamento Europeo). L’Italia è tra i paesi considerati da indicatori internazionali come a più alta “percezione” di corruzione.

Terzo, raddoppiare I salari diminuisce la probabilità che il parlamentare provenga da una buona università. Insomma salari più alti riducono la qualità dei parlamentari (sempre che il loro titolo di studi sia un indicatore di una qualche maggiore qualità e qui io ho dei dubbi, anche se non enormi).

Insomma, torniamo al punto di partenza. Se dovessimo riuscire a ridurre gli stipendi dei nostri politici nazionali aspettatevi che: molti di loro non si ricandidino alle prossime elezioni, alcune liste spariranno, non peggiorerà l’assenteismo in aula di quanti lì restano (anche se ciò non vuol dire che il livello dell’assenteismo sia basso e non vada combattuto) e migliorerà la qualità dei parlamentari (misurata dal livello d’istruzione), forse perché resteranno a candidarsi solo quelli che ci tengono non tanto per i soldi quanto per l’idea del servizio e della missione, pubblici.

Non è dunque solo una questione di (piccolo) risparmio che ci motiva a schierarci con convinzione sul fronte del taglio degli stipendi ai nostri parlamentari. Per fortuna c’è ben altro.

Aggiungo che (come dissi anni fa in un’intervista al New York Times), anche se gli autori non lo menzionano,  un calo degli stipendi ai politici porterà molti dei nostri giovani a modificare le loro carriere professionali verso attività più produttive e meno redistributive, spesso con vantaggio anche per il Paese.

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Spanish analogy number 2. Analogia spagnola numero 2.

Madrid, Day 1. Visit at the Prado. Madrid, giorno 1, visita al Prado.

“Representación de los fusilamientos de patriotas de Madrid por el ejército de Napoleón, como represalia al levantamiento del 2 de mayo de 1808 contra la ocupación francesa. Los soldados franceses, de espaldas a la derecha de la composición, apuntan a los madrileños que han de morir. El dramatismo y la tensión de la escena quedan subrayados por el uso de la luz, que ilumina fuertemente a los héroes permitiendo diferenciar sus caracteres y actitudes en un detallado estudio psicológico de los personajes.” Goya. From the Prado website.

I should confess to not thinking so much about the analogy between Germany and the rest of Europe when looking at the French occupying forces putting to death Spanish innocents. No.

Non pensavo ad un raffronto tra Germania e resto d’Europa quando guardavo all’esecuzione degli spagnoli ribelli ed innocenti da parte degli occupanti francesi.

I was rather thinking, looking at the “invisible and all looking alike faces” (how is this possible? the miracle of Goya!) of those who kill and at the desperation of those put to death, at those modern burocratic mechanisms of impositions on simpler people by a distant power. Or maybe I was thinking to a recession for which there is no empathy in the response but only cold measures.

Piuttosto guardavo a quelle facce “invisibili e tutte uguali” (come è possibile? miracolo di Goya!) dei tiratori scelti ed alla disperazione di coloro che sono destinati a morire e mi chiedevo se mi ricordassero in qualche modo la recessione e le sue ferite da una parte e le fredde risposte del vertice europeo dall’altra.

Somehow no, but the danger is there.

Forse no, ma il pericolo è dietro l’angolo.

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Generale Monti, unisca le sue truppe per vincere la vera battaglia

Scrivo di getto prima della partenza per Madrid con mia figlia Caterina, scusate la fretta e l’assenza stasera.

Sfogliando i giornali vedo le facce dei tassisti in piazza. Arrabbiati. E mi domando. Se avevamo veramente bisogno in questa fase così delicata di aprire un altro fronte che ci indebolisce.

Ho spesso sostenuto che “in una recessione le riforme non servono”. Non mi preoccupa (ancora) la pur rilevante affermazione di Monti alla Merkel che se non ci spicciamo rischiamo di lasciare la piazza ai populisti. Perché non credo che le difese che molti politici fanno delle proteste dei tassisti, e le difese di altri politici delle proteste dei lavoratori, siano da bollare come populiste. Sono roba seria queste proteste. Sono gente che difende il suo tenore di vita ed è troppo facile bollarle come “egoiste” o “miopi”. Ognuno ha il suo giardinetto da difendere e fa bene a farlo. Magari al populismo ci arriveremo, ma non ci siamo ancora.

Mi preoccupa invece che in una battaglia così monumentale come quella per la salvezza dell’euro, che abbisogna del sostegno ai nostri leader da parte di tutti noi, ci si imbarchi in una serie di politiche che dividono. Che tolgono ad alcuni senza rimborsarli per le loro perdite. Tutto ciò non è solo inutile. E’ dannoso perché ci distrae dall’obiettivo primario da raggungere.

Se una riforma dobbiamo fare, facciamone una che non divida e che aumenti il sostegno a Monti nella sua lotta per convincere la Merkel di condurre una politica fiscale espansiva in tutta Europa e abbandonare la stupidissima austerità.

Facciamo come negli Stati Uniti, approviamo subito una legge a favore delle piccole imprese, così strangolate dalla recessione. Non trattasi solo di debitamente restituire la liquidità dei ritardati pagamenti pubblici alle imprese (le banche finanziate da Draghi NON prestano alle imprese, prestano ai governi: allora sia il governo a rimborsare le imprese!) senza preoccuparsi che il debito pubblico ufficiale salga per questo (i mercati già sanno che il vero debito comprende quello commerciale dovuto alle piccole, anche se la contabilità europea se ne scorda!). No, c’è di più, si tratta di farle ripartire prima che muioano per sempre, le nostre piccole imprese.

Si tratta, per esempio, di riservare TUTTI gli appalti pubblici sotto soglia alle piccole imprese. Ciò non andrebbe contro le Direttive Appalti europee se tale riserva è a favore di tutte le piccole imprese europee. Negli Stati Uniti il 25% degli appalti è riservato alle piccole in NOME della concorrenza, perché reputano che solo così domani avranno abbastanza partecipazione nei mercati da garantirla.

Ministro Passera, cosa aspetta per farlo? Subito?

Presidente Monti, ridiriga subito l’orientamento delle sue politiche interne, via dal dividere (per quello c’è tempo) verso l’unire (solo quello ci dà tempo) i nostri cittadini.

Con un’armata dietro di lei, così convinta ed entusiasta del suo leader, lei potrà concentrarsi, forte del nostro supporto, sulla battaglia chiave, quella – tramite il suo potere di veto in Europa – volta a far vedere la luce alla Germania.