THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Il gioco delle 3 carte non fa mai vincere lo spettatore

Da Massimo Mucchetti svariati tentativi su come uscire fuori dalla trappola europea della riduzione del debito-PIL che scende del 3% ogni anno per 20 anni. Ma il tentativo tradisce una sola verità: dopo 10 anni di trucchi inutili per stare sotto il 3% di deficit PIL che ci hanno condotto alla rovina, entriamo nella nuova era dei trucchi per ridurre il debito-PIL. Questo, ora come allora, ci distrarrà dal compito principale di generare crescita. Che disastro questa Europa delle finte regole. Là dove manca il senso profondo delle proprie ragioni solo un risultato ci aspetta: il fallimento.

Ho stima di Massimo Mucchetti. Ma stavolta sono imbambolato e stordito dal suo articolo odierno sul Corriere della Sera dove illustra un contorto e convoluto piano “per tagliare il debito pubblico”. Ricorda un gioco delle 3 carte. Dove, come sappiamo, lo spettatore non vince mai.

Non entro nella spiegazione, credo che nemmeno al Tesoro abbiano capito tutto il progetto. Che non si regge in piedi.

Per una serie di semplici motivi.

Primo. Che il debito publico italiano, secondo le folli pretese del Governo tedesco da inserire nel Patto europeo, dovrebbe essere ridotto di circa 45 miliardi l’anno per 20 anni, la bellezza di circa 900 miliardi. E che quindi i pur portentosi 50 o 100 miliardi che Mucchetti farebbe uscire dal cappello magico delle vendite dei gioielli di famiglia dello Stato alla Cassa Depositi e Prestiti potrebbero al massimo alleviare per 1 anno la riduzione del debito richiesta. E per i rimanenti 19?

Secondo. Se ripaghiamo subito alle imprese i loro crediti commerciali con la P.A.  il debito pubblico ufficiale sale, non scende, di 70 miliardi. Emettiamo BOT o BTP, otteniamo euro, quegli euro li giriamo alle imprese, estinguiamo il debito commerciale con le imprese, ma il debito pubblico è salito. Staremmo peggio? No, staremmo molto meglio perché avremmo fornito liquidità che vale ossigeno per le imprese razionate nel credito mentre il vero debito pubblico totale (quello che tiene conto dei debiti commerciali e del debito di mercato) in verità è rimasto lo stesso. La logica del Patto che vuole riduzione di 50 miliardi l’anno e impedisce questi rimborsi distrugge dunque imprese e PIL, rendendo impossibile tale ovvia e benefica operazione.

Terzo. Fare scelte di governance sui nostri gioielli di Stato e sul nostro attivo (vendere alla Cassa Depositi e Prestiti, per esempio) solo perché pressati dalla fretta imposta dallo Stupido Patto di ridurre il debito è un altro danno enorme che possiamo evitare. C’è pure un proverbio: la gatta presciolosa…

Lo vedete dove ci sta portando questa logica, che la Germania ci chiede di inserire nel Patto? Non solo è una logica recessiva in recessione, ma è anche una logica che ci riduce le alternative per fare le cose bene e che aumenta le scelte stupide ed affrettate.

Diciamo dunque a Monti di porre senza timori il veto sulla clausola di riduzione del debito pubblico, in toto, senza se e senza ma.  Se questa fosse invece approvata, non ne uscirà che un periodo di inviluppo ulteriore delle nostre istituzioni e della nostra economia, con danni ovvii e duraturi anche per il progetto europeo.

Post Format

Il New Deal che apre la via

La barricade ferme la rue mais ouvre la voie.

Anonimo, slogan Maggio 1968.

 

 

 

 

E va beh. Le liberalizzazioni. Sarà…

Così mestamente ragionavo mentre me ne andavo stamane dal giornalaio. Per fortuna sulla via del ritorno mi sono letto traversando la strada (sono ancora qui, tranquilli) l’articolo di Luciano Gallino su Repubblica (che non è di solito esattamente il mio pensatore preferito) e mi sono trovato a condividere il di lui pensiero quando esclamava:

…  a ottobre 2011 il presidente Obama ha presentato al Congresso un altro piano in cui le politiche fiscali hanno ancora un certo peso, però accanto ad esse propone lo stanziamento di 140 miliardi di dollari per mantenere in servizio 280.000 insegnanti; modernizzare oltre 35.000 scuole; effettuare investimenti immediati per riattivare strade, ferrovie, trasporti locali e aeroporti e ridare così un lavoro a centinaia di migliaia di operai delle costruzioni. In sostanza, il governo Usa ha deciso di puntare meno sui tagli di tasse e assai più su interventi diretti “per creare posti di lavoro adesso” (così dice la copertina del piano). È un passo significativo verso un recupero da parte dello Stato del ruolo di datore di lavoro di ultima istanza, quello che durante il New Deal creò in pochi mesi milioni di posti di lavoro.

Uno Stato che voglia oggi rivestire tale ruolo assume il maggior numero possibile di disoccupati a un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l´anno), e li destina a settori di urgente utilità pubblica; tali, altresì, da comportare un´alta intensità di lavoro. Quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. Tra i settori che in Italia presentano dette caratteristiche si possono collocare in prima fila il riassetto idrogeologico, la ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), la ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60%). Significa questo che lo Stato dovrebbe mettersi a fare l´idraulico o il muratore, come un tempo fece panettoni e conserve? Certo che no. Lo Stato dovrebbe semplicemente istituire un´Agenzia per l´occupazione, che determina i criteri di assunzione e il sistema di pagamento. Dopodiché questa si mette in contatto con enti territoriali, servizi per l´impiego, organizzazioni del volontariato, che provvedono localmente alle pratiche di assunzione delle persone interessate e le avviano al lavoro. È probabile che non vi sarebbero difficoltà eccessive a farlo, visto le tante Pmi, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze idonee in uno dei settori indicati, le quali potrebbero aver interesse a impiegare stabilmente personale il cui costo è sopportato per la maggior parte dallo Stato.

La domanda cruciale è come finanzia le assunzioni il datore di lavoro di ultima istanza. Si può tentare qualche indicazione, partendo da una cifra-obiettivo: un milione di assunzioni (di disoccupati) entro pochi mesi. A 15.000 euro l´uno, la spesa sarebbe (a parte il problema di tasse e contributi) di 15 miliardi l´anno. Le fonti potrebbero essere molteplici. Si va dalla soppressione delle spese del bilancio statale che a paragone di quelle necessarie appaiono inutili, a una piccola patrimoniale di scopo; dal contributo delle aziende coinvolte, che potrebbero trovare allettante l´idea di pagare, supponiamo, un terzo della spesa pro capite, a una riforma degli ammortizzatori sociali fondata sull´idea che, in presenza di lunghi periodi di cassa integrazione, proponga agli interessati la libera scelta tra 750 euro al mese o meno per stare a casa, e 1.200 per svolgere un lavoro decente. Altri contributi potrebbero venire da enti territoriali e ministeri interessati dalle attività di ristrutturazione di numerosi spazi e beni pubblici. Non va infine trascurato che disoccupazione e sotto-occupazione sottraggono all´economia decine di miliardi l´anno. John M. Keynes – al quale risale l´idea di un simile intervento – diceva che l´essenziale per un governo è decidere quali scelte vuol fare; poi, aguzzando l´ingegno, i mezzi li trova.

Ecco. Io questa cosa qui, detta con tutt’altro linguaggio e da tutt’altra angolazione non solo la condivido ma penso sia la sola soluzione per cancellare il futuro nero – del realistico meno 2,2% di PIL per il 2012 (Fonte FMI) che, al netto dell’incredibilmente ottimistico 1% in più ogni anno per 10 anni dovuto alle liberalizzazioni (fonte Governo), ci da un bel disastroso meno 1,2% di recessione, portando il tasso di crescita medio italiano dal 2000 al 2012 ad un numero sotto zero – a cui ci stiamo condannando (senza per ora nemmeno parlare della fine dell’euro che queste performance disastrose rendono più probabile).

E’ una proposta bellissima. Bellissima. Che unisce politica per la piccole imprese e per la domanda pubblica. Così facile da fare e così utile per il Paese.

Per coloro che temono il ritorno della mano statale quando leggono Agenzia per l’occupazione, basta chiamarla Agenzia per la ricostruzione (forse a qualche mio masochista lettore, assatanato e ammirevole antistatalista, non basterà questo cambio di nome, credo). Non sarà lo Stato a fare l’idraulico nelle scuole, ma saranno le PMI grazie a delle semplici gare di appalto sotto soglia riservate proprio alle piccole imprese. Il finanziamento che cerca Gallino, 15 miliardi? Ma mi faccia il piacere, non cerchi nemmeno come finanziarla: in deficit ovviamente. Sta parlando di un mero 1% di PIL di spesa in più, che genererà tranquillamente (e sicuramente, non come le liberalizzazioni) un bell’1% di PIL in più!. Bazzecole. Bazzecole dal magnifico potenziale.

Insomma, se vi sembrano barricate, ok, ma pensatele così: che ci spingono verso nuovi  affascinanti sentieri.

Post Format

Check up del malato Lavoro.

Sempre un meritato ”bravissimo” all’Istat guidata dal mio collega a Tor Vergata Enrico Giovannini. La loro “Noi Italia” è uno strumento agile e amico per ottenere dati sulla nostra economia, la nostra società e sul nostro Continente e come ci rapportiamo ad esso. Ottimo per insegnare agli studenti e anche per loro (e per me!) per imparare di più.

Guardate qui i dati che ne ho tratto. Un rapido check-up del nostro mercato del lavoro nell’ultimo decennio.

Cosa spicca?

Intanto esaminiamo i trend. Primo risultato (pessimo): è cambiato poco dal 2001. Se non l’impatto delle riforme pensionistiche che ha portato gli ultra cinquantenni a lavorare di più di prima. Notate anche il recente peggioramento (ciclico) della disoccupazione totale e giovanile e  la crescente ripresa dell’incidenza dei disoccupati di lunga durata sul totale dei disoccupati, anticamera del pericolosissimo aumento del tasso d’inattività (dato dal rapporto percentuale tra le non forze di lavoro nella fascia di età 15-64 anni e la corrispondente popolazione, dove sono definite come non forze di lavoro le persone che non sono classificate né come occupati, né come in cerca di occupazione).

Nella legenda ho aggiunto altra informazione. Vedete intanto in lettere la nostra posizione nell’Unione Europea misurata come “peggiore”: per esempio come tasso d’inattività siamo addirittura i secondi peggiori in Europa mentre come tasso di occupazione totale siamo i quinti peggiori. Aspettiamo gli effetti della recessione per vedere come reggiamo come tasso di disoccupazione, ma il disagio sociale immenso si annida nel tasso di inattività ovviamente. E’ lì che dobbiamo incidere.

Il mio collega Luca De Benedictis mi ricorda giustamente che devo fare la tara a quel numero: ci potrebbero essere molti non veramente inattivi ma impegnati nell’economia irregolare o nera. Per questo ho fatto anche un raffronto con un mercato del lavoro, quello spagnolo, in difficoltà ben più del nostro come disoccupazione e noto anch’esso per la difficoltà di quantificare “il nero”. La classifica spagnola la vedete nel numero arabo in parentesi. E come vedete loro non stanno così male come tasso di inattività.

Insomma molti degli spagnoli dichiarono di cercare lavoro mentre non lo trovano. Noi lo troviamo di più, se lo cerchiamo, ma cerchiamo molto meno. Forse in Spagna la ricerca “finta” di lavoro ha un qualche vantaggio in termini di sussidi? Parrebbe di sì: un disoccupato spagnolo ha diritto al 65% del salario nazionale medio e il periodo di sussidio è di 2 anni per coloro che avevano lavorato 6 anni prima. Noi no. Il che forse ci dice che una riforma mirata a introdurre i sussidi ai disoccupati ci porterebbe più verso un modello spagnolo che non uno … danese. Non molto efficace.

Il problema vero che dunque pare rimanere è quello di molti lavori in nero. Che comportano meno garanzie di quelle che si ottengono con un lavoro regolare ma spesso più garanzie rispetto a quell’assenza di lavoro che seguirebbe se obbligassimo l’azienda – con una politica di controlli fatti bene -  ad emergere (e spesso a chiudere per mancanza di competitività) . Senza però scordare che forse le aziende regolari, a quel punto senza concorrenza sleale del settore in nero, assumerebbero di più.

Un minore carico fiscale sul lavoro e una minore burocrazia potrebbero aiutare ovviamente a far emergere questi lavori che esistono ma che mancano all’appello della statistica ufficiale. A quel punto e solo a quel punto potremmo dichiarare guerra totale al nero, sulla base di un contratto sociale meno ingiusto? Navigo in acque dove sono meno esperto e dunque il dibattito è aperto.

ps: bello a questo riguardo l’articolo di Fareed Zakaria oggi sul Corriere. Dove si cita con ammirazione il modello tedesco che ha “incentivato le aziende a guardare al lungo termine, a valorizzare la mano d’opera e a investire nelle professionalità” contro il modello statunitense che “punta tutto sulla flessibilità, sulla facoltà di licenziare ed assumere, e sulla capacità di mantenere basse le retribuzioni”.

Post Format

We Need Skilled Workers, not Cheap Labor

So here is Italy’s labor conditions for the past decade at a glance for you. A check-up for a sick patient.

What do you notice?

First, that we are stuck in a trap of some sort from which we have not been able to get out in 10 years time. Only the employment rate for the oldest (55-64 years old) has improved due to a series of pension reforms.

You might have also noticed the cyclical impact of this downturn on the unemployment rate (total and the youth one). Significantly, our long-term unemployment is rising dangerously. And we know that the next step of that is the even more fearsome condition of ending up being inactive. The inactivity rate in Italy remains high, too high, and needs an explanation and a cure.

Look at the legend explaining the lines. You will see a ranking posted in alphabetical letters. That is how worse is Italy among the club of the 27 EU countries (so for example while as for inactivity we are the second worse, for the total employment rate we are the fifth worse ones).

So it looks like we are OK with unemployment but bad for inactivity. Mmm. Let’s see what Spain does. You read Spain’s performance again in the legend, this time by checking tha arabic number. So Spain is currently the unemployment worse performer in the EU, but doing much better than us Italians in terms of inactivity.

Why choose Spain? Well, it is known that labor statistics in both countries are affected by black market measurement problems. And that many in both countries work in the underground economy. So maybe we should have expected more similarities between the 2. But maybe things are not that different after all.

Indeed, consider this. A high unemployment rate in Spain implies that many declare they are trying to find a job and do not succeed. In Italy, instead, a high inactivity rate implies that many do not look for a job, while fewer look for it unsuccessfully (low unemployment rate). Could it be that in Spain there is an incentive to simply declare that one has looked for a job while in Italy ones does not have any?

The answer seems to be positive: an unemployed Spanish citizen has a right to receive 65% of the average national salary as unemployed and the subsidy period lasts 2 years for those who had worked 6 years before losing the job. In Italy there is no unemployment subsidy. So I submit to you the hypothesis that if Italy were to introduce unemployment subsidies like in Spain, our inactivity rate would simply collapse and our unemployment rate would jump high simply because workers would find an incentive to file for the subsidy. But not much else would change. No big improvement, that is.

The Spanish and the Italian problem is thus not so much to create more flexibility through temporary contracts as some propose nowadays. Rather, it is one of making firms that operate in the underground economy emerge and turn legal with its workers. To do that, one should however aim at not making the firm finally prefer to shut down rather than to become legal. For this to occur, less red tape and less pay-roll taxes would help.

But we are still talking about firms that are not that competitive to start with (after all, that’s why they chose not to produce in the regular economy in the first place). Firms that, to survive, need to be able, one day, to compete in a highly globalized world. Firms that therefore need much more than “any” worker. As Fareed Zakaria recently mentioned in the Washington Post, “in a world filled with cheap labor, rich countries are better off with highly skilled workers, making premium products, with a focus on long-term growth and social stability“.

So, if Spain and Italy are really serious about labor reform, stop thinking about introducing useless flexibility or unemployment subsidies. We have enough of that. What we need is less red tape for firms, less taxes on work (more subsidies on employment) and more public and private investment in skills build-up and training.

Post Format

Mobilitazione degli autotrasportatori

(AGI) – Roma, 19 gen. – “In un contesto di territorio dove c’e’ una presenza della criminalita’ organizzata di tipo mafioso e’ anche possibile” una sua infiltrazione all’interno del movimento dei ‘forconi’ in Sicilia, “pero’ bisogna accertarlo perche’ non si puo’ generalizzare”. Lo ha detto il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, questa mattina a margine della presentazione della relazione della commissione parlamentare sulla contraffazione agroalimentare. 

Prof. Piga vorrei che Lei spendesse due parole anche sul Blocco di questi giorni in Sicilia. Della mobilitazione degli autotrasportatori e co. che chiede un abbassamento del prezzo della benzina, del costo del pedaggio autostradale, delle polizze assicurative ecc. Ormai trasformata in protesta popolare! Vedo la gente abbastanza confusa, che scenario immagina? Quali possono essere le possibili soluzioni? Grazie.

Non so cosa dirle, non sono un tuttologo e non ho abbastanza informazioni. Io posso ascoltare frammenti. E in quello che ascolto c’è anche dignità. E’ vero però, questo lo so per certo, che la recessione è una febbre, e che le febbri vanno curate.

Post Format

Con le liberalizzazioni abbiamo fatto fuggire dall’Italia Diomira, città invisibile del bello pubblico.

Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.

Diomira, Le città invisibili di Italo Calvino

C’era una volta una bella legge, la LEGGE 29 LUGLIO 1949, N.717 NORME PER L’ARTE NEGLI EDIFICI PUBBLICI (Modificata dalla Legge 3 marzo 1960, n.237). Recitava, nei suoi primi 2 commi, così:

1. Le amministrazioni dello Stato, anche con ordinamento autonomo, nonché le regioni, le province, i comuni e tutti gli altri enti pubblici, che provvedano all’esecuzione di nuove costruzioni di edifici pubblici ed alla ricostruzione di edifici pubblici distrutti per cause di guerra, devono destinare all’ abbellimento di essi mediante opere d’arte una quota non inferiore al 2 per cento della spesa totale prevista nel progetto (così modificato dall’art.1, L.237/60).

2. Sono escluse da tale obbligo le costruzioni e ricostruzioni di edifici destinati ad uso industriale o di alloggi popolari, nonché gli edifici a qualsiasi uso destinati, che importino una spesa non superiore a 50 milioni (di lire del 1960, aggiungiamo noi, circa 630.000 euro d’oggidì).

Che bella legge sul bello. Insomma c’era un tempo in cui si spendeva per il bello, così che era bello spendere.

Da oggi c’è una nuova legge sul bello, è all’articolo 48 del disegno di legge sulle liberalizzazioni (alla voce infrastrutture), in cui si spende meno sul bello così che è meno bello spendere. Ma soprattutto, quando dalla terrazza una voce di donna griderà: uh! saremo più invidiosi di chi visse prima di noi.

Eccola la nuova legge (in corsivo le aggiunte e sbarrate le eliminazioni):

1.Le  Amministrazioni  dello  Stato,  anche con ordinamento autonomo, nonche’ le Regioni, Province, Comuni e tutti  gli  altri enti  pubblici, che provvedano all’esecuzione di nuove  costruzioni  di  edifici  pubblici  ed  alla  ricostruzione di edifici  pubblici  distrutti per cause di guerra, devono destinare al loro  abbellimento mediante opere d’arte una quota della spesa totale prevista nel progetto non inferiore alle seguenti percentuali una quota non inferiore al 2 per cento della spesa totale prevista nel progetto:

- 2% per gli importi superiori ed uguali a 1 milione di euro ed inferiori a 5 milioni di euro;

- 1% per gli importi superiori a 5 milioni ed inferiori a 20 milioni di euro;

- 0,5% per gli importi superiori a 20 milioni di euro.

2. Sono  escluse  da  tale  obbligo  le costruzioni e ricostruzioni di edifici  destinati  ad uso industriale o di edilizia residenziale pubblica alloggi popolari, sia di uso civile che militare, nonche’ gli  edifici  a qualsiasi uso destinati, che importino una, spesa non superiore a 1 milione di euro 50 milioni.

Insomma ora per il bello dei nostri edifici pubblici non spenderemo mai “almeno il 2%” del valore dello stesso ma al massimo il 2%, per gli edifici più piccini, e mai più dello 0,5% per quelli grandi grandi.

E niente spesa per il bello per gli edifici che costano meno di 1 milione di euro. Peccato che prima prima, quando eravamo più belli, erano solo le case che costavano meno di 630.000 euro che potevano restare brutte.

Eccoci dunque qui. Diomira non sta in più in Italia, ha traslocato chissà dove, come fanno le città invisibili, in nome della visibile e triste austerità.

Post Format

Accadde 50 anni fa. E’ ora di tornare al lavoro.

Fu Orace Benedict de Saussure, alpinista e n aturalista ginevrino che il 18 luglio 1787 raggiungerà la cima del Monte Bianco, a concepire per primo l’idea di una galleria sotto il monte più alto d’Europa. Nel luglio 1707, reduce da una spedizione scientifica intorno al Bianco, lasciò scritto “ho conosciuto due vallate dove la lingua è la stessa e i popoli sono uguali; verrà certo il giorno in cui si costruirà una strada sotto il Monte Bianco e le due vallate di Chamonix e Courmayeur saranno unite”.

Il 14 agosto 1962 viene abbattuto il diaframma di separazione tra le due gallerie e i minatori dei due paesi, Francia ed Italia, si incontrano.

E festeggiano.

Tratto da: http://www.costruire.it/magazine/i_cantieri/Montebianco/storia.html

Post Format

Can the euro make it and survive? Sure, everything is possible if you have the drive

Thank you Nicco.

Post Format

This time is not different: how banks transfer risks to taxpayers

This time it is not different. Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff try again, in their latest fatigue “From financial crisis to debt crisis” published in the American Economic Review, to disentangle causal patterns  between debt, banking and currency crises. “The main results … are that systemic banking crises in financial centers help explain domestic banking crises, and domestic banking crises help explain sovereign default”.

They do check, among other things, as to whether governments that take on “massive debts from private banks” undermine their own solvency. They dwell into “hidden debts”, when “government debt burdens often come pouring out of the woodwork, exposing solvency issues about which the public seemed blissfully unaware”, like, they say, the Goldman Sachs swaps with the Greek government. Most important for my argument, they mention that “in many economies the range of implicit government guarantees is breathtaking”.

This is related to the Economist article I read last night. Where it is argued that a “concern for 2012 is that banks’ own high borrowing rates will feed through to the high cost and low availability of credit for households and, particularly, small businesses. But can anything be done about it, or have all the expansionary policy levers been used? … individual governments can use their reputation for repaying debts to help soothe bond investors’ concerns over banks’ ability to pay theirs. This would be done using a debt guarantee from finance ministries which would cut banks’ debt costs”.  They also admit that “the drawback of such a guarantee would be that it could expose governments if banks did not meet their debt obligations. This risk of this happening—even if it didn’t actually happen—could push EU governments’ borrowing costs up”.

I frankly doubt that lower yields for banks would translate into less credit crunch for SMEs: banks currently do not lend, full stop.

Anyway, the writers of the piece try to quantify the potential gains of these guarantees by looking at which countries have government yields very much lower than bank yields: France, Germany and United Kingdom. But not Spain, yields are already too close, they say. Not Italy, for the same reason: “Italy has no room to consider this kind of policy”. Pity to incur in this mistake dear Economist. Because Italy used guarantees already in its December 6th budget package by Mr. Monti’s government.

But check this out: the spreads between Italian government yields and those of 3 major Italian banks. A positive value is that rare occasion in which a Government bond is considered riskier than the bank bond.

 

Notice that in the first part of the year 2011 Intesa Bank  is perceived as less risky than the Government. A Berlusconi specific risk? It would seem so, if one considers that the spread returns negative as it should be in the period in which Monti arrives as PM, end of November, and the public guarantees to banks are approved.

But take a look at today’s spreads: for the first time in one year all spreads, including the one of Monte dei Paschi di Siena (always considered the weakest of the 3 banks) are positive. The Monti government seems to be considered more risky than banks. Since the spread on Italian governments is declining, this does not imply that the government is becoming riskier than before, but riskier than banks. The guarantee is working as the Economist expected, transferring risk away from bank’s balance sheet. Will it improve credit to firms and SMEs? I doubt it. But, most of all, does this imply that the risk of a hidden debt in the public accounts of Italy is starting to be present and priced ? We should fear this, if we believe even a little bit what Reinhart and Rogoff say about how banking crises spread and become debt crises that touch taxpayers rather than (reckless or incompetent) bankers that furthermore do not lend to the economy.

Post Format

Le garanzie concesse alle banche rallentano la discesa degli spread. Chi paga?

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, valenti economisti abituati sia a sporcarsi le mani lavorando spesso fuori dall’università (lei a Bear and Sterns ben prima che fallisse, lui come economista del Fondo Monetario) sia a manipolare con accuratezza dati storici, ci riprovano. In “From financial crisis to debt crisis” pubblicato sempre nella prestigiosa American Economic Review, si cimentano nel cercare di trovare nella storia delle crisi delle regolarità causali tra crisi bancarie, crisi di cambio e crisi di debito. E quella regolarità che trovano come più significativa è che sono le crisi bancarie ad aumentare le probabilità di un default  di un emittente sovrano.

Tra le tante cose interessanti di cui parlano, c’è la verifica dell’ipotesi che se i governi si accollano il debito delle banche private minano la loro propria stessa solvenza. Si attardano giustamente a parlare di “debiti nascosti” (hidden debt) nelle pieghe dei bilanci pubblici di cui il … pubblico poco o nulla sa. Citano i debiti greci verso Goldman Sachs nascosti ma soprattutto – per quanto ci interessa nel prosieguo – fanno riferimento all’incredibile numero di garanzie implicite date nella storia dai governi (spesso alle banche).

Penso a ciò mentre mi leggo con gusto un articolo dell’Economist. Dove l’idea è che, dando garanzie pubbliche alle banche europee, gli Stati possono riuscire a far scendere i costi di raccolta degli intermediari finanziari (sin qui concordiamo, vedi dopo i dati sull’Italia). E dunque aiutarle ad effettuare credito alle imprese (PMI incluse) a più basso costo e rilanciare la crescita in Europa (questa ultima parte del ragionamento rimane poco convincente: le banche – nell’attuale clima recessivo – non prestano punto e basta, anche se diminuiscono i costi della loro raccolta). Ma c’è un pericolo, ci ricorda correttamente il giornalista: che, con la garanzia, i bilanci pubblici sono a rischio se le banche saltano. E ciò potrebbe far salire i tassi d’interesse dei governi (li chiamiamo spread noi in Italia!) e le tasse per riequilibrare i conti pubblici.

L’articolista cerca di individuare dove vi sia un vantaggio potenziale di queste garanzie, ovvero in quali  Paesi si hanno tassi bancari (molto) superiori ai tassi governativi: Francia, Regno Unito, Germania. Ma non la Spagna, perché lo scarto è già basso. Né l’Italia. E poi conclude, grossolanamente, argomentando che dunque in Italia “non c’è spazio per dare garanzie pubbliche alle banche”. Peccato che gli sono state appena concesse nella manovra Monti del 6 dicembre!

Mancano i dati su quanto sono  cresciute le garanzie in Italia da dicembre quando furono comunicate la prima volta, mi dice una giornalista. Ma guardate che ho scovato grazie a Chiara. L’andamento degli spread tra Repubblica italiana e banche italiane nell’ultimo anno. Molto interessanti.

Un valore positivo dello spread indica un Governo percepito come più rischioso del sistema bancario (evento raro: di solito assume un valore negativo).

Notate che nella prima parte del 2011 Banca Intesa è addirittura percepita come meno rischiosa della Repubblica Italiana (non Monte Paschi né Unicredit però). Uno specifico rischio Berlusconi? Sembrerebbe di sì se notiamo come lo spread torni ad essere “normale” (negativo) all’arrivo di Monti al governo (fine novembre) e quando vengono approvate le garanzie pubbliche alle banche ai primi di dicembre.

 

Ma ora guardate agli spread odierni: per la prima volta dal gennaio 2011 tutti gli spread, già crescenti nell’ultimo mese, compresi quelli tra MPS e Repubblica Italiana, sono positivi. Insomma, anche il governo Monti è ora considerato più rischioso delle banche, proprio quando il Governo Monti è esso stesso … considerato meno rischioso (visto che gli spread con il Bund stanno scendendo).

Dunque la garanzia pubblica sembra stia avendo l’effetto previsto dall’Economist: il rischio si sta trasferendo dalle banche, garantite, ai contribuenti (garanti). Migliorerà le condizioni del credito bancario alle imprese, specie le piccole? Ne dubito. Ma, più preoccupante, forse ciò può significare che i mercati cominciano a prezzare un “debito nascosto” nelle pieghe dei conti pubblici (la pericolosa garanzia?). Dovremmo temerlo. Sia perché ciò fa sì che il costo del debito della Repubblica non diminuisce tanto quanto potrebbe senza la garanzia, sia perché, come dicono Reinhart e Rogoff, le crisi bancarie finiscono per causare crisi del debito. E certo non è una bella cosa se per comportamenti improvvidi dei banchieri i nostri contribuenti dovessero finire per pagare il conto senza avere avuto nessun beneficio di maggiore credito all’economia.

E’ ora che Banca d’Italia e Governo ci dicano di più, e con più trasparenza quotidiana, su quante garanzie sono state concesse e se è previsto con la crescita delle stesse e del rischio connesso se 1) verrà aumentata la copertura nel bilancio pubblico o se 2) si cesserà di estendere tale garanzia.