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Fiscal Compact alla sua fine?

Oggi sul Sole 24 Ore.

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A distanza di ben 4 mesi dalla nascita del Governo il Paese sembra finalmente avere un quadro programmatico per il prossimo triennio. Un ritardo colpevole, che ha esposto il Paese alla crescita strutturale dello spread di 150 punti base a causa dell’incertezza sulle intenzioni della coalizione gialloverde. Ora quell’incertezza è stata rimossa, e non è poco: finalmente investitori ed imprenditori possono farsi un’idea del contesto in cui opereranno in Italia su di un orizzonte di medio periodo, condizione necessaria, anche se non sufficiente, per avviare progetti finanziari e reali utili al Paese.

Non sufficiente perché ovviamente è importante capire la portata ed il significato di quei numeri inseriti nel primo DEF gialloverde. Ora, mentre gran parte delle analisi a caldo si sono focalizzate sul rischio di un deficit su PIL 2019 al 2,4% invece che al 2%, va rimarcato come siano ben altre le novità dirompenti. In effetti, non è tanto una crescita del deficit di 0,4 punti percentuali di PIL in più, una mera goccia nel mare magnum della finanza pubblica di soli 7 miliardi di euro, che può francamente spaventare o rinfrancare mercati ed imprenditori sulle prospettive di stabilità e crescita del nostro Paese. No, la vera novità sta nella intenzione quasi rivoluzionaria del governo italiano di abbandonare il Fiscal Compact e l’obbligo a questo connesso di seguire nel tempo un trend rapidamente decrescente verso il bilancio in pareggio. Annotando sul DEF gialloverde un deficit pari al 2,4% del PIL non solo per il 2019 ma anche per gli altri anni del triennio, e comunque non convergente allo zero entro il quadriennio del DEF, si adotterebbe infatti una decisione di estrema rilevanza e non solo perché questa colloca l’Italia sostanzialmente al di fuori dall’architettura istituzionale europea (siamo in effetti il primo Paese membro firmatario del Fiscal Compact a farlo), dando uno scossone in vista delle prossime elezioni europee al dibattito politico. E’ altresì una decisione rilevante perché nella sostanza ci porrebbe di fronte ad un esperimento nuovo per l’area dell’euro, in cui la politica fiscale – dopo 7 anni di clausura – riacquisisce una sua autonomia. Fino ad oggi, la c.d. flessibilità annuale aveva infatti lasciato qualche spazio aggiuntivo di manovra, ma dato che essa sempre si accompagnava ad un parallelo annuncio di traiettoria recessiva di austerità per gli anni a venire, come le c.d. clausole di salvaguardia con l’aumento dell’IVA, per raggiungere il bilancio in pareggio, questa con una mano dava e con l’altra toglieva, vanificando i suoi intenti di stimolo dell’economia.

Da oggi, insomma, l’Italia può vivere in un nuovo paradigma di politica fiscale e la scommessa è che ciò possa avere un impatto esattamente opposto a quello dell’austerità dell’ultimo settennato, e cioè generare al contempo crescita economica e discesa del rapporto debito-PIL. Ma perché ciò avvenga è necessario che alla condizione necessaria di abbandonare il Fiscal Compact se ne affianchi un’altra, che abbia a che vedere con il tipo di utilizzo che verrà a farsi delle risorse addizionali così liberatesi. E qui dovremo ovviamente attendere gli esiti del dibattito parlamentare in tema di legge di bilancio, ma qualcosa è possibile già intuire dagli interventi dei leader dei due partiti della coalizione a valle della riunione del Consiglio dei Ministri.

Ma prima di tutto occorre chiedersi: quali utilizzi dei fondi derivanti dai maggiori deficit hanno più possibilità di generare crescita economica ed occupazione? Quelli che ovviamente sono capaci di stimolare sia, a breve, la domanda interna di beni e servizi, possibilmente quanto più legata a prodotti nazionali, che, a medio termine, l’offerta di prodotti competitivi da parte delle nostre aziende, in Italia ed all’estero. Un solo fattore di utilizzo delle risorse pubbliche ha la capacità di mobilitarsi in tal senso: gli investimenti pubblici, purché spesi bene. Le gare d’appalti pubblici, infatti, spesso finiscono per vedere la partecipazione di aziende nazionali, indirizzando la domanda interna della pubblica amministrazione verso beni prodotti da ditte italiane e quindi anche stimolando l’occupazione interna, ma anche, con le loro ricadute sul territorio, sostengono nel medio termine la produttività delle nostre imprese private, che beneficiano di beni pubblici (strade, infrastrutture materiali ed immateriali, edilizia scolastica ecc.) che rendono più competitivi i nostri fattori della produzione quando paragonati a quelli dei nostri rivali internazionali.

Tuttavia questo Governo, ritenendo di essere stato eletto con un mandato specifico, quello di lenire il dolore delle tante persone, specie quelle meno abbienti, più colpite dall’austerità degli ultimi anni, pare più interessato a usare i fondi per politiche redistributive a vantaggio di queste classi sociali più esposte. Sarebbe un duplice errore: primo perché gli investimenti pubblici anch’essi aiutano queste persone, ma con il vantaggio ulteriore di occuparle con un lavoro dignitoso e di generare un moltiplicatore di opportunità che reddito di cittadinanza, pensioni e flat tax non saprebbero avviare; secondo perché gli investimenti pubblici vengono incontro alle esigenze di una controparte politica di grandissima rilevanza, le future generazioni, che di quelle infrastrutture potranno beneficiare appieno.

Sarà dunque importante che nei mesi a venire si sfrutti l’enorme opportunità che questo Governo si è voluto meritoriamente creare abolendo de facto il Fiscal Compact per condurre in porto una manovra che redistribuisca non a parità di torta, ma da una torta più ampia, finendo anche per tranquillizzare i mercati e generando quella discesa del rapporto debito PIL che solo una maggiore e sostenuta crescita economica può realizzare. Il primo passo è stato fatto, non va sprecato.

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Austerità, nazismo e populismo

Il mio pezzo per Il Foglio

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In un recente lavoro pubblicato nella prestigiosa collana del centro di ricerca statunitense NBER, “L’austerità e la crescita del partito nazista” quattro ricercatori si interrogano empiricamente sulle cause economiche del successo elettorale del partito condotto da Hitler tra il 1930 ed il 1933. Utilizzando i dati sul voto di 1024 distretti tedeschi mostrano come le politiche dell’austerità (aumenti di tasse e riduzione di spesa pubblica) del cancelliere Brüning a capo della c.d. repubblica di Weimar tra il 1930 ed il 1932 generarono un aumento dei voti per il partito nazista. Le loro conclusioni sono molto chiare: “la coalizione che permise che una maggioranza si formasse per governare nel marzo del 1933 avrebbe potuto non materializzarsi se soltanto la politica fiscale fosse stata più espansiva” (meno austera).

E’ curioso che della parola “austerità” non si trovi mai traccia nel recente articolo su Il Foglio di un ricercatore di tanto prestigio ed accuratezza scientifica come Guido Tabellini, tipicamente avulso dall’utilizzo ideologico dei dati. L’economista della Bocconi ha l’innegabile merito di riproporre un’analogia, quella tra la situazione degli anni trenta in Germania con quella attuale italiana, che molti di noi avevano comunque proposto agli albori della crisi, tra il 2012 ed il 2013, avvertendo dei rischi che si andavano profilando all’orizzonte. Eppure qualcosa non torna nella sua analisi.  Dire che “tra i tedeschi era diffuso il risentimento verso un’Europa accusata di avere approfittato delle riparazioni di guerra” non chiarisce la fonte del problema che affliggeva la Germania, lasciando un’ambiguità di fondo che non è propria della scienza economica: questo risentimento era giustificato o non lo era?

Lo studio NBER sopra citato parrebbe stabilire come – nei limiti in cui l’austerità tedesca fosse una politica necessaria per venire incontro alle richieste della coalizione dei vincitori della Grande Guerra – tale risentimento fosse effettivamente giustificato, ponendo le basi per drammatici cambiamenti nella società tedesca e nel mondo. Nulla di nuovo: il grande pensatore economico del tempo, John Maynard Keynes, a seguito di queste politiche, ebbe modo di affermare nel 1932 come “molte persone in Germania non hanno nulla a cui aggrapparsi, se non a un ‘cambiamento’, qualcosa di totalmente vago e di totalmente indefinito, ma un cambiamento”.

Un’analogia, quella della parola cambiamento, con quanto sta avvenendo a casa nostra che non può sfuggire e che dovrebbe rendere inevitabili le conclusioni di policy da adottare per il presente: se è l’austerità europea che ha causato la crisi e la radicalizzazione nella nostra penisola ed altrove, e i dati anche da noi paiono confermarlo ampiamente, è solo smontandola (abolendo il Fiscal Compact) che  coloro che credono ancora in un progetto comune europeo possono sperare di poter arrestare il crescente risentimento attuale verso l’Europa stessa.

Vero è che “disfare” l’austerità lascia aperta la questione del come farlo. Chi scrive indica da sempre tre condizioni: 1) non superando il 3% del deficit-PIL per non oltrepassare una soglia simbolica ormai connaturata all’area euro, 2) concentrando le poche risorse addizionali (oltre al non aumentare l’IVA, richiesta che verrebbe ormai accettata anche dall’Unione) per il 2019 sulla componente che più incide su domanda, produttività ed occupazione, ovvero gli investimenti pubblici e 3) accompagnando queste maggiori spese con un’incisiva e vera spending review per dimostrare da un lato all’Europa che si spenderà bene e ottenendo dall’altro ulteriori risorse – senza addizionale deficit – per finanziare l’avvio di misure politicamente gradite come flat tax e reddito di cittadinanza.

Più di tutto, l’articolo di Tabellini sollecita una riflessione politica quando conclude che “il progetto di integrazione europea non si fermerà se l’Italia minaccia di abbandonarlo. Semplicemente l’Italia sarebbe abbandonata al suo destino.” E’, questa, una minaccia che non solo non spaventa i movimenti anti-europei, che la vedono piuttosto come una speranza, ma che soprattutto non dovrebbe far parte del bagaglio prescrittivo di un pro-europeo come Guido Tabellini. Il progetto di integrazione europeo trova infatti la sua ragione di essere solo nel permanere uniti – integri – malgrado le diversità esistenti; abbandonare l’Italia al suo destino, dopo il trauma della Brexit, vorrebbe dire un’unica cosa, per definizione: la fine del progetto di integrazione europea. Speriamo che il comune amore per il Vecchio Continente ci aiuti a comprendere con precisione quello che va fatto per evitarne la fine.

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1, 2, 3 … stella!

Cittadini, imprese e non solo mercati attendono che si sciolga l’enigma: 1, 2 o 3? A che livello verrà ancorato nella nota di aggiornamento (che aggiornamento non è perché il DEF primaverile non contiene, incredibilmente, nessun numero programmatico) il rapporto deficit-PIL per il 2019?

1, 2, 3.. stella era il gioco di tanti bambini e bambine nella loro infanzia. In una variante inglese, si legge su Wikipedia, “si chiama red light, green light (“luce rossa, luce verde”), con evidente riferimento alle luci di un semaforo: in questa variante i giocatori possono muoversi dopo che il capogioco ha detto green light, ma devono arrestarsi immediatamente quando dice red light. Una variante aggiunge anche yellow light che può avere l’effetto di permettere di correre, oppure di non avere nessun effetto e lasciare invariato l’ultimo comando”. Che bel modo di sintetizzare metaforicamente la situazione attuale!

Chi è il capogioco? Potrebbero essercene in effetti due: Europa o Governo del cambiamento? A seconda della prospettiva che adottiamo cambiano i colori del semaforo, senza dubbio.

All’1% del deficit su PIL scatta la luce rossa del Governo e quella verde europea: è la pillola avvelenata lasciata dal Governo Gentiloni-Padoan in un DEF tendenziale, quello dello scorso aprile, che prometteva conti che convergevano rapidamente al bilancio in pareggio, come richiesto (luce verde) dall’Europa, tramite maggiore austerità basata stavolta sulla clausola di salvaguardia dell’aumento dell’IVA. Una proposta appunto da luce rossa per questo Governo, e a ragione: come non dimenticare che sono state queste politiche richieste dall’Europa a portare il nostro debito-PIL in pochi anni a salire dal 116 al 132%, malgrado o anzi proprio a causa della riduzione dei deficit, ed a lasciare il nostro Paese con un livello di crescita del PIL minimale, pari a circa la metà di quello dell’area euro, anche quest’anno. E’ uno scenario, quello dell’1% a cui possiamo dare una probabilità del solo 10% di realizzarsi: troppi i rischi politici per questo Governo di vedersi parificato ai governi dell’austerità degli ultimi 5 anni, e non del cambiamento!

Lo scenario dominante – a cui diamo invece il 55% di probabilità di realizzarsi – è quello della luce gialla reciproca (in Italia ed Europa), del 2% di deficit su PIL, scenario intermedio in cui l’IVA non viene aumentata ma null’altro vien fatto, lasciando il Paese in un limbo di quasi stagnazione, che non riduce il rapporto debito-PIL né genera occupazione o crescita. C’è, implicito in questa scelta, certamente un rischio per i partiti al Governo che gli elettori si domandino che “cambiamento” possa mai essere quello di una politica del dolce far niente, ma c’è anche il vantaggio di non far irritare più di tanto un’Europa, sì debole, vista la distrazione delle prossime elezioni primaverili, ma comunque ancora capace di far scatenare i mercati con qualche casuale dichiarazione di un Commissario alla stampa. Va detto per onestà che il numero 2% nella Nota di Aggiornamento potrebbe ancora lasciare nei mercati, imprese e cittadini il dubbio che poi in fase di stesura autunnale di legge di bilancio questo venga sforato, ed è dunque anche possibile che gli spread non diminuiscano nemmeno, attendendo a quel punto i provvedimenti di fine anno.

C’è poi uno scenario di deficit al 3% di PIL (di più no, non avverrà mai), a cui diamo le residue probabilità, del 35%. Per il Governo del cambiamento è la luce verde, ed è probabilmente rossa per l’Europa. Esso prevede non soltanto il non aumento dell’IVA ma un 1% di PIL in più di risorse in deficit da ottenere sul mercato. Per farci cosa? Ecco che qui si apre un ulteriore scenario probabilistico. Al 90% ci par di capire che Salvini, Di Maio e Tria si spartiranno il “bottino”: 5 miliardi saranno dedicati ad una (mini) flat tax, 5 miliardi ad un (mini) reddito di cittadinanza e 5 miliardi ad un (mini) programma di investimenti pubblici. Non soddisfacendo nessuno, questi tre mini pacchetti saranno come zanzare che pungono l’elefante addormentato che è l’economia italiana, che continuerà ad avere quegli incubi pessimistici come per tutto il trascorso decennio, ignaro delle (mini) sollecitazioni e incapace di alzarsi e riprendere a correre assieme al branco già lontano degli altri partner europei. Diamo infine solo il 10% di probabilità all’unica mossa veramente capace di rimettere il connubio crescita economica e declino del debito pubblico credibilmente in auge: 15 miliardi tutti sugli investimenti pubblici, in piccole opere che ridiano speranza ed occupazione alle fasce meno istruite della popolazione, rimettano in sicurezza i nostri beni pubblici e contemporaneamente agiscano sul lungo termine, permettendo alle nostra imprese di recuperare quel gap di produttività che spiega il nostro ritardo di crescita, assieme all’austerità, di questo decennio.

E’ vero che questo disco verde interno sul 3% di deficit su PIL si scontra con la luce rossa dell’Europa al riguardo, ed è per questo che il Governo, per avere almeno un passaggio al giallo da parte di Bruxelles, deve mettere sul piatto negoziale una vera spending review, non fatta di disastrosi tagli lineari e congelamenti di spesa che fanno male anche ai più bravi e meritevoli nel settore pubblico, ma di tagli agli sprechi. Questa mossa avrebbe due benefici: uno esterno, rendendo l’Europa più propensa a consentire la manovra di 15 miliardi di investimenti pubblici (in fondo come dire no a più spesa a coloro che spendono bene?), l’altro interno, permettendo di trovare addirittura risorse addizionali, non in deficit, che consentirebbero di avviare anche flat tax e reddito di cittadinanza.

A quel punto, e solo a quel punto, l’Italia nel gioco dei semafori raggiungerà o supererà in termini di crescita il capogioco, l’Europa, per la prima volta da 20 anni a questa parte, da quando cioè nacque l’area dell’euro.

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Paolo De Ioanna

Nel periodo del maccartismo, il noto giornalista televisivo Ed Murrow della CBS ebbe modo di dire una volta, confrontandosi apertamente contro il Senatore McCarthy che lo accusava di parteggiare per la causa comunista e per l’Unione Sovietica:

“Non discendiamo da uomini timorosi: non discendiamo da uomini che temono di scrivere, di associarsi, di parlare e di difendere quelle cause che furono, sul momento, impopolari.”

Lo diceva con tono posato, deciso, ma anche appassionato. Lo faceva in un momento storico in cui non era facile farlo, dato il comune sentire. Non era facile esercitarsi in tali scontri contro il potere costituito. Con dignità, intelligenza, passione civile ed eleganza. Per nulla facile.

E non è facile incontrare uomini di questa stoffa.

Mark Twain ebbe a dire una volta che la libertà d’espressione è il privilegio dei morti: “chi è in vita non è del tutto privo, in senso stretto, di un tale privilegio, ma lo possiede solo come vuota formalità: sa di non poterne fare uso, e non può dunque essere considerato come un effettivo possesso… Nel cuore di ogni uomo si cela almeno un’opinione impopolare sulla politica o sulla religione… Più l’uomo è intelligente, maggiore è la quantità delle opinioni di questo tipo che ha e che tiene per sé… Questa riluttanza a esprimere opinioni impopolari è giustificata: il prezzo da pagare è molto alto … il risultato naturale di questa condizione è che, consciamente o inconsciamente, prestiamo più attenzione ad accordare le nostre opinioni con quelle del nostro vicino e a mantenere la sua approvazione, piuttosto che a esaminarle con scrupolo per poter vedere se siano giuste e fondate.”

Non è facile incontrare uomini intelligenti di una stoffa tale da non temere di esprimere una o più opinioni impopolari, tanto più se con dignità ed eleganza. E sono fortunati coloro che nell’arco della loro vita incontrano almeno una persona così.

A me è capitato: Paolo De Ioanna ed io abbiamo dibattuto e progettato un intenso momento del suo e del mio cammino.

Mi avvicinò, a seguito di qualche convegno sulla politica fiscale in Europa: riteneva che le mie idee fossero di complemento alle sue. Mi sentii onorato. Paolo aveva questa gentilezza innata che metteva a proprio agio chiunque e partecipai volentieri alla condivisione dei miei pensieri con questo giurista che conosceva l’economia meglio di un economista ma rifuggiva per una sorta di timidezza dall’usarne il giargone tecnico.

Scrivemmo sui quotidiani insieme, ma io seguivo sempre un suo testo iniziale, avevo bisogno della sua scrittura per trovare coraggio in quella forma giuridica che dava forza a proposte apparentemente irrealizzabili. La sua penna scorreva gentile e sicura come il suo sorriso, le sue parole sgorgavano ferme e intense come il suo sguardo: impossibile non sentirsi pronti a qualsiasi sfida insieme a lui.

Paolo De Ioanna ci sospinse a elaborare una proposta referendaria contro il Fiscal Compact europeo. Intuì prima di tutti noi la possibilità di un pertugio legale, e fu facile per noi, che credevamo come lui in un’Europa dell’euro diversa, percorrere il suo sentiero in una logica di una nuova politica economica per il continente. Rimaneva amareggiato dell’opinione dei suoi colleghi costituzionalisti, increduli e condiscendenti nei suoi riguardi, per avere osato mettere in dubbio la santità dei Trattati o per aver creduto nella costituzionalità di un’iniziativa referendaria “che metteva a repentaglio la costruzione europea”. Non temette mai, invece, di mettere a repentaglio la propria reputazione di Consigliere di Stato o di commis d’État, con questa sua passione civile per un’Europa della solidarietà, nella quale dominasse la Politica – intesa come rappresentanza degli interessi di tutti i cittadini – e non i tecnicismi elitari.

Quel referendum non arrivò mai alla Corte Costituzionale, malgrado le 350.000 firme raccolte con la CGIL: un’enormità, ma troppo poche per raggiungere quota 500.000. L’atteggiamento del PD, contrario alla nostra iniziativa nella sua parte di maggioranza, fu decisivo. A distanza di 4 anni, il Fiscal Compact è prossimo al pensionamento, assieme a quelle forze politiche che lo sostennero, a difesa di classi incapaci di comprendere i cambiamenti che la globalizzazione stava comportando. Altre forze politiche hanno sposato l’intuizione di Paolo e di chi lo seguì, ma non i suoi valori europei. L’eterogenesi dei fini non spaventava Paolo quanto spaventa me. Il suo pensiero colto, aggiornato, metteva i miei timori contingenti in una prospettiva storica più ampia, aprendomi nuovi modi di comprendere il mio tempo. Mi mancherà, moltissimo.

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Un Piano per le Infrastrutture? Sì, se di più e meglio

Il mio pezzo di oggi sul Sole 24 Ore.

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Fa bene il Ministro Tria a parlare di un “grande piano di rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture”, era da tempo che aspettavamo una simile proposta da tanti suoi predecessori. Senza guardare al passato, senza assegnare colpe a questo o a quello per l’immane tragedia di Genova (ciò spetta ai magistrati), questo Piano può rappresentare il modo più concreto e fattivo per onorare la memoria delle vittime, per lenire il dolore delle famiglie, per rimarginare una ferita che sentono tutti i sopravvissuti, coinvolti direttamente quel giorno e non, per riavvicinarci a quell’Europa che sembra ora più lontana.

Naturalmente un Piano deve per avere successo essere basato su di una strategia che affondi le sue radici sull’analisi delle complesse cause che hanno portato il Ministro a parlare di rilancio: dove e quando si è bloccata la macchina delle infrastrutture in Italia? Solo esaminando la peculiare situazione più recente degli investimenti pubblici in Italia potremo rendere credibile il Piano e non vederlo tramutato nell’ennesimo futile esercizio di parole in libertà. Il Ministro, nel suo comunicato, pare individuare due grandi temi: spendere di più e spendere meglio, senza dare un’enfasi maggiore ad uno dei due, ed a ragione, perché non c’è dubbio che ambedue vadano affrontati con uguale determinazione.

Il dato di partenza, il calo degli investimenti pubblici di questo decennio, è incontrovertibile e drammatico: diminuzione in valore reale del 6% annuo dal 2010 al 2015, discesa del loro peso dal 3 al 2% del Pil tra prima e dopo le crisi del 2008 e del 2011. Ma dato che gli investimenti che vengono contabilizzati sono quelli spesi e non quelli stanziati, la domanda che si pone poi naturalmente è: sono state poche le risorse stanziate o le risorse c’erano ma non sappiamo spenderle? Aiutandoci per il tramite di una metafora: dall’imbuto esce poca acqua perché ne immettiamo poca o perché il tubo è talmente stretto da farne uscire poca anche in presenza di tanta acqua?

Non c’è dubbio alcuno che negli anni della crisi economica gli stanziamenti si sono ridotti per venire incontro alle incongruenti e dissennate politiche europee dell’austerità. Di fronte ad una crisi da carenza di domanda che avrebbe dovuto essere, come negli Stati Uniti – sia negli anni Trenta (Roosevelt) che agli albori di questo secolo (Obama) – risolta con l’intervento pubblico a sospingere proprio gli investimenti pubblici così da ristabilire ottimismo e ripresa dell’attività d’impresa, si è voluto piuttosto prediligere una richiesta di rientro del deficit verso il pareggio. In assenza di una golden rule che proteggesse proprio gli investimenti pubblici (con una semplice regola di bilancio di sola parte corrente in pareggio) i tagli si sono scaricati proprio su questi ultimi. Che questo sia successo ne è evidente prova, come mostrano i dati della BCE, il fatto che tutti i Paesi colpiti dall’austerità, non solo l’Italia, hanno visto drasticamente ridursi post 2011 la quota degli investimenti pubblici sia sul PIL che come componente della spesa totale. Un esito che non dovrebbe sorprendere: essendo le generazioni future quelle che più hanno da guadagnare da questa componente del bilancio, e queste ultime non votando, è naturale che i politici abbiano scaricato le richieste austere europee sulla riduzione di capacità infrastrutturale del Paese. E se è vero che dal 2017 il calo degli investimenti pubblici in Italia si è arrestato e, anzi, nel tendenziale dei conti pubblici è oggi incorporato un loro aumento che, nel 2021, riporterebbe il loro livello a quello del 2014, tuttavia è anche vero che, fatto 100 il livello del 2007, nel 2021 questi salirebbero comunque soltanto a 70, il 30% in meno!

Non vi è dunque dubbio che l’acqua versata nell’imbuto è ancora troppo poca, e che al Governo, nel suo Piano straordinario, spetta rispondere a una domanda: come aumentarla, da subito? La risposta differirà a seconda del deficit su PIL che questo Governo vorrà confermare per il 2019. Limitandosi ad un 2%, è evidente come le risorse potranno venire solo dalla rinuncia al non aumentare l’IVA, lasciando che le clausole di salvaguardia si attivino, e dedicando i circa 10 miliardi disponibili agli investimenti pubblici. E’ solo scrivendo 3% sul deficit 2019 nella nota di aggiornamento al DEF di fine settembre che il Governo potrebbe sia evitare l’aumento dell’IVA che permettere quello degli investimenti; ovviamente, sia ben chiaro, senza spazio per reddito di cittadinanza o flat tax: ma se il Piano deve essere “grande”, non può né deve esistere una alternativa. O no?

Eppure è anche vero che, una volta avviata con coraggio una tale fornitura di acqua all’arido terreno della nostra economia, dobbiamo interrogarci, come fa il Ministro Tria, del tubo dell’imbuto e se non sia vero che, malgrado i crescenti stanziamenti, l’efficacia del Piano non sia comunque a rischio anche con tanta “acqua”, se non prendiamo di petto la questione dello spendere meglio oltre a quella di spendere di più.

E’ evidente che spendere meglio negli appalti pubblici in Italia richiede innanzitutto una rivoluzione organizzativa che rimetta al centro la questione delle competenze dei responsabili delle stazioni appaltanti, dal momento della stima del fabbisogno a quello della gara a quello infine del controllo durante la vita del contratto. Per avere a disposizione i migliori, tuttavia, come nel resto del mondo avanzato, è necessario che siano soddisfatti alcuni prerequisiti: primo, bisogna sapere motivarli e trattenerli, pagandoli, e tanto; secondo, bisogna saperne controllare la loro performance, investendo sui dati e sulla loro analisi; terzo, bisogna permettere loro di acquisire esperienza, smettendola di parlare di rotazione e creando una carriera di lungo periodo del “professionista degli appalti”, come quella di un giudice o di un diplomatico; quarto, bisogna lavorare costantemente sulle loro competenze (da due anni il decreto per la qualificazione delle stazioni appaltanti è misteriosamente nascosto presso il Ministero delle Infrastrutture, possiamo finalmente desecretarlo e avviare un dibattito pubblico su di esso?).

Nel Piano straordinario del Governo dovranno dunque essere stanziate sufficienti risorse per generare una nuova classe di esperti degli appalti, anche facendo ricorso, come giustamente suggerito dallo stesso Tria, ad una “versione aggiornata” del Genio Civile.

Solo così facendo, con una strategia a tenaglia di più e migliore spesa, potremo far sì che le risorse stanziate diventino spese effettive, diventino ponti messi in sicurezza, scuole funzionali, carceri degne, edifici a protezione antisismica, fiumi non esondanti, ridando credibilmente speranza, sviluppo e futuro al nostro Paese.

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Forti coi deboli, deboli coi forti: la cifra del nuovo Governo

L’articolo di Dario Di Vico sul Corriere, uno dei pochi giornalisti attenti a quel tesoro italiano che sono le piccole imprese ha il merito di ricordare come “i Piccoli di fronte al rallentamento dell’economia reale scoprono di aver bisogno di una politica orientata al «per» e non la trovano”, nemmeno, cosa clamorosa, con questa coalizione, in teoria ad essi molto sensibile.

Di Vico fa male a non ricordare esplicitamente come questa politica orientata al “per” ha un suo strumento nobile, di programmazione, il c.d. “disegno di legge per le PMI”, da presentare obbligatoriamente ogni 30 giugno alle Camere dal 2011 (grazie alla famosa legge detta “Statuto delle imprese”) e finora sempre scandalosamente “dimenticato” dai vari Calenda e predecessori al Ministero dello Sviluppo Economico, prede facili delle grandi imprese mentre le PMI, a Via Veneto, sede del Ministero, non le hanno mai fatte entrare, nemmeno dalla porta di servizio, riempiendosi la bocca della parola di moda del momento, le c.d. “start-up”, quota parte infinitesimale delle PMI.

Ma questa programmazione, ecco la sorpresa, l’hanno evitata anche i giallo-verdi! E si è visto, come fa notare De Vico, nel caso del decreto dignità, dove bisognava pensare prima in piccolo (mai fatto!) e poi complessivamente prima di scrivere la legge, e dove il confronto con le rappresentanze delle PMI avrebbe dovuto essere intensissimo (non risulta), molto più che per le grandi, più capaci di ammortizzare con altri strumenti, quali l’internazionalizzazione, la maggior rigidità introdotta con la norma.

La cifra che appare è quella di un Governo forte coi deboli, incurante delle loro lamentele e dei loro problemi. Come tutti i Governi passati. Ma c’è di più.

Forti con i deboli, deboli con i forti.

Perché c’è un’altra programmazione che è clamorosamente sfuggita di mano ai giallo-verdi: quella quinquennale del Documento di Economia e Finanza (DEF), dove ancora a giugno il Governo avrebbe potuto coraggiosamente andare all’attacco dell’Europa e delle sue stupide politiche contabilistiche dell’austerità, fissando per i prossimi 4 anni il deficit al 3% dl PIL. Era un’Europa debole quella di giugno, fatta di una Merkel debole ed una Commissione in scadenza, che poco avrebbe potuto dire di fronte ad un piano a 4 anni che rispettava il Trattato di Maastricht ma rifiutava la logica della convergenza al bilancio in pareggio dell’idiotico Fiscal Compact. E? E questo Governo è invece l’unico, di mia memoria, che non ha ancora avuto il coraggio di elaborare il c.d. piano programmatico, anche’esso, come il disegno per le PMI, obbligatorio per legge, facendo finta di approvare quello che DEF non è, il mero tendenziale per gli anni a venire, numeri comunque costruiti dal… precedente Governo di centro sinistra!

Che occasione persa da Di Maio e Salvini! Oggi non aver voluto programmare sull’onda del voto un Piano A rende molto più difficile che a fine di settembre, quando si porterà in Europa la Nota di Aggiornamento al DEF (DEF che non c’è, sic!),  si possa giungere al deficit al 3%, che avrebbe permesso molte più politiche espansive a vantaggio della nostra economia. L’aver parlato solo e soltanto di Piano B ha generato critiche e incartato la coalizione in una posizione negoziale difensiva, da pari a pari con la Commissione europea, ed è praticamente certo come  non si riuscirà a spuntare nulla di più di un 2% di deficit su PIL per il 2019, con il solito profilo di convergenza austero per gli anni successivi: numeri incapaci di aiutare l’economia, perché basteranno solo a mantenere l’IVA dove già sta oggi senza alzarla: bel risultato!

Un governo incapace di programmare? Forse. Ma, più probabile, perché se avessero voluto avrebbero potuto, un Governo forte coi deboli, le PMI, e debole coi forti, la famosa Europa che tanto aveva spavaldamente attaccato.

Uno scenario gattopardesco, ma che pena.

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Già perso troppo tempo

Il mio articolo di oggi sul Sole 24 Ore.

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Cinque anni. Periodo che può sembrare un’eternità per alcuni, un nonnulla per altri. E’ anche quanto può al massimo durare una legislatura parlamentare, è la durata dello spazio temporale a disposizione di una coalizione di governo per portare avanti le proprie politiche economiche così da massimizzare le probabilità di rielezione in caso di un guadagnato consenso elettorale a fronte di risultati tangibili ed apprezzati.

Ecco allora che se esaminiamo quanto avvenuto in questi ultimi mesi, ci troviamo di fronte ad un evidente paradosso. Una delle poche coalizioni della storia repubblicana italiana arrivate a guadagnarsi un mandato grazie all’elaborazione di un programma di governo congiunto, al ritorno dalle ferie non sarà ancora in grado di dire ai suoi cittadini quali sono i suoi piani programmatici di finanza pubblica per il quinquennio di legislatura. Con l’eccezione di un decreto lavoro che ha raccolto le critiche di tutte le imprese, grandi medie e (soprattutto) piccole, sarà solo con la legge di bilancio che verrà approvata a fine 2018 che cominceranno ad entrare in vigore ed a impattare l’economia italiana i primi provvedimenti economici, a circa un anno dalle elezioni. Detto in altri termini, per quanto riguarda la politica economica, questa coalizione ha effettivamente già oggettivamente perso un anno, il 20%, del tempo a disposizione.

E non pesano poco, questi rinvii. Ne è certamente conscio il Ministro dell’Economia Tria quando, intervistato da questo giornale, correttamente ricorda come “i rinvii generano incertezza”. E’ un’incertezza, quella che regna ancora oggi, che ha una sua origine specifica. Resta infatti un mistero, al di là della violazione formale di quanto richiesto dalla normativa, del perché i due leader della coalizione, ancor prima del Presidente del Consiglio, non abbiano voluto metter mano sin da subito al Documento di Economia e Finanza il cui solo tendenziale, è bene rammentarlo, era stato già elaborato dal governo Gentiloni. L’Italia è priva infatti a tutt’oggi dell’obbligatorio quadro programmatico di finanza pubblica per il prossimo quinquennio. Così i mercati giornalmente si chiedono se devono scommettere su un deficit gialloverde al 5% del PIL che finanzi flat tax e reddito di cittadinanza, un deficit al 3% che finanzi investimenti pubblici o un deficit europeo inferiore all’1% fatto di addizionale austerità. Dalle parole di ieri sul Sole 24 ore del Ministro sembra emergere anche un quarto scenario di una “non eccessiva correzione” che, dato il deficit del circa 2% del 2018 e quello del (nuovo) tendenziale dell’1,2% per il 2019 dovrebbe fermarsi attorno all’1,5%.

Non aver permesso al Ministro Tria di ragionare sin dai primi di giugno sul che fare all’interno di un quadro programmatico pluriennale prefissato ha già generato costi addizionali che stiamo pagando, al di là di quelli dovuti alla maggiore incertezza. Sarebbe stato prima di tutto possibile trovare lo spazio politico e finanziario per avviare sin dal 2018 una serie di piccole opere pubbliche edilizie per scuola, dissesto idrogeologico, carceri, care anche al Ministro Tria, che avrebbero avuto sin da fine anno un impatto reale sull’occupazione, specie quella nel Meridione e nei comparti meno istruiti della nostra forza lavoro, che stanno soffrendo maggiormente l’attuale fase ciclica. Con tale documento programmatico si sarebbe poi potuto chiarire sin da subito come attuare la riforma numero uno ancora inattuata, la spending review, così da, da un lato, evitare tagli lineari e blocchi nominali della spesa, mosse recessive che altro non sono che tipiche conseguenze del muoversi in ritardo e, dall’altro, aumentare i fondi a disposizione per maggiori investimenti pubblici non in deficit, capaci purtuttavia di generare crescita economica.

Con tale documento si sarebbe infine potuto avviare concretamente, con una posizione italiana di forza sull’onda del voto primaverile, un negoziato eventuale con la Commissione europea sui deficit a venire. Negoziato che utilmente il Ministro Tria sta svolgendo ora, ma che rischia di finire per far sì che, come sempre è accaduto coi passati Governi, il DEF venga scritto all’europea e non all’italiana, e sappiamo bene come questo nel passato abbia portato la nostra economia ad invilupparsi in un circolo vizioso di austerità, bassa crescita e debito crescente: non un buon auspicio.

Non è il caso di piangere sul latto versato, ma è evidente come, al di là delle dichiarazioni di agosto, la Nota di Aggiornamento di settembre del “DEF che non c’è” risulterà già essere l’ultima stazione utile per questo Governo, se desidera lasciare una traccia e sopravvivere alle future elezioni. E se questa Nota sarà stata scritta da altri o conterrà proposte irrealizzabili o nuovamente tardive nel tempo, non sarà tanto il caso di preoccuparsi ancora di un assurdo e dannoso piano B quanto piuttosto di una definitiva retrocessione in serie B del nostro Paese all’interno del campionato mondiale della crescita dello sviluppo economico e sociale.

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Piccolo è vomitevole? Solo in Italia

La figura 7.9 evidenzia, inoltre, come nello stesso quinquennio 2013-2017, l’importo medio dei lotti per tipologia di contratto veda una crescita rilevante dell’importo medio per le forniture che aumenta, rispetto al 2013, del 101% e, rispetto al precedente anno, del 33,4%. Analogamente per l’importo medio dei servizi, che registra un aumento del 52,3% rispetto al 2013 e del 12,6% rispetto all’anno precedente. Tali dati sono sostanzialmente coerenti con le evidenze degli ultimi anni nei quali il numero delle procedure di affidamento che, ad eccezione dell’anno precedente, è sostanzialmente invariato nel quinquennio in esame, è associato ad un maggior importo a base di gara, per effetto soprattutto di appalti banditi da soggetti aggregatori/centrali di committenza o da stazioni appaltanti di grandi dimensioni.“  (p. 132, relazione annuale 2017 dell’ANAC).

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Sono straordinariamente penose le parole che uno è costretto a leggere nella relazione annuale dell’Autorità Nazionale Anticorruzione di quest’anno a riguardo della dimensione media delle gare d’appalto in questi ultimi anni in Italia.

A causa della tremenda e a questo punto colpevole pervicacia della politica a mettersi nelle mani (e chissà cos’altro) delle grandi imprese, ha criminalmente adottato il modello di politica industriale volto a escludere le piccole imprese dalla domanda pubblica aumentando – ricorrendo alla famosa centralizzazione – il valore delle gare a tal punto da rendere impossibile qualsiasi loro partecipazione.

Non si sentirebbe Cantone di chiedere alle autorità giudiziarie, a questo punto, di indagare se esistono dei legami tra politica, grandi stazioni appaltanti e grandi imprese volti a spartirsi la vincita della maggior parte delle gare pubbliche?

Quale altra spiegazione può ormai esserci? Quale è il motivo per cui negli Stati Uniti si vieta l’aggregazione delle gare in nome della concorrenza, per favorire la crescita delle PMI e del tessuto competitivo del Paese, e in Italia all’opposto si scoraggia in tutti i modi alle piccole stazioni appaltanti di fare bandi sul territorio? Per quale motivo l’Italia risulta sempre ultima nell’Unione europea quanto a attivismo nelle gare pubbliche a favore delle PMI secondo quanto previsto e raccomandato dallo Small Business Act europeo? Per quale motivo ogni singolo Governo che si è succeduto in questi ultimi anni si è rifiutato di adempiere all’obbligo di portare alle Camere entro il 30 giugno il disegno di legge annuale per le PMI?

Perché piccolo è vomitevole solo in Italia, quando è bello altrove?

Non resta a questo punto che una risposta. Sarebbe bene che qualche giudice penale aprisse un ampio fascicolo per individuare e condannare i colpevoli per corruzione sistemica.

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3% ed euro: la sola ricetta vincente

Il mio pezzo oggi sul Sole 24 ore.

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“La posizione del governo è netta e unanime. Non è in discussione alcun proposito di uscire dall’euro.” Erano necessarie, attese e fondamentali le parole pronunciate dal Ministro dell’Economia Tria al riguardo della posizione della coalizione giallo-verde sulla permanenza nell’area valutaria comune.

Vedremo ora cosa avverrà allo spread. Se questo non muterà, attestandosi al nuovo livello strutturale superiore ai 200 punti base non è assolutamente detto che l’intervento del Ministro non sia stato fondamentale: in assenza di esso avremo facilmente potuto toccare nei giorni a venire una quota stabilmente sopra i 300. Rimane tuttavia il problema di come far entrare lo spread sotto quota 100 e quindi di quali siano a tal fine non solo le condizioni necessarie, ben affrontate da Tria, ma anche quelle sufficienti.

Non vi è dubbio che parte dell’incertezza dei mercati che si riflette sui nostri tassi sia dovuta alle domande che si pongono gli operatori sullo sforamento del deficit pubblico, potenzialmente molto ampio se vi includiamo tutte le proposte finora messe in agenda tra flat tax, investimenti pubblici, clausole di salvaguardia dell’Iva eliminate, esodati e reddito di cittadinanza, a seguito della prossima manovra finanziaria autunnale. Mentre ci si aspettava con ansia, a valle della decisione del duo Gentiloni-Padoan di uscire con un Documento pluriennale di Economia e Finanza con le sole grandezze tendenziali, di vedere subito pubblicato il piano programmatico a 5 anni, il Ministro ha reso invece noto nell’intervista come “i nuovi conti saranno presentati con la nota di aggiornamento del Def in settembre”. Ovviamente i mercati non possono aspettare così a lungo per conoscere nei dettagli la posizione fiscale di questo Governo, ed è quindi ovvio che, anche se non detto, Tria dovrà portare la posizione del Paese al riguardo della politica fiscale la prossima settimana all’Ecofin dei Ministri economici e finanziari, suo primo banco di prova, probabilmente decisivo per fissare i paletti della negoziazione futura.

Ma quale potrebbe essere una posizione capace al contempo di tranquillizzare gli alleati europei ed i mercati e soddisfare gli elettori della coalizione, proteggendo gli interessi nazionali? Partiamo dal tendenziale lasciato in eredità da Padoan: con le clausole di salvaguardia attive, il deficit su PIL passerebbe dallo 1,6% di quest’anno ad uno 0,8% nel 2019. Dando ormai per scontato, visti anche gli impegni pubblici presi da Di Maio, che l’IVA non aumenterà, il deficit 2019 sale di circa 1% (senza tener conto tuttavia di un positivo impatto sulla crescita economica di tale provvedimento), all’1,8%.

Visti i timori che circolano su sforamenti verso il 4 o 5% del PIL del deficit, se Tria presentasse a Bruxelles un DEF che bloccasse il valore del disavanzo al 3% per i prossimi anni, valore simbolico perché pari a quello ideato per il Trattato di Maastricht, il governo giallo verde avrebbe a disposizione un altro 1,2% di PIL, 20 miliardi circa, per manovre moderatamente espansive da subito, capaci di aiutare la crescita e soddisfare gli elettori. 5 miliardi per “agevolare l’uscita dal mercato del lavoro delle categorie ad oggi escluse”, 2 miliardi per i centri di impiego, 3 miliardi per un inizio di flat tax e 10 miliardi di quegli investimenti pubblici così correttamente richiamati dal Ministro Tria nella sua intervista sarebbero sufficienti. E’ probabile che la crescita che seguirebbe permetterebbe anche al debito su PIL di cominciare finalmente ad imboccare quella traiettoria discendente che con l’austerità non si è mai generata.

Restano infine aperte due domande.

La prima: e gli spread, cosa farebbero? E’ noto che gli spread seguono la Politica, e non viceversa. Un messaggio forte dall’Europa, guidata dalla Merkel e Macron, che l’Unione europea è vicina all’Italia in questo momento di difficoltà e che il 3% è un valore accettabile per ripristinare la crescita, genererebbe entusiasmo e fiducia che il progetto europeo ha un lungo futuro davanti a sé, contribuendo ulteriormente al miglioramento dei conti pubblici italiani e alla stabilità dell’area continentale.

La seconda: per quanto tempo andrebbe tenuto al 3% il deficit dopo il 2019? Il trend tendenziale previsto da Padoan indicava già ulteriori miglioramenti sensibili del deficit nel 2020: si genererebbero cioè spazi ulteriori per più investimenti pubblici e un rafforzamento della riduzione delle imposte, nonché l’avvio di una prima forma di reddito di cittadinanza senza sforare il 3%. Dal 2021, poi, ulteriori forme espansive di supporto all’economia verrebbero dai primi effetti di quella spending review che tutti auspichiamo possa avviarsi sin da ora, lasciando che i suoi primi effetti strutturali si possano effettivamente far sentire, realisticamente, entro due anni, permettendo al taglio degli sprechi e non più ad ulteriori deficit di finanziare gli aiuti all’economia.

Tutto questo il Governo dovrebbe portare subito, al prossimo Ecofin, sostenendo pienamente il suo Ministro dell’Economia: solo così potremmo sperare di avviare quel circolo virtuoso della ripresa economica, sociale e politica del nostro Paese e con esso dell’Europa intera.

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Gramsci, Europa ed euro

Il mio pezzo uscito oggi su sito Micromega

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Sono state ore drammatiche quelle che ha vissuto  la nostra Repubblica poco prima del 2 giugno. Momenti in cui si è arrivati a preoccuparsi dell’ordine pubblico, visto che nel giro di poche ore un’intera e ampia classe di persone, con l’apparente abbandono del programma del cambiamento giallo-verde a seguito della rinuncia del premier incaricato Prof. Conte, aveva visto sfumare davanti ai propri occhi la possibilità di ottenere un reddito di cittadinanza sostanzioso nonché una riforma fiscale di riduzione delle imposte altrettanto sostanziosa, basata sulla flat tax. Come non pensare che questo scenario non avrebbe potuto  generare tensioni e sfociare addirittura nella rivolta?

I rischi di sommovimenti dell’ordine pubblico sono spesso figli di una qualche patologia nell’ordine sociale, inteso anche, a monte, come legittimità e autorevolezza delle nostre classi dirigenti. Come scrisse Gramsci, nei suoi “Quaderni del carcere”, in tali momenti di crisi si verificano delle transizioni, che danno vita a un “interregno”: “se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più “dirigente”, ma unicamente “dominante”, detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.” A distanza di quasi 100 anni, queste parole risuonano pregnanti e attagliate alla condizione della nostra Italia. Ovviamente in un contesto diverso: nello specifico in un contesto altamente globalizzato, per noi europeistico, perché legato a istituzioni di stampo europeista.

Come frenare questi fenomeni morbosi e riuscire a garantire come minimo una transizione serena?

Certamente molto ha fatto il Presidente della Repubblica Mattarella al riguardo quando ha rifiutato di siglare la nomina del pur competente Prof. Savona. Come d’altronde immaginare si potesse allocare allo scranno più alto della politica nazionale un economista di prestigio che scriveva solo tre anni orsono “il grado di riuscita del Piano B è in funzione del livello di segretezza che si riesce mantenere” per “…lasciare la zona euro in fretta”, senza che la popolazione italiana si fosse esplicitamente pronunciata al riguardo come, a questo punto, potrà fare nel dibattito verso  le prossime elezioni politiche che vedrà due schieramenti contrapposti sul tema euro?

Per proseguire nell’alveo democratico che garantisce la minimizzazione dei rischi di un interregno “morboso”, è stato bene procedere nella stessa direzione, non accontentandosi di un competente governo tecnico inviso alla maggioranza degli elettori. Sarebbe stato come mettere benzina sul fuoco. Le alternative chiare che rimanevano erano quelle di un governo politico subito, come è stato, che confermasse a parole e nei fatti la permanenza nell’area dell’euro senza se e senza ma; oppure di nuove elezioni politiche nelle quali, appunto, il tema dell’euro doveva finire per divenire il nostro referendum, a valle del quale e solo a valle del quale un Governo anti euro sarebbe stato legittimato popolarmente a stampare carta moneta intitolata lira.

In ambedue i casi si poneva comunque la questione, per chi desidera perorare la causa della moneta comune europea come chi scrive, di come convivere nell’euro nella crescita e non nello scontento: nel primo caso un Governo giallo-verde nell’euro dovrà essere capace di ottenere dall’Europa politiche che rimettano in piedi quelle zone dell’Italia in cui il disagio è più immediato; nel secondo il partito pro-euro avrebbe dovuto saper argomentare in campagna elettorale, per non essere destinato alla sconfitta, come si può restare dentro l’euro e non  vivere strozzati dalle decisioni di Bruxelles.

La risposta in ambedue casi è una sola: pretendere dall’Europa la non applicabilità per l’Italia del Fiscal Compact, che ha impedito in questi anni la ripresa degli investimenti privati (chi mai li avrebbe fatti sotto la mannaia delle varie clausole di salvaguardia di aumento dell’IVA, più o meno credibili non importa?)  e l’utilizzo della leva degli investimenti pubblici tanto cara sia a Roosevelt negli anni 30 che a Obama nel post 2008 di fronte a problemi simili, di ordine economico e sociale.

Facendone cosa, di questa “libertà fiscale”? La soluzione ottimale anche a livello politico rimane quella di bloccare il deficit al 3% del PIL per 5 anni, non obbligando al bilancio in pareggio, e utilizzando le risorse così liberate per un Piano Straordinario di Solidarietà via appalti pubblici là dove più necessari, ovvero dove la disoccupazione è più alta, in Meridione certamente, ma soprattutto presso quelle classi della popolazione che sono a basso titolo d’istruzione.  Il Piano Straordinario di Solidarietà dovrà applicarsi prima di tutto agli appalti nel settore edilizio: scuole, carceri, abitazioni in zona sismica 1. Questi appalti dovranno partire in tempi rapidissimi, con legislazione straordinaria che garantisca che i controlli ANAC avvengano a valle sui cantieri e non a monte sulle procedure.   Come per i terremoti? Certamente, perché di questo trattasi: di un terremoto sociale che merita il massimo dell’attenzione.

Un’Europa e un’Italia che comprendessero la portata della sfida non si farebbero bloccare dagli inutili vincoli contabili che mai caratterizzarono la prima fase dell’Europa che sognava e garantiva solidarietà. Un’Europa e un’Italia che fossero all’altezza di questa sfida vedrebbero gli spread annullarsi, nella certezza della forza del progetto comune europeo.

Se un nuovo deve nascere, che nasca sulla base dei valori condivisi del passato che sembriamo aver dimenticato: solo la solidarietà può mettere al centro delle future generazioni un progetto di pace sostenibile e duraturo fatto di sviluppo, tolleranza reciproca ed equità.

Il primo segnale lo avremo da subito, con il programmatico previsto per i prossimi 5 anni dal Documento di Economia e Finanza del nuovo Ministro dell’Economia e del nuovo Presidente del Consiglio: sarà facile capire da subito se tira aria di Europa vera o di una di gattopardiana memoria.

Grazie per spunto Gramsci!