THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Autonomia fiscale? Qualità della spesa allora cercasi.

Oggi, il mio pezzo sul Sole 24 Ore.

*

All’ultimo Festival dell’economia di Trento l’economista Lars Feld, membro del Consiglio tedesco degli esperti economici, così si è espresso a riguardo della posizione italiana: “se l’Italia non abbandona parte della sua sovranità fiscale, non potrà mai ottenere la solidarietà che desidera”.
E’ stata un’affermazione rilevante, che ha messo in evidenza un tipico stereotipo sulla posizione italiana a riguardo delle regole fiscali a fronte della nostra perdurante ed intensa crisi che si trascina da anni.
Mi sono trovato al tavolo del dibattito a sostenere come ci dovesse essere un equivoco, perché l’Italia non sta chiedendo solidarietà; sta chiedendo maggiore autonomia fiscale, che è tutt’altro.
L’Italia non chiede solidarietà per due diversi ordini di motivi. Il primo, è perché sa che non le verrà concessa. E non perché la Germania non sia capace di dare solidarietà: il maggior esercizio di questa dal dopoguerra in poi in Europa è stato proprio quello che i tedeschi dell’Ovest hanno effettuato a favore dei fratelli (o al massimo cugini) dell’Est all’indomani della caduta del muro di Berlino. Il problema è che italiani (o greci) ad oggi non hanno un grado di parentela simile: sono al massimo lontani cugini di quarto grado. Certo, l’Unione europea è stata creata proprio nell’intento di avvicinare questi gradi di parentela; essa idealmente si evolve infatti esattamente all’inverso di un nucleo familiare, con i figli dei figli dei miei figli che diverranno fratelli dei figli dei figli dei figli del mio collega economista tedesco. Che non sia ancora tempo di solidarietà reciproca in Europa (come non lo era negli Stati ancora poco Uniti d’America del XIX secolo) è provato dal totale disinteresse politico europeo che generalmente si accompagna a proposte fondamentalmente solidali come gli eurobond o il sussidio europeo di disoccupazione, che non sono altro che un trasferimento (oggi) dai contribuenti tedeschi a quelli italiani (o greci).
Il secondo motivo, più sottile, ha a che vedere col fatto che – specie in assenza di esplicita fratellanza – la solidarietà anche qualora concessa ha un che di paternalista e indulgente e un popolo come quello italiano difficilmente si piegherebbe a richiederla.
Quando l’Italia non obbedisce alle regole fiscali europee (come ha fatto questo Governo presentando per ben due volte documenti di economia e finanza che non convergono al bilancio in pareggio nel triennio successivo) manifesta piuttosto un’altra richiesta: quella di liberarsi di regole che non le permettono di esercitare una politica autonoma a sostegno della propria economia.
In un momento in cui le regole europee sono state messe in discussione addirittura dall’ortodossissimo European Fiscal Board (figlio dello stesso Fiscal Compact) nel suo ultimo rapporto e in cui certamente una riforma di queste arriverà presto sul tavolo delle riforme del nuovo Parlamento europeo e della nuova Commissione europea, l’Italia non deve dunque sentirsi un pariah nel portare avanti delle proprie proposte di riforma, tanto più se si considera che il Fiscal Compact ha fallito in maniera evidente solo per i paesi più in difficoltà e che quindi una riforma si rende più urgente ed indispensabile proprio per aiutare paesi come l’Italia e la Grecia a uscire fuori da una crisi in cui le attuali regole austere non hanno fatto altro che invischiarle ancor di più, mettendo a rischio l’Europa tutta.
Ora, se guardiamo alla storia del percorso del XIX secolo statunitense quanto a regole fiscali, scopriamo calzanti analogie con l’Europa odierna (in fondo, si potrebbe azzardare, gli stati degli Stati Uniti di allora erano diversi tra loro come lo sono gli stati membri dell’Unione oggi): in particolare si nota come i singoli stati erano responsabili per i loro livelli di spesa, tasse, deficit e debito; insomma avevano sovranità di politica fiscale. Onori ed oneri tuttavia: quando a metà dell’Ottocento il Tennessee, avendo speso male i soldi ricevuti a prestito dai mercati per effettuare spesa inutile su progetti faraonici, chiese a Washington DC di essere aiutata a ripagare le banche, si sentì rispondere un suonante “no, nessun bail-out”. Finì che il Tennessee decise di fare default, con banche imprudenti e cittadini locali che ne pagarono il prezzo. Fu soltanto quando l’America divenne veramente unita e solidale, negli anni 30 del secolo scorso, che le regole fiscali di bilancio in pareggio si vennero ad imporre nei singoli stati. Ma questo poté essere fatto perché c’era un nuovo attore, lo stato federale centralizzato, che operava esso stesso in deficit quando necessario, per il bene di chi ne avesse avuto bisogno in momenti di crisi.
Una unione di diversi, questa è la lezione del passato, non può essere lasciata senza una possibilità di usare i deficit in momenti di difficoltà: o questi si fanno a livello centrale (ma in Europa è oggi troppo presto, dovremo aspettare la tanto agognata fratellanza in una unica comunità politica federale, che solo il tempo potrà sperabilmente generare) o si lasciano a livello locale. Ma a una condizione: che i bail-out, i salvataggi dei governi nazionali da parte dell’Europa, siano strettamente vietati. Spetterà ai vari governi italiani di turno convincere i mercati della bontà dei propri deficit (e non ci sorprenderebbe se ci riuscissero solo qualora abbandonassero progetti inutili come i recenti provvedimenti di quota 100 e reddito di cittadinanza a favore invece di dosi massicce di investimenti pubblici) e alle banche tedesche e francesi di convincersi che i salvataggi ottenuti in occasione della crisi greca non si ripeteranno più.
E’ evidente che in fase di negoziazione questa posizione potrebbe trovare un compromesso finale nella tanto agognata golden rule che permette bilanci correnti in pareggio e spazio per investimenti pubblici in deficit fino ad un massimo del 3% del PIL. Una posizione negoziale italiana di questa fattura potrebbe avere ben maggiore ascolto che le follie dei Mini-Bot e avere il merito di ridare ossigeno vitale per la continuazione della costruzione europea.

Post Format

Creatività ed economia

La mia giornata con Piero Angelo per la serie di conferenze della mia Università, Tor Vergata di Roma, per un pubblico di studenti di liceo sul “Prepararsi al futuro”.

Post Format

Il Governo fa politica economica, non previsioni

Il mio articolo di oggi sul Sole 24 Ore.

*

Il Rapporto di previsione del Centro Studi di Confindustria ha il pregio di mettere il Paese di fronte ad un trivio: due opzioni chiarissime che portano dirette al precipizio ed una alla salvezza, dell’Italia e dunque dell’Europa, anche se la ingiustificata presenza di Juncker, Presidente della Commissione europea, all’incontro di Parigi tra due leader nazionali assieme al Presidente cinese Xi Jinping, fa presumere che non sia sufficientemente chiaro quanto l’intero progetto europeo si regga solo e soltanto, sempre, sulla solidarietà al partner in quel momento più debole e non sull’assenso verso i più forti.

Se le due strade del disastro sono ben descritte da chi – come un prestigioso centro studi – ha il compito di prevedere le conseguenze di azioni teoriche dannose nella speranza di contribuire a prevenirle, è anche giusto che questo non si dilunghi più di tanto sull’unico cammino , seppur impervio, che spetta alla Politica, e solo ad essa, realizzare, ovvero quello della ripresa della crescita economica e dell’occupazione (anch’essa attesa ferma per il 2019) e del rientro del rapporto debito-PIL verso una traiettoria di decrescita felice. Dare a Cesare quel che è di Cesare: ai centri studi le previsioni, alla Politica il governo dell’economia. E’ bene scongiurare infatti il rischio paradossale che lo stesso Governo si unisca al gruppo di previsori, lanciando allarmi piuttosto che risolverli: vi sono armi potenti che questo possiede, in particolare la politica fiscale, per influenzare (positivamente) le aspettative degli operatori, i loro piani di investimento e di assunzione, creando nuovi scenari di crescita che nessun previsore potrebbe aver mai ipotizzato, essendo questi sprovvisto del potere di disegnarli liberamente.

Ciò chiarito, è bene riassumere rapidamente i due sentieri verso cui, il Rapporto ammonisce, non si deve nemmeno per un attimo pensare di andare. “La scelta sarà tra aumentare l’IVA (come previsto dalle clausole) o far salire il deficit pubblico”, così vi si legge . Nel primo caso, il deficit su PIL si terrà sotto la soglia simbolica e chiave del 3%, ma al prezzo di una crisi di domanda interna dovuta all’impatto negativo su di essa dell’aumento nel 2020 e 2021 delle aliquote IVA : impatto sia diretto, sui consumi, che indiretto, sui piani di investimento che si basano preminentemente sulle stime da parte delle imprese di crescita di una economia. Nel secondo caso, senza aumenti dell’IVA, “il rapporto tra deficit pubblico e PIL (si porterebbe) pericolosamente oltre il 3 per cento e nelle attuali condizioni di credibilità e fiducia non sarebbe sostenibile”.  Assolutamente vero.

E allora, che fare? Il Rapporto, come detto, si limita giustamente a chiedere d’imperio una ritrovata via verso la crescita economica che, va ricordato, questo Governo si era potenzialmente creato quando, con la nota d’aggiornamento autunnale al DEF aveva scelto – contrariamente a quanto raccomandato dagli esecutivi precedenti – di ripudiare il diabolico Fiscal Compact, che obbliga i conti pubblici a transitare in tre anni al bilancio in pareggio con manovre di una insensata e drammatica portata recessiva sulla debole economia italiana. Purtroppo quell’opportunità positiva è stata incredibilmente vanificata con provvedimenti di spesa volti a sostenere trasferimenti come quota 100 e  reddito di cittadinanza invece di investimenti pubblici. Nel Rapporto, non a caso, si suggeriscono maggiori investimenti pubblici ma senza sforare il deficit: come fare? Una possibilità, quella di tornare indietro sui provvedimenti redistributivi di cui sopra è, ad avviso di chi scrive, pia illusione: i giallo-verdi hanno reso quella strada politicamente impossibile facendo di quelle misure una cifra identitaria.

Ecco dunque che spetta a questo Governo indicare, auspicabilmente nel DEF di prossima uscita, come intende sciogliere i dubbi di famiglie ed imprese e ridare loro ottimismo e fiducia, imboccando quella terza via della crescita, impervia certamente – tra vincoli posti dall’Europa, dai mercati e dalle proprie convinzioni partitiche – ma salvifica. A chi scrive spetta ricordare che la politica economica che viene insegnata da anni nelle università, a giovani pieni di interrogativi e bisognosi di certezze e risposte autorevoli,  da decenni mostra inequivocabilmente una soluzione, per qualsiasi economia di mercato alle prese con una crisi di domanda di proporzioni notevoli, come in questo caso quella italiana, ma anche vincoli di bilancio evidenti. Si chiama moltiplicatore di bilancio in pareggio e si basa sull’evidenza che un aumento di investimenti pubblici finanziato non in deficit ma da un aumento di tasse (o ancor meglio da un taglio di veri sprechi) abbia comunque una portata netta decisamente espansiva sull’economia grazie al fatto che proprio gli investimenti via appalti pubblici hanno un effetto diretto  e certo sull’economia che sovrasta quello negativo di pari aumenti della tassazione.

Sarà bene una volta per tutte, dunque, dire che questa spada di Damocle chiamata clausola di salvaguardia che da anni frena investimenti privati e pubblici, va esercitata, ridando certezza agli operatori sulle misure future del Governo. Ad una condizione tuttavia: che le risorse derivanti dall’aumento di IVA non vadano, come ricorda giustamente il Rapporto del Centro Studi di Confindustria, follemente e masochisticamente indirizzati alla riduzione del deficit. Ma, piuttosto, al finanziamento di opere, piccole e grandi, necessarie per il paese, al produttività della sua economia e per l’occupazione di tante persone con gravi difficoltà economiche. E’ solo percorrendo questa via che possiamo rimettere sul binario della speranza il destino del nostro paese e, con esso, dell’Europa tutta.

Post Format

Salviamo l’Europa con una nuova Costituzione fiscale

Il mio articolo oggi sul Sole 24 Ore.

*

Nella nota congiunturale dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio spicca una tabella che riassume le condizioni attuali al ribasso della congiuntura mondiale. A fronte di una crescita 2019 del 3,5%, sempre trainata dai paesi emergenti (+ 4,5%), sono i paesi avanzati a segnare come da decenni a questa parte il passo, con una crescita minore al 2%. Eppure all’interno del mondo sviluppato la condizione del convalescente è variegata: si passa dal 2,5% statunitense al solito 1% in meno dell’area euro, al solito 1% in meno addizionale dell’Italia.

Non si pensasse tuttavia che questa particolare congiuntura europea al rischio di ribasso, la terza nel giro di 10 anni, non abbia una sua caratura speciale e diversa. Non è sfuggita agli occhi più attenti il curioso parallelismo continentale tra Francia e Italia, in cui la prima, secondo la Corte dei Conti transalpina, fronteggia significativi rischi di finanza pubblica con un deficit vicino al 3%, un debito alto e poco spazio di ulteriore manovra a seguito degli 11 miliardi stanziati per venire incontro alle richieste di pensionati e lavoratori a basso reddito. Come non dedurne che in Europa è lo stato dell’economia con le sue prorompenti esigenze di maggiore equità a dettare la linea delle politiche di bilancio? In fondo, lo stesso avviene negli Stati Uniti, con la differenza che Trump si permette deficit pubblici ben più alti di quelli del Vecchio Continente e per il tramite della politica fiscale espansiva sorregge la sua economia ed il suo consenso elettorale, equilibrismo ben più instabile dall’altra sponda dell’Atlantico.

Abbandonato quel globalismo che non ha saputo coniugare alla crescita l’equità ed è risultato perdente e divisivo, il pendolo del mondo occidentale si sposta oggi verso forme di sovranismo che paiono tuttavia spesso specializzarsi nel dare più equità senza maggiore crescita, esito altrettanto politicamente rischioso, perché redistribuisce la stessa torta dando di più a qualcuno e meno ad altri, senza invece permettere alla torta di crescere dando di più a tutti. Eppure che sia proprio un maggiore deficit pubblico a doversi far carico in questa fase di aumentare la torta distribuendola meglio non è solo evidente dal caso statunitense. Nel suo recente discorso al Forex anche il Governatore Visco ha richiamato l’esigenza di sospingere la leva degli investimenti pubblici, capace a parere di chi scrive di effetti moltiplicativi superiori e effetti distributivi analoghi a quelli di reddito di cittadinanza e quota 100. Ma, come il suo collega Draghi a Francoforte, lo fa all’interno di un auspicato percorso di rientro verso il bilancio in pareggio, che può conciliarsi solo con aumenti di IVA di 20 miliardi annui o tagli lineari di spesa equivalenti: se con la mano degli investimenti diamo e con l’altra togliamo è impossibile pronosticare un’uscita dal circolo vizioso della stagnazione in cui ci siamo impantanati da quasi un ventennio.

La soluzione è a portata di mano e non può che essere discussa, democraticamente, innanzitutto durante la campagna elettorale per il Parlamento europeo, chiedendo alle forze politiche di pronunciarsi al riguardo di quale sia la nuova costituzione fiscale che ogni partito, nel rispetto dell’aderenza alla valuta comune dell’euro come simbolo di un progetto federativo condiviso, propone di sostenere per l’Europa, finito il periodo di prova (con esito disastroso) di 5 anni del Fiscal Compact. Vi sarà certamente una coalizione paneuropea che sosterrà l’esigenza di utilizzare, come fa ogni grande area economica, Stati Uniti e Cina in primis, una maggiore flessibilità di bilancio per i momenti di difficoltà economica. Se questo insieme di partiti risulterà vincitore o perlomeno influente nell’aula di Strasburgo, potremo forse finalmente entrare in un’epoca dedicata alla crescita economica di un Continente che deve porsi come obiettivo ambizioso quello di tornare a essere la locomotiva del mondo.

E l’Italia? Che il Fondo Monetario Internazionale ricordi a tutti, forse esagerando, che una crisi globale può partire dal nostro Paese è comunque un segnale che ci spetta assumerci delle responsabilità, specie se in cambio di queste ci verrà finalmente permessa quella politica fiscale espansiva che combini investimenti pubblici e deficit (una “golden rule”) così da poter ripartire in una fase di crescita equa ed un clima politicamente sostenibile. E quale è questo segnale di responsabilità? Semplice, è quello di finalmente realizzare la madre di tutte le riforme: una spending review che dimostri finalmente a tutti che sappiamo spendere bene (non meno!) le maggiori risorse di cui un’Europa intelligente e coesa ci permetterà di disporre.

Post Format

La manovra che c’è e quella che non c’è

Conversazione con Start Magazine

*

Prof, ha letto un breve passaggio dell’analisi del Corriere della Sera firmata da Federico Fubini ieri? Ha scritto Fubini: “L’area euro continua ad essere dominata dal totem del debito lordo iscritto nel Fiscal compact. Non importa quanto vale e quanto rende ciò che si produce con quel debito: conta solo ridurlo — si dice — «per non lasciarlo ai nostri figli». Poco importa se un debito investito bene a costo zero lascia un’economia con più conoscenza, migliori infrastrutture, scuole e università moderne, più edilizia sociale, più capacità di sostenere gli oneri in futuro”. Mi verrebbe da dire: alla buon’ora caro Corriere della Sera, perché non accorgersene prima? Perché non sostenere il referendum anti Fiscal Compact? O mi sbaglio?

Dice quel referendum con cui con Paolo De Ioanna ed altri cercammo di mobilitare l’Italia e che nell’estate del 2014 sfiorò le 500.000 firme necessarie per arrivare alla Corte Costituzionale? Guardi, più che dal Corriere, del quale mi avrebbe stupito all’epoca anche un solo articolo contro a fronte del silenzio più totale che adottò, ancora non riesco a digerire l’assurda mancanza di sostegno al referendum da parte del Pd di Renzi, un harakiri, l’ennesimo certo ma forse il più grave, di un partito che aveva l’opportunità di salvare l’Europa dell’euro dai sovranismi e guidare per i prossimi 20 anni il Paese. Comunque sia, felice che un corsivista come Fubini arrivi a Canossa, ma se devo dirgliela tutta…

Prego.

Fubini continua a dire che tutti i Paesi dovrebbero smarcarsi dal Fiscal Compact facendo più investimenti pubblici meno…. l’Italia! E perché? Perché secondo lui da noi “il debito è così alto che un suo aumento ulteriore può far salire dolorosamente i tassi d’interesse”. Senza capire che l’abolizione del Fiscal Compact mica è utile per i Paesi come la Germania, l’Olanda, e nemmeno per la Francia: ma per Paesi proprio come l’Italia e la Grecia, cioè quei Paesi a basso PIL e dunque alto debito PIL! Paesi che non riescono a stimolare il PIL perché gli è proibito di farlo dalle regole europee attuali e dunque non riescono a rimettere a posto nemmeno le finanze pubbliche ed il rapporto debito PIL che con l’austerità (non con le spese folli che non abbiamo proprio fatto in questo decennio) è salito di venti, dico venti, punti percentuali! Le regole europee sono sbagliate perché non prevedono crisi profonde come quelle che hanno toccato il nostro Paese o la Grecia, che vengono trattati alla stregua di Paesi dove tutto va bene. Abolire il Fiscal Compact vuol dire proprio questo: permettere ai Paesi più in difficoltà di fare investimenti pubblici, tanti investimenti pubblici, per tirarsi fuori dalla crisi, non certo alla Germania!

Prof, veniamo all’attualità. Sbaglio o l’intervento della Commissione Ue sulla manovra ha avuto un effetto recessivo con più tasse e meno investimenti pubblici? Il rigore austero trionfa ancora dunque?

E’ una domanda complessa e importante. L’Ufficio Parlamentare di Bilancio correttamente oggi indica come la manovra sia diventata, rispetto a quella presentata a ottobre dallo stesso Governo, meno espansiva nel 2019 e più restrittiva nel 2020 e 2021. Il che conferma due cose: a) che la manovra per il 2019 era e rimane complessivamente espansiva; b) che dal 2020 il meccanismo europeo continua a chiedere a questo Paese di fare riduzioni di deficit via aumento dell’IVA, oggi (dicembre) ancor più di ieri (ottobre). Ma l’intervento dell’UPB in parte confonde le acque perché si limita a paragonare una manovra che non è mai esistita (quella di ottobre) con quella attuale. Mentre un paragone ben più preciso lo dovremmo fare tra la manovra che verrà approvata sabato e due altre manovre.

Quali due manovre, prof?

La prima, quella prevista dal governo Gentiloni-Padoan di aprile 2018. Rispetto a quella manovra (che includeva addirittura anche l’aumento dell’IVA per il 2019!) il Governo ha spuntato una manovra finale molto più espansiva, di quasi 70 miliardi in tre anni, in più per fortuna contravvenendo per la prima volta alle assurde pretese del Fiscal Compact di far convergere un Paese malato come l’Italia al bilancio in pareggio in 3 anni, come promesso anche da Gentiloni e Padoan ed i governi precedenti. Un passo direi molto coraggioso; e che il deficit si chiuda al 2% per il 2019 come si chiuderà o che si fosse chiuso al 2,4% come si diceva a ottobre l’apprezzamento non muta.

E l’altro paragone, qual è?

Beh, con la manovra che non c’è.

Cioè? Che cosa è la manovra che non c’è?

La manovra che sarebbe stata ideale per il Paese, quella che questo Governo non ha avuto il coraggio di fare. Quella manovra che avrebbe messo tutte le risorse create rispetto a Gentiloni-Padoan in investimenti pubblici (torniamo dunque a Fubini, ma ricordando che sto parlando dell’Italia, di cui lui non vuole nemmeno sentir parlare, ma vedrà che tra un paio di anni si convincerà anche lui) invece che in reddito di cittadinanza e quota 100. Questa manovra sì che avrebbe generato una vera crescita del 2% nel 2019. E quindi valgono anche per loro le parole di Fubini, molto belle: “La domanda alla quale è ancora più difficile rispondere è perché i leader “italiani” (e non solo gli altri europei, dico io) soffrano di questa incredibile mancanza di fantasia”. E’ una mancanza di fantasia che rischiano di pagare caro Di Maio e Salvini. Perché se loro mi dicono che questo Paese aveva bisogno di redistribuzione verso i più deboli, ed io sono d’accordo, ma dico anche che non ha senso farla, questa redistribuzione, a scapito della crescita.

Facile a dirsi…

No, si potevano avere tutte e due, redistribuzione e crescita, tramite una semplice e coraggiosa focalizzazione solo sugli investimenti pubblici. E sa cosa avrebbero ottenuto?

Che cosa?

Un sacco ma un sacco di voti in più. Come Renzi nel 2014, hanno perso proprio un’occasione immensa di chiudere la partita politica per i prossimi venti anni, salvando anche l’Europa dall’incubo della sua dissoluzione per mancanza di popolarità.

Pensa davvero come M5S e Lega che le prossime europee saranno decisive per ribaltare equilibri e impostazioni della Commissione europea?

Forse. Ma chiariamoci: il tavolo era già pronto a essere ribaltato. Se non l’hanno fatto stavolta, dubito che lo facciano dopo le elezioni, anche in caso di successo. E quando sbagli, prima e poi il conto lo paghi. Quindi sarà, se lo sarà, un successo effimero e non duraturo.

Post Format

Appalti, province capofila

Oggi sul Sole 24 Ore il mio articolo con Gaetano Scognamiglio.

*

Va nella direzione di provare a razionalizzare il sistema degli appalti pubblici a livello locale il comma 4 dell’art. 16 della Legge di Bilancio 2019, che modifica l’art. 37 del Codice appalti stabilendo, che – in attesa (da quanto tempo ormai!) della qualificazione delle stazioni appaltanti – le province e le città metropolitane operino obbligatoriamente come centrali di committenza di lavori pubblici per tutti i comuni non capoluogo afferenti alla provincia stessa  o alla città metropolitana.

La soluzione, corretta e ispirata alla logica di valorizzare l’esistente, è altresì confortata dai risultati dello studio realizzato dall’Accademia per l’Autonomia in collaborazione con Promo PA Fondazione e l’Università di Roma Tor Vergata, che analizza  58 Stazioni Uniche Appaltanti (provinciali e di area metropolitana) e 865 Centrali Uniche di Committenza comunali, proponendo un  modello organizzativo nel quale  Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni possano individuare, all’interno di una stessa area territoriale, ambiti di complementarietà  e specializzazione e dove le province si configurano come centri strategici di aggregazione e di innovazione nel sistema degli acquisti a livello locale.  Così si andrebbe verso il raggiungimento di un duplice obiettivo: ridurre il grado estrema centralizzazione degli appalti dell’ultimo decennio che così tanto male ha fatto alle piccole imprese ed al loro potenziale di crescita ma al contempo garantire quella razionalizzazione (sinora mai avvenuta) necessaria tramite l’eliminazione di un numero congruo di punti ordinanti, in particolare quelli troppo piccoli quanto a volumi delle loro gare, che hanno il solo effetto di distorcere la domanda pubblica verso decisioni spesso poco coordinate con l’indirizzo generale di politica industriale per il Paese.

In mancanza di un quadro normativo chiaro sui livelli di qualificazione, che sperabilmente rivoluzioni anche le carriere del procurement officer e ne valorizzi le competenze acquisite sul campo anche con riconoscimenti pecuniari e di carriera, lo studio ritiene appunto auspicabile che sui territori i diversi soggetti possano trovare forme di collaborazione basate sulla capacità/possibilità di svolgere alcune funzioni piuttosto che altre e che, in particolare, “le Stazioni Uniche Appaltanti a livello di area vasta (Provincia o città Metropolitana) potrebbero puntare a un livello di qualificazione che le consentono di gestire appalti sopra una certa soglia e specializzarsi nella gestione di gare di lavori che per dimensione non sarebbero accessibili a enti locali di piccola-media dimensione”.

Infatti il comma 4 può aprire interessanti spazi di manovra nel momento in cui si stanno rilanciando gli investimenti pubblici con la possibilità, prevista dal ddl della finanziaria in discussione, di utilizzare liberamente gli avanzi di amministrazione appunto per investimenti, liberando risorse per decine di miliardi di euro. Il ruolo affidato alle province potrà dunque essere determinante, a patto però che si agisca sul versante delle competenze e delle risorse umane, indebolite dalla riforma Delrio, come dimostra un’analoga ricerca condotta sul tema sempre dall’Accademia per l’Autonomia. Gli uffici tecnici delle province vanno perciò messi in grado di far fronte alle nuove funzioni previste dal comma 4, nonché di predisporre in tempi rapidi i bandi necessari a sbloccare gli investimenti e realizzare le opere. E’ necessario pertanto da un lato, prevedere un processo di aggiornamento e formazione del personale delle province in materia di appalti pubblici e, dall’altro, reperire rapidamente nuove figure professionali da immettere nel sistema. Mentre sul primo punto esiste un’offerta formativa già presente e diffusa sul territorio, per la selezione d’ingresso è auspicabile pensare a concorsi a livello regionale, che possono rispondere in modo più efficace alle esigenze dei territori.

Post Format

Acta, non verba

Il mio pezzo oggi sul Sole 24 Ore

*

All’appropriata locuzione “Verba volant, scripta manent” del Ministro Savona nel recente articolo apparso su queste colonne per descrivere lo stato delle relazioni tra Unione europea e Italia è utile aggiungerne un’altra: “acta, non verba”!

Necessità di azione che è stata richiamata nell’importante discorso presso l’Università di Lund del Presidente della Repubblica Mattarella, anch’esso meritoriamente sottolineato dal Ministro degli Affari Europei, quando ha affermato come “uno dei fondatori, lo stesso Jean Monnet, teorizzò come il progredire della costruzione europea fosse legato proprio alla sua capacità di superare le crisi”. Una crisi che in tal senso, al contrario di quanto avvenne negli Stati Uniti negli anni 30, in Europa non è mai riuscita a generare quella unità d’intenti che invece permise ai primi di cementare, grazie alla solidarietà della politica fiscale di Franklin Delano Roosevelt, una nazione finalmente veramente federale, gli Stati “veramente” Uniti d’America.

Un’Europa incapace di agire, le cui raccomandazioni, per esempio all’Italia, spesso pedissequamente seguite dai nostri precedenti Governi, hanno generato una stagnazione più lunga e intensa addirittura di quella della Grande Depressione del secolo scorso con annessa una instabilità dei conti pubblici che ha portato il rapporto debito PIL a salire di 20 punti percentuali in pochi anni malgrado l’esistenza di consistenti avanzi primari, la prova della c.d. assurda austerità in tempi di difficoltà economiche.

Chi ha agito, meritoriamente per chi scrive, per generare le condizioni necessarie per una ripartenza italiana e dunque europea è stato questo Governo, facendo in sostanza fallire l’accordo sciagurato del Fiscal Compact e della sua convergenza senza se e senza ma al pareggio di bilancio nel giro di un triennio, che tanta parte ha avuto nell’innestare le dinamiche di cui sopra: ”acta, non verba”, che hanno liberato circa 70 miliardi di risorse rispetto a quanto contenuto nel DEF firmato da Gentiloni e Padoan.

Ma se è vero che questa scossa era necessaria, essa non può assolutamente essere considerata sufficiente. Sempre da parte italica ci si sarebbe aspettati che a fronte di questo brusco e utile strappo si fossero concessi all’Europa strumenti utili per un dialogo nei fatti, al di là delle parole e degli scritti. Non era infatti pensabile che, a fronte di un noto e in parte condivisibile stereotipo prevalente in Europa sulla qualità della nostra spesa pubblica, al fine di rilanciare lo sviluppo non si fosse agito per – a parità di nuovi saldi di bilancio – proporne un utilizzo finalizzato alla certezza della sostenibilità dei conti pubblici via crescita economica. Il che implicava inviare all’Europa una manovra con il deficit al 2,4% del PIL, certamente, ma in cui le risorse venivano dedicate principalmente al rilancio dei martoriati (dai precedenti Governi) investimenti pubblici e ad una contemporanea spending review che non consistesse tanto nei soliti e negativi tagli lineari a casaccio ma nell’identificazione degli sprechi e nella loro cura via aumento delle competenze, in particolare delle stazioni appaltanti in sinergia con quel rilancio degli investimenti di cui dovevano essere le prime responsabili.

Sono passati 6 mesi di Governo gialloverde e quello che abbiamo visto in termine di azione è solo la prima parte, il “des”, il deficit al 2,4%, ma non il “do”: di spending review nulla sappiamo e di investimenti pubblici addizionali nulla abbiamo visto. E a nulla serve dire che il reddito di cittadinanza ha preminenza sugli investimenti pubblici perché si devono combattere disoccupazione e povertà: gli investimenti pubblici nelle zone più in difficoltà proprio quello avrebbero fatto, e ben meglio del reddito di cittadinanza perché si legano indissolubilmente e credibilmente con quanto di più nobile e degno vi sia nella vita delle persone, il lavoro.

E’ tempo che anche l’Italia porti all’Unione Europea quanto necessario per avviare quel dialogo che rimetta al centro del futuro delle prossime generazioni un progetto di vita in comune in nome degli ideali della libertà nella diversità che come, sosteneva Monnet, fanno grande una Unione di Stati.

Post Format

Lo Stato nell’economia (italiana)

Ieri sul Foglio, a firma di:

Alberto Amaglio, Giulio Citroni, Stefano Clò, Anna Giorgi, Gustavo Piga, Giulio Sapelli . 

*

Caro Direttore,

il dibattito pubblico di queste settimane ha riportato in auge interrogativi, riflessioni e polemiche sul perimetro e le modalità della presenza dello Stato nell’economia. A chi scrive, questo pare un cambiamento significativo del sentire comune dopo alcuni decenni durante i quali ai processi economici controllati dal pubblico è stata attribuita un’aura negativa.  Si è detto e scritto, da più parti, di come e quanto il pubblico fosse geneticamente caratterizzato da alti livelli di burocratizzazione, poca meritocrazia, anti-economicità ed inefficienza, colonizzato da una “casta” di dirigenti, funzionari e amministratori nullafacenti o, peggio, asserviti a questo o quell’interesse di parte. Di contro al libero mercato e all’iniziativa dell’impresa privata vocata al profitto è stato attribuito il carisma di dinamicità, efficienza e innovazione. Insomma, a ragione o torto che fosse, lo Stato, si è detto, meno si occupa di economia, meglio è per il Paese, dimenticando che il fine ultimo delle riforme è l’efficienza e il miglioramento della qualità dei servizi.

Un clima di opinione che, lungi dall’essere rimasto solo parola scritta, ha generato le scelte di politica economica – sostenute per il vero da pressoché quasi tutto l’arco costituzionale della seconda repubblica – che oggi vengono da più parti messe in discussione. Le privatizzazioni di grandi imprese statali, la nascita del sistema concessorio dei servizi pubblici, anche quelli in monopolio naturale, la riduzione del perimetro di azione dello Stato nell’economia e nella società, sono solo alcuni esempi dei frutti del declino distorto della reputazione del “pubblico” a favore del “privato”, a cui va aggiunta la non secondaria spinta del crudo dato di bilancio che “obbligava” alla riduzione, anche rapida, del debito dello Stato piuttosto che alle ben più importanti liberalizzazioni che avrebbero potuto vedere pubblico e privato affrontarsi e sfidarsi. Nel mentre, sempre a causa del mix di ideologia privatistica e di carenza di risorse, gli enti locali sono stati lasciati a se stessi e molti dei più piccoli e precari hanno perso la capacità di gestire in proprio i servizi senza nemmeno acquisire la capacità di controllare efficacemente le gestioni esternalizzate.

Oggi siamo senza dubbio di fronte a un mutamento di paradigma, solo apparentemente conseguenza dei recenti fatti di cronaca. Con diverse sensibilità, anche le forze politiche esprimono riserve e critiche rispetto al percorso di privatizzazioni che i governi italiani ed europei hanno realizzato nel corso degli ultimi decenni. D’altronde il ritorno dello Stato nei processi industriali è un fenomeno che globalmente sta dando notizia di sé, da prima dell’inizio della crisi finanziaria. Dal 2000 al 2015 vi sono stati, ad esempio, 235 casi di ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico integrato in 37 Paesi e per oltre 100 milioni di abitanti in ragione dei bassi investimenti della gestione privata e dell’aumento dei prezzi. Lo stesso fenomeno ha interessato i rifiuti, l’energia, i trasporti, la sanità in Paesi come Germania, Giappone, Svezia, Francia, Regno Unito. Il numero delle imprese controllate dallo Stato presenti nella lista di Fortune delle 500 migliori aziende quotate del mondo è raddoppiato dal 2005 al 2014.

Ciò che ci pare degno di nota è che dal dibattito di queste settimane sono del tutto assenti alcuni interrogativi che ci sembra essenziale porre. Quando si parla – bene o male poco importa – di ritorno al pubblico dei servizi di interesse generale, ci si dovrebbe prima di tutto chiedere quale modello di azienda pubblica abbiamo in mente. Una società per azioni quotata in borsa ma con un azionista pubblico di riferimento? Una spa non quotata e che reinveste i suoi profitti? Una società semplicemente not for profit? Un’azienda speciale, che ricade interamente nel diritto pubblico? Si tratta di modelli molto diversi tra loro e con grande probabilità adatti a svolgere funzioni diverse.

Chi scrive ha da tempo superato l’idea che ci sia una contrapposizione tra pubblico e privato intesi come modelli incompatibili e, di più, siamo convinti che l’impresa pubblica sia stata troppo frettolosamente archiviata, cedendo a luoghi comuni e generalizzazioni e, soprattutto, senza avviare rigorosi processi di controllo, valutazione ed eventuale revisione organizzativa e funzionale finalizzati all’incremento dell’efficienza. Parlare di impresa pubblica oggi è, infatti, cosa diversa rispetto a vent’anni fa. Ma di certo non siamo pronti a scadere nell’ingenuo refrain del “pubblico è bello”, se non fosse per il semplice fatto che la gestione interamente pubblica e sottratta alla concorrenza, alla trasparenza e all’accountability è un’esperienza che in Italia ha avuto spesso risultati economicamente insostenibili. Per questo accogliamo con entusiasmo il ritorno, già in atto da tempo in accademia, di una riflessione laica e differenziata per settore e contesto sulla migliore gestione industriale dei beni e servizi di pubblico interesse, sempre che questo ritorno non sia la riproposizione stantia di stagioni passate e vecchi paradigmi, ma faccia invece leva su dati, buone esperienze e buone idee che in Italia e all’estero ci sono, anche se poco note.

Interroghiamoci allora, caro direttore, e apriamo un dibattito serio su come dare vita a un sistema economico in cui, a prescindere dalla natura proprietaria, i gestori di servizi pubblici possano essere misurati in termini di efficienza, affidabilità del servizio, qualità, equità, trasparenza, sostenibilità, accessibilità. In cui i manager pubblici siano selezionati e la composizione della governance individuata attraverso criteri di merito e di mercato e sia sempre il mercato, come accade per i manager che lavorano per le imprese private, a decidere quanto sia giusto e utile pagarli. In cui lo Stato possa esercitare rigorose funzioni di controllo davvero consapevoli dei processi in atto, tramite l’attrazione e il trattenimento di personale competente ben remunerato ed incentivato, anche grazie ad un sistema di valutazione efficace, che premi merito e risultato secondo indicatori oggettivi e misurabili. Uno Stato in cui la partecipazione dei cittadini alle decisioni aziendali non sia un grimaldello ideologico ma venga valutata nei modi e nella sostanza a partire dalle esigenze legate alla natura dell’azienda e del business. Sono, queste, solo alcune delle domande su cui occorre dare risposte non reticenti e aprire un franco dibattito – proprio su un giornale che ha accolto interventi spesso avversi a questo tipo di orientamento – che dia indicazioni di metodo e di merito sulle modalità della presenza del “Leviatano” nel mondo di oggi.

 

Post Format

The Alien in us

My speech today at the Diplomacy Festival during the session “The erosion of sovereignty” .

*

Are we here tonight to talk about the erosion of sovereignty or about the erosion of globalisation ? Or, rather, more than any of these two issues, better, I see a dilemma, as definitely more relevant: should we pick globalisation or should we pick sovereignty?

Interestingly, it is not so much an individual dilemma, a moral dilemma, but rather a macro, a community dilemma, a political one. 44% of Italians would choose for staying in the European Union, the lowest amount in Europe (an incresing amount though). And the fracture is so deep that the debate is non existent, mostly within a given circle : in social media, on twitter, sovranists leave hearts to tweets of sovranists and cosmopolitans or globalists do the same for their own species; rather than engaging diversity they ridicule it. Diversity will be a theme I will touch upon.

I spoke of species. I am told that Sigourney Weaver is in town for the Movie Festival. Well, it is an appropriate metaphor then than to remind ourselves that in Italy and all over the Western world we have an Alien in our Country. It is a very different, threatening, distant being. Globalist and sovranist : who of the 2 is the Alien ? Who of the 2 is the threat ? It matters little for the purpose of my train of thoughts. What matters is that it exists and it carries the danger of war.

For the sake of it, let us presume that the ugly Alien is the sovranist, in tune, I suspect, with the majority of the crowd today. Had we given this speech in the periphery of Rome I am quite sure that the ugly Alien would be the cosmopolitan.

So we were in our space mission, directed toward a Global World, with Global Institutions and a Global Governance; so close to the landing. Globalization and cosmopolitanism appeared inevitable and driving the show. Why? The usual list of factors: evolution of technology, mobility and global trade; with which legal rules and institutions found it natural to play in tune.

But the trip became bumpy during the road. As the economic story goes, world inequality declined (China and India converging) national (Western) inequality increased. It increased because Italian low to middle class jobs were taken by a growingly urbanized low to middle class in China. But it also increased because Italian policy-makers did not respond to the pain of those of their citizens suffering from globalisation. A pain made ten times worse by the 2008 recession and the once again lacking response of policy makers.

So 2 issues, one structural (globalization) and one contingent (the recession) saw a muted response from politicians. One mistake is human, two is diabolic, we say in Italy. This generated the Alien, the constituency for sovranism, burping right out of our society, unexpectedely, and grew.

I am not that interested here in opening up an important side issue, whether the causes were really economic or, spiritual, as Fukuyama puts it: « economic distress is often perceived by individuals more as a loss of identity than as a loss of resources». No matter what the first cause, the Alien was born.

Question number 1 . Why was it born? Why did politics feel the urge not to respond to the pain of those who were suffering. I see three culprits.

First. Global Governance. Global institutions by definition care about global problems and threats: local problems are in the backburner. Not surprisingly, nowadays Global Governance is suffering from bad PRs also thanks to Donald Trump (UN General Assembly speech).

Each of us here today is the emissary of a distinct culture, a rich history, and a people bound together by ties of memory, tradition, and the values that make our homelands like nowhere else on Earth. That is why America will always choose independence and cooperation over global governance, control, and domination. I honor the right of every nation in this room to pursue its own customs, beliefs, and traditions. The United States will not tell you how to live or work or worship. We only ask that you honor our sovereignty in return. America is governed by Americans. We reject the ideology of globalism, and we embrace the doctrine of patriotism.  Around the world, responsible nations must defend against threats to sovereignty not just from global governance, but also from other, new forms of coercion and domination.”

A problem for my undergraduate course! But, mostly, a complicated issue for Europe: what do you do when you are still in search of your common memories, traditions and values, like Europe is? Do you go global or sovereign? This issue was one that others have had to face. When the United States was like Europe today, in search, in the late 1700s, it was internally, not at the global level, divided on its governance. The so-called anti federalists (who were federalist, but of a different kind from the ones  lead by Alexander Hamilton, who eventually won) were the (state) sovranists of today. Around 1788, unwilling to sign the Constitution, they would say something like this related to Federal representatives taking away sovereignty from states: “furthermore, they would represent people from such a large area that they couldn’t really know their own constituents.”  Europe and its institutions decided to go «global» and, not surprisingly, when it was hit locally by pain it was unable to react.

Second reason ? Interestingly enough Hamilton’s Federalist Party was often thought of representing (beside strong central government) the rule by a wealthy class, the export-led manufacturing industry, a strong national bank, while Jefferson leading the Democratic-Republicans party, represented (beside a strong state government) the rule by the people, the agricultural sector, state controlled banks. So the second reason I put on the floor is the following: if the European Parliament and institutions were indeed dominated, to begin with, by rich pro-banks cosmopolitans and globalists, it would have been even harder, for a far away, distant, institution, to care for those who suffer in the middle of a crisis.

I mentioned three culprits. The third one is the mission, or the creed, or better the lack of a creed. Fukuyama claims that «Democracies need to promote what political scientists call “creedal national identities,” which are built not around shared personal characteristics, lived experiences, historical ties, or religious convictions but rather around core values and beliefs.» Makes sense: if you don’t know what your mission is, how can you act for the whole of the community and why would you act to relieve the pain? And what are these beliefs for Europe? Ask a 20 year old. I believe he would stare at you blank. It is not enough anymore to claim that Europe is the champion of equal recognition, as generic human beings. Not only because migration issues have put a dent into that claim, but also because equal recognition is not equal opportunities. It might be a necessary but not sufficient condition.

However, it should be reminded that the mission for Europe was one day pretty clear. Jean Monet, one of the founding fathers of the EU, had it summed up pretty well: «La grande révolution européenne de notre époque, la révolution qui vise à remplacer les rivalités nationales par une union de peuples dans la liberté et la diversité, la révolution qui veut permettre un nouvel épanouissement de notre civilisation, et une nouvelle renaissance, cette révolution a commencé avec la Communauté européenne du charbon et de l’acier

Diversity. Again. As a goal, to be honored first and foremost within the European borders. Is diversity a globalist or sovranist concept? For how it is framed, I don’t know. This concept of diversity was well tackled by Winston Churchill in his United States of Europe speech in Zurich in 1946: The structure of the United States of Europe will  be such as «to make the material strength of a single State less important. Small nations will count as much as large ones and gain their honour by a contribution to the common cause.» A goal to be protected, having in mind Nazism.

Honoring and protecting diversity is not only a mere issue of culture or peace, however important they might be. For an economist, diversity allows risk-sharing and insurance. When one is down, small or large, the other picks up the bill. This reduces the chances that each one disappears and makes each one stronger and the Union stronger. And yes, insurance has moral hazard, but when you are about to die, when things are really dramatic, as they were in the 30s and as they have been in this century, moral hazard is irrelevant and should not be mentioned as a priority.

Question n. 2. So when Fukuyama says and asks, correctly so in my mind, the only relevant question, « how to reverse the 30-year trend in most liberal democracies toward greater socioeconomic inequality?» I have only one answer: like Franklin Delano Roosevelt in the 1930s, come to the rescue and protection of those who suffer, write Treaties based on solidarity in exceptional circumstances and not only on rigor in normal circumstances and you will see that the Alien will magically leave you alone. Or else, if you are unwilling and incapable, disappear into the deep space.

Post Format

Piccole metafore giallo-verdi

“L’uscita dal Fiscal Compact è condizione necessaria ma non sufficiente per rilanciare l’Italia”.

Questo vado dicendo dal giorno della pubblicazione della NADEF del Governo giallo-verde, complimentandomi per il coraggio di avere liberato in 3 anni 70 miliardi di risorse rispetto al precedente Governo (basta fare la differenza tra i deficit-PIL dei due DEF che somma a circa 4 punti percentuali di PIL).

C’è ovviamente chi mi critica per questa posizione. Sono di due tipi. Il primo tipo è di colui che è a favore del Fiscal Compact. Essendomi battuto per 7 anni contro costoro, evito di spiegare perché non concordiamo (il lettore ignaro troverà in questo blog sufficienti informazioni). Faccio solo notare, con grande soddisfazione, che ci sono anche da considerare quelli che hanno sempre detto che il problema non era il Fiscal Compact ma l’euro: e, guarda un po’, i no-eurini sono ora spariti (anche quelli che ora siedono sui banchi della coalizione di Governo), tutti concentrati ora solo sul Fiscal Compact come male estremo: l’avessero capito prima avremmo perso così tanto meno tempo…

I secondi critici sono una novità. Sono quelli che criticano il Governo perché “sarà pure che non c’è più il Fiscal Compact, che sarebbe un bene, ma guarda come sperperano le risorse con il reddito di cittadinanza e le pensioni”… E dicono che faccio male a difendere questo Governo.

*

Immaginate ora un prigioniero condannato all’ergastolo da una sentenza ingiusta.  E immaginate che abbia ora la possibilità di evadere di galera. Ma, quando si trova finalmente fuori, deve scegliere se andare a sinistra o a destra. A sinistra l’aspettano i poliziotti e il ritorno in carcere. A destra, la via di fuga e la salvezza.

Il prigioniero è l’Italia. La prigione è il Fiscal Compact, evadere è abbatterlo. Per “quelli del Fiscal Compact”, la condanna è giusta. Per quelli contro l’austerità, no. A sinistra poi ci sono le politiche sbagliate di uso delle maggiori risorse liberate (reddito di cittadinanza e aumento pensioni) che faranno saltare il debito e non genereranno crescita, facendo saltare i mercati e mettere sotto la gestione della troika il Paese. A destra la politica giusta, quella di spendere i 70 miliardi liberati in investimenti pubblici, con il Paese fuori dall’austerità, restituendogli crescita e stabilità finanziaria con debito su PIL finalmente in discesa.

*

Ci sono 3 opzioni.

a) Restare in prigione. Lo vogliono i sostenitori del Fiscal Compact, detrattori de gialloverdi.

b) Uscire e girare a sinistra. Lo sostengono quei detrattori dei gialloverdi non necessariamente favorevoli al Fiscal Compact, che affermano che questo Governo non va difeso perché ci porta a casa la Troika.

c) Uscire e girare a destra. Ottimale, ma pare proprio che i gialloverdi non siano intenzionati a farlo… E allora perché difenderli?

*

Io, quelli che oggi attaccano il Governo pur essendo contrari al Fiscal Compact, non li capisco. E’ come dire al prigioniero: non evadere, finisce male. Ma se tu vuoi evadere e sperare che finisca bene sempre evadere devi, prima di qualsiasi altra cosa.

Quindi, per chi crede che la soluzione sia uscire dal Fiscal Compact e fare investimenti pubblici, dobbiamo essere felici che questo Governo ne sia uscito, dal Fiscal Compact. Ovvio no? E poi ci spetta di convincere questo Governo a cambiare nelle prossime settimane i suoi piani di trasferimenti dannosi e tramutarli in investimenti pubblici.

Sospetto vivamente che i detrattori dell’austerità che criticano questo Governo lo fanno solo per un motivo di opposizione ideologica e non per motivi di sostanza economica. E’ un errore. Dovrebbero applaudire questo Governo e spingerlo a fare ora un altro passo, quello giusto. Se invece quello che chiedono è di tornare alle austere politiche del passato, allora sono stati dei finti detrattori dell’austerità tutto questo tempo: la lotta contro l’austerità infatti richiede che si abbatta comunque il Fiscal Compact: questo Governo l’ha fatto, e gliene va reso merito.

Speriamo ora che cambi idea su come usare le risorse liberate. Se non cambierà idea, finirà con la Troika, ma sappiatelo, ci siamo sempre stati, da Monti a Letta,  da Renzi a Gentiloni.