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Fiscal Compact alla sua fine?

Oggi sul Sole 24 Ore.

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A distanza di ben 4 mesi dalla nascita del Governo il Paese sembra finalmente avere un quadro programmatico per il prossimo triennio. Un ritardo colpevole, che ha esposto il Paese alla crescita strutturale dello spread di 150 punti base a causa dell’incertezza sulle intenzioni della coalizione gialloverde. Ora quell’incertezza è stata rimossa, e non è poco: finalmente investitori ed imprenditori possono farsi un’idea del contesto in cui opereranno in Italia su di un orizzonte di medio periodo, condizione necessaria, anche se non sufficiente, per avviare progetti finanziari e reali utili al Paese.

Non sufficiente perché ovviamente è importante capire la portata ed il significato di quei numeri inseriti nel primo DEF gialloverde. Ora, mentre gran parte delle analisi a caldo si sono focalizzate sul rischio di un deficit su PIL 2019 al 2,4% invece che al 2%, va rimarcato come siano ben altre le novità dirompenti. In effetti, non è tanto una crescita del deficit di 0,4 punti percentuali di PIL in più, una mera goccia nel mare magnum della finanza pubblica di soli 7 miliardi di euro, che può francamente spaventare o rinfrancare mercati ed imprenditori sulle prospettive di stabilità e crescita del nostro Paese. No, la vera novità sta nella intenzione quasi rivoluzionaria del governo italiano di abbandonare il Fiscal Compact e l’obbligo a questo connesso di seguire nel tempo un trend rapidamente decrescente verso il bilancio in pareggio. Annotando sul DEF gialloverde un deficit pari al 2,4% del PIL non solo per il 2019 ma anche per gli altri anni del triennio, e comunque non convergente allo zero entro il quadriennio del DEF, si adotterebbe infatti una decisione di estrema rilevanza e non solo perché questa colloca l’Italia sostanzialmente al di fuori dall’architettura istituzionale europea (siamo in effetti il primo Paese membro firmatario del Fiscal Compact a farlo), dando uno scossone in vista delle prossime elezioni europee al dibattito politico. E’ altresì una decisione rilevante perché nella sostanza ci porrebbe di fronte ad un esperimento nuovo per l’area dell’euro, in cui la politica fiscale – dopo 7 anni di clausura – riacquisisce una sua autonomia. Fino ad oggi, la c.d. flessibilità annuale aveva infatti lasciato qualche spazio aggiuntivo di manovra, ma dato che essa sempre si accompagnava ad un parallelo annuncio di traiettoria recessiva di austerità per gli anni a venire, come le c.d. clausole di salvaguardia con l’aumento dell’IVA, per raggiungere il bilancio in pareggio, questa con una mano dava e con l’altra toglieva, vanificando i suoi intenti di stimolo dell’economia.

Da oggi, insomma, l’Italia può vivere in un nuovo paradigma di politica fiscale e la scommessa è che ciò possa avere un impatto esattamente opposto a quello dell’austerità dell’ultimo settennato, e cioè generare al contempo crescita economica e discesa del rapporto debito-PIL. Ma perché ciò avvenga è necessario che alla condizione necessaria di abbandonare il Fiscal Compact se ne affianchi un’altra, che abbia a che vedere con il tipo di utilizzo che verrà a farsi delle risorse addizionali così liberatesi. E qui dovremo ovviamente attendere gli esiti del dibattito parlamentare in tema di legge di bilancio, ma qualcosa è possibile già intuire dagli interventi dei leader dei due partiti della coalizione a valle della riunione del Consiglio dei Ministri.

Ma prima di tutto occorre chiedersi: quali utilizzi dei fondi derivanti dai maggiori deficit hanno più possibilità di generare crescita economica ed occupazione? Quelli che ovviamente sono capaci di stimolare sia, a breve, la domanda interna di beni e servizi, possibilmente quanto più legata a prodotti nazionali, che, a medio termine, l’offerta di prodotti competitivi da parte delle nostre aziende, in Italia ed all’estero. Un solo fattore di utilizzo delle risorse pubbliche ha la capacità di mobilitarsi in tal senso: gli investimenti pubblici, purché spesi bene. Le gare d’appalti pubblici, infatti, spesso finiscono per vedere la partecipazione di aziende nazionali, indirizzando la domanda interna della pubblica amministrazione verso beni prodotti da ditte italiane e quindi anche stimolando l’occupazione interna, ma anche, con le loro ricadute sul territorio, sostengono nel medio termine la produttività delle nostre imprese private, che beneficiano di beni pubblici (strade, infrastrutture materiali ed immateriali, edilizia scolastica ecc.) che rendono più competitivi i nostri fattori della produzione quando paragonati a quelli dei nostri rivali internazionali.

Tuttavia questo Governo, ritenendo di essere stato eletto con un mandato specifico, quello di lenire il dolore delle tante persone, specie quelle meno abbienti, più colpite dall’austerità degli ultimi anni, pare più interessato a usare i fondi per politiche redistributive a vantaggio di queste classi sociali più esposte. Sarebbe un duplice errore: primo perché gli investimenti pubblici anch’essi aiutano queste persone, ma con il vantaggio ulteriore di occuparle con un lavoro dignitoso e di generare un moltiplicatore di opportunità che reddito di cittadinanza, pensioni e flat tax non saprebbero avviare; secondo perché gli investimenti pubblici vengono incontro alle esigenze di una controparte politica di grandissima rilevanza, le future generazioni, che di quelle infrastrutture potranno beneficiare appieno.

Sarà dunque importante che nei mesi a venire si sfrutti l’enorme opportunità che questo Governo si è voluto meritoriamente creare abolendo de facto il Fiscal Compact per condurre in porto una manovra che redistribuisca non a parità di torta, ma da una torta più ampia, finendo anche per tranquillizzare i mercati e generando quella discesa del rapporto debito PIL che solo una maggiore e sostenuta crescita economica può realizzare. Il primo passo è stato fatto, non va sprecato.

6 comments

  1. Paolo Ciarlo

    04/10/2018 @ 22:50

    Stimato professor Piga, non crede che il def italiano, se da una parte rappresenta un’assoluta novità nel panorama europeo, dall’altra rischi di mettere una pietra tombale sulla possibilità di gestire l’economia in modo “altro” rispetto all’austerità alla quale ci ha abituato l’EU dala firma del fiscal compact ad oggi? Mi spiego meglio. Se, a causa di un uso improduttivo del deficit, la politica economica del governo attuale non dovesse sortire l’effetto sperato,ma dovesse solo aumentare il nostro debito senza aumentare il pil, non rischierebbe di diventare un manifesto per coloro i quali professano l’austerità? Cioè un boomerang, per chi sostiene che l’austerità può solo portare ad un avvitamento dell’economia? Già immagino i commenti: “Vedete che aumentare il debito non porta a nulla, se non ad un ulteriore indebitamento?” E questo non perchè sia sbagliato il concetto in se, ma solo perchè la sua applicazione pratica è stata sbagliata.

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    • Sì è un ottimo punto, ed il rischio di plaudire a questa manovra del Governo lo sento tutto. Ma sa come è, penso che peggio di quanto vi sia stato prima sia difficile averlo, quindi dita incrociate e buttiamoci. Se va male, al peggio torniamo allo ieri, certo senza la possibilità di veder mai più la manovra ideale attuata, ma non mi faccio illusioni: le probabilità sarebbero state comunque scarse.

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  2. Caro Prof,

    Aumentare il reddito dei più poveri (coloro con una alta propensione marginale al consumo) dovrebbe avere comunque effetti espansivi sulla domanda e dunque dovrebbe far aumentare pil e crescita..non crede?

    Un saluto affettuoso

    Fabio

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  3. Carlo Florio

    06/10/2018 @ 10:22

    La grande problematica mi sembra la capacità della macchina pubblica a saper programmare e monitorare l’attuazione dei progetti e l’erogazione dei fondi pubblici per raggiungere sempre the best value for money. La struttura statale è stata volutamente impoverita per favorire il ruolo del settore privato. Il MIT è un evidente esempio del divario tra pubblico e privato. La carriera nel pubblico diventa molto interessante solo se si è un yes man per progetti a brevissimo termine, e allora ricevi gratificazioni con nuovi incarichi paralleli ben remunerati.
    Il limite agli stipendi pubblici è anche un chiaro limite al coinvolgimento nel settore pubblico italiano delle migliori professionalità a favore del settore privato. Un confronto europeo sarebbe impietoso. Ai dirigenti o ai cosiddetti ispettori pubblici neanche l’albergo gli viene spesso anticipato dallo Stato! Il Di Maio che viaggia per la Cina in classe turistica non mi sembra un buon messaggio per uno dei più alti rappresentanti dello Stato. Quello che dovrebbe contare è il rapporto: risultati raggiunti/costi. Non si può essere francescani quando è in gioco il benessere di milioni di Italiani e l’immagine stessa dell’Italia.
    Per rendere efficiente la spesa pubblica, servirebbe una giustizia civile veloce e un regime fiscale efficiente che non crei posizioni di vantaggio grazie a trucchi più o meno legalizzati che falsano la competizione. L’evidenziare l’imponibile fiscale dichiarato (vecchia idea di Visco) come un dato pubblico ovvero un input necessario per la vita quotidiana anche per qualificare le prestazioni offerte, potrebbe rappresentare una riforma etica a costo zero, insieme ad altre norme che impediscano la congestione delle Corti di Appello e Cassazioni con milioni di cause per bagattelle di pochi euro, oppure il rendere anche le sentenze penali immediatamente esecutive come quelle civili, rinforzando però i meccanismi a garanzia degli imputati. A mio parere, servono segnali per una scossa etica a compensazione dei tanti condoni imperanti.
    Concordo appieno che i cantieri possono essere un volano di sviluppo locale, ma sia l’Italia ma anche la stessa Europa (Organismi Europei, in primis) distano anni luce dalle best practices come quelle implementate nel grande cantiere Fehmarnbelt tra Danimarca e Germania per massimizzare gli impatti positivi locali. Gli Ordini professionali dovrebbero cambiare DNA e diventare attori di questo cambiamento innanzitutto mentale, valorizzando la loro diffusione territoriale e i loro saperi. Dalle scuole elementari, andrebbero inserite lezioni di imprenditorialità. All’estero, a 20-21 anni i giovani hanno già sviluppato attività in proprio mentre la scuola italiana ha un taglio ancora ottocentesco anche se, a mio parere, il latino e il greco rappresentano peculiarità italiane da valorizzare ulteriormente. Questo giudizio è valido anche per l’Università italiana: il contesto urbano di Tor Vergata è molto indicativo.

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