Il mio articolo di oggi sul Sole 24 Ore.
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Cinque anni. Periodo che può sembrare un’eternità per alcuni, un nonnulla per altri. E’ anche quanto può al massimo durare una legislatura parlamentare, è la durata dello spazio temporale a disposizione di una coalizione di governo per portare avanti le proprie politiche economiche così da massimizzare le probabilità di rielezione in caso di un guadagnato consenso elettorale a fronte di risultati tangibili ed apprezzati.
Ecco allora che se esaminiamo quanto avvenuto in questi ultimi mesi, ci troviamo di fronte ad un evidente paradosso. Una delle poche coalizioni della storia repubblicana italiana arrivate a guadagnarsi un mandato grazie all’elaborazione di un programma di governo congiunto, al ritorno dalle ferie non sarà ancora in grado di dire ai suoi cittadini quali sono i suoi piani programmatici di finanza pubblica per il quinquennio di legislatura. Con l’eccezione di un decreto lavoro che ha raccolto le critiche di tutte le imprese, grandi medie e (soprattutto) piccole, sarà solo con la legge di bilancio che verrà approvata a fine 2018 che cominceranno ad entrare in vigore ed a impattare l’economia italiana i primi provvedimenti economici, a circa un anno dalle elezioni. Detto in altri termini, per quanto riguarda la politica economica, questa coalizione ha effettivamente già oggettivamente perso un anno, il 20%, del tempo a disposizione.
E non pesano poco, questi rinvii. Ne è certamente conscio il Ministro dell’Economia Tria quando, intervistato da questo giornale, correttamente ricorda come “i rinvii generano incertezza”. E’ un’incertezza, quella che regna ancora oggi, che ha una sua origine specifica. Resta infatti un mistero, al di là della violazione formale di quanto richiesto dalla normativa, del perché i due leader della coalizione, ancor prima del Presidente del Consiglio, non abbiano voluto metter mano sin da subito al Documento di Economia e Finanza il cui solo tendenziale, è bene rammentarlo, era stato già elaborato dal governo Gentiloni. L’Italia è priva infatti a tutt’oggi dell’obbligatorio quadro programmatico di finanza pubblica per il prossimo quinquennio. Così i mercati giornalmente si chiedono se devono scommettere su un deficit gialloverde al 5% del PIL che finanzi flat tax e reddito di cittadinanza, un deficit al 3% che finanzi investimenti pubblici o un deficit europeo inferiore all’1% fatto di addizionale austerità. Dalle parole di ieri sul Sole 24 ore del Ministro sembra emergere anche un quarto scenario di una “non eccessiva correzione” che, dato il deficit del circa 2% del 2018 e quello del (nuovo) tendenziale dell’1,2% per il 2019 dovrebbe fermarsi attorno all’1,5%.
Non aver permesso al Ministro Tria di ragionare sin dai primi di giugno sul che fare all’interno di un quadro programmatico pluriennale prefissato ha già generato costi addizionali che stiamo pagando, al di là di quelli dovuti alla maggiore incertezza. Sarebbe stato prima di tutto possibile trovare lo spazio politico e finanziario per avviare sin dal 2018 una serie di piccole opere pubbliche edilizie per scuola, dissesto idrogeologico, carceri, care anche al Ministro Tria, che avrebbero avuto sin da fine anno un impatto reale sull’occupazione, specie quella nel Meridione e nei comparti meno istruiti della nostra forza lavoro, che stanno soffrendo maggiormente l’attuale fase ciclica. Con tale documento programmatico si sarebbe poi potuto chiarire sin da subito come attuare la riforma numero uno ancora inattuata, la spending review, così da, da un lato, evitare tagli lineari e blocchi nominali della spesa, mosse recessive che altro non sono che tipiche conseguenze del muoversi in ritardo e, dall’altro, aumentare i fondi a disposizione per maggiori investimenti pubblici non in deficit, capaci purtuttavia di generare crescita economica.
Con tale documento si sarebbe infine potuto avviare concretamente, con una posizione italiana di forza sull’onda del voto primaverile, un negoziato eventuale con la Commissione europea sui deficit a venire. Negoziato che utilmente il Ministro Tria sta svolgendo ora, ma che rischia di finire per far sì che, come sempre è accaduto coi passati Governi, il DEF venga scritto all’europea e non all’italiana, e sappiamo bene come questo nel passato abbia portato la nostra economia ad invilupparsi in un circolo vizioso di austerità, bassa crescita e debito crescente: non un buon auspicio.
Non è il caso di piangere sul latto versato, ma è evidente come, al di là delle dichiarazioni di agosto, la Nota di Aggiornamento di settembre del “DEF che non c’è” risulterà già essere l’ultima stazione utile per questo Governo, se desidera lasciare una traccia e sopravvivere alle future elezioni. E se questa Nota sarà stata scritta da altri o conterrà proposte irrealizzabili o nuovamente tardive nel tempo, non sarà tanto il caso di preoccuparsi ancora di un assurdo e dannoso piano B quanto piuttosto di una definitiva retrocessione in serie B del nostro Paese all’interno del campionato mondiale della crescita dello sviluppo economico e sociale.
10/08/2018 @ 10:17
Anche lei mi sembra affetto da “ansia da prestazione”…che colpisce molti giornalisti (che scrivono contro il governo). Un tempo si chiedevano i provvedimenti dei primi 100 gg, ora si chiede/chiude l’esercizio a 60-90 gg (incluso periodo estivo) eppoi si dice che si è perso un anno. Siate seri, siate umani…suvvia!
10/08/2018 @ 14:19
. A me pare che l’ansia di prestazione ce l’abbiano i due vice premier che ogni santo giorno ci propongono una nuova misura e smentiscono quella del giorno prima: ben detto!