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La lezione a metà del debito comune americano del 1790

Oggi sul Sole 24 Ore, con Lorenzo Pecchi. (versione breve)

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Si è parlato molto della storica decisione di emettere dei primi bond dell’Unione europea come di un momento “hamiltoniano”, con riferimento al primo dei Ministri del tesoro dei costituendi Stati Uniti di America, Alexander Hamilton e ad una sua apparentemente analoga decisione nel 1790, approvata dal Congresso americano dopo estenuanti negoziazioni con i leader politici ed i rappresentanti dei singoli stati dell’Unione.

Con un debito-PIL dell’Unione americana a inizio Ottocento al 40%, di cui più di un quarto a carico dei singoli stati ed il rimanente prezzato a valore quasi di carta straccia sui mercati di allora per la poca credibilità di cui godeva l’emittente federale con i c.d. Continentals, si fa fatica tuttavia a intravedere una situazione simile a quella europea attuale, con un debito emesso quasi esclusivamente dai singoli stati e con anche uno degli emittenti più rischiosi, come l’Italia, che emette titoli che hanno un rating superiore a quello dei “junk bonds”.

Il valore dei Continentals era molto basso perché i mercati percepivano come la capacità di imporre tasse fosse nelle mani dei singoli Stati e non vi fossero a livello federale entrate sufficienti per far fronte al pagamento di interessi e capitale. Il primo successo politico di Hamilton fu quello di centralizzare la tassazione a livello federale con le imposte su importazioni e whiskey per ottenere risorse sufficienti a ripagare un debito pubblico che, con abilità negoziali, riuscì anche a ristrutturare con l’accordo dei mercati.

Analogamente, con il Recovery Fund si prevede la nascita di una prima forma di tassazione europea, con imposte sull’uso della plastica e possibili successive altre forme di tassazione. Anche il nuovo debito emesso dall’Europa – come quello americano duecento anni orsono –  dipenderà dunque poco dalla volontà di ripagare o meno dei singoli Stati membri, rassicurando i mercati e spuntando tassi d’interesse molto convenienti.

Per ottenere dai singoli Stati una sostanziale rinuncia al loro potere impositivo fiscale, Hamilton qualcosa dovette dare loro in cambio. Questo do ut des viene da molti identificato con l’assunzione del debito dei singoli stati, quel quarto del debito totale, da parte del Governo federale. Assunzione tanto più vantaggiosa quanto più irresponsabile era stata la gestione delle casse locali del singolo stato: di fatto gli stati “più frugali” finirono per finanziare quelli meno, a tal punto che lo Stato più virtuoso, la Virginia, accettò la negoziazione solo a valle di ulteriori concessioni riguardanti la localizzazione della capitale degli Stati Uniti nel suo territorio, che portò alla nascita di Washington. Hamilton vide in questo scambio una solidarietà implicita, dato che i debiti statali erano stati sostenuti da tutti, in quote diverse, per la Rivoluzione, un bene comune, così come oggi si parla di un debito europeo assunto per combattere un male che ha colpito tutti, il Covid, anche se in maniera diversa.

In realtà il progetto di Hamilton ebbe ricadute di lungo periodo più ampie. Egli vide nella possibilità di emettere centralmente il debito pubblico, a differenza di molti dei suoi contemporanei, una “benedizione nazionale”. Una emissione in larga scala di titoli finì per creare un asset liquido e sicuro che, supportato da un adeguato e credibile piano fiscale per ripagarlo, rafforzò il “credito” della nazione, necessario ad attrarre gli investitori nazionali ed esteri per finanziare la crescita del paese. La visione di Hamilton fu che la creazione del mercato del debito pubblico, a pochi anni dalla ratificazione della nuova Costituzione, sarebbe stato lo strumento necessario per dare l’impulso risolutivo al progetto della creazione degli Stati Uniti d’America.

L’Europa ha per la prima volta oltrepassato una linea che fino a pochi mesi fa sembrava pressoché invalicabile: l’emissione in larga scala di Eurobond. La risposta alla crisi finanziaria del 2008-9 fu di tutt’altro tenore: non fu la solidarietà, ma il rafforzamento delle regole attraverso il Fiscal Compact e l’introduzione di piani di austerità che nascondevano una sostanziale mancanza di fiducia reciproca.

Stiamo vivendo il “momento hamiltoniano” dell’Europa? La risposta non può che essere cauta e prudente, ma le analogie non mancano.  Ogni comunità politica di tipo democratico costituzionale si regge su due pilastri fondamentali: a) un insieme di regole e procedure che oltre a garantire a ciascuno libertà e autonomia individuale permettono un controllo democratico delle decisioni collettive; b) l’esistenza di istituzioni che permettano una solidarietà civica necessaria per una corretta coesione e cooperazione sociale.  L’Europa è ancora lontana dall’essere una comunità politica di questo tipo.

Detto ciò non dobbiamo sottovalutare quello che è accaduto o che potrebbe accadere nel prossimo futuro in Europa. La creazione di un mercato del debito supportato dal bilancio e della fiscalità dell’Unione europea può innescare infatti un processo di tipo hamiltoniano per l’avvio di una Europa solidale.

Un ultimo caveat è tuttavia necessario. La mossa di Hamilton fu probabilmente condizione necessaria per cementare l’Unione, ma non sarebbe mai stata sufficiente. La guerra civile del 1860 ne è prova evidente: un’Unione di diversi richiede un difficile gioco di rappresentanza degli interessi reciproci che va continuamente coltivato con abilità e maestria che possono mancare alle classi politiche future.

Ma c’è di più. Il successo di Hamilton nel ripagare il debito si basava su una scommessa importante: la crescita del gettito federale per ripagare il debito pubblico e garantire l’effettiva credibilità delle promesse fatte ai mercati finanziari. Quella crescita si materializzò grazie all’espansione del commercio internazionale nei primi dell’Ottocento e generò un circolo virtuoso tra stabilità, reputazione e crescita della neonata Unione americana.

Tuttavia la reputazione dell’Unione europea, e dunque la sua probabilità di sopravvivere a future crisi, ancora si legherà per alcuni decenni alla reputazione del debito dei singoli stati e alla loro crescita economica, specialmente quella degli Stati più fragili, come l’Italia. La questione chiave rimane dunque quando, al di là del decisivo supporto una tantum per la crisi dovuta al virus, Europa ed Italia intendano firmare un altro do ut des basato su garanzie di qualità della nostra spesa e garanzie di abolizione dell’austerità. Solo così infatti si potrà uscire dalla nostra crisi endemica che dura da più di un decennio, ben prima del Covid.

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Facciamo presto

Il debito pubblico italiano salirà nel 2020 attorno al 160% ed il deficit pubblico attorno al 10% del PIL. C’è una sola ragione, indiscutibile e lapalissiana, per questo duplice andamento: il crollo della produzione, denominatore dei due rapporti menzionati sopra. Se il deficit infatti sarà alto durante il 2020 lo sarà a causa del crollo del PIL: per il calo delle entrate, per l’aumento automatico della spesa pubblica per sostenere i lavoratori in difficoltà, per gli effetti delle politiche discrezionali atte a contenere tale crollo.

Il Governo stima per il 2021 una ritrovata crescita che recuperi circa la metà di quanto perso quest’anno: basterà questa a riportare il deficit al 5% circa ed il debito al 150% del PIL. Una politica che riuscisse a stimolare ulteriormente la crescita nel giro di un anno riporterebbe dunque le lancette indietro al 2019, come se nulla, quanto a sostenibilità del debito, fosse mai avvenuto. Anzi, dato l’attuale stato dei tassi d’interesse italiani, mai così bassi nel XXI secolo, la sostenibilità del debito sarebbe garantita ancora più di ieri.

Il circolo virtuoso appare evidente: ricostruendo la crescita economica mettiamo in stabilità il Paese, dal punto di vista politico, sociale e finanziario. Tutto ciò ha implicazioni altrettanto evidenti: lo sforzo propositivo di policy-maker, economisti ed opinionisti dovrebbe rivolgersi alla questione del come tornare a far crescere la nostra economia, sia in tempi di virus che una volta debellato. Il dibattito in tal senso era stato efficacemente orientato da un personaggio che non potremmo definire come marginale: era stato infatti addirittura Mario Draghi ad indicare subito la via maestra sulle pagine del Financial Times, mostrando come il debito pubblico fosse la soluzione (e non il problema) e come la “questione chiave fosse non il se ma il come lo Stato dovesse far ben fruttare le risorse ottenute a debito”. Tale messa in opera va fatta, secondo l’ex capo della BCE, “immediatamente, evitando ritardi burocratici” altrimenti si potrebbe rischiare “una distruzione permanente di capacità produttiva e dunque della base fiscale” e dunque, aggiungiamo noi, della sostenibilità ultima del debito pubblico.

L’allarme scandito con parole chiarissime aveva implicazioni a valle inequivocabili: tutto il nostro sforzo intellettuale e operativo doveva essere impegnato nell’identificazione delle misure più capaci di attivare le ampie risorse disponibili a basso costo sui mercati finanziari, tanto più grazie agli spread controllati dalla BCE. Ci saremmo dunque aspettati che si discutesse accesamente, sul breve termine (ovvero ora), ad esempio, del come far sì che le banche mettessero immediatamente, “senza ritardi burocratici” a disposizione delle imprese le cifre ingenti necessarie a non vedere “distrutta permanentemente la loro capacità produttiva”. Oppure, nel medio termine (ovvero dall’autunno), di quali cantieri di lavori pubblici avviare con regole agili e trasparenti. Oppure, nel lungo termine (per il dopo crisi) se e quanto ritornare a schemi di regole fiscali europee austere e verso il bilancio in pareggio.

Qualcosa in tale direzione abbiamo letto. Per esempio le rilevanti sollecitazioni di Lorenzo Pecchi ed Andrea Ripa di Meana sulle pagine del Messaggero, coerenti con i suggerimenti di Draghi, sull’incapacità dell’attuale schema di garanzie, previsto nel D.L. 23 dell’8 aprile scorso, di risultare utile alle imprese che più necessitano di risorse, quelle che rischiano di non riaprire. Suggeriscono di utilizzare piuttosto uno schema come quello adottato negli Stati Uniti nel recente CARES Act conosciuto come “forgivable loan”, prestito che diventa un trasferimento a fondo perduto se il debitore dimostra (a posteriori, non rallentando la concessione del prestito) di aver usato i fondi per pagare costo del lavoro, affitti, bollette e canoni di interessi sui debiti.

Eppure argomenti di questa rilevanza si perdono nel contesto di un dibattito tutto occupato a identificare il miglior modo di procedere con, invece, il finanziamento delle esigenze dell’economia. Un fior fiore di proposte (e di negoziati) si è generato attorno al come prendere a prestito le somme che vanno spese: se a debito – con garanzie degli Stati membri, dell’Unione europea, del singolo stato -  se con moneta, se con il risparmio di una classe di operatori o un’altra, se a breve o lungo termine o addirittura senza rimborso del capitale. La logica pare rovesciata: non è l’economia a dover salvare il debito, ma lo schema ottimale del debito a poter mettere in stabilità il Paese, dal punto di vista politico, sociale ed economico.

Ma non è così. Malgrado queste proposte siano interessanti, esse comportano (se tutto va bene) differenze di qualche miliardo di euro nelle condizioni di finanziamento per il singolo Stato. L’unica vera e rilevante questione al riguardo ha a che vedere con il MES che, anche qualora rivisto, non sarà mai senza condizionalità, come dimostra la frase nell’ultimo accordo (“dopo il 2022, gli Stati restano impegnati a rafforzare i fondamentali economici, in modo coerente con il coordinamento fiscale e di bilancio, e il quadro di sorveglianza, compresa la flessibilità”, chiaro segno di futura austerità da rigettare). Ma non va dimenticato che tutta questa “ingegneria finanziaria-istituzionale” rallenta la focalizzazione verso quanto Draghi solleva, l’agire subito con tutti i cannoni a disposizione, a cominciare ovviamente dal primo disponibile, le proprie emissioni di debito, e soprattutto bene, a favore dell’economia. Ogni minuto di ritardo, questo sì, renderà il nostro debito pubblico alla fine insostenibile per mancanza di crescita e, a quel punto, nessuno schema finanziario, per quanto sofisticato, potrà arrestare il crollo politico e sociale dell’intera costruzione europea.

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La sola vera soluzione per sconfiggere la (ennesima) crisi europea

Oggi sul Sole 24 Ore (versione più lunga)

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E’ bene cercare di fare chiarezza, per meglio comprendere le vie d’uscita alla crisi in atto, sulle diverse alternative a disposizione del Governo italiano per affrontare la crisi, partendo dall’assunto (ribadito anche da Mario Draghi) che l’Italia avrà necessità di aumentare il ricorso a risorse esterne (e non a tassazione) per sospingere la propria economia fuori dalle sabbie mobili, in cui rischia di essere inghiottita, per il mezzo di un sostanzioso intervento pubblico.

A tal fine, sarà utile distinguere tra due possibili situazioni in cui potrebbe venirsi a trovare il nostro Paese. La prima, una per la quale l’intervento necessario è sì importante ma non è tale da superare una soglia di domanda di fondi tale da non poterlo fare autonomamente. Diciamo ad esempio che 100 miliardi di euro di spesa (compresi i 25 già approvati ed in aumento) sia tale soglia critica. E’ evidente come la capacità di finanziarsi autonomamente sui mercati dipende anche da tanti fattori poco controllabili del nostro Governo, quale la fiducia dei mercati, ma comunque sufficientemente sotto il controllo dell’Europa nel senso che pare esservi un consenso generalizzato, almeno su questo, che i Governi possono violare il Patto di Stabilità e procedere in autonomia senza che vi sia opposizione da parte di un qualche altro Stato membro dell’Unione europea. Se tuttavia il Governo italiano volesse spendere al di sopra di tale soglia, magari perché la crisi si protrae o si protrae il pessimismo e/o la non capacità di riprendersi del nostro Paese, allora ciò potrà essere fatto solo con un aiuto di risorse esterne.

Esaminiamo la prima situazione, ovvero di necessità inferiori ai 100 miliardi di euro che l’Italia può trovare in autonomia sui mercati, emettendo titoli di Stato della Repubblica. In tal caso il vantaggio del ricorso a un eurobond o ad un finanziamento del MES senza condizionalità di successiva austerità (quest’ultimo vietato ancora oggi dai Trattati, il primo invece mai previsto) pare limitato rispetto allo scontro politico che pare necessitare. In effetti l’unico vantaggio per noi sarebbe quello di godere di condizioni di mercato favorevoli con uno spread minore, magari pari a zero, visto che probabilmente MES o eurobond sarebbero capaci di ottenere fondi a tassi molto competitivi. Dato lo spread attuale di 200 punti base, su 100 miliardi risparmieremmo dunque grazie a questi strumenti circa 2% di spesa addizionale per interessi, 2 miliardi di euro. Non molto. Se per di più si considera che i paesi europei che si oppongono a tali proposte lo fanno perché temono di vedersi piombare addosso il rischio che l’Italia fallisca e ripudi questa parte di debito caricandolo sui contribuenti europei per un massimo di 100 miliardi (direttamente con l’eurobond, indirettamente per il MES con la perdita di capitale di questo che è finanziato dagli Stati membri), si può ben capire come la posta in gioco sia talmente squilibrata da non avere che pochissime possibilità di vedere la luce. Lo stesso tra l’altro varrebbe per una terza opzione, altrettanto delicata in senso politico, ovvero quella di far sì che la BCE acquisti direttamente in asta (cosa a tutt’oggi proibita e che richiederebbe anch’essa una modifica degli statuti europei) i nostri titoli di Stato finanziando la nostra spesa pubblica: sempre di debito trattasi, sempre un risparmio di 2 miliardi circa si andrebbe a generare, sempre di una perdita di capitale (questa volta della BCE) si tratterebbe in caso di default italiano.

Diversa appare la situazione per la quale l’Italia necessiti di molte più risorse di quante non ne possa mobilitare autonomamente sui mercati per ovvii motivi di credibilità. Immaginiamo dunque che l’Italia abbia bisogno di un totale di 170 miliardi (10% di PIL, equivalente in proporzione alla manovra fiscale a cui sta pensando Trump per gli Stati Uniti) e che di questi solo 100 possa sperare di ottenerne autonomamente.  A questo punto il nostro Paese, in assenza dei 70 miliardi di euro residui cadrebbe in una crisi tale (scenario prefigurato non solo da Draghi ma anche dal Presidente Mattarella nel suo recente discorso) da generare rivolte sociali tali da rendere inevitabile l’uscita dall’euro per stampare la propria carta moneta e finanziare direttamente i 70 miliardi (o 170, perché a quel punto forse i mercati si ritrarrebbero) di spesa. Uno scenario a cui l’Europa deve guardare con grande attenzione se non vuole mettere a rischio l’intera sua costruzione. E a poco vale dire che ci rimetteremmo fuori dall’euro, o che saremmo preda di un processo di (non sicura, dato lo stato dell’economia) iperfinflazione: la probabilità in questo scenario che in Italia si modifichino le maggioranze politiche a favore dell’uscita dall’euro non sarebbero certamente poche e quindi la questione va attentamente analizzata.

E’ evidente che finanziare quei 70 miliardi via MES o eurobond o acquisto in asta da parte della BCE sarebbe un contributo importante alla tenuta del nostro sistema e dunque di quello europeo. Eppure sarebbero, queste mosse, comunque un cannone a media gittata, nel senso che sempre di debito da restituire si tratterebbe (a meno di non immaginare un nostro default rispetto ai nostri finanziatori europei, che tuttavia generebbe equivalenti rotture politiche, e dunque a che pro? Tanto “varrebbe” uscire subito dall’euro) e dunque di aiuto a metà. Se ragioniamo, come stiamo ragionando, di uno scenario di drammatica intensità recessiva che richiede un intervento enorme in termini di risorse per salvare il Paese, tanto vale che questo intervento sia fatto con il cannone a più lunga gittata possibile: un cannone capace di ridurre il peso di rimborso del debito per il nostro Paese e rilanciare credibilmente le nostre prospettive di crescita.

E’ a questo cannone a cui forse pensa Draghi quando sostiene la causa di una garanzia pubblica al 100% per le banche sui prestiti da concedere alle imprese in difficoltà. Con un solo rischio immenso: che la Repubblica italiana debba trovare i soldi per far fronte all’escussione delle banche della garanzia, trovandosi dunque lo Stato italiano a dover finanziare questi esborsi, di nuovo con una soluzione del tipo europeo di cui sopra.

Ma una soluzione migliore ci sarebbe, il vero cannone a lunga gittata: senza debito, la stampa di carta moneta da parte della BCE, come farebbe un vero Stato federale europeo, direttamente trasferita sui conti delle imprese o dei cittadini in difficoltà. Con un elicottero sul Paese che faccia scendere dall’alto le banconote europee saremmo certamente in territorio nuovo, dove la politica monetaria diventerebbe, come poche volte nella nostra storia, politica fiscale, e di cui conosciamo poco le conseguenze. Ma d’altronde conosciamo altrettanto poco le conseguenze economiche del virus, e sarebbe dunque lecito ipotizzare che a questa incertezza del male si opponga con altrettanto vigore uno strumento, seppur incerto, del bene che abbia la possibilità concreta di combatterlo, salvando il tessuto europeo e rispettando in larga parte le esigenze di tutti i Paesi coinvolti, primo segno visibile di un’Europa unita.

 

 

 

 

 

 

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Sconfiggere il virus che attanaglia l’Europa

Oggi sul Sole 24 Ore il mio articoo.

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        Il circolo che si è creato tra misure sanitarie ed economiche va chiarendosi sempre più. Mano a mano che apprendiamo a conoscere meglio il virus e la sua potenza di diffusione, restringiamo sempre più con regolamenti e normative l’estensione delle attività produttive e sociali; per attutire il danno ai mercati di questi, aumentiamo la portata dell’intervento della politica fiscale e monetaria a supporto dell’economia stessa.

E’ fenomeno che riguarda tutte le istituzioni coinvolte: italiane, europee, mondiali. Da noi, si è partiti dalla “manovrina” di 5 miliardi e siamo giunti a quella di 25, mentre la Germania annuncia l’abbandono della regola costituzionale sul limite al debito a causa dell’emergenza; in Europa, da un aiuto di analoghi 25 miliardi siamo oggi alla sospensione del Patto di stabilità e al piano da 750 miliardi della BCE. Negli Stati Uniti misure perlomeno simili sono annunciate.

E’ dunque probabile che al crescere della comprensione dell’estensione del virus non ci si fermi qui e che questo per l’Europa comporti nel campo dell’economia ulteriori interventi, assieme a ulteriori sospensioni o modifiche dei Trattati. I primi scricchiolii di questi sono già evidenti: c’è chi parla di corona-bond europei, sinora e tuttora invisi agli Stati membri del Nord, ad un MES (la banca salva stati) senza condizionalità e annesse pretese di susseguente austerità, ad una BCE che compri direttamente in asta i titoli di Stato a, infine, un trasferimento diretto di carta moneta stampata nei conti correnti di aziende e famiglie. Politica monetaria e fiscale cominciano ad assomigliarsi sempre di più, rendendo evidente la dimensione politica di istituzioni che si è cercato nei primi anni del secolo di far apparire indipendenti da questa, come la Commissione europea e la banca centrale stessa.

Il virus sta dunque contagiando – assieme ai cittadini, alle loro vite ed interazioni sociali – l’intera struttura europea e, proprio perché dopo che sarà questo sconfitto la nostra vita non sarà mai più uguale a prima, non potrà più esserla quella dell’Unione europea. Non sarà cioè possibile ritornare come se niente fosse ad un identico Patto di stabilità o ad un’identica ed indipendente banca centrale europea, come se nulla fosse accaduto.

Potrebbe essere che la crisi avrà sollevato un tale moto di solidarietà comune tra stati membri che sembrerà naturale immaginarci finalmente come quegli Stati Uniti d’Europa che a molti parevano lungi dal materializzarsi, come per gli Stati Uniti d’America che dovettero aspettare quasi 150 anni dalla loro nascita (con una guerra civile in mezzo) per vedere sbocciare istituzioni federali a Washington a supporto di tutti i singoli stati simultaneamente.

Più probabilmente, perché le culture nazionali resisteranno ancora ad una cessione piena di sovranità, sarà invece l’esigenza di garantire una ripartenza immediata di un’economia europea a terra che richiederà mosse straordinarie di sostegno. Ma stavolta mosse non di breve, ma di medio e lungo termine: non bisogna infatti sottovalutare l’impatto sociale che avrà lasciato prima di arrendersi questo virus, la sua devastazione in termini di fiducia sul futuro, l’esitazione a rapportarsi con altri quotidianamente, la riluttanza a scambiare con altri, specie se stranieri. Questi effetti di lungo periodo di shock temporanei, chiamati anche effetti di isteresi, possono incidere sul DNA stesso delle persone: dopo la devastante Grande Depressione seguita al crollo azionario del 1929, un’intera generazione di cittadini, per lo più quelli in età lavorativa, cambiò radicalmente il suo atteggiamento verso i consumi, mantenendo anche a distanza di molti decenni un atteggiamento precauzionale che si tradusse in aumento di risparmi ed esitazione a spendere. Venne allora chiamato in gioco l’intervento del settore pubblico, non soltanto durante il New Deal di Franklin Delano Roosevelt, ma anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un chiaro segnale a tutti gli operatori economici e sociali che non si doveva più temere, perché ci sarebbe stato lo Stato ad intervenire in qualsiasi situazione di potenziale difficoltà. Ciò aiutò a restaurare la fiducia e ad evitare una facilmente pronosticabile stagnazione di lungo periodo.

Nelle parole, oggi ancor più valide, del Premio Nobel Sims che guardava all’Europa ai tempi della crisi del 2011: “si richiede una politica fiscale che sia espansiva ora, senza impegnarsi né a tagliare nel futuro la spesa né ad aumentare le tasse future per preservare la stabilità dei prezzi”. Un’affermazione che coinvolge dunque anche la banca centrale.

E’ bene dunque che si cominci a ragionare sin da ora alla ricostruzione – come dopo una guerra – che dovrà venire, prima di tutto della fiducia, secondo poi dell’economia. E che lo si faccia come negli anni cinquanta: senza troppi lacciuoli e cavilli contabili, ma con visione di lungo periodo e passione civile, a partire da quella dei governanti che inevitabilmente dovranno rinnovarsi.

E’ evidente come andrà ripensato l’intervento pubblico dello Stato nella sanità, nelle scuole, nell’informatica, lasciate deperire in questi anni di folle austerità: andrà fatto investendo pesantemente nella qualità di ciò che è pubblico, per essere più resilienti di fronte alla sfide del domani e a supporto concreto del settore privato.

E’ anche evidente che se ciò verrà concesso, potremo anche immaginare di farlo all’interno di un’Europa anch’essa rinnovata nello spirito e intenta con lo sguardo verso una missione all’altezza di tempi sfidanti che ci aspettano. Altrimenti, sarà meglio andare ognuno per la propria strada in attesa di tempi migliori.

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Piu’ flessibilità in cambio del sì al nuovo MES

Oggi il mio articolo sul Sole 24 Ore.

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E’ difficile comprendere cosa sia avvenuto nell’ultimo anno attorno alla questione della riforma del fondo Salvastati, il c.d. MES (“Meccanismo Europeo di Stabilità”). E per ricostruirlo l’informazione pubblica a disposizione è sufficiente, difficilmente interpretabile, incompleta. Un cocktail micidiale non solo per chi vi si addentra ma anche per la percezione della democraticità dei processi europei, che proprio sulle questioni essenziali (si pensi alla famigerata approvazione del Fiscal Compact, che in Italia fu approvata dal parlamento addirittura il giorno della vigilia di Natale) si avvolge spesso in un mantra di segretezza o vaghezza che non fa bene certamente bene all’Europa, dando spago alla deriva populista. Se quest’ultima infatti si nutre di fake news, l’Unione europea è responsabile certamente di alimentarle con questo timore di discutere nell’agorà pubblica tutto ciò che riguarda i suoi più fondamentali aspetti di governance e di costituzionalità.

Il confronto tra i testi 2012 del trattato che istituisce il MES e di quello della proposta revisione dello stesso datata 14 giugno 2019, ambedue disponibili in rete, non può che essere il punto di partenza per un’analisi rigorosa di quanto avvenuto sinora.

Nel testo originale, approvato nel 2012, all’articolo 13 si può leggere come si debba procedere per la concessione del sostegno alla stabilità ad un determinato Paese che presenti domanda in tal senso al presidente del consiglio dei governatori del MES. Questi, una volta ricevuta la domanda, assegna alla Commissione europea di concerto con la BCE il compito tra le altre cose di “valutare la sostenibilità del debito pubblico”. Se ne intende chiaramente come un Paese ritenuto dagli organi succitati come instabile non potrà accedere al finanziamento. Ciò smentisce tra l’altro l’opinione di coloro che hanno sostenuto che la riforma 2019 introduce un nuovo legame tra concessione del prestito al Paese in difficoltà e sostenibilità del debito: questo legame c’era già dal 2012 come ha correttamente ricordato il Ministro Gualtieri in suo Comunicato Stampa.

Cosa si legge nel nuovo testo di riforma al proposito? Riportiamo la nostra traduzione (non abbiamo trovato versioni in italiano):

“valutare se il debito pubblico è sostenibile…” (p.s.: finora nulla di nuovo) “… e se il sostegno alla stabilità sia rimborsabile (p.s.: una mera conferma della sostenibilità).” Si aggiunge tuttavia come “questa valutazione dovrà essere condotta in modo trasparente e prevedibile pur lasciando un margine di giudizio sufficiente”. E’, quest’ultima, una introduzione del tutto nuova, che di fatto apre le porte ad una definizione meno vaga di sostenibilità, lasciata tuttavia sempre all’autonomia di Commissione europea e BCE. Quando l’ex Ministro Tria, in un’intervista, ricorda come l’Italia abbia spuntato un compromesso a fronte di una richiesta dell’Olanda, affermando come “i parametri fissi sono stati eliminati. Dunque dalle bozze è scomparso qualsiasi automatismo tra valutazione del debito e la sua ristrutturazione”, probabilmente si riferisce proprio al testo di cui sopra: al posto di parametri fissi per giudicare se un debito sia sostenibile o no si deve essere chiuso il compromesso sulle parole “margine di giudizio sufficiente”, sufficientemente flessibile per tutti.

Qual era il timore delle autorità italiane e in cosa consisteva con tutta probabilità il fallito tentativo olandese? Nel rendere oggettiva la valutazione di sostenibilità (una certa soglia di rapporto debito-PIL?) avrebbe potuto portare alla dichiarazione automatica di insostenibilità del debito italiano, oltre che alla negazione del prestito richiesto. Un problema certo. Eppure, un problema fino ad un certo punto. Non va dimenticato che tale dichiarazione di eventuale insostenibilità avverrebbe solo dopo una richiesta del Governo italiano di concessione di un prestito. Quindi, in assenza di richiesta, nessuna valutazione di sostenibilità o meno. Non vi è dubbio tuttavia che se tali valori oggettivi di insostenibilità fossero stati comunicati pubblicamente e fossero stati significativamente vicini all’attuale livello del debito pubblico italiano avrebbero ben potuto scatenare un attacco speculativo sulla mera base semantica di cosa sia un debito insostenibile per Commissione europea e BCE. Così comunque non sarà e merito va reso alla nostra delegazione per averlo evitato.

E dunque? Avendo scongiurato il pericolo, ed essendo tutto apparentemente come prima, perché la grande polemica politica?

Da alcuni è stato ricordato come la riforma preveda come, in casi eccezionali, “si prende in considerazione una forma adeguata e proporzionata di partecipazione del settore privato nei casi in cui il sostegno alla stabilità sia fornito in base a condizioni sotto forma di un programma di aggiustamento macroeconomico”. Tradotto: se non sei ritenuto sostenibile e quindi non hai ottenuto un prestito come previsto dall’articolo 13, puoi ancora sperare in un prestito del MES a due condizioni: che rinegozi il debito con i creditori e che accetti un programma di austerità gestito dall’Europa (la c.d. Troika).

Questa clausola ha fatto apparentemente gridare grandemente all’allarme, sostenendo come sia di fatto capace di accelerare la sfiducia nel debito pubblico italiano e di causare una sua crisi, autorealizzando le aspettative dei mercati di un fallimento delle nostre obbligazioni.

Eppure non se ne capisce il perché. Prima di tutto perché questa previsione era … già contenuta nel precedente Trattato approvato nel 2012. Secondo poi perché, per chiedere un prestito al MES, che ragiona come un organismo bancario, o lo si fa come ente il cui debito è sostenibile (e lo si ottiene) o lo si fa come ente il cui debito è insostenibile ed allora è evidente che per prestare il MES richieda che tale debito torni … sostenibile e nella sua ottica i due modi più ovvii sono: a) verificare che hai ristrutturato il debito con i creditori e quindi devi loro meno soldi e b) verificare che ti impegni a fare politiche di bilancio austere in futuro.

Ma questa semplice deduzione porta anche ad un altro punto evidente: l’Italia non ha nessuna convenienza a ricorrere al MES. Quando, Presidente del Consiglio, Mario Monti ricordò con orgoglio di non avervi fatto ricorso, diceva al contempo una cosa esatta ma anche lapalissiano, proprio perché l’Italia dal ricorso al MES non può trarre, mai, alcun giovamento. Non avrebbe nessun senso ricorrervi quando le cose vanno bene, ovviamente: chi va a chiedere un prestito quando non ne ha bisogno? Ma non ha senso nemmeno ricorrervi quando le cose vanno male: quando le cose vanno male non solo devo ristrutturare le cose col settore privato (cosa che avrei fatto comunque visto che le cose vanno male) ma devo pure sottomettermi ad una cura di cavallo della Troika, in termini di maggiore austerità, per avere accesso al prestito? La Grecia ha dimostrato, col suo decennio di terribile crisi post-Troika, che questa via non è percorribile. Tanto vale ristrutturare il debito e essere libero di effettuare politiche di crescita o comunque politiche con maggiore autonomia e democrazia interna.

Tanto rumore dunque per nulla? Non esattamente. La polemica sul MES ci ricorda che, sia nel 2012 che nella proposta di riforma del 2019, esso rimane (al di là dei suoi discutibili aspetti di non accountability rispetto alle istituzioni politiche, europee e nazionali) uno strumento inerentemente anti-europeo perché anti-solidale. Perché? Semplice. Quando serve un prestito? Quando si è in difficoltà, ovviamente. Ma, nel caso del MES, quando si è in difficoltà come l’Italia a causa delle politiche di austerità europee che hanno fatto aumentare il rapporto debito-PIL del 20% in questi ultimi anni, cosa avviene? Si viene dichiarati insostenibili, il prestito è negato e vengono rafforzate quelle politiche di austerità che hanno generato la mia insostenibilità di partenza. Ci si aspetterebbe che se le politiche dell’austerità, che abbiamo attuato seguendo le richieste europee, non abbiano funzionato si venga in nostro aiuto, e invece no, si viene ancor più messi in difficoltà.

Il MES, invece di essere strumento di solidarietà interna è una mera banca. E, come si sa, non si possono fondare unioni sulla base di rapporti bancari, ma solo su basi di solidarietà. Questo almeno era quello che pensavano i padri fondatori dell’Europa che ne sapevano qualcosa delle ragioni per costruire un’Europa unita e solidale.

Eppure non può sfuggire, a livello politico, la grande occasione che può essere la riforma del MES per l’Italia. A fronte di una richiesta di una sua firma sul solito MES, l’Italia può coraggiosamente minacciare il suo veto a meno che non siano finalmente rimossi i vincoli austeri alle politiche fiscali in Europa, chiedendo la concessione della golden rule sugli investimenti pubblici in deficit. Il messaggio è chiaro: l’Italia accetta il principio di no bail-out secondo il quale non sarà aiutata dal MES quando in difficoltà ma, a fronte di questa accettazione, richiede che le sia concessa – non solidarietà ma – autonomia nelle sue politiche di bilancio (rispettando comunque un deficit del 3% del PIL tutto dedicato esclusivamente a investimenti pubblici). Spetterà all’Italia convincere i mercati che tali manovre portano, come portano se fatte bene, ad un abbassamento del debito pubblico via crescita economica, quella che è mancata negli ultimi 15 anni a causa delle errate politiche europee.

Un do ut des che potrà salvare non l’Italia, sia chiaro, ma l’Europa tutta.

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Costruire la Casa Europea a forza di costruzioni

Oggi il mio pezzo sul Sole 24 Ore.

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E’ passata sui giornali troppo in sordina, rispetto all’importanza che ha avuto per tastare il polso a un segmento decisivo dell’economia e della società italiana, l’Assemblea annuale dei costruttori edili.

E non tanto per le proteste dalla platea che hanno portato il Presidente del Consiglio Conte, intervenuto a chiudere l’evento, a promettere di rivedere l’ennesima assurda incombenza, questa in capo sia alle imprese che alle stazioni appaltanti, prevista dal DL fiscale del versamento delle ritenute fiscali per i lavoratori dipendenti impiegati nei lavori, da farsi secondo quanto previsto direttamente da parte del committente. Fischi che costituiscono un sintomo di un disagio più profondo rispetto all’ennesimo governo che, dal 2011 a oggi, non è riuscito a dare una soluzione al dramma del crollo del settore, che trascina con sé il Paese. Una crisi che colpisce sia i piccoli imprenditori edili (più che quei pochi grandi in difficoltà a cui viene inspiegabilmente riservato un trattamento di favore, con il Progetto Italia, come ha ricordato il Presidente dell’ANCE Buia) che i tanti lavoratori del settore stesso, in una morsa che spiega perfettamente cosa è avvenuto in Italia dal 2008 ad oggi.

Un settore, quello delle costruzioni, con più di 500.000 occupati in meno dall’avviarsi della crisi – in gran parte lavoratori che hanno conseguito al massimo la licenza media (-37,7%), seguiti dai diplomati (-11,6%) e dai laureati (-1,8%),  in cui la percentuale di perdita di lavoro è più accentuata nel Meridione, con la maggiore flessione in termini percentuali dei giovani occupati dove si perde in nove anni oltre la metà degli addetti (-55,6%) –  che non è soltanto rappresentativo della forma che ha assunto questo decennio di stagnazione italiana e dei suoi conseguenti sommovimenti politici, ne è la vera e propria causa. A tale proposito stupisce ampiamente, anche alla luce del fallito impatto sulla crescita del Paese – certificato dalle stesse previsioni triennali sul PIL della già defunta colazione gialloverde – che si sia voluto prediligere una misura come il reddito di cittadinanza per venire giustamente incontro alla crescente disuguaglianza di questi anni di crisi ad una ben più meritevole ed efficace specifica politica di investimenti pubblici nelle costruzioni che avrebbe avuto il merito di generare crescita ed occupazione proprio là dove se ne sentiva più il bisogno.

Ma le cose non paiono volgere al bello nemmeno con questa nuova coalizione giallorossa. Al di là del fatto che i provvedimenti presi sinora a riguardo dell’accelerare la celerità della realizzazione delle opere non paiono andare nella giusta direzione – dimostrazione eloquente ne è quella che il Presidente Buia ha definito l’idra a sette teste costituita dalle ora sette strutture che a vario titolo dovrebbero occuparsi di sbloccare le infrastrutture e che dopo più di un anno non sono nemmeno operative – a preoccupare maggiormente è che i maggiori stanziamenti per gli investimenti pubblici continuano a non trasformarsi in erogazioni di liquidità per i cantieri.

Sarebbe miope continuare a sostenere che ciò avviene perché “non sappiamo spendere” (anche se lo spaventoso blocco del turn over che in questi anni sta colpendo specialmente il Meridione non può non giocare un ruolo) o a causa del “contenzioso amministrativo” (che riguarda per il biennio 17-18 solo l’1,5% complessivo dei bandi di lavori, secondo i dati del Consiglio di Stato): no, è evidente che sono le regole europee che limitano la possibilità per l’Italia di effettuare deficit maggiori (anche quando contenuti entro il 3% del PIL) a spiegare il crollo costante degli investimenti pubblici di questo decennio e la mancata ripresa attuale, malgrado i maggiori stanziamenti dedicati proprio a questi.

Che siano i vincoli a mordere si vede anche in fase di stanziamento: se il Governo annuncia a gran voce un apprezzabile grande piano di investimenti sostenibili di 55 miliardi e poi aggiunge “per i prossimi 15 anni” (dunque poco più di 3 miliardi l’anno in media) e poi aggiunge ancora che per il 2020 se ne stanziano solo 690 milioni (l’1,1%) è evidente che il problema è l’oggi ed i vincoli europei che sull’oggi vanno ad incidere. E sia chiaro: quei 690 milioni, 0,033% di PIL, una briciola rispetto a quanto necessario, saranno i primi a saltare ed a essere bloccati nel momento in cui si dovesse notare che mancano le risorse per raggiungere quel deficit del 2,2% di PIL sciaguratamente promesso all’Europa.

Perché sciaguratamente? Perché è evidente ormai anche ad un bambino che il famoso motto clintoniano “it’s the economy, stupid!” che il Presidente americano usò per rammentare a tutti che è l’economia a trainare i risultati politici, sia quanto mai attuale per riassumere lo stato di ebetudine in cui poggiano i nostri leader nazionali ed europei, che nel distruggere l’edilizia italiana e gli investimenti pubblici ad essa connessi non stanno solo distruggendo le tante costruzioni utili ai cittadini, ma la costruzione della casa più importante di tutte, quella Casa Europea che avevamo sognato con i Padri Fondatori alla fine della seconda guerra mondiale per dare un futuro di pace e prosperità alle future generazioni del nostro continente. E’ soprattutto per questa casa che dobbiamo fare presto, prestissimo, rilanciando il ruolo degli investimenti pubblici e acconsentendo ora e non in futuro remoto, la golden rule che riserva il 3% del Pil ad essi acconsentendo ad un deficit dello stesso ammontare.

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Quella manovra 2020 che tra 20 anni chiameranno restrittiva e recessiva

Il mio pezzo sul Sole 24 Ore di oggi.

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Quando gli economisti del futuro studieranno le politiche fiscali dell’Italia, come guarderanno alla manovra finanziaria per il 2020? La considereranno espansiva o restrittiva? Responsabile di aver contribuito alla crescita o alla contrazione di produzione e occupazione nel Paese? Per rispondere si baseranno sui numeri a loro disposizione nelle svariate banche dati di organismi nazionali e sovranazionali, come quelle della Banca d’Italia, della Banca centrale europea oppure del Fondo monetario internazionale.

Vi saranno coloro che noteranno come il deficit italiano del 2019 fosse arrivato al 2% del Pil, mentre quello dell’anno successivo chiuse al 2,2%, così come previsto dalla Nota di aggiornamento al Def dell’autunno 2019. Una manovra dunque apparentemente espansiva, quella per il 2020, capace di far crescere il deficit, a supporto dell’economia.

In realtà, a tali economisti potrebbe venir fatto notare che per comprendere la posizione effettiva del governo dell’epoca riguardo al 2020 ci si doveva piuttosto chiedere quale sarebbe stato il deficit 2020 in assenza di misure governative. «Ah, il tendenziale!», esclameranno questi, richiamando un dato molto particolare, calcolato da sempre dagli uffici del Tesoro di Via XX Settembre. Ebbene, andando a scovarlo, quel dato di deficit tendenziale, si scoprirà che per il 2020 si attestava addirittura all’1,4 per cento. Insomma, il governo di allora con la sua manovra apparentemente portò il deficit dall’1,4% al 2,2% del Pil, una mossa ancora più espansiva, ancora più a supporto dell’economia!

Tuttavia, leggendo in polverosi manuali dell’epoca, qualche economista avrebbe potuto scoprire che le regole di calcolo del tendenziale del 2020 prevedevano – per motivi certamente poco comprensibili ai più – che questo comprendesse al suo interno le famigerate, per il tempo, “clausole di salvaguardia”, per le quali il governo, qualsiasi esso fosse, si impegnava ad aumentare l’Iva di 23 miliardi di euro (1,3% di Pil) per raggiungere, appunto, quota 1,4% di Pil. Dunque, in assenza di quelle politiche di aumento dell’Iva, ancora non attuate, il deficit si era inizialmente stabilizzato, sempre per il 2020, all’1,4% + 1,3% ovvero al 2,7% del Pil!

Qualsiasi economista assennato si sarebbe immediatamente convinto che questo solo era il dato rilevante e logico da utilizzare per comprendere la posizione dell’esecutivo. Ecco che il deficit 2020 dal 2,7% del Pil a cui si sarebbe ancorato in assenza di politiche governative si andò a stabilizzare, a causa di queste, al 2,2%. Una riduzione significativa, quella che qualsiasi economista chiamerebbe “una politica restrittiva” di 0,5 punti di Pil, circa 9 miliardi netti di maggiori entrate o minori spese. Netti, perché la scelta di allora del governo di ridurre il peso del cuneo fiscale di 3 miliardi implicò la ricerca di ben 12 miliardi di risorse da maggiori entrate o minori uscite.

Queste politiche restrittive da sempre hanno un solo effetto, commentò l’economista alle prese coi suoi dati finalmente corretti: riducono Pil e occupazione; e, nel caso dell’Italia di allora, da livelli di partenza già stagnanti anche in assenza di politiche di contenimento del deficit.

Trovare quei 12 miliardi non fu facile e, come spesso accadeva in quegli anni, l’economista notò come si fosse registrata anche nel 2020 una stasi significativa degli investimenti pubblici che, al contrario, sarebbero dovuti aumentare, dati i maggiori stanziamenti deliberati negli anni precedenti. Qualcuno al tempo parlò di lentezze burocratiche legate al nuovo Codice degli appalti, ma altri sui giornali dell’epoca segnalarono maliziosamente come i fondi stanziati per gli investimenti pubblici si trasformino in spesa solo quando sono effettivamente erogati e può ben darsi che la liquidità per avviare o continuare i cantieri non si materializzò proprio per ridurre il deficit dal 2,7% al 2,2% del Pil, finendo per bloccare quell’unica componente di bilancio pubblico a favore della quale le sue sole beneficiarie, le future generazioni, non possono manifestare perché ancora non nate.

Sarebbe stato possibile fare altrimenti ed evitare quella politica restrittiva che rischiava di far saltare il consenso per le forze moderate ed europeiste e per l’intero progetto federale europeo? Certo che sì. Sarebbe bastato far comprendere all’Unione europea come la recessione che sarebbe seguita a una manovra restrittiva di quel tipo avrebbe acuito le tensioni sociali, alimentando il populismo antieuropeo, e che ben meglio sarebbe stato portare il deficit al 3% del Pil, aumentando sì le tasse dell’1% del Pil, ma per dedicarle appunto all’erogazione di un pari ammontare di spese e di liquidità per l’avvio di ambiziosi programmi di investimenti pubblici che avrebbero dato lavoro e dignità a tantissime persone nei tanti cantieri che l’Italia avrebbe visto spuntare come funghi (prelibati) lungo tutta la penisola.

Ma questa, purtroppo, è un’altra storia.

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Salvare l’Europa rinnegando se stessi

Oggi sul Sole 24 ore, il  mio pezzo.

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Nell’attuale dibattito tra le forze parlamentari, la dimensione politica del “cosa fare” viene esaltata: tra chi spinge verso le elezioni subito, chi tra poco e chi predilige lasciar che la legislatura abbia il suo naturale, seppur travagliato, corso. Il convitato di pietra di questo dibattito, l’economia, marcia nelle retrovie: se non fosse per i turbamenti dello spread che ricevono qualche attenzione si direbbe che sia quasi assente.

Ed è ben paradossale se si pensa che la crescita travolgente nei sondaggi della Lega di Matteo Salvini in questo ultimo anno si spiega solo con due cavalli di battaglia della retorica del suo leader con evidenti implicazioni economiche: immigrazione e politica fiscale, dove l’enfasi è stata posta sui vincoli europei, addirittura portando il partito a negare il voto alla candidata, poi eletta, von der Leyen per la presidenza della Commissione europea, reputata evidentemente a favore dello status quo.

Per la verità in questi giorni la Lega, tramite il suo leader, è stata l’unica forza a comunicare ripetutamente cosa va cambiato nella gestione dell’economia: sforamento dei parametri di finanza pubblica europei, flat tax, investimenti pubblici, IVA stabile, lasciando per ora alle scorribande della base sui social e ai tweet di alcuni rappresentanti del partito la questione più delicata della permanenza nell’euro.

Gli altri partiti si sono distinti più che altro per una serie di dichiarazioni su cosa, per l’economia, “non” va fatto. Non si deve aumentare l’IVA, non si devono abbandonare i parametri europei, non bisogna tornare indietro sul reddito di cittadinanza. Troppo poco, verrebbe da dire. Una coalizione PD-5 Stelle, se mai possibile, dovrebbe interrogarsi rapidamente su che impostazione comune di politica economica dovrebbe caratterizzare l’alleanza, alquanto instabile di suo, per riuscire ad arginare la crescita del consenso sovranista in Italia e altrettanto rapidamente comunicarlo.

E’ evidente che ciò richiederebbe un’inversione ad U ad ambedue i partiti, ben maggiore di quella sottolineata sinora sulla stampa, legata alla reciproca antipatia così pubblicamente manifestata in quest’ultimo anno di lavori parlamentari. Un’inversione ad U rispetto alle politiche sinora abbracciate dai due movimenti, che hanno avuto in comune un evidente fallimento: la mancata ripresa della crescita rispetto al resto d’Europa.

Mentre Salvini propone in effetti un approccio nuovo, cosa portano 5 Stelle o PD se non ricette che quasi tutti giudicano nei fatti fallimentari come rispettivamente il reddito di cittadinanza – capace di generare (parole dello stesso Documento di Economia e Finanza del Governo Conte!) una misera crescita del PIL di 0,8% nel prossimo triennio o come il ritorno alla convergenza verso il bilancio in pareggio fatto di manovre austere che condannarono Renzi alla sconfitta politica del 2018?

Errare è umano, perseverare è diabolico, ed astenersi dall’elaborare una nuova piattaforma, diversa da quelle presenti nel DNA tradizionale di questi due partiti, è masochistico: se anche riuscissero ad arginare temporaneamente il ricorso alle urne autunnali, anche tra due anni il conto che presenterebbe un elettorato stanco di stagnazione, declino, mancanza di ripresa sarebbe inequivocabilmente favorevole a Salvini, al sovranismo e alla fine di qualsiasi sogno europeo.

E questo è ben chiaro anche a qualunque analista o politico europeo che si rispetti: il futuro dell’Europa passa per Roma e tirare la corda ulteriormente non farebbe che portare munizioni alla retorica di Salvini. Questo banale dato di fatto costituisce tuttavia anche un’opportunità per i due partiti: un’Europa terrorizzata dalla prospettiva sovranista è oggi disposta a concedere molto di più alle forze pro-europee italiane di quanto non abbia fatto sinora, rimuovendo l’alibi del “ce lo chiede l’Europa”.

Diventa dunque essenziale conoscere se esista una terza via per la politica economica, diversa da quella sovranista ma al contempo lontana da quella europea del Fiscal Compact che ha caratterizzato in maniera nefasta l’ultimo decennio, e tale da poter essere sposata da ambedue i partiti. E la risposta è sì, esiste.

Richiede innanzitutto un rispetto formale di alcune regole europee non negoziabili, in particolare quelle legate al deficit su Pil del 3% come linea Maginot degli sforamenti di bilancio in tempo di difficoltà. In cambio di questa concessione all’Europa, l’Italia di questa insolita coalizione dovrebbe richiedere di poter rimanere al 3% fino all’uscita definitiva dalla stagnazione, un’eccezione significativa al Fiscal Compact che richiede comunque e sempre una convergenza al bilancio in pareggio nel giro di tre anni. Nuovamente in cambio, l’Italia garantirebbe due ulteriori condizioni: che le risorse così liberatesi verrebbero usate solo per fare investimenti pubblici che stimolano al contempo domanda “per” e produttività “delle” nostre aziende e che ulteriori aumenti di spesa o diminuzioni di imposte avverrebbero via spending review.

Cosa implicherebbe questo patto per le manovre di finanza pubblica? Con un deficit-PIL, come quello odierno, già attorno al 3% in assenza di aumento dell’IVA, praticamente nulla: non vi sarebbe in effetti spazio per ulteriori investimenti pubblici (una spending review seria richiede tempo), e il vantaggio di questo accordo si limiterebbe solo ad escludere ulteriori danni da austerità, non a generare benefici, troppo poco per sconfiggere i sovranisti. Una soluzione c’è: lasciar aumentare l’IVA, guadagnando ben 23 miliardi di risorse che potrebbero essere usate per gli investimenti pubblici in tutto il Paese. L’impatto di questa manovra, chiamata anche del “moltiplicatore in pareggio”, è noto e positivo per la crescita: se è vero che la domanda privata sarebbe in parte depressa dall’aumento delle imposte indirette, l’impatto positivo dei maggiori investimenti pubblici lo sovrasterebbe, sia nel breve che nel medio periodo. E due anni sono quanto bastano a questa anomala coalizione per dimostrare la bontà di questa scelta all’elettorato, in termini di ripresa e sviluppo.

Europa o non Europa? Tertium non datur, ai partiti l’ardua scelta.

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Mentre gli Usa difendono le PMI, l’Europa (e l’Italia) che fanno?

Il mio pezzo oggi sul Sole 24 Ore.

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E’ passata sotto silenzio la notizia che il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha emesso il 15 luglio un c.d. “ordine esecutivo”, il numero 13881, in tema di appalti pubblici federali. Tale decisione rafforza l’enfasi protezionistica statunitense nella galassia dei suoi appalti ed acquisti pubblici, all’interno della più ampia politica di regolamentazione “Buy American” (compra americano), dando ulteriore, maggiore, preferenza a beni, servizi e lavori con contenuto “domestico”.

Già prima di questa nuova regola, se quanto offerto alla Pubblica Amministrazione veniva prodotto negli Stati Uniti e conteneva un appropriato livello di valore aggiunto proveniente da ditte statunitensi, l’azienda americana otteneva un c.d. “preferenza di prezzo” di un certo ammontare, ovvero potevo risultare vincitrice anche in presenza di offerte di ditte non americane più competitive.

Le novità introdotte dal 13881 sono di due tipi: da un lato, la diminuzione della soglia critica di valore aggiunto creato in America per essere qualificato come “non statunitense”, che è stata abbassata dall’attuale amministrazione dal 50% al 5% per acciaio e ferro e al 45% (ma con la possibilità nel tempo di scendere al 25%) per tutto il restante degli acquisti; dall’altro l’aumento della preferenza di prezzo per l’azienda statunitense che sale dal 6 al 20% (dal 12 al 30% per le PMI americane), favorendole ulteriormente in fase di gara.

In realtà a ben guardare, come fa il giurista statunitense Christopher Yukins in una sua recente analisi, l’ordine esecutivo ha meno impatto di quanto non possa sembrare: primo, non si applica per acquisti sopra la soglia di 180.000 dollari né per quella dei micro-acquisti sotto i 10.000 dollari e, secondo, stenta ad essere applicata al settore strategico della difesa a causa di accordi di reciprocità con gli alleati americani. Sta di fatto che, dei 500 circa miliardi di dollari di acquisti statunitensi, meno del 2% sarà toccato dall’ordine esecutivo, venendo ad essere esclusi i grandi contratti dove agiscono le grandi imprese. Di fatto parrebbe più l’ennesimo provvedimento a favore delle PMI americane che un vero e proprio rigurgito protezionistico di cui preoccuparci immediatamente a casa nostra. In attesa che si materializzi la tanto (e inutilmente finora) attesa operatività del “Buy American” all’interno del disegno di legge sulle grandi infrastrutture, ancora bloccato politicamente, verrebbe da chiedersi se non si tratta solo che di tanto rumore per nulla.

Forse sì, per un analista statunitense che guarda all’impatto sul proprio Paese, ma forse no, se paragoniamo l’attivismo americano in termini di politica industriale tramite gli appalti a quello europeo e quello nostro nazionale.

E’ infatti dal 1953, con l’amministrazione Eisenhower, che gli Stati Uniti d’America con lo Small Business Act utilizzano le preferenze per le PMI negli appalti pubblici come terreno di politica industriale per far crescere e maturare le proprie piccole aziende, una quota delle quali imparerà a sopravvivere nel complesso mondo aperto della competizione globale, e si affermerà nel tempo grazie proprio alla protezione ricevuta nei primi anni di attività tramite la domanda pubblica ad essa riservata. Trump non fa eccezione a questo comune sentire, è soltanto il più recente dei Presidenti americani che sostiene l’idea che dalla protezione delle piccole nel mondo degli appalti nascerà più, e non meno, concorrenza. In realtà queste politiche sono attive in quasi tutte le aree geografiche del mondo, meno che nel nostro continente. L’Europa infatti su questo tema della protezione negli appalti alle PMI fa da tempo orecchie da mercante e si priva di un’arma potente per rivitalizzare l’imprenditorialità nel continente.

Ma siamo anche noi, la culla delle PMI, che mostriamo di non comprendere la portata rivoluzionaria che avrebbe per il nostro Paese, le cui piccole imprese sono state devastate dalle crisi di questo inizio di secolo, una politica degli appalti seriamente mirata ad esse. Si pensa, tipicamente, solo alle grandi imprese, specie quando già in crisi. Lo dimostra l’ultima decisione, il c.d. “Progetto Italia”, nuovo gigante delle grandi opere sostenuto dalla Cassa Depositi e Prestiti e creato per salvare alcune delle nostre più grandi imprese di edilizia, che secondo Ance “così come congegnato” può avere “effetti distorsivi sulla concorrenza”, a danno ovviamente delle piccole e medie imprese del settore.

Gli Stati Uniti lo insegnano chiaramente: non pensando per le piccole, smettiamo di pensare in grande.

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Italy needs no solidarity: just flexible rules vs. no bail-out

My translation of my today’s op-ed  in the Sole 24 ore.

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At the last Trento Economics Festival, the economist Lars Feld, a member of the German Council of Economic Experts, expressed his opinion on the Italian situation: “if Italy does not abandon part of its fiscal sovereignty, it will never get the solidarity it wants  from Europe”.

It was a significant statement, which highlighted a typical stereotype about the Italian position regarding fiscal rules in the face of our ongoing and intense crisis that has been dragging on for years.

I found myself at the table of the debate arguing that there was certainly a misunderstanding, because Italy is not asking for solidarity; it is asking for greater fiscal autonomy, which is quite different.

Italy does not ask for solidarity for two different reasons. The first is because it knows it will not be granted. And not because Germany is not capable of giving solidarity: the greatest exercise of it from the post-war period onwards in Europe was precisely what the West Germans carried out in favor of the brothers (or at most cousins) of the Eastern side, following the fall of the Berlin Wall. The problem is that today Italians (or Greeks) do not have a similar degree of kinship: they are at most distant fourth-grade cousins. Of course, the European Union was created precisely in order to bring these degrees of kinship closer; it ideally evolves in fact exactly to the reverse of a family nucleus, with the children of the children of my children who will become brothers of the children of the children of the children of my fellow German economist. That this is not yet a time of mutual solidarity in Europe (as it was not in the states of the nineteenth-century «not so United» States of America) is proved by the total European political disinterest that generally accompanies what are fundamentally solidarity proposals such as: the Eurobonds or a European subsidy for unemployment, which (today) are nothing more than a transfer from German tax payers to Italian (or Greek) citizens.

The second reason, more subtle, has to do with the fact that – especially in the absence of explicit brotherhood – solidarity, even when granted, has something paternalistic and condescending embedded in it, and Italians would hardly bend to request it.

When Italy does not obey the European fiscal rules (as this Government did, presenting now twice already economic and financial documents which explicitly do not converge toward a balanced budget in the following three years), it rather manifests another request: to get rid of those rules that do not allow it to exercise an autonomous policy in support of its economy.

At a time when European rules have been questioned even by the very orthodox European Fiscal Board (an institution generated by the Fiscal Compact itself) in its latest report, and in which certainly a reform of these will soon land on the table of reforms of the new European Parliament and of the new European Commission, Italy must not feel a pariah in pushing for its own reform proposals. This is all the more true if we consider that the Fiscal Compact has clearly failed only for the countries (like Italy and Greece) most in difficulty and that therefore a reform is nowadays more urgent and indispensable precisely to help countries like Italy and Greece to get out of a crisis in which the current austere rules have done nothing but enmesh them even more, putting Europe at risk.

Now, if we look at the history of the nineteenth-century American and its path as far as fiscal rules are concerned, we find fitting analogies with today’s Europe (after all, one could venture, the United States states of that time were as different from one another as are the member states of the European Union today): in particular, we note how individual states were responsible for their spending levels, taxes, deficits and debt; in short, they had fiscal policy sovereignty. But that flexibility was no free-ride: when in the mid-nineteenth century Tennessee, having badly spent the money borrowed from the markets to make unnecessary spending on pharaonic projects, asked Washington DC to be helped to repay the banks, it heard a ringing “no way, no bail-out ”. It ended up that Tennessee decided to default, with reckless banks and local citizens who paid the price. It was only when America became truly united and solidaristic across states, in the 1930s, that the balanced budget fiscal rules were imposed in the individual states. But this was only possible because there was a new actor, the centralized federal state, which operated itself in deficit when necessary, for the good of those who needed it in times of crisis.

A union of different people, this is the lesson of the past, cannot be left without the possibility of using deficits in moments of difficulty: either these are done centrally (but in Europe it is too early today, we will have to wait for the much-needed brotherhood in a single federal political community, which only time can hopefully generate) or they msut be left at the local (sovereign) level. But on one condition: that the bail-outs of national governments by the European Union are to be strictly prohibited. It will be then up to the various Italian governments on duty to convince the markets of the goodness of their deficits (and it would not surprise us if they would succeed in convincing them only if they abandoned useless projects such as the recent mere transfers like pensions and unemployment subsidy, in favor instead of massive doses of public investments) and i twill be up to the German and French banks to convince themselves that the bailouts obtained during the early Greek crisis will never be repeated again.

It is evident that in the negotiation phase this position could find a final compromise in the much-coveted golden rule that allows for balanced budget for current expenditures and space for public investments financed in deficit up to a maximum of 3% of GDP. An Italian negotiating position of this kind could have much more attention than the follies of the recently proposed Mini-Tbills (mini Bot) that are akin to the creation of a parallele currency.  It would also have the merit of restoring vital oxygen for the continued construction of a United States of Europe space.