Oggi sul Sole 24 Ore, con Lorenzo Pecchi. (versione breve)
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Si è parlato molto della storica decisione di emettere dei primi bond dell’Unione europea come di un momento “hamiltoniano”, con riferimento al primo dei Ministri del tesoro dei costituendi Stati Uniti di America, Alexander Hamilton e ad una sua apparentemente analoga decisione nel 1790, approvata dal Congresso americano dopo estenuanti negoziazioni con i leader politici ed i rappresentanti dei singoli stati dell’Unione.
Con un debito-PIL dell’Unione americana a inizio Ottocento al 40%, di cui più di un quarto a carico dei singoli stati ed il rimanente prezzato a valore quasi di carta straccia sui mercati di allora per la poca credibilità di cui godeva l’emittente federale con i c.d. Continentals, si fa fatica tuttavia a intravedere una situazione simile a quella europea attuale, con un debito emesso quasi esclusivamente dai singoli stati e con anche uno degli emittenti più rischiosi, come l’Italia, che emette titoli che hanno un rating superiore a quello dei “junk bonds”.
Il valore dei Continentals era molto basso perché i mercati percepivano come la capacità di imporre tasse fosse nelle mani dei singoli Stati e non vi fossero a livello federale entrate sufficienti per far fronte al pagamento di interessi e capitale. Il primo successo politico di Hamilton fu quello di centralizzare la tassazione a livello federale con le imposte su importazioni e whiskey per ottenere risorse sufficienti a ripagare un debito pubblico che, con abilità negoziali, riuscì anche a ristrutturare con l’accordo dei mercati.
Analogamente, con il Recovery Fund si prevede la nascita di una prima forma di tassazione europea, con imposte sull’uso della plastica e possibili successive altre forme di tassazione. Anche il nuovo debito emesso dall’Europa – come quello americano duecento anni orsono – dipenderà dunque poco dalla volontà di ripagare o meno dei singoli Stati membri, rassicurando i mercati e spuntando tassi d’interesse molto convenienti.
Per ottenere dai singoli Stati una sostanziale rinuncia al loro potere impositivo fiscale, Hamilton qualcosa dovette dare loro in cambio. Questo do ut des viene da molti identificato con l’assunzione del debito dei singoli stati, quel quarto del debito totale, da parte del Governo federale. Assunzione tanto più vantaggiosa quanto più irresponsabile era stata la gestione delle casse locali del singolo stato: di fatto gli stati “più frugali” finirono per finanziare quelli meno, a tal punto che lo Stato più virtuoso, la Virginia, accettò la negoziazione solo a valle di ulteriori concessioni riguardanti la localizzazione della capitale degli Stati Uniti nel suo territorio, che portò alla nascita di Washington. Hamilton vide in questo scambio una solidarietà implicita, dato che i debiti statali erano stati sostenuti da tutti, in quote diverse, per la Rivoluzione, un bene comune, così come oggi si parla di un debito europeo assunto per combattere un male che ha colpito tutti, il Covid, anche se in maniera diversa.
In realtà il progetto di Hamilton ebbe ricadute di lungo periodo più ampie. Egli vide nella possibilità di emettere centralmente il debito pubblico, a differenza di molti dei suoi contemporanei, una “benedizione nazionale”. Una emissione in larga scala di titoli finì per creare un asset liquido e sicuro che, supportato da un adeguato e credibile piano fiscale per ripagarlo, rafforzò il “credito” della nazione, necessario ad attrarre gli investitori nazionali ed esteri per finanziare la crescita del paese. La visione di Hamilton fu che la creazione del mercato del debito pubblico, a pochi anni dalla ratificazione della nuova Costituzione, sarebbe stato lo strumento necessario per dare l’impulso risolutivo al progetto della creazione degli Stati Uniti d’America.
L’Europa ha per la prima volta oltrepassato una linea che fino a pochi mesi fa sembrava pressoché invalicabile: l’emissione in larga scala di Eurobond. La risposta alla crisi finanziaria del 2008-9 fu di tutt’altro tenore: non fu la solidarietà, ma il rafforzamento delle regole attraverso il Fiscal Compact e l’introduzione di piani di austerità che nascondevano una sostanziale mancanza di fiducia reciproca.
Stiamo vivendo il “momento hamiltoniano” dell’Europa? La risposta non può che essere cauta e prudente, ma le analogie non mancano. Ogni comunità politica di tipo democratico costituzionale si regge su due pilastri fondamentali: a) un insieme di regole e procedure che oltre a garantire a ciascuno libertà e autonomia individuale permettono un controllo democratico delle decisioni collettive; b) l’esistenza di istituzioni che permettano una solidarietà civica necessaria per una corretta coesione e cooperazione sociale. L’Europa è ancora lontana dall’essere una comunità politica di questo tipo.
Detto ciò non dobbiamo sottovalutare quello che è accaduto o che potrebbe accadere nel prossimo futuro in Europa. La creazione di un mercato del debito supportato dal bilancio e della fiscalità dell’Unione europea può innescare infatti un processo di tipo hamiltoniano per l’avvio di una Europa solidale.
Un ultimo caveat è tuttavia necessario. La mossa di Hamilton fu probabilmente condizione necessaria per cementare l’Unione, ma non sarebbe mai stata sufficiente. La guerra civile del 1860 ne è prova evidente: un’Unione di diversi richiede un difficile gioco di rappresentanza degli interessi reciproci che va continuamente coltivato con abilità e maestria che possono mancare alle classi politiche future.
Ma c’è di più. Il successo di Hamilton nel ripagare il debito si basava su una scommessa importante: la crescita del gettito federale per ripagare il debito pubblico e garantire l’effettiva credibilità delle promesse fatte ai mercati finanziari. Quella crescita si materializzò grazie all’espansione del commercio internazionale nei primi dell’Ottocento e generò un circolo virtuoso tra stabilità, reputazione e crescita della neonata Unione americana.
Tuttavia la reputazione dell’Unione europea, e dunque la sua probabilità di sopravvivere a future crisi, ancora si legherà per alcuni decenni alla reputazione del debito dei singoli stati e alla loro crescita economica, specialmente quella degli Stati più fragili, come l’Italia. La questione chiave rimane dunque quando, al di là del decisivo supporto una tantum per la crisi dovuta al virus, Europa ed Italia intendano firmare un altro do ut des basato su garanzie di qualità della nostra spesa e garanzie di abolizione dell’austerità. Solo così infatti si potrà uscire dalla nostra crisi endemica che dura da più di un decennio, ben prima del Covid.