Il mio pezzo di oggi sul Sole 24 Ore.
*
Fa bene il Ministro Tria a parlare di un “grande piano di rilancio degli investimenti pubblici in infrastrutture”, era da tempo che aspettavamo una simile proposta da tanti suoi predecessori. Senza guardare al passato, senza assegnare colpe a questo o a quello per l’immane tragedia di Genova (ciò spetta ai magistrati), questo Piano può rappresentare il modo più concreto e fattivo per onorare la memoria delle vittime, per lenire il dolore delle famiglie, per rimarginare una ferita che sentono tutti i sopravvissuti, coinvolti direttamente quel giorno e non, per riavvicinarci a quell’Europa che sembra ora più lontana.
Naturalmente un Piano deve per avere successo essere basato su di una strategia che affondi le sue radici sull’analisi delle complesse cause che hanno portato il Ministro a parlare di rilancio: dove e quando si è bloccata la macchina delle infrastrutture in Italia? Solo esaminando la peculiare situazione più recente degli investimenti pubblici in Italia potremo rendere credibile il Piano e non vederlo tramutato nell’ennesimo futile esercizio di parole in libertà. Il Ministro, nel suo comunicato, pare individuare due grandi temi: spendere di più e spendere meglio, senza dare un’enfasi maggiore ad uno dei due, ed a ragione, perché non c’è dubbio che ambedue vadano affrontati con uguale determinazione.
Il dato di partenza, il calo degli investimenti pubblici di questo decennio, è incontrovertibile e drammatico: diminuzione in valore reale del 6% annuo dal 2010 al 2015, discesa del loro peso dal 3 al 2% del Pil tra prima e dopo le crisi del 2008 e del 2011. Ma dato che gli investimenti che vengono contabilizzati sono quelli spesi e non quelli stanziati, la domanda che si pone poi naturalmente è: sono state poche le risorse stanziate o le risorse c’erano ma non sappiamo spenderle? Aiutandoci per il tramite di una metafora: dall’imbuto esce poca acqua perché ne immettiamo poca o perché il tubo è talmente stretto da farne uscire poca anche in presenza di tanta acqua?
Non c’è dubbio alcuno che negli anni della crisi economica gli stanziamenti si sono ridotti per venire incontro alle incongruenti e dissennate politiche europee dell’austerità. Di fronte ad una crisi da carenza di domanda che avrebbe dovuto essere, come negli Stati Uniti – sia negli anni Trenta (Roosevelt) che agli albori di questo secolo (Obama) – risolta con l’intervento pubblico a sospingere proprio gli investimenti pubblici così da ristabilire ottimismo e ripresa dell’attività d’impresa, si è voluto piuttosto prediligere una richiesta di rientro del deficit verso il pareggio. In assenza di una golden rule che proteggesse proprio gli investimenti pubblici (con una semplice regola di bilancio di sola parte corrente in pareggio) i tagli si sono scaricati proprio su questi ultimi. Che questo sia successo ne è evidente prova, come mostrano i dati della BCE, il fatto che tutti i Paesi colpiti dall’austerità, non solo l’Italia, hanno visto drasticamente ridursi post 2011 la quota degli investimenti pubblici sia sul PIL che come componente della spesa totale. Un esito che non dovrebbe sorprendere: essendo le generazioni future quelle che più hanno da guadagnare da questa componente del bilancio, e queste ultime non votando, è naturale che i politici abbiano scaricato le richieste austere europee sulla riduzione di capacità infrastrutturale del Paese. E se è vero che dal 2017 il calo degli investimenti pubblici in Italia si è arrestato e, anzi, nel tendenziale dei conti pubblici è oggi incorporato un loro aumento che, nel 2021, riporterebbe il loro livello a quello del 2014, tuttavia è anche vero che, fatto 100 il livello del 2007, nel 2021 questi salirebbero comunque soltanto a 70, il 30% in meno!
Non vi è dunque dubbio che l’acqua versata nell’imbuto è ancora troppo poca, e che al Governo, nel suo Piano straordinario, spetta rispondere a una domanda: come aumentarla, da subito? La risposta differirà a seconda del deficit su PIL che questo Governo vorrà confermare per il 2019. Limitandosi ad un 2%, è evidente come le risorse potranno venire solo dalla rinuncia al non aumentare l’IVA, lasciando che le clausole di salvaguardia si attivino, e dedicando i circa 10 miliardi disponibili agli investimenti pubblici. E’ solo scrivendo 3% sul deficit 2019 nella nota di aggiornamento al DEF di fine settembre che il Governo potrebbe sia evitare l’aumento dell’IVA che permettere quello degli investimenti; ovviamente, sia ben chiaro, senza spazio per reddito di cittadinanza o flat tax: ma se il Piano deve essere “grande”, non può né deve esistere una alternativa. O no?
Eppure è anche vero che, una volta avviata con coraggio una tale fornitura di acqua all’arido terreno della nostra economia, dobbiamo interrogarci, come fa il Ministro Tria, del tubo dell’imbuto e se non sia vero che, malgrado i crescenti stanziamenti, l’efficacia del Piano non sia comunque a rischio anche con tanta “acqua”, se non prendiamo di petto la questione dello spendere meglio oltre a quella di spendere di più.
E’ evidente che spendere meglio negli appalti pubblici in Italia richiede innanzitutto una rivoluzione organizzativa che rimetta al centro la questione delle competenze dei responsabili delle stazioni appaltanti, dal momento della stima del fabbisogno a quello della gara a quello infine del controllo durante la vita del contratto. Per avere a disposizione i migliori, tuttavia, come nel resto del mondo avanzato, è necessario che siano soddisfatti alcuni prerequisiti: primo, bisogna sapere motivarli e trattenerli, pagandoli, e tanto; secondo, bisogna saperne controllare la loro performance, investendo sui dati e sulla loro analisi; terzo, bisogna permettere loro di acquisire esperienza, smettendola di parlare di rotazione e creando una carriera di lungo periodo del “professionista degli appalti”, come quella di un giudice o di un diplomatico; quarto, bisogna lavorare costantemente sulle loro competenze (da due anni il decreto per la qualificazione delle stazioni appaltanti è misteriosamente nascosto presso il Ministero delle Infrastrutture, possiamo finalmente desecretarlo e avviare un dibattito pubblico su di esso?).
Nel Piano straordinario del Governo dovranno dunque essere stanziate sufficienti risorse per generare una nuova classe di esperti degli appalti, anche facendo ricorso, come giustamente suggerito dallo stesso Tria, ad una “versione aggiornata” del Genio Civile.
Solo così facendo, con una strategia a tenaglia di più e migliore spesa, potremo far sì che le risorse stanziate diventino spese effettive, diventino ponti messi in sicurezza, scuole funzionali, carceri degne, edifici a protezione antisismica, fiumi non esondanti, ridando credibilmente speranza, sviluppo e futuro al nostro Paese.
21/08/2018 @ 09:44
La tragedia Genova è un monito per la Sicilia.
I Morti di Genova dovrebbero insegnare che c’è “LAVORO” da fare, anche troppo, tanto da assorbire non solo tutti i disoccupati ma da richiedere anche il rientro di quanti sono andati a cercare occupazione altrove.
Solo in Sicilia, il deficit infrastrutturale, in opere pubbliche, ammonta ad oltre sessanta miliardi di euro, senza contare i lavori per la manutenzione delle esistenti e gli interventi in difesa del suolo e dell’ambiente, in generale. Nuove opere infrastrutturali e strategiche e manutenzioni delle esistenti per circa ottanta miliardi di euro.
Considerato che per ogni miliardo speso in edilizia si generano almeno diciottomila nuovi posti di lavoro diretti, per un anno, spendendo ottanta miliardi di euro, si potrebbero generare circa un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro diretti a fronte di “soli” quattrocentomila disoccupati. Disoccupati che potrebbero lavorare per quattro anni solo per colmare il deficit infrastrutturale tra la Sicilia ed il resto d’Europa.
• Il primo paradosso: ogni disoccupato genera maggiori entrate e risparmi pari a € 10.500, ogni anno, in favore della Regione. Ogni anno € 4,2 miliardi in favore della Regione che, invece, ogni anno, è destinata a perdere oltre € 2 miliardi. Un saldo tra mancate entrate e risparmi più perdite pari a oltre € sei miliardi l’anno, circa la metà del totale delle entrate correnti, ogni anno.
• Il secondo paradosso: non manca alcunché per mettere in pratica un Progetto di crescita e di sviluppo sostenibile, tutto endogeno, a parte la volontà politica che vuole i siciliani condannati al clientelismo becero e meschino.
• Il terzo paradosso: abbiamo solo scritto di opere pubbliche infrastrutturali e strategiche, senza scrivere di filiere agroalimentari e agroindustriali, turismo e cultura, investimenti soprattutto privati che si attiverebbero in presenza di una Regione protagonista negli investimenti pubblici in opere infrastrutturali.