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Facciamo presto

Il debito pubblico italiano salirà nel 2020 attorno al 160% ed il deficit pubblico attorno al 10% del PIL. C’è una sola ragione, indiscutibile e lapalissiana, per questo duplice andamento: il crollo della produzione, denominatore dei due rapporti menzionati sopra. Se il deficit infatti sarà alto durante il 2020 lo sarà a causa del crollo del PIL: per il calo delle entrate, per l’aumento automatico della spesa pubblica per sostenere i lavoratori in difficoltà, per gli effetti delle politiche discrezionali atte a contenere tale crollo.

Il Governo stima per il 2021 una ritrovata crescita che recuperi circa la metà di quanto perso quest’anno: basterà questa a riportare il deficit al 5% circa ed il debito al 150% del PIL. Una politica che riuscisse a stimolare ulteriormente la crescita nel giro di un anno riporterebbe dunque le lancette indietro al 2019, come se nulla, quanto a sostenibilità del debito, fosse mai avvenuto. Anzi, dato l’attuale stato dei tassi d’interesse italiani, mai così bassi nel XXI secolo, la sostenibilità del debito sarebbe garantita ancora più di ieri.

Il circolo virtuoso appare evidente: ricostruendo la crescita economica mettiamo in stabilità il Paese, dal punto di vista politico, sociale e finanziario. Tutto ciò ha implicazioni altrettanto evidenti: lo sforzo propositivo di policy-maker, economisti ed opinionisti dovrebbe rivolgersi alla questione del come tornare a far crescere la nostra economia, sia in tempi di virus che una volta debellato. Il dibattito in tal senso era stato efficacemente orientato da un personaggio che non potremmo definire come marginale: era stato infatti addirittura Mario Draghi ad indicare subito la via maestra sulle pagine del Financial Times, mostrando come il debito pubblico fosse la soluzione (e non il problema) e come la “questione chiave fosse non il se ma il come lo Stato dovesse far ben fruttare le risorse ottenute a debito”. Tale messa in opera va fatta, secondo l’ex capo della BCE, “immediatamente, evitando ritardi burocratici” altrimenti si potrebbe rischiare “una distruzione permanente di capacità produttiva e dunque della base fiscale” e dunque, aggiungiamo noi, della sostenibilità ultima del debito pubblico.

L’allarme scandito con parole chiarissime aveva implicazioni a valle inequivocabili: tutto il nostro sforzo intellettuale e operativo doveva essere impegnato nell’identificazione delle misure più capaci di attivare le ampie risorse disponibili a basso costo sui mercati finanziari, tanto più grazie agli spread controllati dalla BCE. Ci saremmo dunque aspettati che si discutesse accesamente, sul breve termine (ovvero ora), ad esempio, del come far sì che le banche mettessero immediatamente, “senza ritardi burocratici” a disposizione delle imprese le cifre ingenti necessarie a non vedere “distrutta permanentemente la loro capacità produttiva”. Oppure, nel medio termine (ovvero dall’autunno), di quali cantieri di lavori pubblici avviare con regole agili e trasparenti. Oppure, nel lungo termine (per il dopo crisi) se e quanto ritornare a schemi di regole fiscali europee austere e verso il bilancio in pareggio.

Qualcosa in tale direzione abbiamo letto. Per esempio le rilevanti sollecitazioni di Lorenzo Pecchi ed Andrea Ripa di Meana sulle pagine del Messaggero, coerenti con i suggerimenti di Draghi, sull’incapacità dell’attuale schema di garanzie, previsto nel D.L. 23 dell’8 aprile scorso, di risultare utile alle imprese che più necessitano di risorse, quelle che rischiano di non riaprire. Suggeriscono di utilizzare piuttosto uno schema come quello adottato negli Stati Uniti nel recente CARES Act conosciuto come “forgivable loan”, prestito che diventa un trasferimento a fondo perduto se il debitore dimostra (a posteriori, non rallentando la concessione del prestito) di aver usato i fondi per pagare costo del lavoro, affitti, bollette e canoni di interessi sui debiti.

Eppure argomenti di questa rilevanza si perdono nel contesto di un dibattito tutto occupato a identificare il miglior modo di procedere con, invece, il finanziamento delle esigenze dell’economia. Un fior fiore di proposte (e di negoziati) si è generato attorno al come prendere a prestito le somme che vanno spese: se a debito – con garanzie degli Stati membri, dell’Unione europea, del singolo stato -  se con moneta, se con il risparmio di una classe di operatori o un’altra, se a breve o lungo termine o addirittura senza rimborso del capitale. La logica pare rovesciata: non è l’economia a dover salvare il debito, ma lo schema ottimale del debito a poter mettere in stabilità il Paese, dal punto di vista politico, sociale ed economico.

Ma non è così. Malgrado queste proposte siano interessanti, esse comportano (se tutto va bene) differenze di qualche miliardo di euro nelle condizioni di finanziamento per il singolo Stato. L’unica vera e rilevante questione al riguardo ha a che vedere con il MES che, anche qualora rivisto, non sarà mai senza condizionalità, come dimostra la frase nell’ultimo accordo (“dopo il 2022, gli Stati restano impegnati a rafforzare i fondamentali economici, in modo coerente con il coordinamento fiscale e di bilancio, e il quadro di sorveglianza, compresa la flessibilità”, chiaro segno di futura austerità da rigettare). Ma non va dimenticato che tutta questa “ingegneria finanziaria-istituzionale” rallenta la focalizzazione verso quanto Draghi solleva, l’agire subito con tutti i cannoni a disposizione, a cominciare ovviamente dal primo disponibile, le proprie emissioni di debito, e soprattutto bene, a favore dell’economia. Ogni minuto di ritardo, questo sì, renderà il nostro debito pubblico alla fine insostenibile per mancanza di crescita e, a quel punto, nessuno schema finanziario, per quanto sofisticato, potrà arrestare il crollo politico e sociale dell’intera costruzione europea.

One comment

  1. Giorgio Zintu

    10/05/2020 @ 13:15

    Più leggo e più mi convinco che la medicina come l’economia non appartengano alle scienze esatte. E così quando penso che il debito pubblico sia la soluzione penso sia ragionevolmente corretto ma purtroppo dipende da chi gestisce il debito. E forse questo è il vero problema.

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