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Abbiamo rimandato l’appello per i giovani. Al Presidente Letta.

Al Presidente del Consiglio dei Ministri

Ill. mo On. Enrico Letta

e p.c.  Al Ministro del Lavoro, Salute e Politiche Sociali

Ill. mo Prof. Enrico Giovannini

Ill. mo Presidente,

in data 7 febbraio 2012, preoccupato dell’attuale gravissima situazione in cui versano tantissimi giovani italiani alla luce delle difficili condizioni economiche, ho deciso di avviare sul mio blog una petizione per la raccolta di firme volta a richiedere l’avvio di un progetto di assunzioni a tempo determinato nelle strutture pubbliche di quei tanti giovani che rischiano, in assenza di migliore alternativa, di ingrossare la crescente schiera di quelli che l’Istat definisce “scoraggiati”. Prendendo spunto dall’esperienza così fondamentale per tanti di noi del servizio militare, che unì un Paese altrimenti diviso da cultura e disponibilità economiche, e dall’attuale crisi in cui versa il servizio civile, l’appello richiede il lancio di un progetto di nuovo Rinascimento dove a fronte di un costo moderato potremo ridare bellezza e concretezza all’azione del pubblico nel Paese, generando aumenti di produttività utili a tutti gli attori rilevanti: cittadini, imprese, amministrazioni pubbliche.

Le allego il testo dell’appello.

Esso è stato rapidamente sottoscritto da più di mille e cento cittadini, alcuni dei quali colleghi universitari ma anche, e soprattutto, giovani che – occupati o meno – hanno visto in questa proposta una iniziativa volta a restituire speranza alle nuove generazioni attribuendogli una “responsabilità del fare” che sentono di assumersi in prima persona. Mi pregio di allegarle anche le firme di tutti i sottoscrittori dell’appello.

Questa medesima lettera è stata inviata al Presidente Mario Monti, e per conoscenza al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in data 18 aprile 2012. Le allego anche il testo della risposta ricevuta il 20 giugno 2012 da parte del Segretario Generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri,  il Consigliere Dott. Manlio Strano, nella quale si mostrava vivo apprezzamento per il progetto.

Nell’anno trascorso la disoccupazione giovanile è cresciuta del 6%. Politiche che abbassino il costo delle assunzioni per i giovani, in questo clima di scarsità di domanda, sono destinati a fallire perché le aziende non intendono scommettere sul futuro. C’è bisogno di un intervento diretto pubblico.

Io sono certo che lei avrà modo di valutare questa richiesta in tutti i suoi aspetti e le darà il peso che merita, ancor più del vivo apprezzamento già ricevuto dal suo predecessore. Credo fermamente che abbiamo, tutti noi adulti che siamo stati aiutati dalla forza e dalla passione civile dei nostri nonni e genitori, il dovere di restituire ai nostri figli e nipoti almeno in parte e con generosità quanto ricevuto.

Suo,

Gustavo Piga

Chiediamo al Governo che destini 1% del Prodotto Interno Lordo di ogni anno finanziario del prossimo triennio, 16 miliardi di euro, senza addizionali manovre fiscali – come permesso dal Patto fiscale di recente approvazione dato lo stato di recessione della nostra economia – ad un Piano per il Rinascimento delle Infrastrutture Italiane che veda occupati ogni anno 1.000.000 di giovani ad uno stipendio di 1000 euro mensili, con contratto non rinnovabile di 2 anni, al servizio del nostro Patrimonio artistico, ambientale, culturale e a quelle iniziative della Pubblica Amministrazione che siano volte a rafforzare il nostro sistema produttivo nazionale riducendo barriere e ostacoli che si frappongono allo sviluppo di idee, progetti e, domani, di imprenditorialità.

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Il tramonto dell’austerità? Mai con l’unione fiscale e politica

Berlino ha sempre detto nessuna mutualizzazione del debito se non c’è cessione di sovranità. Prendiamo la Germania in parola. Se è un bluff andiamo a vederlo”. Emma Bonino intervista oggi sul Corriere.

*

Emma Bonino ha ragione da vendere quando chiama “l’euro un successo strepitoso” e al contempo ricorda che “la moneta unica aveva (ha? NdR) una governance da bel tempo, (che) con la tempesta non ha retto più”.

Tutto sta a trovare dunque la governance giusta. Per Emma Bonino questa è l’unione fiscale e politica.

Come per l’abbandono dell’euro, sarebbe un gravissimo errore ricorrere a questa soluzione. Se messa in atto, la sua idea porterebbe dritti al suicidio dell’euro e dell’Europa, malgrado i buoni propositi della nostra brava Ministra degli Esteri.

Lei dice “ora o mai più”? Noi diciamo “domani, per sempre”.

Spieghiamo perché.

1. Non abbiamo tempo. Impegnare tutte le nostre menti nel creare nuove architetture istituzionali, nuovi ruoli per il Parlamento europeo, eserciti in comune, un solo Ministro degli Esteri ecc. distrarrebbe in modo irrecuperabile i nostri dirigenti e politici dall’obiettivo unico che si devono porre: uccidere la recessione ora prima che sia troppo tardi. Già una volta siamo stati distratti da agende inutili con gravi conseguenze: la stupida e forsennata fissazione con il deficit al 3% del PIL ci ha portato ad inventarci trucchi e maquillage contabili invece di prepararci con pazienza allo tsunami cinese e rafforzare i presidii della crescita. I nostri dirigenti e Ministri per anni si sono preparati per i loro viaggi a Bruxelles con cartelle pieni di fogli che dimostravano come il deficit fosse 2,9% e non 3,1%. Tocchiamo con mano oggi i risultati di tale ossessione.

E non lottare oggi e subito contro la recessione vuol dire accelerare la rivolta finale di chi non tollera più la sofferenza gratuita inferta da parte di chi ha invece il compito e la capacità di alleviarla. La Grecia sarà la prima ad uscire. Il Portogallo il secondo. Poi la Catalogna, che oltre all’uscita dall’euro sarà tentata a quel punto di secedere, in un processo di balcanizzazione che è agli antipodi dei desideri di Emma Bonino.

2. Prenda spunto il Ministro dalla storia, ripetibile, dell’altra unione monetaria a cui ambiamo paragonarci. Quella degli Stati Uniti d’America. Ma non quella di oggi, ovviamente: il paragone va fatto con quella unione altamente subottimale che era dopo 10 anni di vita, all’alba dell’ottocento, l’America. Una unione non federale, dove gli stati erano gelosamente custodi delle loro autonomie culturali: debito, spesa pubblica e tassazione – espressioni massime della cultura di una collettività  -  erano infatti predominantemente locali e non centralizzati a Washington. Ci vorrà una guerra civile, l’invenzione della ferrovia che permetterà di viaggiare e conoscere culture diverse, la prima guerra mondiale che diede vita ad una prima presa di coscienza negli americani del proprio ruolo imperiale e, infine, una gravissima recessione gestita con solidarietà da Roosevelt per convincere gli Usa ad aderire ad un progetto veramente di unione federale in cui la spesa pubblica, le tasse e ed il debito fossero predominantemente centralizzati. Un sistema in cui la solidarietà per gli stati come Alabama e Mississippi, strutturalmente più poveri, meno produttivi e più razzisti, è permanente e non condizionata a nessuna riforma (purché non si superino limiti come quelli che per esempio Robert Kennedy dovette combattere, il divieto di accesso degli afroamericani in alcuni atenei del Sud degli Stati).

150 anni ci sono voluti. Per arrivare a far convergere delle diversità che tali devono in parte rimanere, come giustamente indica anche la Bonino, perché la diversità è la forza di una unione politica (come, ad esempio anche di quella indiana). Ma non 5 anni. Perché il giovane albero europeo si spezzerebbe nella tempesta globale: le sue fragili radici devono avere il tempo di rafforzarsi, il suo fusto resistere ai tagli dell’ascia dei nemici, interni ed esterni.

Nessuna unione monetaria nasce come ottimale. L’unione è quasi sempre tra Diversi e non di uguali, anzi nasce proprio per mettere insieme dei diversi. La stessa recente unione monetaria tedesca, apparentemente facile, è stata e continua ad essere operazione culturalmente complessa e per alcuni individui drammatica . Questi Diversi è solo normale che si guardino con sospetto e non subito si trovino predisposti a venirsi incontro nei momenti di difficoltà. Diventa ottimale, una unione monetaria, se segue il percorso del confronto, dello scambio, della comprensione reciproca, del compromesso: così facendo si apre lentamente alla mobilità del lavoro, alla disponibilità ad aiutarsi reciprocamente in tempi di crisi. A quel punto l’unione monetaria è pronta per l’unione fiscale e politica.

Chiedere al Massachusetts dei radicali abolizionisti di sostenere nei primi dell’ottocento gli imprenditori delle piantagioni del Sud sarebbe stato ridicolo. Lo sarebbe anche oggi che il Massachusetts aiuta con le sue risorse ogni anno a integrare i redditi dei più poveri abitanti del Mississippi. Il Massachusetts lo fa perché nel tempo è cresciuta la vicinanza tra questi due stati e si sono radicalmente (ma certamente ancora oggi non definitivamente) ridotte le differenze culturali.

Così oggi alla Germania si può chiedere di effettuare immediatamente una unione fiscale e politica tra Germanie ma non con i greci o gli italiani. Domani, sperabilmente non tra 150 anni, ma a passi piccoli, forse in 30 anni, si potrà consumare quella europea che desidera Emma Bonino.

Gli eurobond non devono vedere la luce perché i tedeschi non sono pronti a trasferire risorse ai greci. Se, per qualche errore di valutazione la cui possibilità a noi sfugge, essi vedessero invece la luce, forzando questi trasferimenti, mostreremmo di non sapere rispettare le identità culturali europee, ennesimo fallimento europeo di quell’esercizio complesso chiamato democrazia. E, conseguenza logica, vedremmo a breve la gente ribellarsi e mettere fine al progetto europeo, l’esatto contrario di quanto desiderato da Emma Bonino.

Niente via dall’euro, niente eurobond ed unione fiscale. Ma allora come uscire dalla crisi salvando il progetto europeo?

(continua)

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Dopo aprile viene maggio. Attenti a quei due

Giorno dopo giorno, sembrerebbe continuare spedito il processo di conversione di Alesina e Giavazzi alle politiche keynesiane.

Ma non è così.

Anzi, direi che se possibile si comincia a intravedere meglio il diabolico (lo diciamo scherzando ma non troppo) piano dei  nostri due economisti preferiti su questo blog.

Cominciamo dalla maschera keynesiana. Che è stata rafforzata. Quello che solo un mese fa (22 aprile) era una proposta di far sì che “il deficit temporaneamente superi la soglia del 3%” oggi (17 maggio) è divenuto un deficit che “rimarrebbe superiore al 3% ancora per due anni e rientrerebbe solo fra tre”.

Non solo. C’è anche una chicca quantitativa: se ad aprile si pensava di ridurre le tasse di 50 miliardi, finanziandone 12 coi tagli ai sussidi, 30 con l’abolizione di agevolazioni fiscali e 8 di deficit, ora sono sparite le abolizioni delle agevolazioni e si chiede al primo anno una riduzione delle spese di 1% di PIL, 16 miliardi, presumibilmente con un aumento del deficit di 34 miliardi!

Insomma da un deficit di 8 ad un deficit di 34 miliardi, niente male, direte voi.

“In questa situazione occorre chiedersi se ci convenga impegnarci al 3%  (di deficit su PIL, NdR)quest’anno, visto che, a parte una questione di orgoglio, non ne guadagneremmo sostanzialmente nulla. Non si riduce la disoccupazione con l’orgoglio.”

Non c’è dubbio, non si riduce con l’orgoglio. E nemmeno, lo ribadiamo per l’ennesima volta, con i tagli di tasse: in una recessione così grave dove la gente ha paura del futuro questa non farà che risparmiare gli abbassamenti fiscali e non consumerà maggiormente.

Meglio molto meglio usare i 50 miliardi che Alesina e Giavazzi hanno miracolosamente trovato per Saccomanni per vera domanda pubblica, impegnandosi a fare investimenti pubblici e domanda pubblica di beni e servizi alle imprese, unico modo per rimetterle in moto: Giappone docet. Al contempo garantendo 16 miliardi di tagli di sprechi di spesa con una vera spending review, non quella finta fatta da Monti che ha tagliato vera domanda di beni e non sprechi. Questo sì che per definizione farebbe bene a occupazione e PIL.

Ma.

Ma c’è un ma.

Ogni volta che A&G fanno un passetto avanti da keynesiani, ne fanno due indietro da banchieri.

Eh già, perché mentre ad aprile raccomandavano che si facesse ripartire il credito  togliendo “i crediti andati a male dai bilanci delle banche – spostandoli in nuove società, appunto le cosiddette bad bank …. una parte dei crediti inesigibili ricadrebbe sugli azionisti, ma inevitabilmente anche sullo Stato, come accadrà con il Monte dei Paschi di Siena”, oggi … alzano la posta.

Ricordiamo al lettore solo per memoria quanto sia – al contrario di quanto sostengono A&G – inutile dare fondi alle banche oggi che manca la domanda di credito da parte delle imprese e quanto sia preminente far prima ripartire la domanda di beni, appunto come in Giappone, con la maggiore spesa pubblica per appalti. E ricordiamo quanto sia disdicevole mettere un solo centesimo dei soldi dei contribuenti nel Monte dei Paschi di Siena dei derivati e della politica corrotta e malsana.

Ma ora ci interessa dire del mutamento del pensiero mensile di A&G.

Oggi ci dicono che “il secondo pilastro di questa strategia è il credito. La riduzione delle tasse non basta per uscire dalla recessione (ma va? E come mai?). È necessario che le banche ricomincino a prestare denaro a famiglie e imprese. Per far questo, come abbiamo già scritto, bisogna ricapitalizzarle. La premessa è risanarle, togliendo dai loro bilanci i prestiti insolventi (che in un anno sono saliti da 50 a 60 miliardi di euro). Per farlo si può utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Ems), il cosiddetto «Fondo salva-banche», come ha fatto la Spagna. Il vantaggio è che anche questo prestito ci sarebbe concesso con «condizionalità», cioè sottoporrebbe le nostre banche – e la Banca d’Italia che vigila su di esse – al controllo delle istituzioni europee.”

Bingo. A maggio non c’è più nemmeno la bad bank ed un costo per gli azionisti. C’è solo un bel, magnifico, aumento dei costi per i contribuenti italiani nella forma di maggiore debito dall’Ems. Il debito del Monte dei Paschi diventa debito pubblico, ovvero maggiori future tasse su tutti i cittadini? Alla faccia degli incentivi perversi, alla faccia dell’etica, alla faccia della trasparenza, ci verrebbe da dire.

Ma c’è di più. Non è vero che vi sia solo condizionalità per le banche nei prestiti dell’EMS. Vi sono condizionalità anche per i governi che prendono a prestito queste cifre. Se guardiamo all’esperienza spagnola citata dai nostri due, per i prestiti che la Repubblica italiana dovrebbe attivare con l’EMS per salvare le banche, questi ci obbligherebbero (punto 7 dell’accordo dell’ESM con la Spagna) a rispettare … quelle condizioni pro-austerità previste dalle procedure dei deficit eccessivi … che ci impedirebbero di fare quanto A&G keynesiani chiedono poco sopra con l’(inutile) abbassamento delle tasse, e cioè i … deficit eccessivi!

Forse se abbiamo tutti questi soldi dall’Europa li dovremmo usare per rimborsare le piccole aziende dai loro crediti alla P.A? Come mai non viene proposto a Saccomanni di battere i pugni sul tavolo per questo?

Insomma il sospetto che ci viene, e ci perdonino A&G, è semplice a questo punto: chiedere soldi per salvare le banche oggidì è poco popolare. Come fare a chiederlo dalle pagine del quotidiano più importante d’Italia? Semplice, annacquiamolo con qualche goccia di (irrilevante per l’economia) abbassamento di pressione fiscale e rinuncia al sacro mito del bilancio in pareggio.

Se fossi maligno dovrei sospettare che qualche banca italiana sta messa veramente ma veramente molto male. Consiglio a chi ne conosce l’identità di andare corto sui loro titoli, vendendoli allo scoperto. Così almeno si faranno soldi, da cittadini, sulle disgrazie delle banche, piuttosto che il contrario come auspicherebbero A&G, ovvero che le banche facciano soldi sulle disgrazie dei cittadini-contribuenti, causandole.

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Il tramonto dell’austerità

Un linguaggio comune è possibile? Ho cercato di capirlo ieri sera al dibattito assieme ad Alberto Bagnai a Roma, lui convinto sostenitore dell’uscita dall’euro come unica fonte per uscire da questa drammatica crisi europea.

Cito Alberto, nel suo libro “il Tramonto dell’euro”: “E’ anti europeo chi si ostina a difendere queste istituzioni fallimentari”. Ci vogliono “regole economicamente più razionali”. Yes, assolutamente! E allora dove sta la differenza?

*

Leggendo le pagine conclusive del libro di Alberto trovo una chiave interpretativa delle nostre differenze. Le sue frasi («l’euro è antidemocratico»; «la vera vittima dell’euro è l’Europa»; «l’euro è economicamente insostenibile») che non sottoscrivo per nulla, hanno però questa caratteristica: che mutata una sola parola, troverebbe pieno mio supporto:

«l’austerità è antidemocratica»; «la vera vittima dell’austerità è l’Europa»; «l’austerità è economicamente insostenibile».

Perché l’austerità è il vero nemico da battere. Essa non cessa fuori dall’euro, la sua morte non viene in alcun modo certificata dal passaggio alla lira ed al marco. Il Regno Unito, la Bulgaria, sono svariati esempi dall’attualità che l’austerità può imporsi a piacimento, con analoghi risultati rovinosi sull’economia interna, in assenza di euro ma in presenza di politiche sbagliate che non tengono conto della sofferenza della gente. Focalizzarsi sull’euro è perdere tempo, se non si guarda negli occhi la bestia e la si affronta, è inutile, perderemo sempre.

E la bestia, ovviamente, ha la faccia dell’austerità ma si chiama crisi di democrazia europea che fa sì che si approvino leggi come il Fiscal Compact nel segreto più completo, che fa sì che dopo un voto, come quello italiano,  che condanna l’austerità 90 a 10 con voto democratico, vede la riproposizione di un governo in cui al Ministero dell’Economia viene nominato un tecnico della Banca d’Italia che certamente al tavolo di Bruxelles non rappresenterà quanto chiestogli dagli elettori.

*

Rimane un ultimo punto da fare.

Alberto crede che dopo l’uscita dall’euro si potrà ricostruire un livello di cooperazione  tra Paesi europei su basi nuove e più democratiche.

Io non credo proprio. Quei paesi europei che si sono fidanzati negli anni ottanta e negli anni novanta, hanno deciso di sposarsi, con l’euro. Giusto o sbagliato che fosse, l’hanno fatto, sottostimando, come quasi tutte le coppie, la difficoltà delle sfide che si sarebbero ben presto presentate di fronte a loro. Al di là di dire che, come in un matrimonio, ci vogliono spesso più di 10 anni per giudicare se una unione abbia la capacità di funzionare (ah, avessero gli Stati Uniti formato una unione monetaria perfetta in 10 anni! peccato ce ne abbiano messi più di 100 …), mi preme ribadire l’ovvio: che una volta divorziati è pressoché impossibile ritornare fidanzati, alla cooperazione che fu prima dell’euro. E’ impossibile perché troppo traumatica sarà stata la separazione, troppe accuse reciproche, troppi stereotipi corroderanno il tutto.

E, nella mancanza di vera cooperazione, il volto della bestia – ancora viva e vegeta, l’austerità in un mondo a cambi flessibili con liretta e marco – sarà l’incubo che unirà ancora le nostre politiche economiche, in una parvenza di coordinamento anti-inflazionistico che tutto sarà meno che vera rappresentanza delle istanze delle persone che soffrono.

La vera cooperazione, quella per la quale abbiamo fatto questo matrimonio così rischioso, quella che si costruisce con fatica nel tempo ma che da pian piano i suoi frutti, andrà a farsi benedire con la morte dell’euro.

Perché perdere l’euro oggi vuol dire far saltare la presenza europea al tavolo geopolitico delle trattative con Cina e Stati Uniti: una frammentazione, una balcanizzazione che ci escluderà ovviamente dalle decisioni chiave a quel tavolo, al quale ci presenteremo separati, piccoli, e conflittuali.

Non è solo questione geopolitica: è questione di valori. Quei valori europei, diversi da quelli orientali e quelli americani, che fanno bene al mondo che si nutre di diversità, resterebbero al palo, consegnandoci all’oblio per decenni.

*

Combattere l’austerità significa solo una cosa: pretendere ed ottenere le giuste politiche economiche europee all’interno dell’euro, qualcosa che non abbiamo mai provato a fare sinora, che non abbiamo mai richiesto al tavolo delle trattative europee.

Su quali siano queste politiche, le uniche, che possano generare crescita, occupazione, opportunità e dunque stabilità della costruzione europea,  mi soffermerò nei prossimi post.

Sul come farle, è ovvio: pretendendo che siano restaurati meccanismi basilari di rappresentanza democratica. Se votiamo contro l’austerità, dobbiamo pretendere che questa sia fatta cessare.

Continuo a credere che su queste basi ci si possa alleare con Alberto, qualcosa di importante. Dubito però che sia interessato a rinunciare alla sua tesi principale, che tutte le nostre energie debbano essere dedicate a cambiare il colore delle nostre banconote e non a cambiare il colore del cielo, oggi plumbeo, sopra l’Europa e soprattutto, sopra le sue istituzioni.

 

(continua)

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Selfishness in the long-run

Lorenzo Pecchi and Gustavo Piga, editors of Revisiting Keynes: Economic Possibilities for Our Grandchildren, weigh in on Keynes, selfishness, and the quality of ideas.

(published on MIT Press blog)

*

Should a selfish man be indifferent to the long-term? And would an interest in the long-run by such an individual be of little benefit to humankind? Both questions arose in our heads after hearing of Prof. Ferguson’s recent claim regarding Lord Keynes, accused of selfishness for having left no children behind.

We are unaware of any proof that Keynes was himself selfish. But, for the sake of it, let us presume he was narcissistic and self-centered. Would that have meant he would have been indifferent to the long-run?
Oh, no. On the contrary, the drive for immortality is a powerful engine of motivation for any person, especially for an intellectual. Keynes himself knew quite well that the only way for an economist to be remembered, even after being “defunct,” was the capacity to generate ideas. Right at the last sentences of his General Theory, he wrote, “The ideas of economists and political philosophers, both when they are right and when they are wrong, are more powerful than is commonly understood…Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influence, are usually the slave of some defunct economist.”
And indeed, we are. In the long-run, the ideas of Lord Keynes survived.
Whether these are good or bad ideas we wish not to say, even though we can’t resist noticing that both Mr. Obama in the United States and Mr. Abe in Japan, indeed practical men, have made ample use of the teachings of this defunct economist rather than those of weaker contemporaries, apparently with what looks like good results. And there where Keynes’s theories are oddly banned, in Europe, things look quite messy indeed.
What matters for the long-run is the quality of ideas, whether driven by selfishness or not. We believe Keynes outsmarted Ferguson on that count.
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Bravi, bravissimi. Convergence, European style

Eccola, la convergenza dell’austerità. Bravi, bravissimi. Peccato solo che sia quelli dei debiti pubblici su PIL che sfuggono verso l’alto, uccidendo il rapporto PIL-debito.

Here is for you convergence, European style. Debt over GDP skyrocketing thanks to stupid austerity. In the process, the GDP-debt ratio, instead of rising as the Treaty requires, collapses.

Chapeau to our “leaders”.

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Europe does not Need the Distraction of Eurobonds

A quick disagreement with Paul De Grauwe is once again needed.

He argues against exiting the euro (I share his views) but warns that something must be done otherwise the European architecture will crumble apart (I share his views).

The solution?

A fiscal union, in the long run (I agree, provided the long-run is really long and we keep our patience intact).

And in the short-run? How can we allievate the pain of the patient and maintain political momentum?

Through eurobonds and the pooling of public debts.

Wrong. On 3 counts.

1) Germany will NEVER accept eurobonds. For the next 50 years that is. It is an explicit transfer from them to the South. Does such a transfer exist in the USA? Yes it does, today, but after more than 200 years of living together. And it is still quite a hidden mechanism anyway, embedded in the way taxes are raised and redistributed through the federal Government.

Didn’ Germany accept such an explicit transfer only 20 years ago with German reunification? Yes it did. But that was a transfer from the West to their first-degree cousins, it came (almost) naturally. We Italians, we Greeks, are only fifth-degree cousins with the Germans. Indeed, Europe works the opposite of a family: generation after generation family descendants separate from each other further (brothers, cousins, second-degree cousins …); Europe the way we want it will make the children of the children of my children ultimately brothers. A wonderful idea. If we work properly and patiently at it, that is.

What is needed right now is an instrument that is acceptable by the Germans. Nothing less.

2) De Grauwe uses a cold instrument for his warm operation of solidarity. Finance. Debt managers. Seated in Brussels. That will not be perceived by the people of the South as immediate solidarity. It does not guarantee that the savings in interest expenditure will be used to relieve the pain. It might, just as well, be used to lower the Greek and Italian debt by repaying foreign bondholders.

What is needed right now is an instrument that is perceived as concrete solidarity by the South. Nothing less.

3) Once again, the often quoted example of Hamilton is mentioned: “In fact, Alexander Hamilton  adopted this approach more than 200 years ago, when he decided to mutualize the  debts that individual US states had incurred during the Revolutionary War – a  decisive move toward further political integration. Rather than wait for  political union to happen, Hamilton took action that eventually helped the US to  become a full-fledged monetary, fiscal, and political union.”

That is a misplaced example. The debts were mutualised for one short-term purpose, restoring reputation in US bond markets to face the possibility of war against the enemy with all due instruments of financing available.  Very few decades later mutualisation was turned down when some states asked for debt relief.

US debt, taxes and spending became Federal, all data show, only after a civil war, the invention of the train that allowed for mobility, another war, the First WW, to make the US aware of its geopolitical role, and a huge recession where the US President, FDR, showed immense solidarity that allowed citizens (during his second and not his first mandate) to trust in him the power to tax and spend from the center.

What is needed right now is an instrument that can take into account the impossibility of mutualisation of any kind.

What fits the 3 conditions? Only 1 thing. We need austerity to go away. With tax relief on German workers and public investment instead of more primary surpluses with the tax money raised from citizens in the South.

Any distraction from that will make Europe crumble soon rather than later.

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Licenziamo il Ragioniere o la Ragioneria Generale dello Stato?

Tremonti, Giavazzi, tutti scatenati. Sul Corriere.

Dietro colpi di fioretto, senza fare nessuna facile dietrologia, appare chiarissima l’enorme battaglia per il posto di Ragioniere Generale dello Stato che sta avvenendo dietro le quinte.

La battaglia è ora tra il mantenere l’attuale Ragioniere Canzio e un possibile sostituto. Si fanno nomi, anche di prestigiose personalità della Banca d’Italia, per la sua sostituzione.

Ma quando ci si focalizza sulle singole persone appare da subito una battaglia sbagliata, quasi tra bande, che fa male al Paese, distraendolo da quanto è veramente utile per esso.

*

Come il dibattere se è utile questa occupazione quasi militare da parte della Banca d’Italia di Via XX Settembre presso il Ministero dell’Economia.

E’ un’occupazione che fa male al Paese. Per due motivi.

Perché va a spegnere una luce preziosa, il ruolo vigile, critico e rigoroso della valutazione da parte di Banca d’Italia delle politiche economiche del Governo. Se gli uomini al comando di Bankitalia sanno di essere destinati un giorno al posto di Ministro, o Ragioniere, per quanto probi ed onesti, come non immaginare che oggi limiteranno le loro critiche, costruttive ed essenziali, al Governo?

E ancora: perché lasciare il pallino della politica economica a tecnici della Banca d’Italia, cosa che inevitabilmente rende il Governo più austero di quanto non abbia richiesto il popolo italiano con il suo voto?

*

Ma ancor più importante. Perché scrivere del Ragioniere e non della Ragioneria?

Perché non chiedere una volte per tutte di spostarci da

un sistema dove quanto si spende e come si spende viene deciso in buona sostanza dai tecnici della Ragioneria – che non fanno vedere i dati in loro possesso né al Parlamento né al Governo (il clamoroso fallimento di Bondi è in parte dovuto alla forte resistenza della Ragioneria a mostrargli i dati ed in parte al fatto che il Governo Monti lo ha abbandonato, lui e la sua spending review, al loro triste destino di oblio) – e dal Ministro dell’Economia

ad un sistema come quello chiesto dai Viaggiatori in Movimento dove:

a) il Governo, assistito dalla nuova autorità parlamentare di bilancio, propone al Parlamento dove riallocare in percentuale di PIL le risorse annuali disponibili (tra cui quelle che emergono dalla spending review così da evitare i tagli lineari), disponendone l’allocazione nei capitoli di bilancio dei singoli Ministeri;

b)  i singoli Ministri si assumono la responsabilità politica di indicare dove e come effettuare i tagli e le spese attribuitegli al punto a). Le loro ipotesi vengono meramente vidimate tecnicamente dalla Ragioneria e dal Ministero dell’Economia;

c) la Ragioneria (o, meglio, il nuovo Ministero della Qualità della Spesa dei Viaggiatori) verificano trimestralmente che la spesa segua le dinamiche previste e segnalano alla Presidenza del Consiglio, per gli appropriati adeguamenti, eventuali scostamenti anche al fine di gestire al meglio la Tesoreria ed il debito.

Chiunque verrà alla Ragioneria – per quanto migliore di chi lo ha preceduto – è tema irrilevante se il Presidente del Consiglio non si esprimerà chiaramente e fattivamente a favore di una nuova Ragioneria, di una nuova trasparenza, di una nuova volontà di lotta agli sprechi.

Grazie a Patte Lourde.

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Le riforme

Oggi siamo stati in compagnia di Leonardo Becchetti, Gianfranco Polillo e Nicola Rossi a discutere il libro curato da Luca Paolazzi e Mauro Sylos Labini, l’Italia al bivio: riforma o declino.

Ecco parte di quel che ho detto.

*

Le riforme sono momenti importanti di cambiamento, sul dove andare. Sono effettivamente dei bivi.  Un po’ come la scelta di Tom Hanks. In Cast Away.

 

Ecco cosa penso delle riforme. Tre cose. Tutte cose a cui mi ha fatto pensare Tom Hanks.

Primo. Che le riforme sono scelte che si fanno in tempi “buoni”, non in tempi cattivi di recessione. Non c’è scelta in recessione, come non c’era scelta per Tom Hanks naufrago in un’isola in mezzo all’oceano. Le scelte importanti si fanno quando si è rientrati a casa e c’è la giusta serenità per decidere in maniera ragionata.

Nel libro di Paolazzi e Sylos Labini Vincenzo Galasso afferma: “attuare le riforme è più facile in una crisi finanziaria e economica”. Non potrei essere più in disaccordo. Le riforme in recessione non funzionano perché la gente ha paura e non coraggio e perché non ci sono risorse per compensare i perdenti, come dice Calmfors, in questo stesso volume, sulla Svezia.

Mi affascina il grafico proposto da Paolazzi e Sylos Labini, che mostra una relazione negativa tra tasso di adesione alle raccomandazioni di riforma da parte dell’OCSE (indicatore di riformismo che, notate bene, è altissimo per la Grecia e nullo per la Germania) e variazioni percentuale della crescita tra 2007 e 2010: sembra dire che chi era più in crisi ha fatto più riforme.
Ma credo che potremmo leggerla, questa relazione, rovesciandone la causalità. Ovvero che chi ha fatto più riforme, imposte dall’esterno assieme all’austerità, è chi ha poi dovuto sopportare una maggiore crisi.

Secondo.

Certo a guardare Tom Hanks si capisce bene che ci sono varie strade tra cui scegliere quando sei ad un bivio. E non credo che l’alternativa sia tra riforme o declino. Ma tra riforme giuste e sbagliate.

Perché ci possono essere riforme sbagliate. Eccome.

Albert Hirschman, grande economista scomparso  di recente e ricordato in una poderosa biografia, parlava male dei reazionari, degli anti-riformisti, quelli che a suo avviso sostenevano che le riforme potevano essere o perverse (peggiorando i problemi, un po’ come la spending review dei tagli lineari?) o futili (come la riforma dei tassisti?), o pericolose (mettendo a repentaglio qualche conquista sociale, forse la riforma Fornero sui licenziamenti?).

Francesco Giavazzi sarebbe per Hirschman un reazionario. Pochi giorni fa sul Corriere ha scritto: “cancellare la parola riforme dal vocabolario del governo. Gli stessi partiti che sostengono Enrico Letta hanno sprecato un anno a parlare di riforme, senza farle. Non sprechiamone un altro

Non sono d’accordo né con Giavazzi, né con Hirschman.

Questo Paese ha bisogno delle riforme giuste, intese non solo come quelle che servono al Paese, ma quelle che possono essere fatte oggi perché sono funzionali alla ripresa. Quelle poche che possiamo fare in recessione perché hanno ampio sostegno e non spaventano, anche se costano. Una su tutte? Un servizio civile per i nostri giovani, da assumere per un anno o due, al lavoro nei gangli della nostra (vecchia) pubblica amministrazione, per non fare appassire per sempre la loro energia. E’ una riforma funzionale a farci uscire dalle secche della recessione. Non esalta la recessione, come ha fatto la riforma Fornero.

Terzo.

Certo che ogni spettatore di Cast Away sa o spera nel suo intimo che Tom Hanks alla fine sceglierà la strada più inattesa, quella che è non sulle mappe. Quella che è qualcosa in più di un semplice bivio, ma che ha un senso chiaro di direzione, una visione, forte, bella, per riempire il futuro. Qualcosa in più che un semplice bivio.

Così per le riforme. Bivi, sì, ma che non bastano se non arricchiti da qualcos’altro.
Perché le riforme possono anche non essere condizione necessaria per la crescita, se sono quelle sbagliate, spero si sia capito, ma anche con le riforme più giuste non abbiamo una condizione sufficiente per la crescita. Ci vuole qualcosa di più.

Il volume di Paolazzi racconta la potente storia del Brasile, che ha ritrovato la crescita non tanto grazie alle riforme ma solo dopo un enorme programma di rilancio della domanda interna tramite investimenti pubblici. Ponti costruiti per raggiungere nuovi luoghi e territori, ponti materiali ed immateriali.

A noi basterà … no, certo non l’anacronistica uscita dall’euro, soluzione del passato per un mondo che non esiste più, né l’impossibile Unione fiscale, soluzione di un futuro non prossimo.  Abbiamo anche noi europei, come il Brasile, bisogno di riprenderci in mano il pallino del nostro futuro, con gli investimenti pubblici (ma includendo in questi tante fonti di spesa corrente, compresi i computer ed i banchi nelle università che migliorano il capitale umano dei nostri più giovani) che uccidano per sempre la stupida austerità europea e traccino nell’aria un ponte che aiuti i nostri giovani a raggiungere tutti i loro sogni in una Europa tollerante della diversità, vibrante di idee, unita in una missione di pace e scoperta.

Post Format

Che aspettiamo? Ditemelo voi.

Mario Draghi, in attesa delle elezioni tedesche, non può che ripetere un mantra sbagliato, quello che l’austerità muore con abbassamento delle tasse o della spesa corrente. Ridurre la spesa corrente è recessivo, se non si individuano gli sprechi, per definizione.

Se io compro una fila di sedie che mi serve per l’aula del primo anno alla mia università di Tor Vergata, questa spesa non solo crea occupazione nel settore della lavorazione del legno ma genera maggiore comprensione del mio corso da parte dei miei studenti che non devono stare in piedi. E’ spesa corrente, che genera maggiore produzione in un momento in cui chi viene tassato per finanziarla non spende, e ha anche il bell’effetto di migliorare la produttività dei nostri giovani nel lungo periodo.

Impedirmi di comprarla, la fila di sedie, è mossa recessiva, austera, che aumenta la disoccupazione, giovanile e non, che Draghi dice di voler combattere. E rende meno svegli i miei studenti (sperabilmente quando vengono alle mie lezioni imparano qualcosa di utile).

Certo se quella fila di sedie la compro a 100 quando potrei comprarla a 80, ciò implica che 20% di quella spesa non genera più occupazione, ma solo sprechi, che arricchiscono il produttore di sedie a scapito del contribuente. Non c’è maggiore occupazione di falegnami dovuta a quei 20, e gli studenti non diventano più intelligenti avendo l’università pagato 20 euro in più.

Sono quei  20 euro che Draghi dovrebbe precisare che vuole tagliare. E che vanno tagliati. Non gli 80.

*

Ma Damiano e Massimiliano, due lettori, non sono contenti. Vogliono sapere cosa è questa storia degli sprechi, dove sono, se non è la “solita balla”.

E allora prendiamo i dati. Ci sono i dati Istat-Ministero Economia e Finanze, le famose indagini conoscitive, incredibile strumento di rilevazione degli sprechi, lasciato a se stesso da chi forse non ha interesse a identificare gli sprechi. Lì Damiano e Massimiliano possono trovare contezza degli sprechi.

E’ da quei dati che nasce l’incredibile lavoro dei tre economisti italiani, Bandiera, Prat e Valletti sull’American Economic Review (la rivista più prestigiosa al mondo per gli economisti), che quei dati usano, dove scrivono che:

“Quanto spreco negli acquisti di beni e servizi potrebbe essere eliminato nel portare “il peggiore al livello del migliore? … Se tutte le stazioni appaltanti dovessero pagare gli stessi prezzi della decima migliore su cento, la spesa scenderebbe del 21%. .. Dato che le spese di beni e servizi sono l’8% del PIL, se gli acquisti ricompresi nel nostro campione fossero rappresentativi di tutti gli acqusiti di beni e servizi, i risparmi andrebbero dall’1,6% al 2,1% di PIL!”

A cui andrebbero sommati gli sprechi non tanto dovuti ai prezzi ma alle eccessive quantità acquistate. 3% di PIL? Certamente. 50 miliardi di euro. Risparmi. Da usare per farci spesa vera.

Eccolo un esempio per Damiano e Massimiliano (ma sui dati Istat tanti altri esempi sono rintracciabili).  Le fotocopiatrici, a noleggio.

In blu i prezzi spuntati dalla centrale d’acquisto Consip, in verde i prezzi medi delle altre amministrazioni, decisamente maggiori. Perché sono stati autorizzati questi acquisti in verde? Chi ha controllato?

Non sono un tifoso della centralizzazione (anche perché impediremmo a qualcuno di riuscire a comprare a prezzi migliori di Consip, oltre a mettere in difficoltà tante PMI) , ma dell’analisi centralizzata dei dati in tempo reale e dei controlli capillari della qualità delle forniture e dei lavori, sì.

Un incredibile volano di sviluppo, le risorse derivanti dall’individuazione degli sprechi. Che aspettiamo? Ditemelo voi.