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Pistole fumanti sul credito e scudi anti austerità

Torno allora sulla questione del credito visto che molti commenti (tra cui sul blog quello di Adriano) appaiono dubbiosi sul fatto che non vi sia restrizione di credito da parte delle banche ma piuttosto calo di domanda da parte di famiglie ed imprese.

La questione è rilevante perché diversi sono i suggerimenti di policy che ne derivano.

Ovviamente la risposta vera è che non sappiamo con esattezza chi ha ragione, avremmo bisogno di studi più rigorosi con una mole di dati maggiore. E, altra precisazione, dobbiamo essere consci che nessuno dei due partiti ha piena ragione: probabilmente ambedue gli effetti sono in gioco (su questo blog spesso abbiamo richiesto che, a fronte delle garanzie concesse dal governo italiano alle banche nel finanziarsi con obbligazioni, facessero fronte maggiori prestiti alle imprese, fate ricerca su “garanzie”).

Eccomi dunque a discutere di “smoking guns”,”pistole fumanti” ovvero degli indizi lasciati dal colpevole: domanda o offerta?

Una autorevole commentatore che stimo mi rimanda ai grafici (piccoli e grandi volumi di prestito) recenti della BCE, che vi riporto, per mostrarmi come i tassi italiani siano alti.

Non mi sembra sia questo il caso. Se guardiamo nel 2012 vediamo il picco italico (freccia rossa su grafico a puntini rossi) ma vediamo anche il calo recente di cui parla la Banca d’Italia. Lo spread con altri paesi si è allargato ma non drammaticamente: 50 (100) punti base tra banche italiane e tedesche su piccoli (grandi prestiti). Significativo? Certo, ma mettiamo le cose in prospettiva. Guardate lo stesso grafico dove erano i tassi in tempi non sospetti, prima di Lehman, per esempio il 2006: ben più alti di oggi.

Ragioniamo comunque a parità di tassi, tenendo conto che una restrizione creditizia sicuramente da allora c’è stata. Immaginiamo una situazione di credito più abbondante come quella del 2006. Nel grafico da me inventato vedete l’equilibrio 2006 dove si incrociano le curve di offerta di credito verde scuro e la curva di domanda di credito blu scuro: il credito abbondante al tasso del 5% è di 150.

Ora immaginate che il credito si restringa, come è certamente avvenuto, per la poca disponibilità delle banche a prestare, a seguito della crisi finanziaria. La curva di offerta di credito si sposta in alto, verso la verde chiaro. Se null’altro accadesse il tasso d’interesse sarebbe più alto, cosa che non è (addirittura è più basso). Qualcosa dovrebbe essere successo oltre allo spostamento dell’offerta e ciò è ovviamente la minore domanda di credito da parte di imprese e famiglie che sposta la curva di domanda in basso verso quella blu chiara. Qui per non complicare il grafico ho lasciato lo stesso tasso del 5%, ma forse il tasso è sceso ancora di più a causa della ancora minore domanda di fondi. Il credito finale si è dimezzato, da 150 a 75.

Che quest’ultimo spostamento, della curva di domanda, sia quello rilevante in questo momento lo deduco sia dalla mia fissazione che questa che attraversiamo è una drammatica crisi di domanda che dall’ultimo rapporto BCE sullo stato del credito alle PMI, già riportato in altri post. Alla domanda fatta alle stesse piccole imprese (grafico a sinistra) dell’area euro, “qual è il vostro problema più importante” la riposta è stata “finding customers” (trovare clienti, cerchio rosso) più dell’accesso alla finanza (cerchio blu), anche se questo aspetto rileva per le piccole imprese italiane, ed ancora di più la mancanza di clienti era il problema principale delle grandi imprese (grafico a destra).

Ripeto, non vuol dire tutto ciò che non bisogna fare di tutto per dare maggiore liquidità alle imprese. Mi scrive un altro  autorevole lettore del blog:

conosco un’impresa che lavora con tecniche di assoluta eccellenza nel settore dei prefabbricati. Un’azienda sana, sempre in crescita, con 450 dipendenti diretti più un migliaio di indotti e molta ricerca. Ebbene, se va avanti così, fra pochi mesi chiude PERCHE’ gli enti pubblici …  non pagano da troppo tempo ciò che gli debbono. Ha vinto le aste (senza trucchi), ha fornito per tempo manufatti eccellenti, ha pagato i suoi fornitori e i suoi dipendenti. E adesso deve fallire per COLPA dello Stato che, essendo Stato, può permettersi di non mantenere i suoi impegni contrattuali. La prima misura macroeconomica di tipo keynesiano (se si trovano, o si inventano, i soldi per farla) non sarebbe quella di costringere le Pa a pagare i loro debiti? Cioè a fare il loro dovere? Cioè adempiere ai loro obblighi?  Se salta questa impresa (e, con questa, moltissime altre)  quanto tempo ci vorrà poi a ricrearne altre simili?

Ecco, io faccio fatica da solo a seguire ogni giorno tutti i buchi che andrebbero tappati in una nave che sta affondando per cattiva manutenzione. E dunque mi scordo pure di chiedere a questo Governo a che punto stiamo con il rimborso dei crediti della P.A., che soli pochi mesi fa sembrava al centro dell’attenzione di questo esecutivo. Cosa avete fatto? A che punto siamo?

Ora esce fuori che la BCE, di fronte alla crisi delle aziende italiane, è pronta ad entrare a … supporto dell’economia italiana se chiediamo l’aiuto anti-spread, ovvero se accettiamo l’austerità. Vi prego, non so se ridere o piangere.

Quello che dobbiamo fare è chiaro. Chiarissimo. E anche coloro che credono che il problema sia l’offerta e non la domanda di credito sono d’accordo con me: ci vuole crescita. Ora, che la crescita si ottenga con l’austerità è come dire a Bolt o Phelps che vinceranno la medaglia d’oro andando il più lentamente possibile.

Rifiutiamo lo scudo a favore dell’austerità e chiediamo l’unico scudo che ci protegge dalla fine dell’euro: la crescita con espansione fiscale.

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Ascoltate le imprese che non investono e fermate lo stupido Patto anti spread

Scusate ma non resisto. Facciamo parlare gli imprenditori ai quali il Ministro Fornero chiede di avere “un atteggiamento più volto all’investimento”. Snaidero, per esempio, da sussidiario.net: leggendolo si vedono bene i problemi di domanda (aggregata e di credito) e anche di offerta di credito:

“Cosa dobbiamo fare ancora? Quando vediamo ottimismo e crescita possiamo anche investire. Ma in un momento come questo chi investe? Dove? Per cosa? Per un mercato in caduta? Senza dimenticare che le risorse per gli investimenti non si trovano così facilmente, dato che le banche hanno chiuso i rubinetti dei finanziamenti …. Quello della ripresa dell’attività dopo le vacanze è un grossissimo problema per le aziende. Se devo essere sincero sono molto preoccupato, perché sento alcuni colleghi, soprattutto titolari di piccole imprese, che sanno già che avranno ulteriori difficoltà a settembre quando si dovrà ricominciare. Certo, ci sono aziende che vanno bene e guardano al futuro con un certo ottimismo, ma la maggior parte ha grosse difficoltà.”

Da che cosa dipendono queste difficoltà?

Principalmente dal mercato interno, che è totalmente fermo, come si è visto dai dati diffusi negli ultimi giorni. Inoltre, il mercato estero sta cominciando a rallentare e la concorrenza straniera si sta facendo più aggressiva. Noi dobbiamo competere con grandi gruppi internazionali che godono di condizioni più favorevoli rispetto alle nostre, che vanno dal credito fino alle tasse. Le difficoltà stanno quindi aumentando e c’è chi sta pensando di andarsene … In questi giorni ho chiamato due colleghi che hanno un’azienda meccanica in Piemonte. Questi industriali sono pronti a chiudere la fabbrica e a trasferirla all’estero. Del resto qui la pressione fiscale è altissima per le imprese e mi hanno spiegato di essere stanchi di lavorare solo per pagare le tasse. Questa mentalità si sta instaurando e consolidando tra gli imprenditori. Io stesso vivo a Udine a due passi da Slovenia e Austria e le assicuro che aumenta il numero degli imprenditori che si chiedono: perché devo rimanere in Italia a prendere bastonate da tutte le parti?

Lei ha citato prima gli ultimi dati macroeconomici che confermano una recessione per l’Italia. Pensa che nei prossimi mesi siano destinati a peggiorare?

Purtroppo ritengo di sì. Del resto in queste vacanze sei italiani su dieci sono rimasti a casa. Si tratta di un segnale molto preoccupante da non sottovalutare. È una catena: la gente resta a casa, il turismo non gira, si consuma meno, le imprese ne risentono, la produzione diminuisce… Non vedo ancora, dopo il decreto sviluppo, delle misure per la crescita. Questo è il grosso problema del nostro Paese. Speriamo che venga fuori qualcosa, ma nel momento in cui ci fossero delle eventuali misure per la crescita, dovrà passare del tempo perché abbiano effetto e si cominci a recuperare.

In questi ultimi giorni si sta parlando di un piano di tagli degli incentivi e delle tasse alle imprese da parte del governo per stimolare la crescita fino all’1,5% del Pil all’anno. Cosa ne pensa?

Possiamo fare tutte le considerazioni e le previsioni che vogliamo, ma nel momento in cui viene presentato un progetto di legge o un decreto c’è il rischio che venga “snaturato” nel passaggio parlamentare. Apprezzo molto quello che ha fatto il governo nella fase iniziale, ma mi pare che da novembre di misure di crescita non se ne siano viste. Da parte nostra abbiamo anche lanciato la proposta di portare l’Iva sull’acquisto di mobili per la prima casa al 4%, ma non è stata presa in considerazione. Nessuno ne parla.

Sembra molto sfiduciato.

Di solito sono ottimista, ma in questo momento sono veramente combattuto. Non riesco a spiegare bene questa sensazione, ma so che è condivisa da altri imprenditori.

Vista la situazione e le parole del ministro Fornero, si sente di dire qualcosa al Governo?

Anche loro stanno combattendo una dura battaglia. Mi auguro che la si possa vincere assieme. Non serve a nulla che una parte accusi l’altra. Quindi dico: ritroviamo lo “spirito di squadra”.

*

Più chiaro di così. Domanda, domanda, domanda. Che manca (assieme a offerta di credito, per trovare compromesso con miei lettori, ma rinnovo l’invito alla lettura di altro post di oggi).

Non so quanto Snaidero venda alla Pubblica Amministrazione. Ma vedo che anche lui chiede un aiuto diretto come l’IVA sui mobili. Se vendesse molto alla P.A. chiederebbe più spesa pubblica via appalti.

Sta di fatto che manca domanda aggregata. Snaidero non si lamenta delle troppe tasse (cosa che farebbe bene a fare comunque): si lamenta delle troppe tasse ORA. Distinguiamo dunque il problema ciclico da quello strutturale: farlo è fondamentale per evitare che queste aziende scappino ORA dal Paese o chiudano ORA per sempre. Troppe tasse o poca spesa pubblica? Non importa tanto questo quanto il fatto che dobbiamo agire massicciamente come Europa sulla leva fiscale.

L’Italia può farlo finanziandosi col taglio degli sprechi, risorse che vanno reimmesse subito, non domani, nell’economia, scordandonci di ripagarci il debito che fa crollare il PIL e salire il debito su PIL. La Germania può farlo di più di noi, creando un vantaggio per tutta l’area euro, facendo ripartire anche il nostro export (sì, più export italiano salva la Germania perché salva l’euro, ecco il paradosso che sempre più tedeschi hanno ben chiaro in mente).

Dobbiamo rifiutarci a tutti i costi di firmare il patto Anti spread in cambio di austerità: se lo facessimo a quel punto sarà finita. E’ l’ultima stazione, parlatene, chiedete crescita subito, in cambio di riforme quando usciremo dal tunnel.

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Per favore, non rimandate al mittente le riforme della P.A.

“Burocrazia e corruzione”, Italia prima in Europa, titola stamattina Repubblica citando uno studio di Confcommercio, basato su “grado di soddisfazione” dei cittadini.  Quanto rilevante come tema? Moltissimo.

Peccato che le dichiarazioni dei cittadini sono misure soggettive che hanno una credibilità tutta da accertare e, soprattutto, che restiamo sempre con lo stesso dubbio: burocrazia O corruzione?

Perché le due cose influenzano ambedue la qualità del governo della cosa pubblica, minandola, ma richiedono rimedi diversi: sarebbe essenziale distinguerle. Eppure è difficilissimo. Bandiera, Prat e Valletti, tre ricercatori di grande qualità, si sono cimentati in un lavoro di risonanza mondiale per evidenziare gli sprechi negli acquisti pubblici di beni e servizi (a proposito Bondi, perché non li assume come consulenti? Perché non adotta la loro metodologia per individuare gli sprechi? farebbero un lavoro che vale milioni di euro), arrivando al risultato importantissimo che 83% degli sprechi sono radicati nell’incompetenza piuttosto che nella corruzione!

4 ricercatori di prestigio, Alberto Chong, Rafael La Porta, Florencio Lopez-de-Silanes e Andrei Shleifer, hanno appena dato alle stampe (si fa per dire, lo trovate su internet) un lavoro geniale che genera una classifica mondiale dei Governi per bontà della burocrazia senza che quest’indicatore (oggettivo!) risenta del livello di corruzione.

Sentite un po’ cosa si sono inventati.

Hanno scritto, nel 2010, 10 lettere per ognuno dei Paesi (sono 159) che ha sottoscritto la Convenzione Postale Universale che, tra le altre cose, obbliga i sistemi nazionali postali a rinviare al mittente entro 90 giorni una lettera il cui destinatario risulta sconosciuto.

10 lettere, verso le 5 città più grandi del paese, 2 lettere per città. Insomma 1590 lettere in tutto. Tutte finte, queste lettere. Anzi meglio: indirizzate a persona inesistente, presso una via inesistente, ma correttamente menzionanti città e codice postale. Il nome del mittente (uno dei 4 professori) era chiaramente indicato, così come chiaramente indicato era l’indirizzo del professore a cui rinviare la lettera in caso di mancato recapito. Il contenuto della lettera, firmata ma finta, adottava un tono di una qualche urgenza, nel caso fosse stata inopinatamente aperta da qualche funzionario delle poste locali.

Idea geniale. Perché così, con santa pazienza, si sono messi ad aspettare. Ed a vedere quante delle 10 lettere tornavano indietro da ogni singolo paese, quante delle lettere tornavano indietro in meno dei 3 mesi previsti dalla Convenzione e quanto tempo medio impiegavano le lettere a tornare.

Tre indicatori oggettivi perfetti della qualità delle istituzioni pubbliche locali, indicatori non sporcati da problemi di corruzione (nessuno aveva da guadagnare dal non rimandare indietro le lettere: se non tornano è perché la macchina amministrativa non funziona).

Risultati? Interessantissimi. “Malgrado la facilità del compito … scopriamo enorme diversità tra efficienza pubblica così come misurata dai 3 indicatori. Abbiamo ricevuto il 100% delle (10) lettere indietro da 21 dei 159 paesi, inclusi i soliti sospetti  (Canada, Norvegia, Germania e Giappone) ma anche da Uruguay, Barbados ed Algeria. Allo stesso tempo nessuna lettera è tornata indietro da 16 paesi, la più parte africani ma anche Tajikistan, Cambogia e Russia. In tutto, abbiamo ricevuto indietro il 59% delle lettere entro un anno dalla loro spedizione …  “. Oltre agli Stati Uniti (che non valgono tanto essendo state inviate dagli Usa stessi), solo El Salvador, la Repubblica Ceca ed il Lussemburgo hanno restituito entro i 3 mesi previsti tutte le lettere, mentre 42 paesi nessuna. Solo 35% delle lettere sono rientrate entro 3 mesi. In media, ci sono voluti 228 giorni per le lettere a tornare indietro.

L’Italia? Come ci siamo piazzati? (ringrazio gli autori per avermi messo a disposizione come dei fulmini i loro dati).

Non è una bella storia. Siamo 50mi quanto a percentuale di lettere tornate indietro (l’80%), 13mi nell’area dell’euro dietro alla Grecia. Quanto a percentuale entro i 90 giorni prescritti, siamo al 40% delle lettere inviate, 14mi, dietro anche Cipro, nell’area euro. Come media di giorni per le lettere restituite, 173 giorni, 6 mesi, 62mi al mondo.

Ecco, dove dobbiamo migliorare per far sì che le nostre imprese possano imporsi nel mondo, in una lotta altrimenti impari.

E come migliorare? Il lavoro degli studiosi ha qualcosa da dire anche a questo riguardo.

Trovano un chiarissimo legame tra reddito pro-capite (più un Paese è ricco e migliore è la qualità del governo, in parte ricordandoci che la causalità tra queste due variabili è bi-direzionale) ma anche con i livelli di istruzione (il che significa che l’amministrazione pubblica funziona bene se assume persone con maggiore istruzione, o, detta in altro modo, governi per favore concentratevi a fare istruire più persone nel vostro paese, i ritorni ci sono). E soprattutto scoprono che c’è un legame forte e chiaro con la bontà delle “pratiche manageriali” di quel Paese: se un paese sa organizzare bene il lavoro delle strutture (buoni dirigenti? buoni capi? capi ufficio motivati?), per esempio svolgendo controlli a campione sui dipendenti, quel Paese migliora nella sua qualità dei servizi pubblici.

Ed eccoci qua, il cerchio si chiude magicamente: con migliori controlli, dirigenti più bravi, una politica che remunera e rende merito ai dirigenti bravi, la qualità dei servizi pubblici migliora. Ed è ovvio che anche la lotta contro la corruzione migliora nella sua efficacia, rendendo gustose come non mai le riforme, come il cacio sui maccheroni.

Io non so se Bondi stia combattendo da solo la sua battaglia. So però che da solo non la vincerà mai e mi aspetto che Monti crei al più presto le giuste motivazioni, le giuste responsabilizzazioni, le giuste nomine, la giusta pressione, la giusta leadership per far sentire i nostri dirigenti ed ispettori al centro della politica economica italiana. Altrimenti non basteranno tutte le leggi del mondo per cambiare questo mondo.

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Non è credit crunch: è demand crunch

Alberto Bisin oggi su Repubblica teme che la BCE non basti. Inoltre ritiene che “le prospettive di crescita delle economie del Sud dell’Europa sono alquanto misere” e che questo possa portare all’uscita di alcuni Paesi dall’euro.

Sembra di leggere Piga. Siamo dunque in sintonia?

Per nulla. E’ il bello della scienza economica.

Bisin sostiene che la politica monetaria non è sufficiente perché le banche non prestano, generando un credit crunch: “l’attività produttiva è in parte bloccata dalla mancanza di credito a famiglie e imprese”. Ovviamente il colpevole è sempre il cattivo “settore pubblico”: “le banche hanno utilizzato una larga parte delle proprie risorse per acquistare titoli sovrani invece che per concedere credito”. La soluzione? “intervenire più efficacemente sul sistema bancario” (come?).

Peccato che non sia così. Il vero colpevole? Chiediamolo alla Banca d’Italia che nel suo consueto Bollettino Economico di luglio regolarmente analizza lo stato di salute del mercato del credito italiano:

“Nei mesi più recenti l’andamento del credito ha riflesso in larga parte la debolezza della domanda che risente, per le imprese, della contrazione degli investimenti e delle incertezze sulle prospettive di crescita economica e, per le famiglie, del deterioramento delle prospettive del mercato immobiliare e della debolezza della fiducia dei consumatori. … Secondo le risposte fornite all’inizio di aprile dalle banche italiane intervistate nell’indagine trimestrale sul credito bancario nell’area dell’euro … il grado di restrizione dei criteri di erogazione dei prestiti alle imprese si è fortemente attenuato … Il miglioramento ha interessato sia i margini sia le quantità erogate e ha riflesso le minori difficoltà nel reperimento di fondi sui mercati e la diminuzione del rischio percepito sulle prospettive dell’economia. Nelle valutazioni degli intermediari, la domanda di prestiti delle imprese ha registrato un marcato rallentamento, di intensità superiore a quello osservato nei mesi successivi al dissesto di Lehman Brothers; tale dinamica ha riflesso il forte calo delle richieste di fondi per gli investimenti fissi. È invece rimasta sostenuta la domanda per operazioni di ristrutturazione del debito. … La domanda di prestiti da parte delle famiglie si sarebbe mantenuta debole. I mutui per l’acquisto di abitazioni avrebbero continuato a risentire delle prospettive meno favorevoli sulle condizioni del mercato immobiliare e del calo del clima di fiducia; sul credito per finalità di consumo avrebbero contribuito negativamente l’andamento della spesa per beni di consumo durevoli e quello del risparmio delle famiglie.

Eh già, “è la domanda aggregata bellezza” direbbe Humphrey Bogart. Altro che banche che non prestano (anche se certo non spiccano per il loro dinamismo e supporto all’economia): qui nessuno domanda (nemmeno credito) perché tutti hanno paura di scommettere sul futuro.

La politica monetaria, in questo contesto, ha un solo ruolo che non è quello di levare la paura a famiglie ed imprese: ma di abbattere gli spread, liberando spazio fiscale nei bilanci pubblici per sostenere la domanda aggregata che non c’è, ed è ovvio che trattasi di domanda pubblica.

Ma no, dice Bisin, altro che più domanda pubblica, qui la crescita economica non c’è perché mancano “i tagli strutturali di spesa che rischiano di condurre … all’asfissia di carico fiscale”.

In barba a tutti i modelli econometrici (vedi ieri post su Usa ma rivedetevi se volete i post su analisi Banca d’Italia mettendo sulla ricerca la parola “Momigliano”), Bisin crede che meno spesa pubblica generi più PIL.

Ma c’è un dettaglio interessante: Bisin vede questi tagli come funzionali ad una riduzione del carico fiscale e non del debito pubblico. E’ già qualcosa, questa di usare spazio fiscale per non ridurre il debito ma aiutare PIL ed occupazione. Ma è meglio usarla per fare appalti pubblici!

Ieri abbiamo messo in evidenza come anche negli Usa si sa bene che 1 euro meno di spesa pubblica ed 1 euro meno di tasse sono recessivi, perché la domanda pubblica al settore privato genera per definizione produzione, mentre solo una parte della riduzione delle tasse si rivolge a domandare beni, un’altra a risparmiare e in questa recessione, con i timori che hanno famiglie ed imprese, una buona parte va a risparmiare o a ridurre debito.

Intanto l’ISTAT pubblica nuove statistiche drammatiche sul PIL e sull’occupazione, ma non basta: i dati dovranno essere ancora più drammatici per far capire a tutti l’abisso anti-euro e anti-coesione sociale in cui ci getta questa idiotica austerità in tempo di crisi da domanda.

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Rendiamo le scogliere fiscali belle come quelle di Dover

Altre Unioni Monetarie sono impegnate anch’esse discutere come si fa politica fiscale durante una recessione che genera disoccupazione quando ci si preoccupa anche di non aumentare troppo, nel lungo periodo, un debito pubblico già alto.

E’ il Congressional Budget Office (CBO) statunitense, organo di grande prestigio al servizio del Parlamento USA per calcolare l’impatto di diverse manovre possibili di finanza pubblica. Magari ce l’avessimo noi in Italia (Europa), un organo indipendente dal Governo che segnali le possibilità che la politica economica mette a disposizione, invece che sentire la monocorde voce di una istituzione, la Ragioneria Generale dello Stato (la Commissione europea), al servizio del Governo più che del Parlamento, organo monocratico che poco risponde delle sue stime e valutazioni e che tende spesso a sostituirsi alla politica.

Ma basta divagazioni, torniamo a noi.

Il CBO di preoccupa di fornire al Congresso Usa le sue valutazioni sulla rischiosa “fiscal cliff”, la “scogliera fiscale” che a fine 2012 attende il nuovo Presidente Usa quando, in assenza di mutamento di politiche, verranno a cadere esenzioni fiscali e programmi di spesa pubblica per un totale di 607 miliardi di dollari, riducendo drammaticamente del 4% del PIL (!!) il deficit pubblico (in realtà un po’ meno se si inserisce l’impatto negativo sul PIL che essa creerebbe). Un piano che metterebbe tecnicamente in recessione l’economia Usa nel primo semestre 2013.

Si chiede il CBO cosa succederebbe all’unione monetaria Usa dovesse il Congresso approvare invece una legge che mantenesse lo status quo, di fatto approvando una espansione fiscale fatta di tasse che rimangono basse e di spesa pubblica che rimane alta, lasciando il deficit lì dove sta oggi.

Oh, robetta. Il PIL USA crescerebbe nel 2013 invece che dello 0,5% atteso del 4,4%. Nulla di che, giusto? Solo circa 2 milioni di posti di lavoro attesi in più. Robetta, no?

Come calcolano questi effetti al CBO? Semplice, come si calcolano in tutto il mondo (oops, forse non in Europa?). Basta leggere quanto scrivono: 1 dollaro in più di spesa pubblica (attenzione, non qualsiasi spesa pubblica: acquisti di beni e servizi con appalti) genera tra 0,5 e 2,5 dollari in più di PIL (durante una recessione come quella attuale, con tante risorse inutilizzate, sostiene il CBO, è più probabile che gli effetti siano vicini ai livelli alti che non a quelli bassi). 1 dollaro di tasse in meno tra 0,16 ed 1 dollaro di Pil in più (a conferma, anche, di quanto diciamo sempre su questo blog, che se facciamo più spesa pubblica in questa recessione finanziandola con tasse l’effetto sul PIL è comunque positivo perché l’impatto positivo della spesa pubblica sovrasta quello economico negativo delle tasse).

Ora il CBO è però attento a far notare anche che, a loro avviso, il debito pubblico su PIL (rinunciando a ridurre il deficit) aumenterebbe e suggerisce dunque una strategia intermedia: non ridurre il deficit di quanto previsto dalla “scogliera fiscale” per non fare attraversare all’economia americana una recessione che fa male all’occupazione, ma nemmeno non lasciarlo andare “al massimo”, mantenendo una qualche stabilità del debito in rapporto al PIL. In questo scenario intermedio (dove le tasse aumentano e la spesa diminuisce ma non così tanto quanto previsto dalla scogliera) sarebbe “solo” del 2,1% la crescita PIL e i posti in più se si evita la stupida austerità “solo” 1,3 milioni.

E’ interessante la parte finale del rapporto CBO che raccomanda questa politica intermedia (mia traduzione): “una tale combinazione di politiche economiche userebbe la politica fiscale per sostenere la domanda di beni e servizi nel breve periodo, quando la disoccupazione è alta e molte fabbriche e molti uffici sottoutilizzati, ma imporrebbe disciplina fiscale per far ripartire la produzione dell’economia  nel lungo periodo, quando PIL e occupazione saranno probabilmente vicini al loro potenziale. Tale approccio funzionerebbe al meglio se i cambiamenti di politiche future (di riduzione del debito, NdR) fossero sufficientemente specifici e ampiamente condivisi così da portare le famiglie, le imprese, i governi locali e i mercati finanziari a credere che la politica di futura restrizione fiscale avverrà realmente. Se questi cambiamenti fossero adottati rapidamente, ciò aiuterebbe il PIL e l’occupazione nei prossimi anni, riducendo i tassi d’interesse, l’incertezza e aumentando la fiducia di consumatori ed imprese … Sì, ci sono dilemmi nello scegliere quando cambiamenti di policy per ridurre i futuri deficit dovranno avere effetto, ma vi sono importanti benefici e pochi costi apparenti dal decidere subito quali saranno questi cambiamenti”.

Ecco, magari usassimo questo ovvio e normale linguaggio da unione monetaria per trovare il compromesso europeo: politiche fiscali espansive ora e subito, ma altrettanto subito ci si accordi su come ridurre tali aumenti di spesa pubblica appena l’economia europea è ripartita. Vale la pena provarci, così per gioco, per salvare quella robetta chiamata Europa: far diventare le brutte scogliere fiscali bellissime come le bianche scogliere di Dover.

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Spiralling conflicts in Europe

There is increasingly growing concern of mutual distrust between Italian and Germans (should I say Germans and Italians?) leaking finally in the press since Italian Prime Minister Monti mentioned it. It was about time the issue came to the forefront of the debate. In the end, no divergence of competitiveness will ever bring about the collapse of the euro: it is the mutual distrust that comes with the lack of political willingness  to tackle divergent growth paths that will. A hugely vast political project with some non minor economic defects like the euro will die for lack of a major political answer, not an economic one.

Mutual trust across societies can be hugely beneficial but also temporary. 2 economists at MIT and Stanford University, Daron Acemoglu and Alexander Wolitzk, have tried to model the functioning of what they observe as a frequent pattern in the History of civilizations: perverse spirals of conflict. Let me give the floor to their words:

In his study of the Peloponnesian War, Thucydides traces the origins of conflict as much to fear and distrust as to other factors such as greed and honor. He argues that the Peloponnesian War became inevitable precisely because each side saw war as inevitable and did not want to relinquish the first mover advantage to the other. This view of conflict, sometimes referred as the Hobbesian view or spiral model, has a clear dynamic implication: if Group A’s actions look aggressive, Group B infers that Group A is likely to be aggressive and acts aggressively itself. Moreover, unless Group A can fully understand that Group B is acting aggressively in response to its own actions, it will take this response as evidence that Group B is aggressive. As a result, conflict spirals. The ubiquity of conflict spirals throughout history provides prima facie support for this view. A leading example is ethnic conflict: .. the fear of ethnic domination and suppression is a motivating force for the acquisition of power as an end … such fear of ethnic domination was the primary cause of the rise in ethnic violence following the withdrawal of colonial powers.”

The issue of colonial power retreat is also interesting as it reminds us that it is precisely moments of more or less gradual transfer of power away from the nation-state that can trigger the initial flame of conflict. Just as it may seem to be happening now in Europe with the possible cession of parts of national sovereignty.

Both authors claim that “this classical view of conflict and distrust is incomplete, however, because it only explains how conflict starts and not how it stops,  even though most conflict spirals come to an end sooner or later. For example, …. the historical Franco-German distrust and  animosity has made way to vibrant trade and economic and  diplomatic cooperation.”

They provide an explanation for why spirals end, in a setting where generations that come after the ones that ignited the conflict have no memory nor any way to understand when and why mutual aggressiveness was started in the past and by whom: “the basic idea of our approach is simple: once Groups A and B get into a phase in which they are both acting aggressively, the likelihood that a conflict spiral has been triggered by mistake at some point increases over time. This implies that aggressive actions. which are typically informative about how aggressive the other side is eventually become uninformative. Once this happens, one group will find it beneficial to experiment with cooperation and, unless the other group is truly aggressive, cooperation will resume, until the next conflict spiral begins.”

Now, back to Europe, where the issue is rather the other flip of the coin compared to the one described by the 2 authors: a conflict that has gone on for centuries, the Franco-German one, that has subsided for more than 50 years with mutual satisfaction and cooperation, is about to be re-ignited again.

So imagine that new current European generations have lost memory of why, when and how cooperation in Europe ensued from the ashes of WWII. Now let a sudden event, like an economic crisis which in addition divides creditors from debtors with a perfect drawing of the pen on a map, arise. One group of countries (no matter whether the so called Southern or the Northern ones, let’s call it group A) suddenly perceives the other group of countries (group B) as a potential aggressive threat. It thus becomes aggressive too, in a defensive manner. That defensive aggressiveness is taken badly by group B which itself becomes defensively aggressive, confirming the initial misperception of A as a true. A spiral conflict arises.

A conflict that will be hard to stop, as it is today in Europe. Divided Europe.

Still, one could try. How?

Obviously not with the continuation of dialogue the way it has been led so far, giving weight to closed door meetings only, and to the aggressive-defensive declarations of national bodies or persons with little interest in European compromises.

National Parliaments matter indeed, as it has been stated today by German authorities. So do all the other national Parliaments. It is time actually national parliaments come back to the forefront of the debate, that so far has seen them as mediocre signers of agreements written elsewhere. And so should the European Parliament.

Otherwise, it will be the job of future generations, maybe 50 years from now, generations that will not have any memory of why a conflict started in 2012, destroying what was left of a European dream born over the ashes of a terrifying nightmare that became reality for millions of people, to try again to re-ignite the only game that matters: the one of compromise and cooperation.

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Cresce un sentimento antieuropeo

Ho finito di leggere un articolo di un economista importante del MIT, Daron Acemoglu, assieme ad un suo collega, Alexander Wolitzk di Stanford. Parla di cicli di sfiducia, tra società. E nazioni.

Li lascio parlare, meglio così (da me tradotti):

Nel suo studio sulla guerra del Peloponneso, Tucidide ne traccia le origini tanto a fenomeni di paura e sfiducia che a avidità ed onore. La Guerra divenne inevitabile, a suo avviso, perché da ambedue i fronti la si vide come sbocco inevitabile e non si voleva cedere il vantaggio della prima mossa all’avversario … La spirale viziosa:  se il gruppo A intraprende azioni che appaiono aggressive, il Gruppo B ne deduce che A sarà con buona probabilità aggressivo, e diverrà a sua volta aggressivo. A meno che il gruppo A non riesca a capire pienamente che B è aggressivo in reazione a sue azioni, agirà convinto che B è aggressivo ed il conflitto avvierà una spirale viziosa.

L’ubiquità di conflitti a spirale nel corso della Storia conferma questa visione … Un esempio tipico è la dominazione etnica … il timore di essere dominati e soppressi da altre etnie è una motivazione forte per l’acquisizione di potere come fine … e suggerisce che è tale timore di essere dominati etnicamente la causa prima delle violenze che seguirono al ritiro delle potenze coloniali dai territori.”

Mi ricorda tutto ciò che il momento di cessione graduale (o meno graduale) di poteri tra Paesi costituisce un momento in cui cicli di sfiducia possono attivarsi rapidamente e portare a conflitti gravi e duraturi.

Ma, argomentano gli autori, sono spirali che spesso finiscono. Sudafrica, Irlanda del Nord, Europa sono esempi in cui queste spirali cessano e spariscono: “la sfiducia e la contrapposizione storica tra francesi e tedeschi ha lasciato il posto a relazioni diplomatiche e commercio vibranti”.

Gli autori studiano le ragioni della fine di queste spirali. E trovano una spiegazione nel loro ripetersi all’interno di generazioni che si succedono senza avere memoria di quando queste spirali si avviarono né dunque del loro perché: “quando due gruppi A e B entrano in una fase di mutua aggressività, col passare del tempo cresce la probabilità percepita che tale spirale sia stata avviata per errore. Ciò fa sì che l’atteggiamento aggressivo della controparte diventa poco informativo su chi è che abbiamo di fronte. E una volta che ciò accade, uno dei due gruppi proverà a comportarsi in maniera cooperativa e, a meno che l’altro gruppo sia effettivamente aggressivo, un periodo di cooperazione si riavvierà, fino alla prossima spirale”.

Ecco, un bell’articolo, certamente. Peccato che mentre esso si occupa di capire come  finiscono i conflitti, noi siamo in un infelice momento storico in cui se ne potrebbe riaccendere uno spentosi qualche tempo fa. Ed il modello dei due economisti è purtroppo utile anche in questo caso a capire cosa potrebbe avvenire.

E dunque vediamo: due popoli che cooperano da tempo vedono succedersi nuove generazioni che hanno perso la memoria di quando e perché quella cooperazione si avviò. Un evento contingente, per esempio una forte crisi economica e sbilanci creditizi da una parte e dall’altra parte, fanno tutt’ad un tratto percepire ad uno dei due popoli (quale non importa), chiamiamolo A,  come potenzialmente aggressivo l’atteggiamento dell’altro, B. A diventa, per difendersi, più aggressivo anch’esso, mettendo in allarme ulteriore B, che diviene più aggressivo, confermando la sensazione iniziale di A. Parte la spirale e sarà difficile fermarla.

Come fermarla?

Dialogo e comunicazione veri ed ampi, non limitati a stanze chiuse, vanno avviati, e compromessi firmati dopo essere stati ben spiegati ai membri delle due popolazioni. Altrimenti, toccherà a nuove generazioni, forse tra 50 o 60 anni e che non avranno più memoria di cosa avviò quel conflitto nel 2012, ridarsi fiducia e riavviare l’Europa.

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Quando la Bocconi va a Berlino come Nixon andò a Pechino

Poche cose mi rendono felice quanto vedere confermata l’idea che la goccia scava la pietra e che bisogna rimanere ottimisti che alla fine del tunnel c’è la luce. Tortuoso quanto possa essere il tunnel.

In America hanno un detto paradossale: “it takes a Republican to go to China”. E cioè: per avere successo in una questione rilevante di policy bisogna mandare avanti quello che a quella policy crede meno di tutti. Il conservatore anticomunista Nixon andò in Cina ricevuto con tutti gli onori, prima di Carter o di qualsiasi progressista più aperto al dialogo con i comunisti.

Così per noi: per vincere la battaglia sulla politica fiscale espansiva che serve all’Europa abbiamo bisogno del loro più acerrimo nemico come ambasciatore. Sì esatto, la Bocconi.

Ovviamente la Bocconi non è Francesco Giavazzi, è luogo di ampio e coltivato dibattito economico. Ieri Guido Tabellini, uno dei migliori economisti al mondo a mio avviso, ha scritto un lucido articolo sul Sole 24 Ore sulla questione europea e la BCE, anche se ci sarebbero tante cose su cui discutere. Non ora. Ora parliamo di un altro collega bocconiano.

Fausto Panunzi, della Bocconi, ha scritto su La Voce (luogo di dibattito prediletto dei bocconiani ma non solo) pochi giorni fa un importante articolo che vi consiglio vivamente di leggere. Il paradosso è che Fausto non è un macroeconomista, come li chiamiamo noi, è un ottimo microeconomista, ma visto che di paradossi è pieno e bello il mondo, è di gran lunga il miglior pezzo che è uscito in questo anno sulla questione della crisi europea da luoghi bocconiani. E merita di essere discusso anche per questo con grande attenzione.

Cosa riconosce Fausto?

1. Un fatto evidente negato da molti liberisti: “… le politiche di austerità, quasi inevitabilmente, sono seguite da contrazioni dell’attività economica che hanno a volte l’effetto di aprire altri buchi nel bilancio degli stati, in un esasperante circolo vizioso.” Ovvio? No. Bene che lo si stabilisca e riconosca.

2. Sulla base di ciò, e di recenti articoli di svariati autori di prestigio, si chiede: “si può guarire da una crisi di debito accumulando altro debito?” prendendo in considerazione politiche fiscali espansive (su questo aspetto, su cosa costituisca politica fiscale espansiva, torneremo poi) per uscire dalla crisi economica. Mamma mia ragazzi. Quando l’ho letto ho dovuto rileggere tre volte chiedendomi se sognavo o ero desto. C’è voluto un anno di spinta affinché si riuscisse, in ambienti liberisti (non dico che Fausto lo sia, non ne ho la minima idea, certo non è un keynesiano), solo a porre la domanda, talmente era da esorcizzare la questione. Finché (come si è fatto sinora)  si risponde con l’ideologia a domande scientifiche c’è poco spazio per scovare qual è la strategia giusta e quindi l’articolo di Panunzi che accetta di entrare nel dibattito è acqua pura di sorgente.

3. Panunzi sceglie di parlare di un ramo della teoria keynesiana, che abbiamo spesso illustrato su questo blog, ben sintetizzato dall’economista di Nomura Koh (mia traduzione): “nei Paesi in cui è scoppiata la bolla immobiliare, come gli Stati Uniti ma anche la Spagna, il settore privato (famiglie e istituti finanziari) si trova a fronteggiare un grado di indebitamento molto elevato. Questo porta le famiglie a cercare di ripagare il loro debito invece che a spendere e gli intermediari finanziari a ridurre la loro offerta di credito. L’effetto netto è una riduzione della domanda e una recessione (il termine tecnico usato da Richard Koo, chief economist di Nomura, è balance-sheet recession) … in altre parole, dato che il settore privato non genera domanda perché sta cercando di ripagare il debito, e dato che riuscire ad aumentare le esportazioni non è facile nel breve periodo, l’unico modo per non aggravare la recessione nel breve periodo è quello di lasciare che lo stato aumenti il deficit pubblico. Ecco il grafico di Koh sulla Spagna.

4. Panunzi esclude che la politica monetaria possa fare molto: “al livello dei tassi americani, è illusorio aspettarsi miracoli da questa politica. Quindi la politica fiscale espansiva resta, secondo questa prospettiva, la via più convincente per evitare una forte depressione.” Una delle ragioni per cui diciamo sempre su questo blog che la politica monetaria europea della BCE è condizione necessaria ma non sufficiente per suscitare crescita economica. Bene. Andiamo avanti allora.

5. Ed ecco la ricetta che Panunzi non si sente di rigettare a priori per gli Usa:  “Ovviamente il maggior debito verrà scaricato sui contribuenti che pagheranno le tasse in futuro, ma, per quello che riguarda gli USA, i tassi sono così bassi che quelli che Krugman chiama i bond vigilantes, cioè i mercati, sembrano non essere ancora preoccupati della sostenibilità del debito americano. Inoltre, se il deficit pubblico verrà utilizzato per finanziare investimenti pubblici in modo produttivo, le generazioni future avranno più debito, ma anche una maggiore ricchezza complessiva.”  Wow. E quindi eccoti sdoganata potenzialmente la politica fiscale espansiva. Già questa è notizia da festeggiare!

6. Qui si ferma Panunzi, passando subito a parlare d’Italia, su cui torneremo. Ma intanto fa un primo scivolone che non può passare inosservato: scivola talmente tanto che dagli Usa … atterra in Italia, senza fare scalo a Berlino. O a Madrid. E già. Perché per sua stessa ammissione, se tanto mi dà tanto, ci sono paesi europei che potrebbero adottare senza problemi questa strategia suggerita da Koh per farne beneficiare l’area dell’euro tutta: la Germania in primis. Come dice Koh stesso: “malgrado vi sia un’ampia disponibilità di risparmi privati (in Irlanda e Spagna), i gestori di fondi pensione spagnoli e irlandesi che non si fidano del debito pubblico locale possono tranquillamente acquistare bund tedeschi. Ciò lascia i governi spagnoli ed irlandesi incapaci di finanziarsi con i propri risparmi nazionali per combattere questo tipo di recessione “patrimoniale”. Se i governi di Germania ed Olanda prendessero a prestito attivamente e spendessero questi soldi provenienti da Spagna  e Irlanda ciò sosterrebbe l’attività economica in tutta la zona euro con un impatto positivo anche su Spagna ed Irlanda. Sfortunatamente i governi tedeschi e olandesi sono focalizzati esclusivamente sulla riduzione dei deficit pubblici come previsto dal trattato di Maastricht.” Quindi, seguendo la linea Panunzi, c’è immenso spazio e merito nell’euro del Nord per politiche fiscali espansive. Ma queste mancano. Vanno subito messe in atto.

7. E cosa fare in Spagna ed Irlanda, paesi dell’ “euro Sud”? Anche su questo Fausto tace. Ma non Koh, che propone politiche volte a ridurre lo spread assieme a politiche fiscali espansive: lui suggerisce di vietare l’acquisto di bond pubblici esteri da parte di cittadini spagnoli o irlandesi. Un altro modo di farlo ovvio: il sostegno da parte di BCE, o del fondo anti spread, condizionati a politiche fiscali … espansive, cioè l’esatto contrario di quanto richiesto ora da Draghi o dai paesi dell’euro Nord! Mettiamo in atto, subito.

8. Va bene. Andiamo avanti e raggiungiamo Panunzi e a dove arriva il suo ragionamento. Alle politiche espansive in Italia. Che Fausto considera una bestemmia vera e propria: “quando però si cerca di adattarlo alla realtà italiana, invocando maggiore spesa pubblica in Italia, si fa un grande salto logico. L’analisi delle politiche va adattata alla situazione di ogni paese e i paesi hanno problemi molto diversi. Negli USA, come in Spagna, il settore finanziario si è trovato, allo scoppio della bolla immobiliare, ingolfato di titoli tossici dal valore ridotto e quindi con un eccesso di debito … In Italia, per fortuna, questa bolla non c’è stata o, almeno, non ha avuto le dimensioni che ha assunto negli Stati Uniti, in Irlanda e in Spagna. Se le banche italiane hanno titoli tossici in bilancio, questi sono i titoli di stato dell’Italia, in cui il rapporto debito/Pil ha superato il 120 per cento.” E’ vero quanto sostiene Fausto? Assolutamente. Se guardiamo ai flussi finanziari dal 2006 al 2011 in Italia (da me elaborati su dati Bankitalia) emergono dati interessanti.

In verde vedete il moderato deficit pubblico italiano (su PIL) durante la prima recessione e il rientro dovuto alle recenti politiche restrittive. Più interessante appare l’andamento del settore privato, in primis le famiglie (viola) che dal 2006 come vedete hanno ridotto i loro risparmi attingendo alla loro ricchezza finanziaria. Una reazione diversa da quella delle famiglie affette da crisi finanziaria (Usa, Spagna ecc.) ma significativo: in una crisi economica percepita come temporanea le famiglie non riducono il loro consumo di tanto quanto si riduce il loro reddito, riducendo piuttosto i loro risparmi e la loro accumulazione di ricchezza finanziaria, aspettando tempi migliori. Ma a un certo punto, ecco l’avvertimento che pongo, se l’economia non riparte, le famiglie adeguano permanentemente i loro consumi al minore tenore di vita. A quel punto la recessione può avvitarsi ulteriormente per calo di fiducia. I dati fanno anche emergere un certo deleveraging delle banche italiane (blu scuro) negli anni 2009-2010 arrestatosi l’anno scorso. Interessante è invece  il comportamento delle imprese italiane non finanziarie (rosso) che durante la crisi  non hanno tanto ridotto i loro debiti ma (coerentemente con l’anomalia segnalata dalla BCE nel suo rapporto sulle PMI europee) con tutta probabilità, il loro attivo, come e più delle famiglie.

Insomma, per farla breve, l’Italia non è nello stesso tipo di recessione di Irlanda e Spagna. Merito va dato a Panunzi di averlo fatto emergere con chiarezza maggiore di quanto non avevo fatto io nei precedenti blog.

9. Ma ecco l’ultimo salto logico, sull’Italia. “I problemi italiani sono proprio quelli di un debito pubblico eccessivo che ci rende vulnerabili a quella che stoltamente viene chiamata la “dittatura dei mercati” nonché di una spesa pubblica eccessiva e improduttiva. Invocare maggiore spesa pubblica dopo avere letto degli sprechi della Regione Sicilia, delle forestali calabresi, degli squilibri nella spesa sanitaria tra regioni italiane per prestazioni equivalenti, in una situazione in cui lo Stato si indebita al 6%, non è essere keynesiani o krugmaniani: è divorziare dalla realtà.”

No. Il problema attuale italiano si chiama crisi da domanda aggregata infuocato da politiche austere, tanto quanto Spagna ed Irlanda. Basta guardare i dati su investimenti e consumi privati italiani. Non è crisi à la Koh ma è una tipica crisi keynesiana da mancanza di domanda aggregata. Questo circolo vizioso dell’austerità, esattamente come per Spagna ed Irlanda, sta mettendo in pericolo le finanze pubbliche ed aumentando il rapporto debito-PIL come da punto 1 sopra di Panunzi. Una crisi da domanda si cura con maggiore domanda. Punto. Non da domanda proveniente da maggiore moneta in circolazione per i motivi illustrati da Fausto (punto 4).  Non da minore tassazione che le famiglie italiane comincerebbero a risparmiare. Da maggiore spesa pubblica per acquisto di beni e servizi e lavori.  Studi di Banca d’Italia ampiamente descritti su questo blog mostrano come addirittura com maggiore spesa pubblica con appalti diminuisca il debito e non solo il debito pubblico su PIL: ma è ovvio, è l’altra faccia della medaglia dell’austerità che non funziona!

10. Vero è che l’Italia ha un punto debole nel suo debito e che maggiore deficit potrebbe preoccupare i mercati. Da 1 anno su questo blog per tutelarci da questo effetto sosteniamo: a) che l’Italia non può partire da sola ma deve agire assieme ad una strategia espansiva europea, b) che l’Italia non deve fare deficit per fare questa spesa pubblica: basta che i tagli agli sprechi (che domanda di beni non sono ma trasferimenti inutili ed il cui taglio non è recessivo)  o che le tasse attuali, stupidamente usati per ridurre il debito, siano usati invece per finanziare spesa pubblica (domanda pubblica, cioè appalti).

11. Sugli sprechi ho già dato una risposta. Il paradosso è che abbiamo chiesto a Monti di fare la spending review. Siamo convinti o no che la sappia fare? Che sappia tagliare gli sprechi? Sì? E allora chiuso. La nuova spesa pubblica sarà vera domanda e non spreco. Se Fausto non si fida che Monti sappia dire a Lombardo come spendere i soldi (e non a caso Lombardo non c’è più proprio ora!) allora mandiamo Monti a casa perché non assicura nemmeno la bontà delle riforme. Altrimenti, se pensiamo lo sappia fare, teniamocelo insieme alla maggiore spesa pubblica di qualità. Tertium non datur.

Aspettiamo ora che dopo la Bocconi segua anche l’Europa. La goccia scava la pietra. Vinceremo. Per il bene dell’Europa.

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Dal banchiere Gerontius su Draghi, BCE at al.

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dal banchiere Gerontius

Nelle settimane passate il nostro Presidente del Consiglio si era fatto paladino girando per l’Europa della costruzione del famoso scudo antispread. Il vertice di fine giugno sembrava essere stato uno snodo fondamentale nell’avviarci verso la sua costituzione. Lo scudo, nelle intenzioni del nostro, sarebbe dovuto intervenire nei casi in cui un paese pur essendo virtuoso presentava uno spread elevato.

Qualcuno aveva provato ad obbiettare: ma perché mai un paese se è davvero virtuoso dovrebbe avere uno spread troppo elevato? La risposta suonava più o meno così: è vero che i mercati alla fine hanno sempre ragione, ma ogni tanto si sbagliano e allora bisogna farglielo capire. La risposta aveva convinto i più. Non solo, ma questo scudo – sempre i più hanno pensato – è fatto apposta per l’Italia virtuosa e incompresa che non va confusa con la Spagna o la Grecia.

Giovedì ha parlato il governatore della BCE e ci ha spiegato come stanno le cose. La BCE può ricominciare ad acquistare i titoli di stato ma “a certe condizioni”. La BCE aveva fatto l’anno passato incetta di titoli di stato italiani, spagnoli e degli altri paesi  cattivi per centinaia di miliardi oltre ad attivare il LTRO che aveva contribuito al drastico declino degli spread alla fine di febbraio di quest’anno.

Dunque ora la BCE non potrà più operare come ha fatto in passato. Interverrà solo se un paese avrà preventivamente chiesto l’aiuto al EFSF/ESM. A questo punto un paese “virtuoso” che vuole vedere ridurre il proprio spread dovra rivolgersi al EFSF perché intervenga e poi sperare anche nell’indulgenza della banca centrale che autonomamente decidererà se procedere o meno all’acquisto dei titoli in questione.

Speriamo di sbagliarci ma questo scudo antispread rischia di creare un grosso pasticcio, se ce n’era bisogno, nel disegno istituzionale europeo. L’acquisto sul mercato secondario dei titoli di stato è una prerogativa della banca centrale, tanto più in una situazione di mercato che presenta elevati premi al rischio paese dove gli strumenti di gestione della liquidità a breve termine non sono sufficienti per trasmettere gli impulsi di politica monetaria. Con l’azione del fondo EFSF sul mercato dei titoli di stato si è invaso il territorio della BCE, la quale si è smarcata dichiarando che decide autonomamente quando intervenire, ma questo lo potrà fare solo se c’è l’intervento preliminare del fondo perché altrimenti si potrebbe trovare in conflitto con il fondo stesso esautorandone il ruolo. 

Il risultato è che la BCE verrà fortemente limitata nella sua azione. Questo è tanto più vero considerando che gli Stati per quanto virtuosi saranno molto restii a chiedere aiuto al fondo. E questo perché dovranno firmare protocolli di intenti che imporranno nuovi vincoli di rientro di squilibri finanziari e macroeconomici.

A riprova di ciò basta leggere gli editoriali dei nostri commentatori economici più illustri dove si … illustrano marchingegni finanziari fatti in casa per evitare di rivolgerci al fondo per  calmierare gli spread e visto che sulla banca centrale non ci possiamo più contare.

Non c’e che dire, si stanno facendo passi avanti. ;-)

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L’emergenza è ricatto, l’indipendenza è nella crescita

Il piano per «salvare l’Italia» ha due parti. Innanzitutto bisogna sospendere, da qui alle elezioni, le emissioni di titoli a medio-lungo termine. Da settembre a marzo il Tesoro ne deve emettere 100 miliardi circa, di cui 60 circa detenuti da residenti, 40 da investitori esteri. Si cominci a vendere qualche società pubblica, ad esempio quote di Terna e Snam Rete Gas: i prezzi di Borsa sono depressi, ma anche i rendimenti dei Btp sono straordinariamente elevati. Vendere con la rapidità necessaria è tuttavia tecnicamente impossibile. Le azioni di queste società sono già state trasferite alla Cassa Depositi e Prestiti che può scontarle alla Bce e con la liquidità così ottenuta acquistare Btp.

La Cassa ha una licenza bancaria e lo può fare: è quello che da mesi fanno le nostre banche. Si può riprodurre il meccanismo con altre società pubbliche e veicoli diversi dalla Cassa. Affinché una simile operazione sia credibile non deve essere un’alchimia finanziaria, ma un «anticipo in conto vendita», cioè si deve cominciare a vendere. Si potrebbe anche pensare ad attrarre il risparmio delle famiglie con emissioni di titoli non soggetti a imposte per i residenti. Il ministro Grilli avrà certamente idee migliori: l’importante è la rapidità. Cento miliardi sarebbero sufficienti per cancellare la maggior parte delle aste di qui a marzo.

Sin qui Francesco Giavazzi.

100 miliardi di debito in meno sono circa 6 miliardi l’anno di cedole da pagare in meno. A queste dovremmo levare tutti i dividendi a cui rinunciamo per avere venduto le società partecipate. Anche se (e non ci credo) lo spread calasse, non ne godremmo se non su quei pochi titoli ancorati ai tassi a breve (BOT e CCT) che continueremmo ad emettere, dove lo spread è ben più basso.

Gli americani direbbero “peanuts”, noccioline. In questa tempesta politica ed economica mondiale le noccioline nemmeno si vedono a 1 cm di distanza.

C’è una compulsione a ripetere fenomenale in tutto ciò: nel 1992-1993 sotto l’emergenza facemmo, per ridurre di qualche nocciolina il debito pubblico, privatizzazioni d’emergenza senza prima liberalizzare i mercati, creando oligopoli privati che si opposero da allora a qualsiasi tentativo di aprire i mercati stessi. Danni permanenti all’economia reale mai misurati appieno, che si sarebbero evitati se non ci fossimo fatti prendere dalla frenesia dell’emergenza.

Oggi, secondo Francesco dovremmo vendere così un po’ a casaccio patrimonio strategico a prezzi splendidi per gli acquirenti (di cui molti acquirenti esteri). E per fare cosa? Per risparmiare (forse!) qualche miliardo oggi e trovarci domani più poveri di proprietà che se meglio gestite potrebbero sostenere la crescita?

Anche io sono convinto come Francesco Giavazzi che “Grilli avrà certamente idee migliori”. In attesa di vederle attuate, perché non ci concentriamo a mettere queste aziende controllate dallo Stato sotto un management che segue le direttive e le esigenze macroeconomiche del Tesoro piuttosto che quello di altre controparti non interessate agli esiti di politica economica? Perché non usare la liquidità in eccesso di queste società per fare investimenti nel settore reale che generino occupazione e PIL? Che aspetta il Tesoro, proprietario di queste aziende, ad utilizzarne le risorse umane, intellettuali, finanziarie, al servizio della guerra alla crisi di PIL? I nostri funzionari del Tesoro che siedono nominati dal Ministro ai tavoli dei consigli di amministrazione di queste aziende, cosa dicono durante i Consigli di Amministrazione? Gli sono state date direttive dal Ministro per mettere queste aziende al servizio del Paese in un momento di gravissima difficoltà o approvano i verbali del “business as usual”?

Oggi, sotto un’emergenza che nasce dal semplice fallimento di tutte le politiche suggerite in 2 anni di editoriali in prima pagina del Corriere della Sera (e puntualmente provate), siamo ridotti a questo. All’emergenza che cambia l’allocazione della ricchezza ma non la produzione di questa.

Un Paese è indipendente e moderno, per riprendere la frase finale di Giavazzi, se è capace di ragionare fuori dall’emergenza che genera ricatto, se è capace di pensare in grande verso la crescita economica, l’espansione delle opportunità individuali e la centralità dell’uomo e dei suoi valori. Tutto il resto genera fallimento e emergenza.