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E se per caso le cose andassero peggio?

Alan Taylor insegna oggi Economia alla prestigiosa University of Virginia. Ma nel biennio 2010-11 era altrove. Nella nota iniziale del suo ultimo lavoro pubblicato qualche giorno fa spicca il caveat: “Alan Taylor è stato Senior Advisor presso Morgan Stanley nel biennio 2010–11, ed ha ricevuto compensi per presentare i risultati delle sue ricerche ad incontri privati e pubblici”. Ecco al lavoro le prime regole che si sono dati dopo la crisi gli economisti Usa per dichiarare i loro potenziali conflitti d’interesse: non male. Aspettiamo che qui in Italia si faccia altrettanto, anche per i corsivi sui maggiori quotidiani quando pubblichiamo le nostre opinioni.

Ma torniamo a Taylor, economista con un passato presso la banca d’affari Morgan Stanley, pericoloso forse per il suo conflitto d’interessi potenziale ma certamente anche un esperto che può dirci qualcosa di nuovo su questa crisi finanziaria mondiale e su quanto i suoi effetti nefasti rischino di rimanere con noi, e per quanto.

Ebbene Taylor nel suo lavoro argomenta come 1) i principali responsabili delle crisi finanziarie del tipo che stiamo attraversando non sono tanto gli squilibri di bilancia commerciale né quelli di debito pubblico, ma quelli dovuti a eccessi di credito (“credito sbagliato”) da parte del sistema bancario e 2) come tanto maggiore l’eccesso di credito che ha generato la crisi tanto peggiore e più duraturo il successivo aggiustamento dell’economia: minore PIL, consumo, investimento, credito, moneta, inflazione.

Questo ruolo degli eccessi del credito, specie quando esasperati da crisi finanziarie è spesso, e gravemente secondo Taylor, sottostimato dai politici: “Una “normalizzazione” dell’economia su tutte queste dimensioni semplicemente richiede molto più tempo in uno scenario di questo tipo. E’ facile immaginare come i politici, se fossero ignoranti a riguardo di questi fattori, potrebbero incurantemente effettuare previsioni economiche eccessivamente ottimistiche, o intraprendere azioni di politica economica premature, mettendo a rischio una un sentiero di ripresa già estremamente fragile”.

Ah le previsioni. Che per l’Italia 2012 hanno già sbagliato il bersaglio con un ottimismo che non ha trovato conferme.  -2,5% di PIL, mica poco (il FMI nel maggio 2011 indicava, come il Governo, +1,3%!). Ma già nel 2013 tutti danno per vicina la ripresa, anzi mi correggo, ormai danno solo per meno devastante la recessione. E dal 2014 ovviamente trionfa l’ottimismo con numeri positivi (il FMI nel 2011 dava +1,4 dal 2012 in poi per sempre).

Ma stiamo usando il modello giusto direbbe Taylor, che tenga conto della crisi che ha originato l’attuale situazione? Forse no.

Guardate il grafico che ci propone derivante dalle sue simulazioni. In blu vedete l’andamento del PIL a seguito di crisi derivanti da eccesso di credito in assenza di crisi finanziaria, per un paese con un rapporto debito-PIL del 50%: recessione prolungata (gli anni sono sull’ascissa, la crescita del PIL sull’ordinata), sì, ma moderata. In rosso la stessa linea ma con una crisi del credito accompagnata da crisi finanziaria, simile a quella che l’Europa sta sperimentando in questi ultimi 2 anni, sempre per un Paese con un rapporto debito-Pil del 50%. Come vedete in questo caso la crisi si prolunga per 6 anni con una recessione peggiore, da -1% di PIL annuale circa.

Se il debito-PIL sale, fino al 100%, le  cose vanno peggio, forse, dice Taylor, perché con debito alto i paesi non usano con la stessa forza le politiche anti-austerità. Forse pensa all’Italia? O alla Spagna? Guardate un po’ dove andiamo a finire seguendo il contorno grigio più basso di tutti (seguite anche le frecce rosse): al -1% del primo anno ed al -2,5% del terzo (toh, lo stesso numero che quello effettivamente italico del 2012), fanno seguito numeri spaventosi per il quarto, quinto e sesto anno: -3%, -4% e -4% di PIL, stile Grecia.

Certo, sono solo scenari. Ma anche il Ministero dell’Economia fa scenari, solo più (molto più) ottimistici. E anche se quelli del Ministero fossero scenari oggettivi (ma vedremo presto in un altro post che le cose non stanno sempre così, specie quando le finanze pubbliche non vanno bene, si tende a sovrastimare l’andamento dell’economia e delle finanze pubbliche …) non tengono conto, come sospetta giustamente Taylor, delle caratteristiche eccezionali di questa crisi. Facendoci  temere che con le nostre politiche (europee) sbagliate stiamo “mettendo a rischio una un sentiero di ripresa già estremamente fragile”.

Siamo sicuri che conviene rimanere ottimisti solo per non spaventare nessuno e sperare che così le imprese investano ed i consumatori spendano in attesa che gli Stati Uniti ripartano? Vale veramente la pena mettere il nostro destino in mani altrui e non adottare invece le contromisure adatte? Davvero siamo sicuri?

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Dylan Dog, Batman e della stupida austerità (sotto un’altra luce)

Immaginate un ragazzo che non studia bene, forse non ne ha voglia, forse non ha la concentrazione necessaria, forse ha pessimi insegnanti, forse l’ambiente circostante non rende le cose semplici. Certamente come genitori vi preoccupereste e mettereste in moto una strategia lenta e costante che darà – se ben ideata – i suoi frutti nel tempo, per migliorare la sua capacità di studio fino al livello ritenuto consono. Potete chiamare questi sforzi e rinunce che chiedete ai vostri figli (ma anche a voi stessi) investimenti o cambiamenti,  hanno tutti le caratteristiche comunque di rinunce oggi per un migliore futuro domani, un futuro che certamente necessiterà di tempo per materializzarsi. Ma se avete ben lavorato e se siete stati fortunati si materializzerà. E’ probabile anche che il vostro ragazzo acquisisca una forza mentale che gli permetterà di fronteggiare meglio, nel futuro, alcune situazioni di disagio temporaneo.

Perché ci saranno anche quelle. Immaginate infatti che lo stesso ragazzo abbia preso una bella febbre, un’infezione, o magari qualcosa di più serio, che richiede immediatamente la vostra attenzione come genitore: medicine, certo, cure, terapie, ma anche intrattenimento per distrarlo dalla sofferenza. Certamente non gli chiedereste di mettersi a studiare, malgrado sappiate bene delle difficoltà che ha anche  in questo campo così rilevante per il suo futuro. Perché? Ma perché vi seguirebbe di meno, forse per nulla, quando a letto invece che Topolino o Dylan Dog gli date da leggere una poesia di Pascoli o i Promessi Sposi. E’ possibile anche che diventi più refrattario allo studio se questo viene legato a spiacevoli memorie come quelle di una inutile imposizione. E’ possibile anche che guarisca peggio se non si riposa. Notate che queste febbri richiedono un approccio molto diverso da parte dei genitori: questi devono essere certamente meno esigenti e più comprensivi dei loro figli che non in caso degli sforzi di cui sopra. E non c’è dubbio che un ragazzo più maturo, come dicevo sopra, ha gli strumenti per spaventarsi di meno di fronte a queste malattie e dunque ad uscirne fuori più rapidamente.

Sapete bene dove sto cercando di parare e sono sicuro che sapete bene che esistono nelle economie le febbri, chiamate congiunture di breve periodo, e le carenze o ritardi strutturali di lungo periodo, che necessitano di riforme che abbiano un impatto duraturo. Non solo ognuno di questi problemi richiede i suoi rispettivi strumenti, atteggiamenti e tempi diversi per essere risolto, ma è vero anche che chiedere ad un economia indebolita dalla congiuntura di fare sforzi, riforme, anche giuste nell’ottica del lungo periodo, può rivelarsi controproducente e anche che sprecare i momenti di buona salute per non fare gli sforzi di lungo periodo può rivelarsi altrettanto pericoloso (pensiamo solo a tutte le riforme che i paesi europei non hanno effettuato negli anni di vacche grasse di espansione del PIL, compresa la riduzione del debito pubblico).

Quindi la questione è questa, semplice semplice. Sarebbe certo utile avere dati che dimostrino che fare consolidamenti fiscali (uno dei tanti esempi di riforma utile in paesi che hanno Stati che sono cresciuti a dismisura) durante una congiuntura negativa è un’idiozia che mette a repentaglio anche il lungo periodo di quel Paese, ma non abbiamo mai il cosiddetto controfattuale, il “cosa sarebbe successo se avessimo fatto diversamente”. Abbiamo però modelli che effettuano simulazioni.

Come quelle svolte con assunzioni assai realistiche da 4 bravi economisti che lavorano nel Regno Unito per verificare cosa succederà alla loro economia da qui al 2021 se la (necessaria nel lungo periodo) riduzione della spesa pubblica venisse effettuata oggi nel mezzo della crisi oppure quando fuori dalla congiuntura, tra 3 anni. (Grazie a Roberto Boschi per avermi indirizzato verso questo lavoro). La perdita cumulata di PIL dal 2011 al 2021 nel primo caso, di genitore testardo che fa studiare il figlio anche con la febbre, è del 16% di PIL reale (reale inteso come numero di patate, roast-beef, Rolls Royce, ecc.) in meno e con un tasso di disoccupazione dell’1% più alto ancora nel 2019 rispetto al caso di politiche fiscali che hanno aspettato la ripresa (la fine della febbre) per mettersi in moto con il dimagrimento fiscale.

Che spreco enorme. E chissà che economia sarà quella britannica nel 2021. Loro assumono che da lì in poi le economie sotto i due scenari andranno di pari passo e lo spreco (comunque enorme) sarà stato solo una tantum. Un’assunzione come un’altra? Mah.

Io sono dell’idea che nella vita tutto torna, sempre, anche con qualche lustro di ritardo. E che quei disoccupati usciti in quel decennio dalle file degli occupati, un po’ come i figli non coccolati in tempi di bisogno, non saranno più come prima e ce la faranno pagare in qualche modo, sottile o meno. Mi dicono che anche l’ultimo Batman parla di ciò, ma prima mi toccherà prima vederlo.

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Quando i dati si piegano alle ideologie

I dati sono come gli uomini. Vengono spesso ammutoliti dai potenti affinché non parlino (mi successe, ricordo, per il mio libro sui derivati dei governi europei). A volte parlano per nascondere la verità. Per esempio, lettura estiva casuale, Gianrico Carofiglio in suo libro parla dei sorvegliati speciali in libertà che non dovrebbero incontrarsi con i pregiudicati, ma lo fanno, davanti quasi alla Questura “che va lì quando ha bisogno di fare un po’ di statistica con le denunce”. A volte, ecco, denunciano con coraggio, rigore e precisione. Ed a volte urlano al vento, come i politici dei film di Totò, fandonie elettorali o slogan che mischiano verità e stereotipi.

*

I Proff. Giavazzi ed Alesina nel pezzo che abbiamo recensito prima di andare in vacanza, quello sui capodogli, menzionavano un altro post sulla spesa pubblica uscito su Noise from Amerika, di Aldo Lanfranconi, a supporto delle loro tesi sul dimagrimento essenziale che deve operare lo Stato su ses stesso. In effetti, un lavoro interessante, informativo. Dati. Ma con un approccio ideologico di partenza: “Stato è brutto”. Che ne riduce l’interesse, perché da opera di ricerca che poteva essere e in parte rimane, diventa rapidamente discorso ritualmente ideologico, che piega i dati, brutalizzandoli, distorcendoli, e quindi irridendoli, grazie all’ideologia sottostante che acceca.

Quanto possiamo sperare di ridurre realisticamente la spesa pubblica nell’immediato?”, è la domanda che ci si pone in partenza. Mi irrigidisco, mi annoio, voglio smettere di leggere. E’ una domanda significativa ma sbagliata come non mai: la spesa pubblica non va né ridotta né aumentata di per sé, va fornita nelle quantità giuste, poco dove non serve e tanto dove è necessaria, fin quando lo è. Ecco dove dovremmo lasciare che i dati si esprimano.

Vado avanti, in fondo c’è l’imprimatur di G&A, qualcosa imparerò.

In effetti.

L’elemento chiave dell’analisi è il paragone con la “virtuosa Germania” perché “il confronto con i migliori è da sempre il metodo più valido per capire come ci si possa migliorare”. “Copiare il migliore non può  però esaurirsi nel cercare di portare la spesa allo stesso livello ma deve anche mirare a una sua riqualificazione, copiando il più possibile la distribuzione per classi di spesa e, cosa più difficile, l’efficienza e l’onestà nello spendere”.

Mamma mia chiamate l’ambulanza, soffro.

Ricapitoliamo. Quindi, copiare la Germania, spendendo a) quanto loro b) dove spendono loro e c) con il loro stesso livello di (bassa) corruzione. Concordo su c) ma magari ne parliamo in altri post sul come fare (magari per combatterla in Italia, paese che ha una sua storia, spero Lanfranconi lo riconosca, abbiamo bisogno anche di combattere le sue specificità?).

Su a) lo stesso Lanfranconi mostra, lo vedremo, che spendiamo … uguale. E che dire di b)? Per esempio spendere in logistica dei porti come i tedeschi? Oppure sul patrimonio artistico? O forse sulle autostrade, che scorrono su territori dalle morfologie alquanto dissimili? E per polizia e giudici impegnati a combattere Mafia, camorra ed ‘ndrangheta stessa spesa e stesso tipo di spesa che per la polizia germanica? Perché no. Chissà che non riusciamo anche a germanizzare la criminalità organizzata in questo modo.

Tuttavia lo sforzo di Lanfranconi non va irriso, ma sfruttato, anche perché è un diligente quanto importante raffronto della nostra spesa con quella altrui. Una base di partenza minima per conoscere ed avanzare, nel capire come migliorarsi; ma base di partenza e basta: tutto il resto è ideologia e quindi non ci interessa.

Torno sul punto a) di cui sopra, sul quanto spendiamo. In effetti i suoi dati non aiutano a svelare il miracolo tedesco, anche perché quanto a spesa primaria sul PIL “l’enorme differenza tra Italia e Germania” ammonta nel 2011 a solo 2 punti percentuali. Per fortuna Lanfranconi ha l’onestà di ricordare (poteva non farlo!) che la differenza nel 2010 era del solo 0,67% di PIL, e attribuisce la maggior parte dell’aumento della divergenza della spesa primaria nel 2011 al diverso andamento di PIL (e non della spesa) tra i due paesi, molto più cresciuto in Germania che non in Italia (facciamoci due risate tristi quando andremo ad analizzare i dati  2012). 0,67% di PIL non spiega un miracolo, mi dispiace. E non sarà tagliando dello 0,67% la spesa su PIL che riusciremo, come pare sperare Lanfranconi, a divenire biondi ed aitanti. Anche perché, io almeno, non voglio diventarlo.

Insomma, confronti indipendenti dall’andamento del ciclo non hanno senso. Ma purtroppo è proprio il nostro a scordarselo quando sostiene che si debba puntare ad avere una pari pressione fiscale a quella tedesca (un modo giusto di vedere le cose per competere da pari a pari con le imprese tedesche) e dovremmo quindi (oggi) ridurre ulteriormente la spesa primaria di 5,2 punti di PIL (80 miliardi) e “qualora l’anno successivo la nostra crescita fosse minore di quella tedesca per mantenere l’allineamento dovremmo ridurre ancora la spesa primaria. Ecco un’altra dimostrazione dell’importanza della crescita”. Eccoci: a causa anche della rigidità della spesa per interessi italiana, più alta, riduciamo del 5% la spesa primaria assieme alla pressione fiscale. In questa fase del ciclo, ottima ricetta per far crollare il PIL ulteriormente secondo qualsiasi modello econometrico, così poi riduciamo ancora la spesa ed il Pil scende ancora di più e così via fino alla catastrofe.

Qual è il difetto ovvio di questa analisi? L’argomento pressione fiscale non essendo (nello stesso argomentare di Lanfranconi) argomento ciclico (breve periodo) ma strutturale (medio-lungo periodo), andrebbe studiato con le armi del medio periodo fuori dalla crisi congiunturale. E cioè, abbattuti i differenziali di spread grazie alla politica monetaria, reflazionata l’economia italiana ed il suo PIL con la politica fiscale anti-congiunturale, ecco che emergerebbe con chiarezza l’ indicazione del vero differenziale strutturale di pressione fiscale con la Germania, che con tutta probabilità rappresenta un vincolo serio alla discussione della dimensione dello Stato italiano nell’economia, visto che con le imprese tedesche dobbiamo certamente confrontarci. Probabilmente verrebbe fuori che la nostra spesa primaria dovrebbe scendere quantitativamente di ben poco.

Ma per me potrebbe anche scendere di tanto, fuori da questa crisi, se si dimostrasse la sua inutilità. Ne dubito, per la mia conoscenza di questo Paese, ma potrebbe.

Il che ci riporta alla questione non della quantità, ma della qualità della spesa pubblica. L’unica, vera questione.

Torniamo dunque a questioni più serie e strutturali, dove Lanfranconi pare più versato. Dall’esame delle singole voci di spesa per funzioni il dato che emerge sulla spesa italiana è chiarissimo: esso “ci rassicura che la nostra spesa è nella media non solo per il totale ma anche per le singole destinazioni di spesa”. Siamo nella media: né brutti, né belli. Toh. Ma va.  Eppure, dobbiamo tagliare, così, non “alla tedesca” ma “per essere come i tedeschi”.

Peccato. Ci sono tanti spunti interessanti nell’analisi di Lanfranconi (per esempio la alta spesa dei nostri diplomatici è una chiara anomalia da approfondire), che si spengono nella vis polemica e nell’assurdità di un approccio basato sul chiedere all’Italia, che spende le stesse risorse della Germania in rapporto alla sua ricchezza (cosa che Lanfranconi ha aiutato ad appurare), di spendere COME la Germania, come se io, consumatore italiano, per entrare nell’Europa dovessi consumare gli stessi beni dei tedeschi.

L’Italia ha bisogno, nel lungo periodo, di tanto meno Stato in alcune sue funzioni e tanto più Stato in altre. Ha poi bisogno di tanto Stato, momentaneamente, per uscire da questa crisi ciclica che mette a repentaglio la costruzione europea.  Quello di cui non ha bisogno è di fare di tutta l’erba un fascio e di gettare il bambino assieme all’acqua sporca fuori dalla finestra. Ha bisogno di economisti che lavorino per ricercare e non per affermare a priori. Dei primi abbiamo sete dannata, i secondi lasciano il tempo che trovano.

PS:    Nei suoi commenti Lanfranconi sostiene come ci siano lobbies che comunque si darebbero da fare per opporsi ai tagli: blasonati diplomatici, militari con tante stellette, poliziotti armati (troppo armati? Già, mandiamoli a combattere la battaglia del Meridione ancora più sguarniti, mi raccomando). In generale, nulla di più vero, lo so per esperienza dai mie anni alla Presidenza Consip. Eppure nel fare questo non resiste anche a lui a soccombere alla sua lobby. Lanfranconi scrive il suo pezzo su sito di universitari? Indovinate qual è l’unico settore che intende salvaguardare? Già, leggiamolo: “per la scuola anzitutto avremmo bisogno di una riqualificazione spostando mezzo punto dalla scuola primaria e secondaria all’Università. Con il recupero dell’extra costo della scuola primaria e secondaria e dei servizi si potrebbero risparmiare quasi 5 miliardi. È da notare come oltre la Germania solo la Grecia spenda meno di noi; ma nessuno, nemmeno la Grecia, umilia l’Università come noi.” Come no. Alla faccia di tutte le analisi fatte da Roberto Perotti sugli sprechi dell’università, Lanfranconi cade nella sua stessa trappola.

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Non serve che gli austeri economisti italiani cambino idea per cambiare idea sull’austerità

Cosa ricorderemo di questa settimana trascorsa a dieta di blog? A me ha colpito (grazie Krugman) la (re)-intervista a quegli economisti britannici, venti se ho ben capito, che solo due anni e mezzo fa si erano coraggiosamente esposti sul Sunday Times per chiedere al governo britannico, al suo Ministro dell’Economia, l’austerità per salvare il Paese.

“… per essere credibile, l’obiettivo del governo dovrebbe essere quello di eliminare il deficit pubblico strutturale nel corso del mandato parlamentare, … con le prime misure da adottare sin dall’anno fiscale  2010/11“, avevano scritto, parole ben note a noi italiani, pronunciate così spesso anche nel nostro dibattito corrente dai pro-austerità.

Dopo due anni di Governo britannico che ha seguito quanto consigliato, e dopo che l’austerità ha depresso l’economia del Regno Unito facendo schizzare verso l’alto la disoccupazione e peggiorandone i conti pubblici, cosa pensano ora quegli economisti dell’austerità allora tanto raccomandata? Hanno cambiato idea?

Il New Statesman ha verificato proprio ciò. Con risultati direi molto molto significativi. Utili anche per il nostro dibattito interno.

10 dei 20 economisti non hanno risposto alla nuova inchiesta. Che problema avevano a farlo se ritenevano di confermare quanto scritto allora? Ma passiamo invece in rassegna le più significative affermazioni dei 10 che invece hanno risposto. 9 dei quali hanno cambiato idea (wow!), rimpiangendo di fatto di avere firmato la lettera allora e chiedendo politiche per stimolare la crescita con aumenti della spesa pubblica tramite investimenti pubblici (ampiamente tagliati dal Governo Cameron in questi anni di penuria). 1 solo economista non ha avuto problema a confermare la sua opinione di allora a favore dell’austerità (Albert Marcet, della Barcelona Graduate School of Economics, che ribadisce la sua contrarietà a espansioni via politica fiscale: “sono assai certo che non vi sia spazio per politiche di tipo keynesiano per incoraggiare la crescita nel quarto anno di una recessione”).

I nostri 9 eroi non sono economisti di poco conto. Ora che hanno avuto addirittura il coraggio del pragmatismo di cambiare idea, beh, sono diventati secondo me signori economisti (ma, francamente, a essere testardi e non cambiare opinione senza nessun problema a dirlo, ci vuole altrettanto coraggio, quindi onore delle armi anche a Marcet!). Ecco cosa hanno detto ai giornalisti.

Roger Bootle, Capital Economics: “se fossi il cancelliere dello Scacchiere ora, modificherei il programma, smetterei di tagliare gli investimenti pubblici e cercherei addirittura di aumentarli. Il punto chiave è provare a riportare il settore privato a spendere e per farlo ci vorrà anche un po’ di spesa pubblica per attivare la pompa …”

Danny Quah, London School of Economics: “il timore che il Regno Unito prenda a prestito a tassi troppo alti è divenuto ora molto meno rilevante … grazie ai segnali che ha dato la Banca d’Inghilterra che è pronta a immettere molta moneta … e ciò ha ridotto la pressione per una riduzione drammatica del debito pubblico come appariva necessario allora con una politica monetaria diversa … Ho cambiato opinione da quando firmai la lettera? Sì perché sono cambiate le circostanze rispetto ad allora.”

David Newbery, Cambridge University: “abbiamo bisogno di crescita, e ciò richiede investimenti. In una recessione che si avvicina molto ad una depressione, gli investimenti pubblici in infrastrutture, che hanno un buon rendimento anche in tempi buoni, hanno ragione di essere avviati

Michael Wickens, York University: “se il governo ha fatto un errore è stato quello di tagliare gli investimenti pubblici … e se ora spiegasse chiaramente una strategia (di finanziamento via debito di infrastrutture), credo che i mercati non farebbero aumentare i  tassi per questo indebitamento addizionale … che aiuterebbe”.

Tim Besley, London School of Economics, “Preferirei vedere le risorse del governo utilizzate in maniera specifica e ci potrebbero essere modi creativi per farlo. Per quanto mi riguarda, sarei a favore di un  focus maggiore di breve termine sul settore immobiliare”.

Costas Meghir, Yale University: “c’è una opportunità gigantesca di avviare progetti infrastrutturali importanti e miglioramenti nell’istruzione. Attualmente c’è tanto capitale e mano d’opera disponibile e a basso costo, c’è poco pericolo di spiazzare l’investimento privato e queste spese, ben progettate, possono avere alti rendimenti…”

Kenneth Rogoff, Harvard University: “sono sempre stato a favore di investimenti ad alti rendimenti in progetti infrastrutturali che incidono significativamente sulle prospettive di crescita di lungo periodo.”

Questi signori si aggiungono nello spirito all’ottimo commento ripreso il 18 agosto dal Corriere della Sera di Charles Wyplosz che immagino abbiate letto (sennò fatelo) e che parla di Europa nel suo complesso. Mentre è utile ribadire l’importanza del suo passaggio sull’austerità controproducente il cui contenuto i lettori di questo blog conoscono ad nauseam, fa specie come sia sfuggito ai titolisti del Corriere (“L’Italia … dovrà chiedere un intervento”) il punto principale del ragionamento dell’economista.

E cioè le condizioni legate all’intervento che l’Italia dovrà ricevere dall’Europa: “… dovremmo tutti concentrarci su come evitare di ripetere ancora una volta gli errori di un passato lontano e recente. La troika dovrebbe immaginare condizioni radicalmente diverse e la Banca Centrale Europea dovrebbe accelerare nella sua determinazione … a fare qualunque cosa serva”.

Condizioni cioè radicalmente diverse da quelle di austerità che spingono la Grecia fuori dall’euro, come diciamo da ormai quasi 1 anno su questo blog.

I due punti chiave che emergono:

1) assolutamente rifiutare l’intervento europeo che ci chiede di sottoscrivere la BCE se questo intervento condiziona i fondi per l’Italia alla stupida austerità. Altri argomenti contradditori per rifiutare gli aiuti (tipo: se accettiamo il piano, non c’è più bisogno di un governo tecnico e invece ne abbiamo bisogno perché solo Monti ci può salvare da una crisi nazionale che è politica, anche se per ora Monti fuori dalla crisi non ci ha ancora portato) li lasciamo come divertente lettura agostana da spiaggia.

2) se l’intervento europeo condizionasse invece le risorse al loro uso per stimolare, per l’Italia come per altri paesi, la domanda aggregata ormai depressa, ben vengano gli aiuti. Per fare questo, non abbiamo bisogno che 100 economisti italiani pro-austerità cambino idea (non lo farebbero mai, troppo ideologici sono i nostri colleghi, altro che stile anglosassone…): abbiamo bisogno che i 27 capodogli europei si sveglino e concordino di combattere una vera guerra.

Guerra che, come tutte le guerre, richiede coraggio, un pizzico di disperazione e tanta leadership: la guerra per la pace europea, che passa per politiche economiche che generino lavoro, occupazione, solidarietà.

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Piu’ discrezionalità e migliore gestione nella P.A.: non in agenda?

Il direttore Patte Lourde ci onora di un altro articolo ed io lo pubblico. Grazie.

Ottimi discorsi quelli del Presidente del Consiglio e del Ministro dello Sviluppo a Rimini in occasione delle prime giornate del Meeting di CL.  Ma qualcosa di più andava detto. Almeno, vista l’elencazione dei capitoli che formeranno l’agenda prossima del Governo (o l’Agenda del prossimo governo?) un accenno alla Pubblica Amministrazione andava fatto. Come ricorda però sulle colonne del Sole 24 ore di oggi Davide Colombo Il Governo sarà probabilmente celebrato per tanti obiettivi che verranno raggiunti con il primo ciclo di spending review ma non passerà alla storia per i nuovi interventi sul pubblico impiego.”

L’articolo é importante perché segnala come i risultati – di controllo della dinamica della spesa – siano stati raggiunti: “Questi motori (blocco del turnover e della contrattazione – ndr), a legislazione invariata, continueranno a funzionare fino al 2014 – anno del sostanziale allineamento tra la dinamica delle retribuzioni pubbliche con quelle private – con cali di spesa dello 0,6% quest’anno, 0,5 nel 2013 e 0,1 l’anno dopo.”

Ma, aggiunge Colombo ” Il gap che resta da colmare con gli altri Paesi riguarda la produttività. ” Da più parti si inizia a riconoscere che la PA è un fattore produttivo e che la questione non può essere limitata al solo aspetto finanziario, ma deve essere affrontato il tema della  sua funzionalità per la competitività del Paese. Si parla tuttavia ancora poco del tema e sopratutto di ciò che blocca l’Amministrazione da diventare un elemento che “eleva la produttività dei fattori”. Mi sarebbe piaciuto sentire che la riforma della PA diventa un tema centrale dell’agenda di governo. Non per demoralizzare i lavoratori del pubblico impiego con vari appellativi, ma per instillare fiducia, promuovere la formazione continua e l’aggiornamento, inserire giovani anche con contratti a tempo determinato per portare nuove idee e nuovi modi di “fare amministrazione” o meglio di gestione della cosa pubblica. I due termini – amministrazione e gestione – sono spesso  utilizzati come sinonimi, ma in economia aziendale essi hanno un preciso significato. In un’azienda la gestione è l’insieme delle azioni che l’organizzazione pone in essere per raggiungere i suoi obiettivi e compiere scelte (che bella questa parola). Perché uno dei problemi è proprio questo: l’amministrazione non è stata più messa in condizione di scegliere, ma svolge il suo ruolo prigioniera di leggi e decreti che le impediscono di esercitare  un ruolo discrezionale – ma trasparente – nella gestione della cosa pubblica.

Non si creda che la discrezionalità sia facile da esercitare o che essa sia sinonimo di assenza di trasparenza o di controlli, che devono in primis mirare a “confortare” l’azione amministrativa (ovvero intervenire prima che questa sia posta in essere) e successivamente aiutare l’Amministrazione a correggersi quando le scelte operate si dimostrano inefficaci o distorsive. Questo perché, in assenza di un sistema di controllo a favore dell’azione amministrativa quale quello sopra accennato, è la stessa amministrazione che per paura di essere sanzionata tenderà a  “nascondersi” dietro le leggi e i regolamenti. Serve un’azione incisiva di riforma del modo di lavorare della Pubblica Amministrazione; non basta “bruciare” leggi o puntare solo sulla riduzione dei costi o sugli incentivi.

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Il deserto di Pompei, Italia.

Sono tornato. Più rilassato di prima? Ma sì. Importante prendere distacco dalle cose, osservare con più serenità il lento muoversi del tempo ed il ripetersi inesorabile della storia, mossa dagli interessi e dalle passioni. E soprattutto importante stare in famiglia.

Eppure, tra le tante ripetizioni di un ritornello stantio, del balbettare sempre più incerto e non strutturato dei tifosi dell’austerità che piega l’albero europeo, strappandone le radici greche dal terreno, nulla mi ha più sconvolto di un perfetto servizio giornalistico andato in onda sul TG1 del 17 agosto ore 20. Ah, cosa sarebbe l’Italia con un buon giornalismo al suo servizio. Al rimpianto che deriva dal prendere atto di quanto non fa la classe giornalistica per sensibilizzare la nostra classe politica ad agire per una Italia migliore rinunciando al suo ruolo di quarto e quinto potere (dove erano i giornalisti, mi chiedo, in questi anni quieti dell’Ilva? Dove? Perché non ci hanno informato?), aggiungo quello straziante di vedere desecrato nel silenzio assoluto il nostro patrimonio artistico.

(Ri)guardatelo questo servizio, ci vedrete l’Italia che non dobbiamo accettare, l’Italia che vogliamo cambiare, ci vedrete pezzi di Camorra, di vandalismo, di incuranza, di mala gestione, di assenza dello Stato. Chi vuole meno Stato, chi chiede di fermare il declino con meno Stato, si accomodi a Pompei, lì ne troverà ampia traccia, di come si vive senza Stato.

 

Non era questo il Governo che aveva promesso “mai più a Pompei la camorra”? Non era questo il Governo della spending review? Non era questo il Governo delle riforme?

Ma come possiamo noi, e con noi i mercati, convincerci che vi sia nulla di diverso in questo Governo dai precedenti quando vediamo questo sfregio quotidiano che avviene alle nostre bellezze artistiche, di fronte al cui passato il mondo intero si inchina?

Perché questo Governo non ritiene di rispondere almeno su Pompei, simbolicamente, al nostro appello per immediatamente destinare 1000 giovani oggi disoccupati o inattivi e scoraggiati a sorvegliare che nessuno entri là dove non si può entrare, che pulisca là dove non si può defecare sporcando con immondizia, che guidi con competenza e cortesia i turisti e visitatori? “Un’intera generazione sta pagando un conto salatissimo”, dice il nostro Presidente? E chi gli sta addebitando questo conto se non noi? E da quando non possiamo e dobbiamo assumerci la responsabilità delle situazioni?

Quanto costerebbero Presidente Monti 1000 giovani nella Pompei che lei tanto dice di amare? 1000 euro al mese l’uno? 12000 euro l’anno l’uno? 12 milioni tutti e 1000?

12 milioni Sig. Presidente. Lei lo sa cosa succederebbe allo spread sui nostri titoli di Stato se questo Stato mostrasse – partendo da Pompei – al mondo una faccia nuova, dura con i violenti e rapaci approfittatori che considerano Pompei proprietà privata (!!!) e vicina, protettrice e competente con le bellissime mura e stanze chiuse del nostro patrimonio da tutelare, con i turisti che meritano di essere accompagnati a passeggiare in questo Paradiso che è la nostra terra di Pompei?

Letto come sempre De Rita. Sul Corriere: “presidiare il fronte esterno potrebbe non bastare. Occorre «armare» (anche in termini di emozioni collettive) il fronte interno, mettendo in campo nuova vitalità di idee e di classe dirigente, nel mondo sia socioeconomico che politico.

Potrebbe non bastare? Caro De Rita, conosco e amo il suo linguaggio mite e furioso e so che anche lei è d’accordo: non basta. Né domani, né oggi. Anzi, non basta, a cominciare da oggi.

La nostra terra di Pompei. La nostra terra. Altro che spese, sig. Presidente. Lei dovrebbe vivere a Pompei fino a quando a Pompei non sia tornata la vita, fino a quando il passato non sia tornato in vita, dando futuro al nostro Paese. Quando avrà terminato lì con successo, avrà fatto di più di quanto nessun Presidente del Consiglio abbia mai fatto in questi ultimi venti anni, senza tema di smentite. Avrà portato così in giù lo spread, avrà aumentato così tanto il nostro export di turismo da avere così tanti soldi in mano da poter cominciare ad esportare il suo modello di Italia in tutti i parchi archeologici pieni di ferite di questo nostro meraviglioso Paese.

Si dia da fare, Presidente. “Presidi l’interno” direbbe De Rita. Vada a vivere a Pompei, fino a quando non sarà tornata in nostro possesso. E vedrà che cambierà tutto, per il meglio. Grazie.

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L’ennesimo Fondo europeo, l’ennesimo fallimento

Dal direttore Patte Lourde riceviamo e volentieri pubblichiamo

Molti di voi  avranno letto questo position paper del German Council of Economic expertsche raccomanda l’adozione di un (nuovo) Patto per l’Europa.

Conviene leggerlo, perché esso sta – in parte – condizionando il dibattito europeo, animato da un condivisibile interesse: il futuro dell’eurozona. I suoi autori concludono affermando “per superare l’attuale crisi non sarebbe sufficiente che la Germania divenga più europea e fornisca più solidarietà, né che il resto d’Europa divenga più tedesco aderendo ad una stretta disciplina fiscale. Abbiamo bisogno di ambedue.”

Per capire cosa non funziona nella loro proposta (che priva comunque l’Europa dell’arma della politica monetaria, come parte della politica economica per uscire dalla crisi, ma soprattutto per gestire, in futuro, l’economia) , è bene comprendere come funziona lo European Redemption Fund che perorano.

Anche se non lo dicono apertamente, il debito pubblico che verrebbe conferito a questo Fondo- quello in eccesso rispetto al 60% in rapporto al PIL di ogni Paese aderente – avrebbe status “senior” e quindi sarebbe prezzato come meno rischioso rispetto a quello rimanente, emesso dagli Stati:  “le economie partecipanti, come garanzia dei loro sforzi di consolidamento, dovrebbe promettere di far affluire tasse espressamente dedicate al Fondo“.

Se così fosse,  quali sarebbero le conseguenze sul costo del debito emesso direttamente dagli Stati e quindi alla sostenibilità del loro debito nel tempo? Non viene precisato. Inoltre, dedicando tutte le extra-risorse derivanti dai risparmi di interesse sul debito sopra al 60% al pagamento al Fondo verrebbe meno quel “breathing space”, quello spazio di ossigeno vitale che, secondo gli stessi proponenti, rappresenta il viatico per le riforme strutturali e le già adottate altre misure (restrittive) di finanza pubblica connesse (anzi premesse) all’avvio del Fondo.

Ma c’è un altro tema. Il Fondo continua a creare sovrastrutture tecniche in Europa, complicando ulteriormente la sua governance, vista dal Consiglio di esperti come uno dei problemi da affrontare. Addirittura esso viene incaricato di sanzionare con tassi d’interesse più alti quei Paesi che non rispettano l’accordo, addirittura consentendo ai paesi più forti (quali?) un diritto di veto sulle decisioni del Fondo. Quale controllo dei  parlamenti nazionali, ovvero dei cittadini europei, ci sarebbe sul Fondo e sulle sue decisioni?  I nostri esperti forse pensano all’ennesimo mandato stile BCE quando dicono: “per di più, se il Fondo dovesse effettuare operazioni di mercato aperto per ottenere disciplina di mercato, l’ente che governa il Fondo dovrebbe essere indipendente da influenze politiche, come la BCE”. Così si pensa di affrontare il deficit di rappresentanza che oggi mina il futuro dell’Europa?

Ma allora perché non spingerci oltre? Visto che il Redemption Fund avrebbe, come garanzia l’oro e le riserve valutarie degli Stati (ma non erano della BCE?), gli esperti sostengono che il Fondo “potrebbe applicare direttamente le sue sanzioni sequestrando parte delle disponibilità di oro e valuta estera … che i paesi partecipanti dovrebbero dare a garanzia del loro ingresso nel Patto, … che noi proponiamo arrivare… al 20% della dimensione del debito trasferito nel Fondo”.

Perché non aggiungere che le risorse del bilancio europeo dovrebbero essere utilizzate per pagare il costo del debito conferito al Fondo? Perché chiedere altre risorse agli Stati e non utilizzare a garanzia del Fondo le entrate proprie dell’Unione? Quale migliore politica di coesione quella di farsi carico del debito degli Stati?  E la quota del bilancio  comunitario non utilizzata per il ripianamento del debito, perché non destinarla ad incentivare e mettere in piedi quelle politiche di crescita  di cui l’Europa tanto ha bisogno? Investire in formazione, in ricerca di base? Troppo futuro?

La verità è che anche questa, come tante, è una soluzione parziale e non idonea perché basata sulla sovrapposizione di organismi tecnocratici indipendenti vigilanti sull’austerità. Nulla di più lontano dall’ideale di democrazia nato e affermatosi con difficoltà e sacrifici nella storia europea.

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Alesina, Giavazzi, Grilli, Keynes ed i capodogli (addormentati). Buon Ferragosto a tutti.

Carissimi lettori, vi lascio per una settimana di meritato riposo per voi dal blog che ho cercato di mantenere quotidiano. Ci rivediamo la settimana del 20, ok?

C’è una scena bellissima del Padrino III dove Al Pacino, tra l’arrabbiato e lo sconsolato, si lamenta che proprio quando era tempo di andarsene in pensione lo richiamano al suo ruolo di capo di tutti i capi un’ultima volta.

Quasi intuendolo, i miei amici A&G, il giorno che avevo deciso di andarmene in vacanza dal blog, ci fanno il regalo di un ultimo stimolo intellettuale sul Corriere (non sono faceto) al quale non possiamo sottrarci, non fosse altro perché ci regalano una cortese punzecchiatura: “diversamente da quanto vorrebbero farci credere alcuni economisti che interpretano Keynes in modo schematico, si può crescere pur tagliando le spese. Non bisogna dimenticare che ai tempi di Keynes lo Stato spendeva e tassava meno del 20% del Pil: oggi quasi il 50%”.

Certo che A&G hanno ragione: questo è un blog schematico, inteso come semplice, perché ci piace la semplicità. In fondo quante volte abbiamo scritto “… come insegniamo al primo anno di Economia”?

Ora è dura far risuscitare Lord John Maynard Keynes e chiedergli quale fosse la sua opinione sul ruolo della spesa pubblica in recessione a seconda dei livelli di spesa pubblica. Ancora non ho visto una teoria che illustra come la politica fiscale espansiva faccia bene solo quando solo quando la spesa pubblica su PIL è bassa e non quando è alta, non l’abbiamo mai insegnato al primo anno, ma aspetto speranzoso di capire come le imprese non producano di più e non occupino più lavoratori se lo Stato fa più appalti quando le imprese non sono a capacità produttiva. Mistero profondo.

Già perché esiste anche qualcosa chiamata congiuntura. Non lo dico io, lo dice il Ministro dell’Economia Vittorio Grilli oggi su Repubblica: “Qui c’è un equivoco, perché molti commentatori parlano di crescita e la confondono con la congiuntura. Crescita vuol dire lavorare sul Pil potenziale, vuol dire intervenire sui meccanismi che lo bloccano o lo rallentano. E noi su questi meccanismi siamo intervenuti eccome. Ma sono processi lenti, che producono risultati nel medio periodo. L’inversione del Pil potenziale si vede in uno o due anni, non in uno o due mesi“.

Bravissimo Vittorio (se posso, ma lo conosco): cari A&G, c’è un equivoco. Come correttamente ricorda il Ministro, tutte le belle cose di cui parlate voi, e su cui possiamo essere d’accordo o meno (ma non mi interessa parlarne ora, dopo il riposo, OK?), fanno riferimento al PIL potenziale, che si cura “in uno o due anni, non in uno o due mesi” (come minimo, 1 o 2 anni aggiungo io …).

Io non parlo di PIL potenziale, da un anno su questo blog parlo di CONGIUNTURA  e chiedo perdono se non ho usato più spesso la parola più che giusta scelta del Ministro. E perché mi interessa solo quella? Perché NON C’E’ TEMPO. Perché se si esce dall’euro se ne esce perché si strappano le bandiere dell’Unione europea nelle piazze e si sfondano i portoni dei Parlamenti, chiedendo anzi pretendendo di uscire dalla stupida austerità in recessione che fa soffrire la gente. Se il progetto europeo è progetto di sofferenza o percepito come tale, morirà.

Non abbiamo due anni per salvare l’euro! No. No. No. Se A&G questo non lo capiscono io non ci posso fare niente, la crisi terribile dell’economia come filone di studio deriva anche dal pensarsi scienza, avulsa dalla politica, dalla storia, dalla filosofia.

Ma torniamo a noi, con il Ministro, che continua, correttamente, dopo la domanda del giornalista che gli chiede: “se la sente di escludere al 100 per cento una nuova manovra in autunno?”. Risposta: “Assolutamente sì. Sarebbe un errore: se varassimo una manovra per ridurre ulteriormente il deficit nominale, non faremmo altro che deprimere ulteriormente un’economia già in recessione“.

Ulla, importantissimo commento. Allora ecco per voi un altro esempio schematico. Lì c’è un bicchiere pieno di latte: ne levate un po’, buttandolo nel rubinetto. Quanto latte rimane nel bicchiere? Di meno di prima? Certo. Bene.

Ora immaginate che vi chieda: se dunque ora aggiungete più latte nello stesso bicchiere, questo sarà più o meno pieno di prima? Beh pare evidente che lo sarà di più, o no?

Ora il Ministro ci dice: non faremo più tasse e più tagli alla spesa pubblcia perché altrimenti … non faremmo altro che deprimere ulteriormente un’economia già in recessione. Dunque? Se facessimo più spesa pubblica e meno tasse non ne segue per definizione che il PIL crescerebbe?

E ora chiudiamo il cerchio. Miracolosamente A&G, che spessa cambiano opinione, si sono convinti che “Innanzitutto ciò che conta non è il debito in sé, ma il rapporto fra il debito e il reddito nazionale (il Pil). Se l’economia non ricomincia a crescere quel rapporto non scenderà mai abbastanza … Per ridurre il rapporto debito-Pil deve quindi ripartire il denominatore, cioè la crescita”.

Benissimo, era ora! Ora mischiate Grilli e A&G ed ecco che … avrete la formula magica per generare la crescita che ci porta fuori da questa stupidissima crisi congiunturale: aumentate spesa pubblica e riducete tassazione ed il PIL aumenterà, facendo diminuire il rapporto Debito-PIL come dicono A&G che hanno purtroppo in testa un modello dell’economia che, tra le tante stranezze (tra cui quella di non trovare conferma nei milioni di dati disponibili al mondo), ha quello di essere un modello che (forse) fa risuscitare quando si è già morti, e cioè nel lungo periodo, per schematizzare di nuovo Keynes.

Ma sarebbe ingiusto dire che è colpa di A&G se siamo ridotti così male dopo avere seguito i loro consigli per due anni. La colpa è ovviamente quella dei governanti che guidano l’Europa e della loro mancanza di coraggio.

Oggi il Ministro Grilli parla di paesi europei come di granchi, animali invertebrati che poco mi ispirano nel pensare all’Europa. Preferisco parlare di vertebrati.

Oggi sul Corriere, ben più affascinante di A&G, c’è una foto bellissima (vedi sopra),  che rappresenta bene la situazione europea: (27?) capodogli giganteschi, addormentati in piedi, fotografati dal ricercatore Luke Rendell. Pare, dice il pezzo del Corriere, che sia pericoloso trovarsi tra capodogli addormentati: se si svegliano potrebbero “reagire con un’azione aggressiva coordinata”.

Magari lo facessero, reagire con un’azione aggressiva coordinata. Ma nemmeno questo possiamo sperare dai nostri 27 leader, giganti addormentati. Ecco il problema, altro che A&G.

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Democrazia unica e moneta

Uscito ieri su Fatto quotidiano (versione leggermente diversa) e a breve sul sito Formiche
di Paolo Messsa e Gustavo Piga

E se la crisi, almeno nella sua declinazione europea, fosse una questione più politica che finanziaria? Il dibattito di queste settimane sui rischi per le democrazie nazionali fa emergere un pezzo di verità che pure si è cercato di occultare per molti mesi. Guardiamo cosa è già accaduto a pochissimi passi da noi, in Grecia. Nata dalla pessima supervisione di Bruxelles e dei governi europei, la gestione di questa crisi ha prodotto un virus devastante a causa di una battaglia ridistributiva in cui gli interessi nazionali (tedeschi in particolare) hanno prevalso su quelli comunitari. Il Paese di Pericle è stato commissariato, spinto su una linea di austerity che ha messo in ginocchio i suoi cittadini e non é stato ancora salvato, anzi si fatica a capire quali siano stati i benefici, per la Grecia, di questi sacrifici e di queste umiliazioni. Il fatto che adesso a chiedere aiuto ci sia la Spagna e non l’Italia non dovrebbe darci particolare sollievo.
Nei giorni scorsi Otmar Issing, autorevole ex dirigente della Bce, dalle colonne del Financial Times ha spiegato che mai e poi mai i tedeschi avrebbero dato il via libera ad un salvataggio dell’Italia senza chiedere in cambio di poter intervenire nelle scelte economiche e fiscali del nostro Paese. Pochissimi giorni dopo la Bce ha ratificato l’idea di “condizionare” gli aiuti finanziari ad una cessione di fatto della sovranità, mimetizzata da un apparentemente innocuo memorandum. Mario Monti è arrivato a palazzo Chigi vergando sulle colonne del Corriere della Sera un editoriale dedicato proprio al “podestà forestiero” (all’epoca Berlusconi aveva un dubbio rapporto epistolare con la Bce) ed è quindi ben consapevole che la chiamata in causa della troika sarebbe non un salvataggio ma un fallimento. Il fallimento più grave,  peggiore dell’onta di un default. Si tratta di un esito che senza dubbi il governo è impegnato ad evitare ma rispetto al quale non può e non deve essere lasciato solo.
In meno di un anno sono stati approvati numerosi decreti legge. Sono state riformate le pensioni, la spesa per acquisti pubblici, il mercato del lavoro. È stato ratificato senza batter ciglio persino il fiscal compact: quel grimaldello contro la sovranità e la democrazia che è stato oggetto di una campagna elettorale in Francia (dove ha vinto Hollande che era contro) e che in Germania è oggetto del vaglio della Corte costituzionale, proprio perchè è evidente che è un Trattato che incide sulle prerogative fondamentali dello Stato. Abbiamo fatto quello ci era stato chiesto (sin dalla risposta della Bce a Berlusconi) ma, invece di ottenere tassi più bassi, siamo entrati – come in Grecia – in un tunnel in cui dietro le richieste legittime dei creditori si fanno spazio le mire degli speculatori, non solo finanziari, che infatti ora chiedono una svendita generalizzata del nostro patrimonio.
Quello ora spaventa più dell’Italia, e dovrebbe spaventare noi italiani per primi, non è più il valore del nostro debito pubblico ma la caduta verticale del prodotto interno lordo. Il 120% di debito è un numero enorme che va ridotto, ed era ora che se ne iniziasse a discutere in modo serio. Ma se la nostra economia continuerà a segnare il -2,5% ogni sforzo rischia di essere vano. La crescita si regge su due pilastri: la domanda estera e quella interna. Mentre la prima si va incartando in tutto il mondo anche a causa dell’austerità imposta dall’Europa nel suo insieme, obbligando Obama ad inviare i suoi emissari ad ogni vigilia di incontro decisivo europeo per sollecitare più coraggio espansivo, la seconda – consumi e investimenti – sono attanagliati dalla paura del futuro che una politica con il braccino del tennista non cancella per nulla. Ad una maggiore domanda pubblica che non sia spreco ma conseguenza di una intelligente e rigorosa spending review a monte viene negata la libertà di provare ad esercitarsi là dove l’austerità ha miseramente ed inequivocabilmente fallito.
Ruolo dello Stato versus ruolo del mercato, sviluppo versus austerità, democrazia versus ‘feudalesimo della troika’ sono solo tre dei nuovi cleavages che dividono esperti ed opinioni pubbliche ma che ancora non vedono la formazione di schieramenti politici credibili e alternativi. La difesa della democrazia e dei bilanci pubblici passa anche da qui. Dalla consapevolezza che questa crisi non riguarda solo una giovane moneta utilizzata in 17 dei 27 paesi europei ma pone questioni più profonde che non possono essere affrontate separando politica ed economia come fossero categorie distinte e non dipendenti fra loro.

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Anche Roosevelt direbbe no allo stupido piano anti-spread

… it appears that the EU is attempting to move towards changing their political union in a manner that creates rules for the member states and discretion for the center. This is exactly the opposite of the long run American experience where rules for the center and discretion within the rules for the member states have been the common pattern.

“… pare che l’Unione europea stia tentando di muoversi verso un cambiamento della sua unione politica in una maniera volta a creare regole per gli stati membri e discrezione a livello centrale. Ciò è esattamente l’opposto dell’esperienza di lungo corso americana dove regole per il centro e discrezione (all’interno di regole) per gli stati membri sono state le modalità tipiche”.

WHAT WAS NEW ABOUT THE NEW DEAL? Price V. Fishback e John Joseph Wallis, Working Paper 18271, NBER WORKING PAPER SERIES, fresco di stampa.

Così chi studia e riassume gli studi finora effettuati sul New Deal americano guidato da Roosevelt negli anni Trenta. “Vi fu una marcata tendenza per i programmi di regolamentazione ad essere gestiti dal centro, mentre programmi con significativo impatto fiscale erano condivisi con gli Stati membri sin dall’inizio o lo divennero quando proseguirono … Quando Roosevelt e gli uomini del New Deal volevano spendere molti soldi, dovevano operare con gli stati e gli enti locali.”

Furono gli anni in cui la spesa pubblica (non i trasferimenti) Usa totale su PIL in 10 anni (1927-1937) salì dal 12% al 21%, negli anni in cui al posto del settore privato che non domandava più si fece coraggiosamente entrare in campo il settore pubblico.

Non che qui si sia nostalgici. Né accaniti tifosi del ruolo dello Stato nell’economia. Ma precisi sì. E desiderosi di capire cosa ci insegna la Storia o, perlomeno, cosa questa non ci sconsiglia. Ebbene non ci sconsiglia, in momenti di crisi da domanda aggregata in una unione monetaria, di espandere la spesa pubblica lasciando autonomia ai singoli stati sul come farlo, supportandoli dal centro, con fondi e risorse.

L’Italia, invece, si appresta – con il Piano anti-spread della BCE legato a politiche di austerità obbligate, Piano che troppi segnali fanno percepire come imminente malgrado troppo timide smentite – a cedere il controllo della sua politica economica al centro e, per di più, non per generare più espansione ma più austerità.

Andremo a contribuire ad una (dis)-unione politica europea senza precedenti con la recessione in cui ci ficcheremo, come se quella che sperimentiamo oggi non fosse abbastanza. Facendo, paradossalmente, felici i fan dell’uscita dall’euro visto che renderemo più probabile la fine dell’unione monetaria. Perché saranno solo la recessione e la disoccupazione a fare scordare prima, e odiare poi, l’Europa al crescente numero di coloro che oggi soffrono e che nessun dottore al mondo ci obbliga di far soffrire, sadismo in cui perseveriamo per incredibile miopia politica e rigida testardaggine ideologica.

Dobbiamo dire no, no a tutti i costi, all’adesione allo stupido piano anti-spread e pro-austerità. Roosevelt sarebbe d’accordo. Ma forse erano altri tempi, altra politica, altra leadership, altra democrazia.…