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Combattendo il fato e la falsa meritocrazia per far emergere il talento

Avete tutti la vostra lista di top 10 che portereste se doveste naufragare su un’isola deserta. 10 film dico. Io ce l’ho e cambia sempre nel tempo. Alcuni restano sempre. L’unico che non cambierà mai è C’era un volta in America di Sergio Leone, il ragazzo di Viale Glorioso a Trastevere.

Va beh, mi e vi distraggo. Per chi ricorda il film c’è una scena drammatica e divertentissima in cui la banda di gangster capitanata da Robert De Niro e James Woods deve ricattare il Commissario di Polizia corrotto, Aiello, a cui è appena nato il primo figlio maschio dopo 5 femmine. Per farlo, entrano nella sala dove dormono tutti i neonati e modificano i cartellini agli stessi, tenendone la lista e minacciando il Commissario (che nel frattempo, impazzito, si ritrova con la sesta figlia) che se non aderisce alle loro richieste non gli faranno sapere qual è il suo vero figlio.

 

Piccolo problema, perdono la lista. Si ricordano solo numeri pari per i maschi e dispari per le femmine. Decidono quindi di dare al Commissario, che nel frattempo ha aderito alle richieste pur di riavere suo figlio, un numero a casaccio. E James Woods (mi pare) esclama a quel punto: “siamo meglio del fato. Ad alcuni diamo la bella vita (good life) ad altri gliela mettiamo in quel posto” (scusate l’improprietà, ma erano gangsters): “We’re better than fate. We give some the good life, give it to others up the …”

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Si nasce con un talento innato o il reddito dei nostri genitori influenza la nostra capacità di divenire talentuosi?

Domanda rilevante anche per determinare il ruolo delle politiche fiscali, in particolare della progressività delle aliquote: se il reddito dei genitori conta per il talento dei figli allora ancora maggiore tassazione sui ricchi a favore dei poveri può migliorare la distribuzione dei talenti e risultare più efficace di una semplice redistribuzione ai poveri per livellare le differenze di reddito ma  non invece le opportunità. Efficace per tutta la società, non solo i poveri, perché è tutta l’economia che si giova di una maggiore capacità di abilità al suo interno.

E’ la domanda a cui cercano di rispondere due ricercatori di due tra le migliori università di Business del mondo, Harvard e Wharton, Alexander M. Gelber e Matthew C. Weinzierl, per la prima volta modellando le scelte pubbliche quando non solo l’abilità del figlio dipende dal talento dei genitori, ma anche dal loro reddito. Essi partono infatti da altri studi rigorosi che mostrano a loro volta come al crescere del reddito i risultati di test scolastici dei figli migliorano, e loro stessi osservando come “la probabilità che un genitore con salario alto (basso) abbia un figlio “talentuoso” (“non talentuoso”) è del 26,9% mentre la probabilità che un genitore con salario basso (alto) abbia un figlio “talentuoso” (“non talentuoso”) è del 23,1%.”

La loro analisi ha dei limiti che deriva dai dati a disposizione: non sanno come vengono spesi questi maggiori soldi dai più poveri (liquirizie o libri o SUV?), non sanno come i genitori modificano il tempo (se passando più o meno tempo coi figli o per conto loro o al lavoro). Eppure è un inizio importante di un nuovo modo di modellare questi problemi dove finora il talento era stato tratteggiato come innato.

Partendo dal reddito medio, le loro simulazioni su dati Usa dicono che: un aumento di 1000 dollari nel reddito dei genitori causa un aumento (diminuzione) di 2,25% (2,11%) nella probabilità che un genitore non talentuoso (talentuoso) abbia un figlio talentuoso (non talentuoso).

Paragonato all’attuale sistema fiscale Usa, scoprono che la migliore politica fiscale dovrebbe essere più progressiva a favore dei genitori più poveri così che tutta la società nel tempo benefici di questa maggiore disponibilità di talenti.

Certo, potrebbe anche prendere la forma di schemi di tassazione scolastica sussidiata per i più poveri in cui i sussidi sono pagati dalle famiglie più ricche, aggiungo io. E certo, il modello andrebbe calibrato sulla realtà italiana che è probabilmente più professava di quella americana. Comunque sia, uno stimolo forte, intellettualmente parlando, a pensare a come lasciare molto meno al fato la decisione su come allocare il talento, patrimonio di cui alla fine beneficiano tutti, ricchi e poveri, senza presumere che questo non dipenda dalla ricchezza di partenza degli individui e quindi non limitandosi ad attuare poliiche meramente “meritocratiche”, che finiscono per favorire chi alla gara dei 100 metri partiva con 3 metri in meno da correre.

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Se l’Italia è come la Grecia allora chiediamo le stesse (ma giuste) politiche per ambedue

Jeffrey Sachs parla a Repubblica dando una prospettiva che ci piace dei problemi della crisi europea, basata sugli eccessi di credito come originatori dei nostri drammi. Mi ricorda il 1986, quando studiavo per la mia tesi di laurea leggendo i suoi modelli (e quelli di Stiglitz). La mia tesi di laurea sulla crisi del debito estero dei Paesi in via di sviluppo dell’America Latina si basava sulla nascita di quella crisi dovuta a … eccesso di offerta di credito pompato dai paesi ricchi e dalle banche occidentali che forzarono – loan-pushing si chiamava – i paesi poveri ad accettarli anche in una assenza di loro profittabilità, le banche sapendo che sarebbero state comunque salvate in ultima analisi (bail-out).

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Ma ora mi preme parlare di Fubini oggi sul Corriere che illustra bene l’evoluzione del discorso governativo che dal “mai ai prestiti europei” di 1 mese fa si va trasformando in “sì ai prestiti ma, tranquilli, con un memorandum leggero che non c’impone altra austerità”. Mai come la Grecia anche se chiediamo i soldi come loro.

Cosa dice Fubini:

… la «country-specific recommendation», votata all’Ecofin il mese scorso, offre un’idea piuttosto precisa di cosa sarebbe una lettera d’impegni dell’Italia. Su molti aspetti il governo ha già fatto abbastanza per essere sulla rotta indicata dall’Ecofin, per esempio sulla traiettoria di riduzione del deficit; sul debito la raccomandazione di luglio indica che la parabola discendente inizi già nel 2013, un risultato difficile se il Pil cadesse dello 0,5% come ieri ha previsto Moody’s: non è escluso che, in quel caso, l’Italia dovrebbe accelerare ancora un po’ sulle privatizzazioni.

Sono andato a rileggere “la rotta indicata dall’Ecofin”, potete farlo anche voi. Al termine troverete le raccomandazioni. Ovviamente quella chiave è quella sulle finanze pubbliche (per belletto ne mettono alcune altre, che non interessano a nessuno, per esempio sull’università o sulla disoccupazione giovanile; ma voglio scommettere che non faranno cadere nessun Governo restio a riformare per queste cose così … secondarie, scusate se mi arrabbio un po’).

Torniamo a noi.

Eccola: ”Implement the budgetary strategy as planned, and ensure that the excessive deficit is corrected in 2012. Ensure the planned structural primary surpluses so as to put the debt-to-GDP ratio on a declining path by 2013“. Tradotto: “attuare la strategia di bilancio come presentata (dal Governo italiano), ed assicurare che il deficit eccessivo per il 2012 sia corretto. Assicurarsi di realizzare i surplus strutturali primari pianificati così da mettere il rapporto debito-PIL su una traiettora discendente entro il 2013″.

Ma, teniamo bene in conto che rispetto al piano presentato solo pochi mesi fa a Bruxelles la crescita economica italiana continua a crollare. Da +1,3% previsto nel 2011 per il 2012 siamo passati a dire a Bruxelles che faremo -1,2% ma sappiamo tutti che faremo peggio del -2% mentre per il 2013, partiti da +1,5% nel 2011, ora abbiamo detto +0,5% a Bruxelles, ma Moody’s già annuncia -0,5% e potrebbe essere molto ottimista.

Quindi rispetto agli impegni italiani a cui fa riferimento il memorandum potenziale di Bruxelles, c’è da registrare circa 1 punto % in meno di PIL per il 2012 e altrettanto almeno per il 2013 (sorpresa sorpresa, cosa fa l’austerità?). Che ovviamente fa calare entrate e dunque aumenta il deficit.

Ma in effetti Fubini fa bene a non citare il deficit (spese meno entrate) che certamente peggiorerà rispetto a quanto scritto sui documenti ufficiali: e fa bene perché il nostro obiettivo su cui ci siamo impegnati con l’Europa è quello del “deficit escludendo gli effetti del ciclo”, un numero che non dovrebbe cambiare troppo.

Ma il debito-PIL? Ulla, il debito su PIL sale. Perché scende il PIL e perché sale il deficit che fa salire il debito. Questa è la stupida austerità che ormai conoscete bene (che ha come altra faccia della medaglia quella che l’espansione fiscale fa migliorare i conti pubblici). Ma se andiamo a rileggere bene quanto dice l’Europa:

Ensure the planned structural primary surpluses so as to put the debt-to-GDP ratio on a declining path by 2013″. Tradotto: ” Assicurarsi che i surplus strutturali primari pianificati così da mettere il rapporto debito-PIL su una traiettora discendente entro il 2013″.

Ora, come può gestire Monti una simile richiesta in una fase di recessione? Semplicemente: ricordando che con i surplus strutturali così pianificati il debito-PIL non scenderà. Salirà. E che se la Commissione europea e tutti i 26 capodogli europei vogliono veramente mettere su un sentiero discendente il rapporto debito-PIl come vogliamo noi, non c’è che un modo: fare più spesa pubblica, più crescita, meno debito su PIL.

Quello che dice Jeffrey Sachs per la Grecia “si dovrebbe impegnare Atene a presentare conti perfettamente in ordine tra 5 o 10 anni. Non subito“, vale ovviamente per l’Italia, visto che come la Grecia stiamo per chiedere aiuti. Senza dimenticare che, ovviamente, come dice Sachs, non ci dobbiamo preoccupare se salterà l’Italia: basterà che salti la Grecia e “è finito l’euro: il trauma non sarebbe riassorbibile“.

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Così parlò Adam Posen

Adam Posen, economista, ha solo 46 anni. Da tempo, da quando scrivevo i miei primi saggi, leggevo i suoi articoli ritenendoli molto originali e intelligenti, provocatori ma con un senso spiccato delle dinamiche geopolitiche e sociali. Forse per questo, malgrado sia cittadino statunitense, è stato prescelto ed ha svolto per tre anni il ruolo del consigliere indipendente all’interno del Consiglio della Banca centrale d’Inghilterra (perché non ne abbiamo nella BCE? Non sarebbe una cattiva idea), in un momento di fase delicatissima del ciclo mondiale, ponendosi come il membro più attento alle dinamiche reali dell’economia ed argomentando come la lotta all’inflazione fosse molto meno rilevante in questo contesto così depresso. Piano piano gli altri consiglieri si sono avvicinati alle sue posizioni ma, sostiene Posen, troppo poco e soprattutto troppo tardi, non capendo di essere alle prese con una crisi unica e di dimensioni insolite, in cui la politica economica, con i suoi errori, ha agito come benzina sul fuoco per alimentare e far crescere la recessione.

Ora il suo mandato è terminato. La sua intervista, rilasciata pochi giorni prima del suo rientro negli Stati Uniti nel think tank di provenienza, merita di essere tradotta per le cose che dice con grande serenità e soprattutto sincerità sugli errori commessi e che continuiamo a commettere, specie nell’approccio alla crisi dell’euro. Non è un reazionario, è “solo” (stato) un membro della Banca d’Inghilterra.

Ne ho tradotto solo alcuni tra i punti rilevanti, ma merita di essere letta in toto.

Giornalista: …. Il suo Governatore, Mervyn King … decise nel 2010, nel momento più cruciale della recente storia politica inglese quando il governo si stave formando, di dare un sostegno pubblico quanto mai esplicito all’idea del Ministro dell’Economia George Osborne’s di eliminare il deficit strutturale nel Regno Unito all’interno di una singola legislatura. King disse “Sono molto felice che vi sia un chiaro e inequivocabile (binding) impegno per accelerare la riduzione del deficit.”

Adam Posen: Come ho già detto ufficialmente nel novembre del 2010 in Parlamento, mi sono opposto all’interno della Banca a questo suo tipo di affermazioni. E’ dai primi anni di questo secolo che affermo che non solo la Bank of England, ma anche la Fed Americana e la BCE non hanno nessuna ragione di fare commenti in prossimità dei periodi elettorali. Non devono commentare la politica fiscale. Guardi come la BCE sta minacciando la Spagna e l’Italia. Io non credo che individui non eletti che svolgono un ruolo ufficiale dovrebbero fare ciò.

Giornalista: pensa che essenzialmente i keynesiani abbia vinto la discussione sulla politica economica?

Adam Posen: beh, I keynesiani hanno avuto tutta l’evidenza dalla loro parte e di fatto hanno avuto ragione, l’ho detto in svariati discorsi pubblici. Non hanno però vinto sul cosa fare, che è un triste dato di fatto sullo stato della politica negli Stati Uniti, Europa e Regno Unito, perché l’evidenza c’era. Tutte le cose che ci disse Keynes, che i tassi d’interesse rimangono bassi quando manca la domanda del settore privato, che i governi non dovranno temere le reazioni dei mercati finanziari quando questi sono preoccupati quanti i primi per la mancanza di crescita e non sanno cosa fare con la moneta che hanno. Quando sottraete o aggiungete stimoli fiscali, c’è un moltiplicatore maggiore di 1. Tutte queste cose le aveva dimostrate Keynes e le ha dimostrate la recente crisi britannica, come in Giappone, quando studiai la loro crisi negli anni novanta. … Io non so perché continuiamo a dibattere su queste cose, ma forse la gente ha ideologie da perseguire.

Giornalista: pensa che alla fine … la Grecia lascerà l’Europa?

Adam Posen: credo due cose. Primo, che è nell’interesse stesso della Germania, non solo l’interesse idealistico di politica estera, ma anche commerciale ed economico, di ristrutturare veramente il debito che altri paesi gli devono. Questa situazione è l’immagine allo specchio di quanto avvenne in Germania dopo la prima guerra mondiale quando gli Stati Uniti imposero il Trattato di Versailles.

Giornalista: ma così i tedeschi non subiranno un colpo duro?

Adam Posen: parlo dei creditori tedeschi che hanno sbagliato a prestare a tutti questi paesi. Questi debitori dovevano prendere a prestito da qualche parte. E’ stata una decisione del governo tedesco e della banche austriache ed olandesi di prestare a questi paesi e imprese affinché acquistassero export tedesco. La Germania ha gestito, come i prestatori di muturi subprime negli Stati Uniti,  uno schema nel suo proprio interesse. E quindi bisogna ristrutturare il debito, senza farlo pesare tutto su chi ha preso a prestito …

Giornalista: ma l’Economist sostiene che Angela Merkel sta per arrivare alla decisione, guardando a tutti i lati dell’equazione, … che sia meno rischioso per il lungo termine supervisionare una rottura dell’area dell’euro che continuare su questo sentiero.

Adam Posen: e ciò sarebbe una scelta veramente sbagliata da parte di chiunque abbia a cuore gli interessi tedeschi. La valuta tedesca schizzerebbe verso l’alto, le relazioni commerciali della Germania sarebbero interrotte, le banche tedesche entrerebbero a far parte della lista di quelle da salvare. Aumenteremmo gli incentivi a comportamenti sbagliati, rafforzando una interpretazione assurda in Germania che in qualche modo era moralmente giusto aver pagato nulla i loro lavoratori per anni così da raggiungere un vantaggio competitivo rispetto ad altri paesi …

Giornalista: ma alla fine conta la democrazie e non solo l’economia. Se i tedeschi non sono disposti a tollerare questi sacrifici che lei suggerisce, non è fattibile.

Adam Posen: io le sto parlando di tutti i sacrifici che dovranno subire se …  Se invece effettuassero una ristrutturazione del debito appropriata, certo il loro settore bancario avrebbe delle perdite, che dovrebbe recuperare, ma la storia finirebbe lì. Il commercio, l’export, continuerebbero e le perdite sarebbero molto minori, ci sarebbe stabilità politica, la valuta non si apprezzerebbe in maniera ridicola, le banche ….

Giornalista: forse ha ragione, ma I tedeschi potrebbero non crederle. Un’ultima domanda sull’Europa: Mario Draghi ha detto durante tutta l’estate che la BCE farà tutto quanto è necessario per assicurare la stabilità nell’eurozona. E’ credibile?

Adam Posen: Io mi auguro che lo facciano subito se è questo che vogliono fare.  Il problema per me, e ritorno alla questione politica e dalle mia diversa visione rispetto al Governatore della Bank of England King sul ruolo dei banchieri centrali, è che io non credo che la BCE abbia alcun titolo per dire che ci sono rischi sull’eurozona. Così facendo  minano la stabilità dell’eurozona e dell’economia mondiale. La BCE dovrebbe intervenire per gestire questi problemi. Un’ultima cosa… Io non voglio che Mario Draghi prenda le decisioni. Angela Merkel è perfettamente libera di farlo. E’ stata eletta. Ha tutto il diritto di dire che non salverà quei paesi. Tutto quello che dico è che dal punto di vista economico sarebbe una ferita auto-inflitta di dimensioni enormi alla Germania. Mi auguro che spieghi la verità alla sua gente invece che giocare con loro.

 

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La spinta gentile a non farsi del male con bevande zuccherate

Caveat: non sono esperto dei temi che seguono. Dibattito gradito.

Chi ha letto il bel libro “Nudge – la spinta gentile”  sa che l’attuale provvedimento sulla sanità (destinato ad essere modificato) nella parte riguardante le tasse sulle bevande zuccherate, rientra al bacio in quelle categorie di decisioni da parte di un governo c.d. paternalistico, ovvero che sa (o pensa di sapere) meglio di noi stessi cosa è bene per noi. Dissuadere con una tassa il consumo delle bevande zuccherate perché “dopo lo rimpiangeremo e oggi siamo incapaci di capirlo” non è forse paternalistico?

Un libertario si ribellerebbe: solo a me spetta decidere cosa è meglio per me.

In realtà si potrebbe dire che qui vi è in ballo anche una esternalità negativa: se tu mangi o bevi male, aumentano i costi della sanità a causa tua, e dunque le tasse che dovrò pagare a causa del tuo stile di vita e dunque mi corre l’obbligo di scoraggiarti dal farlo. Con una tassa?

Un dibattito simile a quello delle cinture di sicurezza dunque? Non esattamente, visto che in quello vi era l’elemento aggiuntivo che l’obbligo della cintura mi portava a guidare più veloce e quindi introduceva anche il dilemma tra meno danni da incidenti ma anche maggiori incidenti a causa della maggiore velocità. Certo la minore probabilità di morte o malattia che si accompagna a minore consumo di bibite gassose potrebbe portarmi a altri comportamenti dannosi (bere ancora più vino) che non avrei adottato in assenza di provvedimenti punitivi, ma le cose qui si complicano troppo e paiono di portata minore.

Al di là del buon articolo di Battista sul Corriere (perché allora non tassare tutto quello che è nocivo? E poi, ci mancano solo ancora più tasse) rilevo da questo interessante episodio estivo le seguenti cose:

a)    Il Ministro dell’Economia è contrario a rendere più costosi i giochi per paura di perdere gettito e il Ministro dello Sviluppo è contrario a rendere più costose le bevande per l’impatto sull’industria. Altri propongono di ricorrere ad una maggiore istruzione alimentare e comportamentale invece che a maggiori tasse. Perché no. Ma con un punto di attenzione: prendiamo atto che questi Ministri per forza di cose sarebbero altrettanto contrari ad una maggiore istruzione sui danni al cittadino di comportamenti nocivi derivanti da eccesso nei consumi di questi beni.

b)    Che tipo di tasse ha introdotto il Ministro della Sanità? Tasse su beni che vengono consumati in misura proporzionalmente maggiore dai cittadini più poveri. Trattasi dunque di imposte regressive. In un fase di ciclo negativo dove chi soffre di più sono i meno abbienti, non pare una bella idea. Una tassa su alcuni beni di lusso come gli yacht (che inquinano) non è stata presa in considerazione.

c)     Il libro Nudge propone una soluzione ai problemi qui illustrati: del c.d. “paternalismo libertario”. Ovvero non si impedisce né si fa pagare un ampio costo per comportamenti ritenuti dannosi per la persona stessa (quindi non si è paternalisti al 100%) ma si introduce un piccolo costo che tende a influenzare il comportamento finale dell’individuo se questo non ha un grande desiderio di consumare “scorrettamente” (non si è quindi libertari al 100%). Per esempio, in alcune mense scolastiche la Coca-Cola è stata posta su uno scaffale inclinato ad una distanza maggiore che non l’acqua naturale. Il bambino che volesse consumare la Coca-Cola dovrebbe allungarsi maggiormente per prenderla: se veramente ci tiene lo fa, altrimenti rinuncia. Oppure immaginate di vendere  autovetture a giovani che tendono a correre troppo su strada: una possibilità potrebbe essere quella di far fabbricare autovetture che fanno partire in automatico, superata una certa velocità, un musica che imbarazza vostro figlio davanti ai suoi compagni di viaggio, per esempio una sonata di Chopin.  Ciò lo porterebbe a rallentare.  Un piccolo costo simile è l’adesivo messo sui pacchetti di sigarette.

Uno Stato poco invasivo ma efficace è dunque uno Stato che applichi fantasia creativa per  ideare soluzioni nuove e intelligenti per ridurre comportamenti che nuocciono alla salute del singolo individuo ed impongono costi alla società, senza invadere (troppo) la sfera delle libertà individuali. Data la probabile maggiore ignoranza delle persone meno abbienti, sono strumenti che danno a questi ultimi maggiori benefici e dunque hanno l’effetto opposto delle tasse: sono strumenti potremmo dire … progressisti (ricorda un po’ “pubblicità progresso”? certo, ma si può fare ancora tantissimo in quel campo) nel senso che fanno più bene ai poveri che ai ricchi.

Le tasse a questo fine non sono questo strumento ideale perché invadono massicciamente la vita della persona e spesso in maniera subdolamente regressiva.

Il Ministro della salute potrebbe cimentarsi con esperti di comunicazione, economisti e psicologi per individuare questi strumenti alternativi, ma si ricordi sempre che avrà come nemici al tavolo del Consiglio dei Ministri altri colleghi meno interessati alla salute di lui.

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A fondo senza redenzione: il destino dell’Europa del Sud?

Faccio seguito all’intervento di Patte Lourde or ora pubblicato su questo blog, ringraziando anche Mauro Poggi per avermi segnalato la questione qualche tempo fa. Siccome su di essa credo si giochi buona parte dell’Europa futura, cerco con un esempio semplice semplice (il più possibile) di spiegare perché alla questione del Redemption Fund (che nome ambiguo mi dice la lettrice Silvia)  vada dato ampio risalto. Non so invece spiegarmi né spiegarvi – forse mi sono distratto - perché né la stampa né la politica abbiano dibattuto apertamente e pubblicamente della questione sollevata da Patte Lourde, così decisiva. Spero che nei prossimi giorni si possa avviare un dibattito ampio e approfondito, pubblicamente, su questo tema che riguarda così da vicino il futuro delle prossime generazioni.

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Immaginate che oggi il debito italiano sia pari a 120 euro ed il PIL pari a 100 euro (quest’ultimo pari a 100 per i prossimi 20 anni). Il Fiscal Compact ci chiede di ridurre il debito su PIL a 60 nel giro di 20 anni, 3 euro l’anno.

A parità di Pil (crescita zero) ciò significa che ogni anno le nostre spese (comprese quelle per interessi) devono essere inferiori di 3 euro alle entrate così che il debito possa scendere di 3 euro l’anno. E cioè un avanzo di bilancio di 3 euro. Se il PIL cresce questo avanzo può essere minore, maggiore (dicono i contabili europei) se il PIL decresce. Per ora lasciamo un attimo da parte l’argomento solito che facciamo su questo blog, che complicherebbe un pochino, che se facciamo avanzi in periodi di crisi la crisi peggiora e tutto il ragionamento di cui sopra si inviluppa in una spirale perversa dove non si riesce mai a raggiungere quota 60 ed anzi è possibile che il debito su PIL salga, come in Grecia. Ripetiamo, per un attimo scordiamoci questo aspetto, ci torniamo poi. Naturalmente il debito potrebbe anche in parte essere ridotto vendendo patrimonio pubblico, ma per ora continuiamo così, torniamo anche su questo.

L’Europa del Nord sospetta che l’Italia ed altri paesi dell’euro Sud non seguiranno questo percorso del Fiscal Compact. Che fare dunque per obbligare questi ultimi a eseguire quanto previsto? Quanto ci racconta Patte Lourde, già approvato in prima battuta dal Parlamento europeo. Che impatto avrebbe questa regola addizionale sull’economia italiana? Cerchiamo di capire meglio.

Metà del debito italiano, 60 euro, probabilmente quello che ha oggi una scadenza più a lungo termine verrebbe “rinnovato” tramite il Fondo di Redenzione. Quello a breve continuerebbe ad essere emesso dal nostro Paese. Chiamiamo la prima metà debito A e la seconda metà debito B (poi vi spiego perché queste lettere).

Per ora dunque sembrerebbe che sul rimanente debito B di 60, di titoli più a breve, le cose dovrebbero avanti come prima. Vedremo che non è esattamente così, ma per ora andiamo avanti, concentriamoci sui 60 ceduti al Fondo, sull’altrà metà del debito pubblico, quello A.

Continuiamo, non scordatevelo, sempre per semplicità immaginando che il PIL rimanga costante (crescita zero) a 100 euro. Abbiamo detto che ogni anno l’Italia dovrà (credibilmente) ridurre il debito di 3 euro. Dopo il primo anno dovrà essere di 117 e non più 120. Come farà?

Immaginate che al primo anno scadano 20 euro di debito, 10 a breve e 10 a lungo termine, e che l’Italia abbia, invece che un avanzo, un deficit di bilancio di 2 euro (un po’ come oggi): spende 2 euro in più di quanto incassa. Deve cioè trovare in tutto 22 euro: 20 per rimborsare il debito e 2 per far fronte al deficit di bilancio.

I 10 per rinnovare il debito a breve di 60 euro li trova come ha sempre fatto: emettendo altro debito a breve. Il tasso d’interesse per questo debito? Ne parliamo tra un po’. Chiamiamolo per ora tasso B.

I 10 per rinnovare il debito a lunga scadenza ed i 2 per coprire il deficit? Ecco qui la novità. Li trova il Fondo per noi. Purché noi si obbedisca all’ordine che il debito debba scendere a 117 euro.  Ma il nostro debito è 122: 120 dell’anno scorso più 2 di deficit. Mancano 5 euro all’appello. Come fare? E’ semplice; il Fondo Redenzione richiede che l’Italia metta mano al portafoglio: o con vendita di partecipazioni, o con vendita di immobili oppure con maggiori tasse o con minori spese per un totale di 5 euro. Il punto essenziale, come dice Patte Lourde, dello schema è che i fondi siano “dedicati”, ossia i proventi vadano su un conto intestato al Fondo europeo e non passino mai per la Tesoreria italiana.

In realtà, ed ecco un primo apparente vantaggio del Fondo, il fatto che sia il Fondo ad emettere e non la Repubblica Italiana e che vi sia l’apparente (tornerò su questo aggettivo) certezza che il rimborso avverrà, grazie al fattore di “earmarking” (i fondi non transitano presso un conto italiano) fa sì che il Fondo potrà apparire meno rischioso della Repubblica e che dunque si abbassino gli spread e si possa emettere a tassi più bassi, il famoso tasso A. Diciamo che da ciò guadagniamo 0,5 euro? Quindi i fondi che dobbiamo trovare in più sono non 5 euro, ma 4,5 “grazie al Fondo”.

Dove sta il problema? Basta rileggersi patte Lourde per capire che di problemi non ce n’è uno solo. Alcuni vanno chiamati rischi, altri problemi veri e propri.

Primo: finora abbiamo presunto che il tasso B, quello sui titoli a breve del debito B che rimane in capo a noi, rimanga lo stesso di quello che pagheremmo senza Fondo Redenzione. Ma è naturale pensare che così come l’investitore che compra i titoli emessi dal Fondo (debito A) è disposto a comprarli ad un tasso più basso (il tasso A) perché parrebbero avere maggiori garanzie (l’earmarking) sottostanti, così l’investitore che debba comprare gli altri titoli italiani del debito B chiederà un tasso più alto perché li sentirà come coperti da minori garanzie (lo Stato italiano avendo rinunciato ad alcuni proventi per destinarli al ripagamento del debito A del Fondo). Tasso A, l’avrete capito ora, sta per “di serie A”, tasso B, per “di serie B”. Il vantaggio di 0,5 euro potrebbe rapidamente essere cancellato.

Secondo: siamo proprio sicuri che il tasso A sui titoli a lungo termine emessi dal Fondo scenderà molto? Dipende ovviamente da quanto sicuri sono questi titoli. E’ infatti sempre possibile che il Parlamento italiano ad un certo punto cambi idea e dica “no, quei soldi mi servono a far fronte a questa emergenza nazionale”, per esempio per fronteggiare una crisi economica o un terremoto. Dunque potremmo anche arrivare in un mondo dove il vantaggio di 0,5 euro scompare … del tutto. Soprattutto se i mercati percepissero un’Italia in difficoltà con il ciclo economico.

P.S: sia chiaro, il vantaggio di 0,5 o meno euro non deve essere chiamato “mutualità”. Esso infatti non comporta sacrifici da parte dei tedeschi che non trasferiscono sotto questo schema nemmeno un centesimo di euro ai paesi dell’euro Sud.

Terzo: certamente il meccanismo obbliga (come nelle intenzioni dei proponenti dell’area del Nord) l’Italia a passare da un deficit di 2 ad un avanzo di 3 (o ad un avanzo minore se parte dei 5 venissero trovati con (s)vendite del patrimonio pubblico). E ciò con una manovra incredibilmente recessiva che rischierebbe di far scendere il PIL notevolmente. Per ora abbiamo presunto che il PIL rimanesse stabile a 100. Ma cosa avverrebbe con il meccanismo del Fondo se il PIL calasse? Ebbene una cosa molto semplice: che non basterebbe più far scendere il debito a 117, perché se il PIL calasse sotto 100 euro il rapporto debito-PIL sale sopra il 117%. In questo caso vi sarà bisogno di ulteriori tagli di bilancio e (s)vendite, ulteriore recessione, ulteriori tagli. Risultato: mentre come in Grecia l’economia crolla il rapporto debito-PIL sale.

Insomma, il Fondo Redenzione by-passa, supera, il fondo salva stati, rendendo inutile la negoziazione per risorse da ricevere condizionate ad un programma di austerità: l’austerità diventa infatti, con il Fondo Redenzione, automatica. Con l’addirittura peggiore caratteristica rispetto al piano Salva Stati che noi su questo blog già chiamiamo stupido, di non avere la certezza di una politica monetaria che venga in aiuto, così come vuole Draghi, solo la certezza dell’austerità per i prossimi 20 anni. Cioè: alla stupidità non c’è limite. Oppure: dalla padella alla brace.

L’approvazione di questo regolamento all’interno del Fiscal Compact non garantisce mutualità: garantisce la fine dell’euro, specie se attuato in questa fase di depressione economica. E’ ovvio che tutto l’area dell’euro Sud diventerà allora una grande Grecia. Sarà allora forse il caso di seguire la raccomandazione scalfariana ed adoperarci allora sin da subito per un’area euro-Med con cui negoziare da posizioni di forza con il Nord. Su questo torneremo più avanti.

Nel frattempo, consideriamo sgomenti il silenzio degli organi di stampa su quanto avviene in silenzio nelle stanze del potere (per quanto ancora?) europeo.

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Il Fondo Redenzione e il Fiscal Compact: sviluppi inattesi

Dal Direttore Patte Lourde riceviamo e molto molto convintamente pubblichiamo, chiedendoci dove naviga in queste acque tempestose la stampa italiana, che diamo per dispersa. Leggete attentamente.

Il 23 novembre 2011 la Commissione Europea ha adottato la proposta di Regolamento (Comm(2011) 0821) inerente le “disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri della zona euro.”

L’iter di approvazione di questo tipo di Regolamento è ben strutturato. La procedura legislativa cd. ordinaria, che conferisce lo stesso peso al Parlamento europeo e al Consiglio dell’Unione è, in sintesi, la seguente: la Commissione trasmette la sua proposta normativa al Parlamento e al Consiglio. Essi la esaminano e ne discutono due volte di seguito. Se dopo la seconda lettura non riescono a trovare un accordo, la proposta viene deferita a un comitato di conciliazione, composto da un egual numero di rappresentanti del Consiglio e del Parlamento. Una volta che il comitato giunge a un accordo, il testo approvato è trasmesso al Parlamento e al Consiglio per essere sottoposto a una terza lettura, affinché possano adottarlo come testo legislativo. Affinché il testo possa essere adottato, è indispensabile l’accordo finale di entrambe le istituzioni. Anche se un testo comune è approvato dal comitato di conciliazione, il Parlamento europeo può comunque respingere l’atto proposto alla maggioranza dei voti espressi (per saperne di più leggete qui).

E’ stata una riforma molto importante, introdotta con il Trattato di Lisbona del 1 gennaio 2009, quella del coinvolgimento del Parlamento nell’iter di approvazione della legge ordinaria in Europa, evoluzione della procedura di codecisione prevista dal Trattato di Maastricht del 1992. Occorre ricordare, infatti, che il Parlamento Europeo è l’unico organo dell’Unione Europea eletto direttamente dai cittadini europei.

Il 13 giugno scorso il Parlamento Europeo ha licenziato, in prima lettura, la proposta di Regolamento 2011/0821 con molti emendamenti approvati.

Le integrazioni approvate dal Parlamento non sono di poco conto. Vale la pena che le si esaminino con calma ed in fasi successive. Per chi abbia voglia di iniziare a farsi un’idea può vedere a quest’indirizzo il documento approvato.

Nel frattempo vi sottolineo l’emendamento 27: “(12 bis) Per assicurare il corretto funzionamento dell’unione economica e monetaria e il rispetto della disciplina di bilancio, è indispensabile salvaguardare la stabilità in tutta la zona euro e pertanto rafforzare l’efficienza e la resilienza del sistema finanziario della zona euro contro gli shock negativi, affrontare il problema della scarsa liquidità e le esternalità negative connesse alla frammentazione dei mercati dei titoli sovrani e ridurre i costi marginali di finanziamento per gli Stati membri che hanno difficoltà a finanziarsi. Per conseguire questo obiettivo superiore è necessario adottare una tabella di marcia verso l’istituzione di strumenti di debito sovrano comuni alla zona euro, che comprenda l’instaurazione di un quadro rafforzato per il coordinamento delle politiche economiche. Quale primo passo per l’emissione coordinata e comune di strumenti di debito sovrano della zona euro, è fondamentale l’istituzione di un fondo di rimborso del debito su un periodo di circa 25 anni, unita al coordinamento dell’emissione di debito da parte degli Stati membri della zona euro. Questo primo passo non pregiudica l’applicazione di altre misure della tabella di marcia prima dello scadere del periodo indicato.

L’introduzione del concetto di emissione coordinata e comune di strumenti di debito sovrano é un’importante affermazione politica: in Europa si va verso la mutualità delle politiche, passando per una maggiore la coesione delle politiche di bilancio ed economiche. Si tratta di adottare una tabella di marcia, ma mentre si specifica il primo passo (l’istituzione di un fondo di rimborso del debito – di seguito il “Fondo”), non viene definito tutto il percorso da percorrere, né viene proposta una descrizione del meccanismo di funzionamento del Fondo e una valutazione di quanto costi il “primo passo”.

Perché é importante definire tutto il percorso? Per dare modo ai cittadini, ai Parlamenti nazionali, ai Governi, ai mercati di discutere e giudicare le tappe che verranno seguite e, sopratutto, l’obiettivo di questa road map. E’ auspicabile che nella seconda lettura del Regolamento, ma forse anche nella nuova stesura della Commissione si osi di più in questo senso. Come venne fatto in occasione del Trattato di Maastricht, anche oggi è necessario che i cittadini dell’Unione sappiano verso dove l’Unione Europea può andare, per avere il modo di influenzare il risultato con il proprio voto, l’atteggiamento del proprio Governo e del Parlamento nazionale.

Ma anche il primo passo indicato nel sopra riportato emendamento del Parlamento Europeo necessita di maggiore dettaglio. E più viene scritto oggi nel Regolamento e minori saranno le incertezze nell’applicazione delle misure ivi previste e maggiore sarà il dibattito tra Istituzioni in modo da definire meglio il meccanismo stesso.

Il Fondo, che sembra essere analogo a quello proposto dal paper del German Council of Economic Expert e che ho commentato il 20 agosto u.s., serve per assicurare che tutti i Paesi con debito eccedente il 60 % in rapporto al PIL seguano un percorso di rientro. Perché tutto ciò è necessario? Per convincere anche i più scettici che la scelta di ridurre il debito al 60% del PIL è definitiva!  (come dice il GCEE “it will be necessary to convince sceptics, not least in Germany, that all participants will indeed adhere to their promises of redeeming their debt overhang and reforming their economies, especially since the period of redemption will span more than two decades.”), Questi economisti hanno un indubbio merito; hanno intuito che occorre trovare un “ponte” tra la situazione attuale e quella futura dell’Unione. Hanno fatto una proposta seria, ma dato che il ponte congiunge due sponde, di cui solo quella di partenza è nota (ad oggi non è infatti conosciuto dove l’Unione vuole andare) il rischio è di influenzare notevolmente dove il ponte atterrerà.

Per questo occorre discutere, costruttivamente, quanto da loro proposto ricordandoci sempre che questo sistema funziona all’interno del Fiscal Compact.

Nella proposta del GCEE, il costo di rimborsare il debito trasferito al Fondo è a carico dei singoli Stati (“all participant countries would have to accept the obligation to individually redeem their own transferred debt; it is not to be rolled over perpetually“) che vi dovrebbero fare fronte dirottando specifiche entrate fiscali al Fondo stesso (“First, as an important part of their consolidation efforts, participant economies should pledge to raise earmarked redemption taxes whose proceeds directly flow into the payments to the Fund“). Certo come contropartita il Fondo rifinanziarebbe il  debito a più lunga scadenza degli Stati ammessi al meccanismo e questo sarebbe un vantaggio che migliorerebbe la pozione fiscale dei Paesi grazie al minore tasso di interesse pagato sul prestito rispetto all’emissione diretta sul mercato (“Together with the interest advantage conveyed by the fund, the Pact thus makes the persistent realisation of the primary surpluses possible which are the major ingredient of any effort to reduce debt overhang.”)

Affinché ciò accada, il dubbio da fugare è quello relativo alla seniority del prestito concesso dal Fondo allo Stato rispetto al debito “nazionale”. Per capire perché questo aspetto èimportante è utile leggere un recente lavoro di Frank Westermann e Sven Steinkamp. Il punto che emerge da questa analisi è che occorre rassicurare i mercati che i titoli emessi dai governi nazionali siano privi di subordinazione rispetto ai prestiti concessi agli Stati dal Fondo. Nel caso del meccanismo proposto dal GCEE sembrerebbe che i prestiti del Fondo siano senior rispetto al debito nazionale, sia per la presenza di uno specifico flusso di tasse che affluisce al Fondo in misura corrispondente al prestito, sia per la possibilità che una parte di questo debito (il 20%) sia garantito dalle riserve auree o valutarie dei Paesi. Se così fosse, il debito nazionale verrebbe emesso a premio rispetto a  quello emesso dal Fondo, riducendo così il vantaggio corrispondente per il Paese che riceve i prestiti.

Questo, quindi, non è un meccanismo di solidarietà, se non per l’eventuale beneficio derivante dal rifinanziamento del debito a più lunga scadenza. Ma siamo poi così certi che il Fondo sarà riconosciuto come il Risk free rate europeo? Se il rimborso del debito emesso dal Fondo dipende dalle entrate fiscali “ad hoc” dei Paesi ammessi al meccanismo, forse è più lecito attendersi lo stabilirsi comunque di un premio rispetto al debito emesso dalla Germania. Inoltre, la diversa seniority del debito in circolazione potrebbe annullare tale possibile beneficio.

Ma ne sappiamo poco su come funzionerà questo meccanismo e poco se ne discute. Ma se già pesasse sugli spread?

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Lo spread: nemico o alleato?

Nel 2002 Alvaro Uribe fu eletto Presidente della Colombia avendo come specifica piattaforma elettorale quella di combattere il movimento ribelle di sinistra delle FARC, Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, e dell’ELN, Ejército de Liberaciόn Nacional.”

Uribe, il cui padre era stato assassinato dalle FARC, era percepito come favorito nella corsa elettorale a causa del suo odio per questi gruppi, specie rispetto ai politici tradizionali che avevano una reputazione di cercare il negoziato e la trattativa con questi gruppi.

Insomma Uribe si trovò in mano un incarico delicato alla cui risoluzione la collettività teneva particolarmente, per il quale era probabilmente più versato di altri. Ma con la paradossale conseguenza che sconfiggere “il nemico” avrebbe comportato la fine della propria desiderabilità come Presidente: sconfitti i terroristi, l’elettorato colombiano si sarebbe rivolto verso candidati più tradizionali o capaci di risolvere altri tipi di problemi.

Se voi foste stati Uribe, cosa avreste fatto? Quanto avreste realmente combattuto i terroristi? Non avreste forse preferito “mantenere vivo il nemico” così da risultare ancora necessario e non perdere l’incarico politico a cui magari tenevate particolarmente?

E’ quello che si sono chiesti 4 economisti di valore nel loro saggio – apparso questa settimana nella prestigiosa collana americana del NBER di Boston  - “The Need For Enemies”:  i colombiani Leopoldo Fergusson e Juan F. Vargas, assieme a James A. Robinson della Harvard University ed al norvegese  Ragnar Torvik.

Gli elettori, argomentano correttamente i 4, anche se non fossero stati ignari di questa tentazione per Uribe, non necessariamente avrebbero votato per un altro candidato: nell’incertezza avrebbero ben potuto risolvere il dilemma tra il votare il candidato più competente a sconfiggere i terroristi (ma meno disposto a combatterli) e quello che avrebbe magari provato a combatterli di più (seppure meno competente) a favore del primo. Così fu in Colombia, argomentano gli economisti con dovizia di dati, e così è spesso in politica.

Non sempre tuttavia. L’esempio più interessante che citano è quello di Winston Churchill, leader britannico (solo) durante la seconda guerra mondiale, non troppo amato dai suoi concittadini, ma prescelto per la sua ben nota capacità di combattere con efficacia, vigore e competenza il nemico tedesco. Non aveva forse Churchill un incentivo a non vincere la guerra pur di rimanere in carica? Ovviamente no: la sconfitta contro i nazisti avrebbe segnato la fine dell’Impero britannico e dunque anche di Churchill. In questi casi drammatici, sostengono gli autori, non si pone il dilemma e il conflitto d’interessi nel politico con un mandato specifico. Non solo, ma in un sistema elettorale come quello britannico, dove la rappresentanza è esercitata meglio a causa della maggiore responsabilizzazione dei politici eletti, il vantaggio di non “fare la cosa giusta” scema rapidamente con la rapida dismissione del politico incompetente.

Ma in altri casi, meno drammatici e in democrazie meno compiute?

In tre occasioni in cui Uribe avrebbe avuto la possibilità di tagliare per sempre la testa dei movimenti terroristici, mostrano gli autori con dovizia di dati e controllando per altri possibili fattori causali, quest’ultimo non ha affondato il colpo: diminuisce a quel punto l’attività dei militari contro i ribelli, invece che aumentare. Non solo, ma i 4 documentano come Uribe utilizzava le apparizioni elettorali specie nelle comunità in cui più ampia era la sensibilità alla lotta anti-terroristica, apparizioni a cui tuttavia seguiva un più ampio calo dell’attivismo dei militari contro i terroristi.

Mi chiederete perché vi parlo di queste cose. Intanto perché sono risultati interessanti di per sé. E poi perché richiamano alla mente tante possibili situazioni.

Una in particolare è quella dei tecnici esperti di economia chiamati in alcuni paesi europei in emergenza finanziaria a gestire la crisi come capi del Governo proprio per le loro specifiche competenze (compresa ovviamente l’Italia). Che incentivi hanno questi credibili tecnici a sconfiggere la crisi? Abbattuto lo spread, il nemico, che ragione avrebbero di essere considerati ancora come “utili per il Paese”?

Ci sono due motivi per cui potrebbe essere possibile l’assenza di sforzo da parte di un politico competente in Europa. La prima è che le cose “non stanno nelle sue mani”. In Grecia, per esempio, la questione della crisi è nelle mani dell’Europa ed è ormai irrilevante la posizione specifica del singolo Presidente del Consiglio (sempre in presenza di un sostanziale accordo dei cittadini greci ai sacrifici imposti dall’Europa).

Più complesso ed intermedio è il caso italiano.

Qualcuno ha già fatto notare sul Corriere (De Rita) come il nostro Presidente ha più interesse a mostrarsi attivo sul fronte estero che non sul fronte domestico. C’è un legame con quanto sopra? Forse sì.

Una democrazia imperfetta e “vicina ad essere commissariata” potrebbe avere un leader competente che può anche temere poco le conseguenze del “non fare” ed anzi si avvantaggia dalla continua sopravvivenza del nemico, lo spread (un “non fare” che certo può ben essere valutato dagli elettori nazionali, anche se questi hanno “poco potere” di disporre del leader). Al contrario, questi leader tecnici mostrano una particolare dipendenza dall’Europa che può deciderne facilmente le sorti individuali. Lo spread in questo caso può essere giustificato come dipendente da “effetti europei” non addebitabili alla mancanza di politiche in Italia (d’altro canto meno accertabili e comprensibili da parte di cittadini, politici ed organizzazioni estere).

Insomma lo spread e la confusione legata alle sue determinanti come potente alleato di un politico competente interessato a mantenersi al comando?

D’altro canto si potrebbe rispondere che la crisi europea è di una tale rilevanza e portata storica che, come per Churchill, non può esistere un conflitto d’interesse e che tutto lo sforzo è profuso per vincere questa decisiva lotta per il futuro del Paese e del continente. Molto possibile.

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The Need for Enemies in Europe?

If an agent is hired by a principal to work until a particular task is completed, then by completing the task the agent is putting himself out of a job. This phenomenon may be particularly important in politics. It is often claimed that some politicians are elected because they are “the person for the job” perhaps because they have a particular skill or comparative advantage. Once the job is over this skill will be less valued and the politicians, even if they have successfully completed the job for which they were selected, may be replaced…. In this paper we develop a political economy model of this need for enemies, showing how a politician who is good at undertaking a particular task has an incentive not to complete it fully since he needs to keep the task alive in order to maintain his strategic advantage in an election.”

From the Introduction of the newly released NBER working paper, “The Need for Enemies”, by Leopoldo Fergusson, James A. Robinson, Ragnar Torvik, and Juan F. Vargas.

They test their idea, with plenty of data and controls, on a relevant recent historical example: “We test these implications of our model using data from Colombia. In 2002 Alvaro Uribe was elected president on an explicit platform to  fight against the left-wing insurgent guerilla groups the Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) and Ejército de Liberación Nacional (ELN). Uribe, whose father was murdered by the FARC, was widely seen as having a major political advantage in his loathing for the groups, particularly relative to the traditional politicians who had a long history of trying to negotiate with them. Thus Uribe was a politician for the job who intensified the fight against the guerilla … our model suggests that Uribe’s incentive to attack the guerilla would have been mitigated by the fact that had he eliminated them, he would have removed his own electoral advantage. To the extent that Uribe valued rents from office as well as peace, this could have reduced his incentive to eliminate the FARC and ELN, just as our model predicts.”

So much for their very interesting paper. Which raised in my mind some analogies with the European crisis, especially the one of a few countries dealing with a deep financial crisis, well synthesized by high spreads on their sovereign issues of bonds.

Simply because some of these countries (Greece and Italy) have dealt with the recent crisis, at different moments, with the selection of a Prime Minister with technical economic expertise, widely perceived as the most capable of dealing with a financial crisis.

Would the Robinson et al. paper provide relevant implications also for the Greek and Italian management of the crisis? Relevant question. Is our PM Monti here to free ride on his well-deserved reputation not to implement the reforms Italy needs so as to remain in power?

Let me first start with Greece. Insofar as Greek Prime Ministers do not rule but obey the recommendations of the Troika, the model clearly does not apply.  There is no and there can be no opportunistic behavior on their part.

So maybe this is relevant also for other European countries that are under the spell of financial aid and conditionalities. Which leaves us with Spain and Italy. Spain is still relying on a politician with no specific “feature” of competence, a traditional politician we would say. In this regards, Spain remains the true European exception.

What about Italy? Monti? An interesting intermediate example. The more so as the famous “Italian spread”, to which Mr. Monti’s fate was linked from the beginning of his tenure, has not been able to decline and has sometimes dangerously flirted around the levels it was under his predecessor, Mr. Berlusconi, whose reputation at the time of his resignation was abysmal.

Indeed one might see a case for a high spread justifying the need to “keep Monti on the job”. While some Italians argue that Monti’s reforms so far have been ineffective and that his technical government should resign for having failed to meet expectations, the high spread in Italy is still playing the role of boosting the perception that Monti is needed for the job.

And anyway the Italian parliament seems absolutely unwilling/incapable right now to challenge Mr. Monti’s position.

A position which theoretically could be much more threatened by a lack of satisfaction at the European level. This is why some Italian commentators have argued that Monti these days is more keen on travelling across Europe that on looking into the nitti-gritty details of Italian economic policies. This would seem a rather dangerous strategy that might backfire: by not caring about his own turf he might create opposition in Europe. Three factors would however help him to stay firmly in command: a) the fear of a Berlusconi comeback, b) the imperfect knowledge abroad of the quality of Italian reforms and c) the ambiguity of the message sent by Italian spreads, currently being attributed more to the failures of Europe than to the ones of Italy.

Obviously there is another possibility for why Mr. Monti remains on board. The firm belief by everyone involved that he is not interested in politics but only in the future of Italy and Europe.

As the paper argues, “a salient historical example may be Winston Churchill who, though not particularly successful as a peacetime politician, was thought to be the man for the job in 1940 to lead Britain to victory in the Second World War as prime minister. As soon as the war was won in 1945, British voters, instead of rewarding him, immediately removed him from office… Winston Churchill … did the job (he was) appointed to do because the stakes were high. Not defeating Hitler would have been a disaster for Britain and Churchill. Churchill… (was) selected because … thought to be particularly good at removing a particular threat, Nazi Germany… and … (while) the stakes for society were high, the rents for the politicians were not because of the well functioning system of accountability.”

So overall, Mr. Monti might remain engulfed in this long war against the spread which is not going to be won easily for the reason we might appreciate the most: because he cares.

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Di Consip, degli sprechi e dell’Italia a cui teniamo

Buona domenica a tutti.

Credo di essere riuscito ad esplorare un minimo la questione Consip, società detenuta al 100% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ed incaricata di sostenere il Commissario Bondi nell’individuazione degli sprechi (sono stato Presidente Consip tra il 2002-2005 e non mi fa velo l’ammirazione per la struttura Consip ed il suo potenziale immenso all’interno della spending review al fine del successo della stessa).

Parlando con un dirigente presso la Presidenza sono riuscito ad appurare le seguenti cose:

a)    A Consip è stato chiesto per il 2013 di ampliare l’area della sua attività (gare che fanno riferimento per le altre pubbliche amministrazioni ma anche collaborazioni dirette con le altre amministrazioni e supporto alle verifiche dell’esito delle gare fatte non con Consip) in maniera decisamente significativa. E questo è bene.

b)    Eppure si vuole botte piena e moglie ubriaca. A quanto pare (anzi ne sono certo a questo punto), paradosso dei paradossi, i fondi per operare Consip li trae proprio dal capitolo di bilancio su cui vengono operati i tagli (quello dei consumi intermedi). E dunque per il 2013, l’anno in cui Consip deve dare il massimo per aiutare a raggiungere il traguardo del taglio agli sprechi … gli vengono per il secondo anno di seguito levati fondi per operare (per il 2012 Consip ha risolto facendo economie…). Folle.

c)     Un suggerimento: che a Consip, come viene fatto con altre “Consip” in altri Paesi del mondo, sia data la possibilità di aumentare i suoi finanziamenti con una piccola commissione da caricare sul fornitore: non è detto che quest’ultimo riesca a scaricare tutta la commissione sul prezzo finale ed è comunque un sistema flessibile che premia Consip se fa bene le sue gare (tanto più le sue convenzioni soddisfano i bisogni delle pubbliche amministrazioni tanto più queste verranno usate, tanto maggiori i ricavi da commissione da utilizzare per lavorare meglio per il Paese).

Rimane il (mis)fatto che segnalavo ieri: ma se veramente ci teniamo così tanto alla spending review, come è giusto che sia, perché tutta questa lentezza nel far girare a 1000 il motore della spending review? Io credo che i giornali che contano dovrebbero, invece della litania quotidiana sullo spread e sulle promesse agostane dei Ministri, aprire la loro prima pagina quotidianamente su questo problema fino a quando non sia stato risolto. Sempre che la stampa che conta ci tenga all’Italia più di quanto non tenga ai destini del singolo Governo di turno.

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La claustrofobia che ci attanaglia e ci uccide

Molto molto spesso continuo a sentirmi dire (non dagli ideologi liberisti), “sì, hai ragione, c’è bisogno di più spesa pubblica, più domanda interna, per rilanciare l’economia e ridare bellezza e vita al nostro patrimonio nazionale ed alla nostra capacità di sostenere col settore pubblico la produttività ed occupazione del settore privato, ma…

… Ma non ci sono i soldi.”

Un ritornello, premetto, già diverso da quello predominante e sempre più minoritario del “tagliare la spesa”, a conferma che pian piano si riconosce la bontà di quel che abbiamo sostenuto – un po’ minoritari ;-)   – in questo anno di blog. Ma non c’è spazio.

Anche oggi economisti di valore e non prevenuti come Tito Boeri oggi su Repubblica: “vero che oggi ci sarebbe bisogno di politiche di sostegno della domanda per rilanciare l’economia, ma purtroppo queste a noi non sono consentite per le dimensioni del nostro debito pubblico e la crisi di credibilità che attraversiamo”.

Non c’è spazio. Non c’è spazio. Non c’è spazio. Quanta claustrofobia in giro.

Quanti modi abbiamo per smontare la credibilità di questa litania?

Oh, tanti. Tantissimi. Perché tantissimi sono i vizi logici del ragionamento dei claustrofobici.

1)   Il vizio dell’ “impotenza europea”. Prendiamo (non sarà l’ultima volta) la fotografia di Boeri. Sembrerebbe dunque, analizzandone il negativo, che sia ovvio e giusto che perlomeno l’area dell’euro Nord persegua tale politica fiscale espansiva, visto che “non ha problemi né di debito né di credibilità”. Così facendo, perseguendo il suo stretto egoismo di rilancio della domanda interna, creerebbe, l’area del Nord, tantissimo spazio fiscale e di crescita per l’area del Sud via maggiori esportazioni. La crescita che ne seguirebbe, in Italia ed in Grecia, migliorerebbe i conti pubblici stabilizzandoli, creerebbe un senso di unità europea e farebbe dunque abbassare gli spread, e soprattutto abbatterebbe direttamente il rapporto debito-PIL, riducendo le ragioni à la Boeri che a suo avviso bloccano le possibilità di rilancio della domanda interna all’area euro Sud. La interessantissima intervista di oggi di Le Monde al Presidente greco  Samaras, tradotta  da Repubblica, è un ritornello costante: “la nostra priorità deve essere accelerare la ripresa economica e uscire dalla recessione”. Mi piace pensare che quel “nostra” si riferisca all’Europa nel suo complesso. Ma se così è, cosa impedisce a Monti e a tanti economisti claustrofobici perlomeno di chiedere a alta voce che siano i paesi dell’euro Nord a creare spazio per quelli del Sud? Spazio ce n’è. Sta di fatto che anche Samaras è vittima della claustrofobia imperante se chiede anche lui, testualmente, ”un po’ di respiro”.

2)   Il vizio della “circolarità del ragionamento”. Siccome il debito è alto, non si può rilanciare? No, il mancato rilancio rende “il debito” alto. Perché ho messo tra virgolette il debito? Perché non è vero che il nostro debito pubblico è alto. Non è vero. Non a caso in Europa non ci sono regole sul debito pubblico ma sul rapporto debito-PIL, indicatore della capacità di ripagare il debito che ha il debitore. Il ché significa che, anche se volessimo crearci un vincolo esterno di mancanza di spazio, imposto dai mercati, è quello di un PIL che non cresce. In fondo lo stesso debito pubblico italiano non preoccupava NESSUNO dei claustrofobici (né nessuno nei mercati finanziari) nel mitico primo quinquennio di vacche grasse dell’euro, quando c’era la crescita (drogata) e lo spread era a zero malgrado il debito italiano fosse in valore assoluto simile a quello odierno in valore reale (3,7% circa l’aumento in termini nominali da fine 2006, 1,7% circa in termini reali). Il problema del rapporto debito-PIL è dovuto al fatto che crisi finanziaria ed austerità autoimposta hanno generato un crollo del PIL ed un suo rallentamento tale da preoccupare i mercati della sostenibilità del debito stesso. Soluzione? In una crisi che è ciclica, bisogna mettere le mani sul ciclo, riavviando il “PIL congiunturale”, prima ancora di quello “strutturale”. Lo capisce bene anche un politico conservatore come Paul Ryan, candidato repubblicano alla Vice Presidenza Usa, che nel suo programma tutto orientato alla riduzione del rapporto debito-PIL avverte tutti che la soluzione non è certo la stupida austerità pro-ciclica europea che peggiorerebbe le cose, come è avvenuto in Grecia. Detta in un altro modo: è il maggiore PIL congiunturale che genera oggi un minore rapporto debito-PIL. E questo, come ha spesso ricordato Stiglitz, anche senza finanziare la maggiore spesa pubblica con maggiori deficit pubblici: il c.d. moltiplicatore del bilancio in pareggio, pari aumento di spesa e tasse, fa aumentare il PIL. “Aumentare le tasse, ma sei pazzo??” Non si può crear spazio con maggiori tasse, le maggiori tasse uccidono. Oh, davvero. Beh sappiate che le maggiori tasse le avete già davanti agli occhi, sono il frutto di manovre assolutamente folli fatte in questi anni di crisi, che hanno avuto come conseguenza che il Tesoro italiano abbia sbagliato le sue aspettative sulla crescita di ben 3,8 punti percentuali per il 2012. Un’inezia. L’effetto sul PIL e sui conti pubblici sarebbe stato ben migliore se quelle tasse che abbiamo alzato fossero state usate, in questa fase del ciclo, per espandere la spesa invece che ripagarci il debito, 50% del quale a investitori residenti all’estero che certamente con quei soldi non ci hanno fatto domanda di beni alle nostre imprese. Lo spazio c’era.

3)   Il vizio dell’”impotenza italica”. Che vuol dire quando Boeri parla di “mancanza di credibilità” che impedisce politiche espansive? Che il Governo Monti non è credibile? Ma allora a che serve? “Ma non è Monti che è poco credibile, è l’Italia coi suoi vizietti, sono i politici, con i loro sprechi”, mi si risponde. Ah, ecco, continuo a non capire. La credibilità la usiamo dunque a fini politici: c’è quando Monti è in difficoltà, non c’è quando Monti potrebbe usarla per fare di più di quanto si sia mai fatto in Italia, compreso per i tanti fondi europei finora tralasciati o lasciati scadere. Bella logica. Il che mi porta all’ultimo vizio dei claustrofobici.

4)   Il vizio del “qualunquismo”. Lo so, lo so, non ci credete al moltiplicatore di Stiglitz. Fate male. Incredibile che alcuni di voi credano ancora che l’austerità ci salverà dopo tanti fallimenti nostrani, mentre non siete disposti nemmeno a curiosare attorno ad un tentativo di politica fiscale espansiva  che non aumenta il deficit. Mah. Comunque, di voi claustrofobici ad oltranza, mi irrita solamente una cosa: l’assoluta indifferenza che mostrate verso la lentezza dell’adozione dell’unica manovra che, anche a vostro avviso, creerebbe spazio fiscale, quella della spending review e del taglio degli sprechi. Ma come, noi e voi concordiamo che dal taglio degli sprechi possa essere scovato un incredibile ammontare di risorse che si libererebbero senza tagliare il PIL e senza creare recessione, soldi che possono trasformarsi in maggiore domanda pubblica, generando maggiore PIL e migliori conti pubblici. Sembrerebbe dunque che attorno alla spending review dovremmo accentrare tutti i nostri sforzi, tutto il meglio della pubblica amministrazione, della stampa, degli economisti che dovrebbero essere dedicati a svolgere, monitorare, supportare questo compito. E invece siamo tutti qui, al Braccobaldo Show: inerti, qualunquisti, vaghi, compassati, ipocriti.

Di quanto sono stati aumentati i fondi per lo staff della Consip per supportare Bondi nella spending review? Ho il sospetto che questi soldi siano addirittura diminuiti e comunque, certamente, non aumentati. Andrebbero raddoppiati: robetta per noi contribuenti, immensi per la Consip e per l’individuazione degli sprechi e la qualità delle gare. Quanti ispettori abbiamo sguinzagliato per tutta Italia per verificare gli sprechi? Non mi risulta sia stato fatto nulla. E il non sapere cosa si stia facendo, badate bene, influenza i comportamenti degli spreconi, che finiscono per non preoccuparsi di sospendere il loro comportamento inefficiente. Quante stazioni appaltanti (sono un’infinità in Italia) sono state chiuse, accentrando un minimo i centri di spesa, d’imperio? Perché non è ancora vietato alle amministrazioni di fare appalti pubblici se non si è prima vidimato l’esito della gara raffrontando tra stazioni appaltanti prezzo e qualità? Perché non abbiamo ancora accentrato informaticamente tutte le informazioni sulle gare, con una spesa di qualche decina di milioni di euro? Perché non abbiamo ancora risolto la questione dei ritardati pagamenti per far crollare i prezzi delle gare pubbliche che ci caricano le imprese che sanno di essere pagate a babbo morto?

Poi oltre ai claustrofobici, certo, ci sono gli sventratori. Quelli che pur di creare spazio abbattono foreste e radono al suolo tutto quello che hanno intorno, quelli che dicono che si arresta il declino e si trovano le risorse abbattendo la dimensione dello Stato, facendo di tutta l’erba un fascio e ovviamente distruggendo gli incentivi dei migliori. A noi ci basta accontentarci di leggere il povero Sergio Rizzo (povero perché non ha ovviamente dati a supporto proprio perché i dati … forse non li ha ancora nemmeno Bondi) sulle pagine del Corriere dire che tutte le regioni e gli enti locali spendono che è uno schifo, e il giorno dopo leggere la bellissima lettera di risposta del sindaco di Bolzano che gli ricorda che non è assolutamente vero, che ci sono tantissime realtà locali (non solo a Nord ovviamente) che fanno l’eccellenza degli acquisti rispetto anche allo Stato e che implicitamente con la sua lettera conferma che nessuno sta controllando in maniera seria e non generica dove si spende bene e come si possono imitare queste gestioni di eccellenza, che ovviamente stanno sia al centro che in periferia, assieme agli sprechi.

Ma sì, continuiamo a dire che non ci sono i soldi, che non c’è spazio, ed a morire così di crisi, di panico o di asma, senza respiro. Oppure buttiamo giù tutto, creiamo spazi abbattendo senza riguardo per quanto di bello ed utile finora costruito con pazienza dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Eppure i soldi ci sono, sono una marea, bisogna avere la forza ed il coraggio di lottare ed organizzarsi in tutte le diverse sedi, europee, statali, locali per scovarli ed usarli bene, per il bene del Paese. Tutto il resto è uno sterile e triste show di fine agosto.