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La svolta di Draghi, i silenzi della politica, la morte dell’Europa

Faccio parte del partito di quelli che credono che Draghi stia facendo grandi cose. Una lotta importante per una politica monetaria più espansiva è una lotta per l’Europa, per muoverci verso preferenze della banca centrale più vicine al centro e meno sbilanciate verso la Germania. E’ un  pezzo di Europa che si sta costruendo, con il duro confronto, come è giusto che sia.

Il Financial Times riassume bene la sfida che l’italiano sta cercando di condurre in porto a favore dell’euro. E il problema non è certo la Bundesbank, che ben rappresenta, in maniera forte e chiara, un pezzo di storia della Germania. Il problema è di chi non rappresenta più nulla, per ignavia o per qualsiasi altro motivo, quello che per incarico invece è stato delegato a rappresentare.

Il problema è che oltre a Draghi e Bundesbank, nessuno sta ben rappresentando un altro pezzo di Europa: quello del lavoro e della crescita in un momento di terribile crisi da domanda aggregata che attanaglia molti paesi dell’area euro. In un momento in cui imprese e lavoratori chiedono la rappresentanza forte ed attenta dei loro interessi così importanti.

Le conseguenze di questa mancanza di rappresentanza stanno avvelenando l’Europa, lentamente.

Anche nei luoghi più insospettabili, come la BCE. Così purtroppo, per tenere calma la Bundesbank, senza alleati forti accanto, Draghi deve fare concessioni che non gli spettano, che spettano ad altri. Mi sia concesso di spiegare perché.

Orgogliosamente Draghi rivendica indipendenza per la BCE.

P.S. sull’indipendenza: Forse eccessivo è stato il suo sorriso e diniego quando alla conferenza stampa un giornalista gli ha chiesto se prevedeva di presentare la sua politica monetaria ai Capi di stato nazionali: presentare la politica ai Capi di Stato non è dipendenza come Draghi sembra temere ma accountability, è onorare cioè la propria indipendenza con informazione trasparente ad ogni Stato che ha situazioni diverse e dunque esigenze di ascoltare per capire meglio cosa fa Francoforte, quanto ha fatto e quanto intende fare. Lo so, è fantascienza oggi ma dovrebbe essere nell’agenda di riforma della BCE di domani.

Ma torniamo a noi. Orgogliosamente Draghi rivendica indipendenza per la BCE. Ma chi rivendica orgogliosamente il mandato a stabilizzare l’economia in recessione da domanda che certamente non spetta a Draghi?

Il problema è serio, perché, in absentia, Draghi e la BCE se ne stanno occupando. Draghi sostiene (minuto 55) che la politica monetaria è necessaria ma non sufficiente. Primo perché servono austerità e riforme, come ha sempre sostenuto. Secondo, ed ecco la novità o la frase chiave: “Conditionality is essential”. Da ora in poi la BCE condiziona la sua politica alle riforme ed alla austerità dei governi. In assenza di austerità e riforme non si muove più. E la mia controparte (“counterpart” è la parola che Draghi usa) in ciò, con cui dialogherò, non saranno i governi  (ciò minaccerebbe la mia indipendenza) ma “saranno i fondi EFSF ed EFM” che certificheranno se le politiche economiche dei governi vanno bene e dunque se posso attivarmi con la politica monetaria a sostegno.

Siamo dunque ad un passo dal commissariamento delle politiche economiche (fiscali) degli Stati nazionali. La prossima mossa, la prossima crisi dello spread porterà certamente alcuni governi a ricorrere al finanziamento condizionato all’austerità, abbandonando la loro sovranità sulle politiche fiscali.

C’è un problema legale di rispetto della Costituzione italiana ed europea in questo che lascio ai miei amici giuristi.

A me preme sottolineare come le condizionalità che ci imporranno i fondi europei saranno esattamente identiche a quelle che sinora hanno fallito miseramente in Spagna ed anche in Italia. Anzi peggio, saranno come quelle dove effettivamente sono state attuate, in Grecia, generando enorme instabilità politica, sociale ed un forte (ma per fortuna ancora minoritario) movimento anti-europeo. Nessuna crescita, nessuna stabilità dei conti pubblici, sia chiaro. Recessione e debiti pubblici impazziti.

Sono le condizionalità che generano recessione ed instabilità dei conti pubblici. Sono le politiche fiscali espansive che salvano i conti pubblici, l’occupazione, l’Europa, in un momento di crisi da domanda aggregata. Ripeto, lo insegniamo da trent’anni all’università proprio in attesa di questo momento, come a un esperto di protezione civile si insegna in tempi calmi cosa fare in quei rari momenti chiamati tsunami.

Draghi sa che cedere la politica monetaria ai politici è dannoso. Ma non sa che cedere all’austerità tecnica la politica fiscale è altrettanto micidiale.

Come Draghi affronta la Bundesbank, così Monti, Rajoy e Hollande dovrebbero affrontare la Merkel. Solo dal confronto e dallo scontro può emergere l’Europa. Ma se questo confronto è evitato, l’Europa muore. Il Consiglio europeo, i primi ministri dell’area dell’euro, dovrebbero dire a Draghi: alle politiche fiscali che servono per restaurare la crescita ci pensiamo noi, nella nostra piena indipendenza, stai tranquillo. E poi agire di conseguenza. Con le politiche fiscali espansive come quelle di cui ha bisogno l’area euro.

Se la politica, che rappresenta le persone, cede le sue prerogative, muore l’Europa politica, muore l’Europa.

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Un altro oro all’Italia – Another Italian Gold Medal

Sotto troverete il testo del comunicato con cui il Presidente della Banca Mondiale Jim Kim ha annunciato la nomina a Chief of Staff  del Presidente di Laura Frigenti, cittadina italiana.

Alla Banca Mondiale dal 1994, con una lunga e bella carriera di esperienza internazionale sul campo, alla Dott.ssa Frigenti (che non conosco) vanno i nostri vivissimi complimenti, ed un augurio per tante altre soddisfazioni. L’Italia può dirsi orgogliosa di questa nomina.

Laura Frigenti has been named Chief of Staff of World Bank President Jim Kim (see below his communiqué). Italy is proud! Our warmest congratulations to Dr. Frigenti.

I  am pleased to announce the appointment of Laura Frigenti as my Chief of Staff/ Director of the Office of the President. Laura, an Italian national, is currently Director for Strategy and Operations in the Africa Region.

Since joining the Bank in 1994, Laura has held several positions including Lead Specialist for Social Protection in the Africa Region; Country Program Coordinator for Turkey; Sector Manager for Human Development for Eastern and Central Africa; Country Director for Central America; and Director for Strategy and Operations in the Latin America and Caribbean Region. Prior to joining the Bank, Laura worked in various positions in the Italian Government and in the United Nations. Laura brings a broad set of skills including hands-on experience of country and sector operations, and a strong track record of innovation both in operational work and management style. These skills will serve us well as we continue implementing a complex modernization agenda for the institution, and broadening the range of services offered to our clients. I am delighted that she has agreed to assume this post.

I would also like to take this opportunity to extend my deep appreciation to Lisa Finneran for assisting me as Transition Director during this initial phase of my tenure and to Alex Ferguson who did double duty supporting me prior to my arrival while acting as Chief of Staff for Bob Zoellick.

Laura was selected to this position as part of the Bank policy for strategic reassignment. She will take up her position on July 23.

Jim Kim

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Albus Silente e non Voldemort: dove sbagliano Alesina e Giavazzi

Rizzo ed Alesina e Giavazzi sostengono che quando lo spread si abbassa le riforme rallentano; ovvero che queste ripartono quando lo spread sale. Io credo invece che lo spread salga perché le riforme non partono, restano ai box. Basta guardare alla spending review: dove stanno gli ispettori? Li abbiamo licenziati, anche loro, o li stiamo sguinzagliando per il territorio a controllare le gare d’appalto? Se la gente non sa che è sorvegliata concretamente, non teme e dunque continua nel tran tran di spendere male. E i mercati lo sanno e ci puniscono.

Un giorno, quando avremo abbastanza dati e noi saremo forse in pensione, qualche giovane ricercatore si incaricherà di dimostrare chi aveva ragione. Ma a noi importa salvare l’euro, non  scrivere un bel lavoro di ricerca scientifica.

*

E dunque concentriamoci sul breve pezzo di A&G di stamane sul Corriere. Mamma mia, che confusione.

Iniziano il pezzo sulla crescita economica. Che non c’è. Non solo in Europa, ma nel mondo. Tirano fuori i dati americani, dove mostrano come la crescita Usa è calata (assieme al calo della spesa pubblica dal 2011 in poi fino ad allora a supporto del ciclo negativo). E non si chiedono perché questa crescita non c’è. E non si premurano di indicare come uscire fuori da questa crisi che loro stessi ammettono non essere legata alle riforme, ma al ciclo mondiale, sostenuto e aizzato dall’austerità europea, che ha portato Obama addirittura a precipitarsi col suo “ambasciatore economico” al capezzale europeo per convincere tutti i 27 nani dell’esigenza di piantarsela con l’enfasi recessiva.

Certo poi accennano a come “compito delle banche centrali è attenuare queste fluttuazioni”. Rido (o piango) 2 volte. Primo perché non è vero, lo statuto della BCE non prevede questo compito anticiclico, unica banca centrale al mondo o quasi. Magari lo dicesse, lo Statuto, questo. Secondo, perché mi viene spontaneo esclamare: “ma allora … allora è un problema ciclico, non strutturale! Quindi siete d’accordo che va curato non (solo) con le riforme ma con maggiore domanda?” Mamma mia che confusione ragazzi.

Le incongruenze non finiscono qui. Si cita il Giappone (forse a ragione) come buon esempio per la sua strategia di autarchia finanziaria fatta di titoli di stato detenuti all’interno, ma poi lo si critica per la sua bassa crescita che, come abbiamo detto già molte volte, non è vero che ci sia stata. E tutto questo pur di evitare di adottare la formula giapponese fino in fondo: ossia di stimolare la domanda pubblica per evitare la recessione.

Si cita la possibilità di “addirittura obbligare famiglie e banche a vendere titoli esteri e acquistare Btp a tassi regolamentati, come accadeva negli anni Settanta”, eppure poi viene vista con orrore la possibilità che la BCE si sostituisca “ai governi acquistando titoli pubblici per motivi di bilancio”, come invece veniva, anche questo, fatto negli anni settanta.

Ma non è finita. Poche righe dopo si legge, in contraddizione totale con quanto sopra, che “è probabile che ormai l’unico modo per salvare l’euro sia consentire alla Bce di acquistare”. Ma, aggiungono i nostri “questi acquisti non potranno essere senza condizioni, o basati su semplici dichiarazioni di intenti. Per ottenere l’aiuto della Bce si rischia di dover accettare, e sarebbe una sconfitta, una limitazione della propria autonomia di bilancio.”

Ecco. Ci siamo. Alla fine io l’ho trovato, in questa frittata di raccomandazioni senza rigore, il filo rosso che unisce i loro ragionamenti. Un timore atavico, preistorico, dell’unica soluzione, addirittura impronunciabile, come fosse il Lord Voldemort di Harry Potter, che i nostri amici non riescono a tollerare: l’ingresso in campo dell’unico attore che può (assieme all’azione, senza se e senza ma, della BCE) risolvere la crisi. Lo Stato.

No, che sa chiaro, per me lo Stato non è Harry Potter. Harry Potter continua a essere il settore privato, specie le piccole imprese: è quello che ci salverà, la gioventù, il coraggio, la forza, il dinamismo di tutto quello che è nuovo e innovativo.

Ci sono due Stati.

Lo Stato che io voglio combattere è quello del Ministero della Magia, di Cornelius Caramell (Cornelius Fudge), quello che mette ostacoli su tutto e su tutti, che opprime e deprime. Facciamone a meno di questo Stato. Ogni giorno distruggiamolo un po’ di più.

Ma io non voglio che Harry Potter sia lasciato solo, lo voglio protetto da un grande Ministro, da Albus Silente (Albus Dumbledore), che esiste eccome. Voglio e so di potere ottenere uno Stato forte e non prevaricante, intelligente e solidale che permetta ad Harry Potter di crescere tranquillo, studiando ed inventando, e non distraendosi e combattendo forze oscure e oppressive.

Cari A&G, leggete Harry Potter, sognate l’Europa dei popoli, protetti dal male e dalla miopia e artefici di valori e bellezza. Scoprirete che la battaglia si vincerà quando Harry Potter e Albus Silente, alleati, sconfiggeranno il male e la stupidità. Ma per farlo: insieme, mai separati.

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Quando è la politica fuori corso che va tassata

OK. Si parla di aumentare le tasse universitarie.

Facciamo un esempio di una università.

Allora, immaginate che per metter su questa università si debba spendere 50, magari per i professori. Per esempio, devo pagare 2 insegnanti (25 euro l’uno), ognuno dei quali insegna rispettivamente ad un solo studente: Paolo e Giovanna (lezioni private? wow). Questo 50 è anche quanto vale l’università in totale. Diciamo cioè che il valore per Paolo e Giovanna di seguire questi 2 corsi è di 25 euro, per ciascuno di loro.

Ultima ipotesi: i 50 euro per sostenere la spesa dell’università li otteniamo dalla fiscalità generale e non da rette universitarie agli studenti. Così la finanziano anche quelli che non vanno all’università. Magari, come abbiamo visto nel post di ieri, i meno abbienti, e cioè né Paolo né Giovanna, ma Francesco, il più povero.

Ecco lo schema:

Come vedete, Giovanna effettivamente paga 15 di tasse (rosso) ma riceve 25 di valore (verde): su un reddito di 50 il suo guadagno di 10 equivale ad una tassa negativa (un sussidio) del 20% del suo reddito.

Francesco invece, che lavora, paga con le sue tasse lo studio di Paolo e Giovanna.

I dati del post di ieri grosso modo confermano che l’università è una tassa sui poveri a favore dei ricchi.

Ora pensate di muovervi verso un mondo dove si tassa chi segue l’università, modello anglosassone.

Ecco lo schema:

Nell’esempio facciamo pagare lo stesso ammontare ad ogni studente frequentante. Sempre 50 otteniamo dalle tasse (stavolta in forma di rette universitarie) per finanziare gli insegnanti. Ma notate che alla fine è come se nessuno le pagasse: né Francesco, ma nemmeno Giovanna e Paolo che ricevono in valore quanto pagano di tasse.

Lo so, è molto irrealistico come schema. Ma illustra bene due cose: la regressività dell’attuale schema basato in gran parte sulla tassazione generale, e il fatto che  lo schema di tassazione non risolve il problema chiave descritto ieri nel blog, e cioè che Francesco non va all’università,  in nessuno dei due casi.

Mi sembra un vero problema, visti i numeri (vedi di nuovo post di ieri), decisamente più rilevante rispetto a quello di tassare i fuori corso (appena inserito nei provvedimenti governativi), questione risolvibile senza tanto fracasso obbligando l’università a laureare in 3 anni, come se si andasse a scuola.

Anche perché portare – come ci chiede Europa 2020 – i nostri laureati dal 18% al 40% (ultimi o quasi nell’Unione europea) nel giro di pochi anni certamente richiede di agire sulla leva dei meno abbienti che non vogliono iscriversi. Ora, non è che dobbiamo obbligarli perché lo dice l’Europa (anche se l’Europa lo dice perché una società che va basata su servizi ed innovazione difficilmente si può accontentare di avere giovani solo diplomati): nell’esempio fatto sopra Francesco non va all’università perché non ne vede i benefici. O perché non ne percepisce i vantaggi o perché i costi (rinuncia al salario) potrebbero essere troppo alti.

E non ne vede i vantaggi in parte perché gli extra-salari derivanti dall’andare all’università in Italia non sono così alti (meno del 10%, vedi sotto), sia perché i rendimenti non monetari ma sociali (imparare ad interagire con altri, fumare di meno, ecc.) non sono percepiti come significativi, e infine perché i genitori (vedi post di ieri) che non hanno studiato all’università non vedendone i vantaggi non spingono i loro giovani verso una scelta ritenuta anomala.

Ognuna di queste problematiche ha una sua soluzione:

-         i salari bassi post università sono anche figli di una economia che stenta a crescere, che innova poco anche perché non la si lascia innovare (oneri burocratici in primis);

-        mentre il resto necessita un approccio più proattivo che potremmo adottare per far percepire ai più bravi e meno abbienti i vantaggi di una istruzione avanzata o tecnica. Come dice Paola Giuliano, a parità di talento (voto alle medie) dei ragazzi, un padre con uno scarso livello d’istruzione riduce di oltre il 50% la probabilità che il figlio frequenti il liceo, anche se questo pregiudica le chance di successo e di completamento degli studi universitari, legate al tipo di istruzione superiore conseguita: “una volta che ragazzi di talento di famiglie non abbienti scelgono la scuola superiore “giusta”, il liceo, le loro possibilità di terminare l’università sono poco diverse da quelle di ragazzi provenienti da famiglie abbienti”. Per risolvere questo “circolo vizioso dell’istruzione” è necessario dunque agire prima: per esempio, una capillare campagna di informazione, prima del termine della scuola dell’obbligo, sul valore dell’istruzione.

Aumentare le tasse universitarie dunque aumenta il costo per chi frequenta, non un dramma per i più ricchi, ma rende ancora più difficile il difficilissimo tentativo di attrarre i talenti meno abbienti.

Allora quando cominciamo a lavorare per finalmente rimuovere le barriere alla mobilità sociale dei giovani? Quando? E’ alla nostra portata. Altrimenti mettiamo fuori corso la politica che non ci prova nemmeno.

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Quel conflitto d’interessi della BCE quando gli si affida la vigilanza bancaria

E così dal Premio Nobel Paul Krugman apprendo dell’apertura da parte dell’Ombudsman (mediatore) dell’Unione europea, Nikiforus Diamandouros, di una inchiesta sul potenziale conflitto d’interessi di Mario Draghi in quanto membro del Gruppo dei 30.

Un gruppo di, appunto, 30 persone creatosi nel 1978, che si autodefinisce organizzazione internazionale privata, no-profit composta da rappresentanti molto senior del settore privato e pubblico e dell’università (da qui Krugman, che ne è membro), che discute e approfondisce tematiche economiche e finanziarie internazionali.

Sul sito del mediatore europeo possiamo leggere che tale inchiesta è stata aperta sulla base di una denuncia che ricorda come “la partecipazione al G30 del Presidente della BCE è incompatibile con l’indipendenza, reputazione ed integrità della BCE” e che dunque “la BCE dovrebbe chiedere al suo Presidente di ritirarsi da tale gruppo”.

Entro ottobre è attesa la risposta della BCE se tale posizione può costituire conflitto d’interessi. Krugman, per parte sua, membro del G30, si sorprende che si discuta di ciò, essendo il G30 meramente un “talk shop” e non una “lobby”.

Guardando la lista dei 30 (che non conoscevo) noto che fanno parte di tale gruppo:

1) Gerald Corrigan, Managing Director, Goldman Sachs Group, Inc.;

2) Guillermo de la Dehesa Romero, Director, Grupo Santander

3) Arminio Fraga Neto, Founding Partner, Gavea Investimentos;

4) Gerd Häusler, CEO, Bayerisch Landesbank;

5) Guillermo Ortiz, President and Chairman, Grupo Financiero Banorte;

6) David Walker, Senior Advisor, Morgan Stanley International, Inc.;

7) Axel A. Weber, Chairman, UBS.

E tanti professori nonché Governatori di Banche centrali.

A me la questione pare ovvia: nel momento in cui si sta discutendo di affidare la vigilanza bancaria europea alla BCE, Mario Draghi dovrebbe dimettersi dal G30. Perché sappiamo che per esserci conflitto d’interessi basta che vi sia la parvenza dello stesso. E Dio sa se tutti quei banchieri sopra elencati che la  BCE dovrà sorvegliare non appaiono come una minaccia all’indipendenza di giudizio del regolatore.

Oppure, meglio ancora, smettiamo di discutere di affidare alla BCE la Vigilanza Bancaria (sono faceto, ovviamente, ma sapete che proprio per queste ragioni io sono contrario alla vigilanza bancaria europea nella BCE).

Così tra parentesi dovrebbe fare, penserei, Lord Adair Turner, Presidente della Financial Services Authority britannica e membro del G30.

Ma penso che tutti siano d’accordo, Draghi compreso, e che ben presto egli si dimetterà dal G30. Problema chiuso.

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Altro che biscotto Croazia-Spagna: il Cucciolone euro-dollaro

Quando l’Italia agli Europei non sconfisse la Croazia mise il proprio destino in mani altrui. Pessima idea. Alla fine è andata bene perché Spagna e Croazia se la sono giocata, ma non è mai una buona idea farlo.

Eppure è quello che incredibilmente ha fatto Obama, confessando di mettere nelle mani del suo “Ministro” Geithner e del suo viaggio in Europa le rimanenti speranze di rielezione.

 

Dipendere dall’Europa e dalla sua crescita immediata per vincere le elezioni è molto rischioso. Anche perché l’Europa la domanda interna ha un po’ scordato cosa sia. E anch’essa dipende dalla… domanda degli altri (net exports).

Ah se Obama avesse continuato dopo il 2009 nel suo coraggioso esperimento di spinta sulla spesa pubblica (rosso). Lo dico non solo per lui e per le sue probabilità di rielezione, ma anche per noi, egoisticamente, con una crescita Usa più forte (blu), saremmo decresciuti meno…

E il bello di questo biscotto è che è un… Cucciolone, un  bel doppio biscotto. Perché se gli Usa dipendono dall’Europa, è vero anche che noi abbiamo deciso di scordarci la domanda interna, la spinta alla spesa pubblica, sana, utile, in questo momento, terrorizzati, viviamo paradossalmente … della spesa altrui per piazzare la nostra produzione.

E così, rischiamo di perdere tutti, a meno che qualcuno non prenda coraggio e ricordi a tutti che, in tempi di crisi da domanda, la spesa di uno è il reddito dell’altro.  E che dunque val la pena insieme spendere qualche migliaia di miliardi per spingere il mondo via dalla crisi.

Alla fine, senza biscotto, è sempre più bello.

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Quando la classe operaia non va secondo l’Istat in paradiso

Domani parliamo di tasse universitarie. Per ora leggetevi questi fatti stilizzati tratti dal rapporto ISTAT 2012, sono utili per capire dove è il problema italiano.

Il raggiungimento di elevati livelli di istruzione, può fornire maggiori opportunità di occupazione, percorsi lavorativi più dinamici e, attraverso il lavoro, consentire l’accesso alla mobilità sociale verso l’alto. Tuttavia, se le scelte di iniziare un percorso scolastico invece di un altro, gli anni dedicati a percorrerlo e gli esiti al termine di esso dipendono fortemente dall’origine sociale, l’istruzione non riesce a svolgere la sua funzione di promozione sociale e le disuguaglianze tra classi tendono a riprodursi e a permanere nel tempo.

da Rapporto ISTAT 2012 (cap. 4) che aggiunge:

1)   55,4 per cento dei figli della classe operaia ottengono un diploma di scuola secondaria superiore o universitario, contro l’89,1 per cento tra i figli della classe sociale più agiata, e tale distanza si conferma soprattutto con riferimento al conseguimento del titolo universitario. Infatti, la percentuale di chi acquisisce la laurea è molto diversa tra classi: si va dal 43 per cento dei figli della borghesia della generazione dei nati nel periodo 1970-1979 al solo 10 per cento di quelli della classe operaia;

2)   Rispetto al raggiungimento di un titolo universitario, la vera selezione avviene all’ingresso: si iscrive all’università il 55,8 per cento dei figli della borghesia della generazione del 1970-1979, contro appena il 14,1 per cento di quelli della classe operaia, a sottolineare che la selezione avviene già dal momento dell’iscrizione.

3)   Il titolo di studio dei genitori è elemento fondamentale nel percorso di istruzione dei figli, per tutte le classi sociali. Per esempio il titolo di studio del padre è determinante nel successo scolastico degli iscritti alla scuola secondaria superiore: ogni cento nati negli anni ‘70, il 35 per cento dei figli di padri con al massimo la licenza di scuola media ha abbandonato gli studi senza conseguire un titolo secondario superiore, rispetto al 7 per cento che si registra tra i figli di genitori con titolo di studio più elevato. Ma,  nell’ambito della borghesia, consegue un titolo universitario il 51,9 per cento di quelli che discendono da chi ha un titolo di scuola superiore o la laurea; il 19,5% per cento di figli di operai consegue un titolo universitario quando il padre ha completato gli studi secondari superiori o post-secondari.

4)   Nelle generazioni più giovani, l’elemento di discriminazione fondamentale tra classi sociali nel conseguimento del titolo di scuola secondaria superiore non è tanto la differenza nelle iscrizioni, quanto quella relativa agli abbandoni prematuri, i quali si mantengono a livelli molto elevati, pur se in diminuzione nel corso del tempo. I figli degli operai nati negli anni ’70 che hanno abbandonato la scuola superiore sono ancora il 37 per cento del totale dei giovani di quella generazione, contro l’8,7 per cento dei figli della classe sociale più alta.

5)   Molto meno selettivo rispetto a quanto visto per la media superiore è l’abbandono prematuro degli studi universitari, oscillando tra il 16,1 per cento dei figli della borghesia nati nel 1970-1979 e il 22,7 per cento dei figli della classe operaia (in aumento nel tempo).

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In cerca di un Roosevelt europeo

Nel suo discorso inaugurale il 4 marzo del 1933 (notissimo per la frase “l’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa”), il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt (FDR) si espresse così al riguardo dei banchieri di Wall Street: “i mediatori di denaro sono fuggiti dai loro alti seggi nel tempio della nostra civilizzazione. Adesso possiamo ripristinare le antiche verità nel tempio. La misura di tale ripristino è nel quanto applichiamo valori più nobili del mero profitto”.

Era solo l’inizio di una lunga battaglia, che percorse il New Deal di quegli anni, tra Presidente e sistema bancario. Lo dimentichiamo a volte, ma il New Deal fu anche una battaglia ridistributiva tra sistema finanziario ed altri interessi, compreso quello manifatturiero e sindacale, che spesso ottennero la protezione del Presidente, specie (ma non solo) grazie alle sue politiche fiscali espansive ed al suo programma di lavori pubblici ed a favore dell’occupazione.

Così se a Obama molti devoti democratici (compreso il premio Nobel Krugman) rinfacciano di non avere spinto abbastanza sull’acceleratore promesso della spesa pubblica di appalti e oggi si ritrova con una economia che non tira a sufficienza per garantire il risultato elettorale, è perché molti di quei fondi sono stati destinati a salvare il settore bancario, come dimostrò il forte scontro dentro l’amministrazione tra Christina Romer e Larry Summers da un lato e Timothy Geithner e Peter Orszag dall’altro (splendida e elegante l’intervista a Christina Romer).

Raquel Fernández è una valente economista che da tempo cerca di capire il ruolo che giocano, nel capire le politiche fiscali adottate, la diversità delle lobby e il diverso livello di coesione all’interno di una unione fiscale.

La sono andata a rileggere masticando (blog di ieri) dentro di me le parole di Draghi sul fatto che l’Europa è più coesa degli Stati Uniti. Ovviamente non lo è, l’Europa è fatta di tante economie certamente coese al loro interno, che esigono però di ricevere somme per i loro interessi nazionali all’interno dell’erogazione di fondi europei, compresi quelle per uscir fuori dalla loro recessione. Ci sono dunque, in Europa, come attori principali: i singoli paesi, con le loro esigenze nazionali di fronteggiare “la loro” crisi e il sistema bancario con la sua esigenza di ottenere risorse pubbliche.

L’intuizione dei lavori scientifici della Fernández è che al crescere delle lobby, la redistribuzione specifica a particolari interessi (per esempio le banche) sottrae risorse alle classi o ai paesi meno abbienti (e meno organizzati) a meno che questi non trovino forte rappresentanza (come avvenne con FDR). Mano a mano che crescono tuttavia in numero i singoli gruppi e loro specifiche esigenze diventa alla fine impossibile il realizzarsi di coalizioni per ottenere redistribuzione a proprio favore.

La mia impressione è che, in assenza di un “FDR europeo” che rappresenti le classi meno abbienti, la crescita del contagio “sociale europeo” dalle piazze stia aumentando la forza contrattuale ed elettorale delle classi e dei paesi meno abbienti e ciò rende più difficile ridistribuire risorse pubbliche a favore delle banche come venne fatto rapidamente all’epoca della Grecia.

Il risultato finale? Come usare i soldi dei contribuenti in Europa? Per le banche o per il settore reale?

Il rischio di questa crescente contrapposizione di lobby è: o il caos più totale e l’inazione, o la creazione di nuove alleanze che contendano i fondi alle banche al tavolo europeo.

Mentre la Spagna è divisa al suo interno (dare i soldi alle banche o ai lavoratori in piazza?), altri paesi lo sono meno: Italia e Francia per esempio. Queste nuove coalizioni potrebbero portare ad una politica fiscale europea che non ridistribuisce più così tanto le entrate fiscali al sistema finanziario ma all’economia reale, magari con appalti pubblici, come fece FDR.

Se Monti si schierasse con Hollande per un maggiore focus di sostegno concreto sull’economia reale potremmo vedere dei cambiamenti decisivi al tavolo politico europeo. Per il bene di tutti.

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Il calabrone euro di Draghi a cui non insegnano come volare

Deve essere dura la battaglia in corso alla Banca Centrale Europea, tra Draghi e la Bundesbank. Tuttavia una cosa è certa: i mercati e le loro reazioni dimostrano che una buona parte degli eccessi di spread sono legati ad un sentimento di inazione sugli acquisti dei titoli di Stato da parte della BCE. Quindi forza Draghi, avanti.

Eppure la metafora utile di Draghi sul calabrone euro non vola lontano. E’ utile perché mette in risalto gli errori di visione che condannano l’euro al di là della politica monetaria.

Rileggiamola (mia traduzione):

il calabrone è un mistero di natura perché non dovrebbe volare ma invece lo fa. Dunque l’euro è stato un calabrone che ha volato bene per molti anni. E ora, e credo che la gente si chieda “come mai”, ora qualcosa deve essere cambiato nell’aria con la crisi finanziaria che prima non c’era e lo faceva volare, ora il calabrone deve crescere e diventare un’ape vera. Ed è quello che sta facendo.”

Ecco i miei tre appunti a una simile metafora, da economista entomologo:

1)    I calabroni sono già vere api e non diventano null’altro. Pensatele come unioni monetarie, i calabroni. Come l’unione monetaria degli Stati Uniti, grande ma capace anche malgrado ciò di volare, malgrado la sua grande complessità. Le api normali, sono come la Gran Bretagna: più leggere, gestibili e … meno potenti. Non a caso su Wikipedia ho scoperto che il calabrone può pungere più volte mentre l’ape una sola: le unioni monetarie sono cose potenti, che permettono ai suoi stati membri di essere più efficaci e forti, in senso geopolitico.

2)     Perché volano i calabroni? Beh se vi guardate i filmati, vedrete che sbattono le loro ali molto velocemente, con movimenti ripetuti potenti. Contrariamente a quello che si crede, che le battano in una sola direzione, le muovono con colpi verso l’alto e verso il basso. Ecco perché l’euro non è (ancora?) un calabrone potente, perché non sa muovere bene le ali. Non è veloce, questo lo sappiamo, e tende a muovere le ali in una sola direzione:  nel primo quasi-decennio della sua esistenza, di crescita economica, ha acquisito una reputazione anti-inflazionsitica ottima,  peccato che nella fase di recessione non abbia saputo guadagnarsi altrettanta reputazione con politiche economiche volte a lottare contro l’austerità. E dunque, data questa sua debolezza, per di più di giovane calabrone inesperto, è più a rischio di sopravvivenza.

3)     Eh già, perché ancora su Wikipedia leggo che molte specie di calabroni stanno scomparendo. Sterminate. Dunque, come ben sappiamo, non c’è nulla di irreversibile nell’euro. E bisogna darsi da fare per salvarlo, questo calabrone euro.

Calabroni deboli e calabroni forti. Certo, è sempre così presso Madre Natura. Mario Draghi ritiene che l’euro faccia parte dei secondi. Addirittura nel paragonarlo al calabrone Usa dice che è più forte di questo anche perché “… ha un grado di coesione sociale che non trovereste negli Usa”.

Questo è il problema col fare il banchiere centrale: ci si abitua a pensare che tutto nella vita sia come l’inflazione. E dunque che per capire come va l’Europa basta fare la media di quello che avviene nei singoli paesi. Ma la coesione euro non è la media delle coesioni nazionali dei paesi euro, tutt’altro. Sarà pur vero (?) che Italia e Germania al loro interno sono più coese di Alabama e Massachusetts, ma quello che conta, per la coesione di unioni monetarie, è sapere se Italia e Germania sono coese tra loro. E qui la battaglia con Alabama e Massachusetts, col calabrone Usa, diventa veramente impari.

Di mancanza di coesione questo calabrone euro rischia di morire: ma non per motivi tanto di incompetenza o cattiva volontà. Semplicemente perché è giovane, non ha naturalmente imparato come volare bene, coeso. Agli Stati Uniti, calabrone che ha più di 200 anni, ci sono voluti tantissimi anni per imparare, grazie ad una Storia in comune che ha lentamente rafforzato i loro legami, tra stati. C’è stato un tempo – tanto tempo fa – in cui il calabrone Usa era debole come quello euro oggi, ma ha superato le intemperie, vuoi per fortuna o buona volontà, ed è sopravvissuto.

Come per volontà? Ci sono tanti episodi. Ieri a tavola qui a Boston mentre raccontavo questa mia visione ad anziani americani, questi annuivano: uno mi diceva di come tanto fece per l’Unione Usa la decisione di Truman dopo la guerra mondiale, nel 1948, di integrare le forze armate malgrado le differenze razziali, contro quello che con tutta probabilità sarebbe stato il parere dei parlamentari degli Stati del Sud.

Tanto avevano dato i soldati afroamericani per la vittoria in guerra. Ma tanti ancora vi si opponevano. Atti di coraggio politico, largamente basati su scelte impopolari e dove regna sovrano l’elemento non tecnico, ma culturale e politico.

Io economista entomologo segnalo solo l’ovvio: che l’austerità asimmetrica aumenta la mancanza di coesione sociale europea, affievolisce il già debole calabrone. E che, paradossalmente, le nostre politiche economiche proprio per questo dovrebbero essere, in questa recessione, ancora più espansive di quelle statunitensi, che si possono permettere di resistere più a lungo grazie ad una già forte coesione nazionale. Ma così è, la recessione si continua a combattere più negli Usa che nell’area euro.

Sì lo so, ci sono i teorici del trapianto, credo che Draghi faccia parte di questi: di quelli che vogliono attaccare al piccolo calabrone europeo ali più grandi di quelle che può sostenere, con una unione politica che nessuno negli Stati Uniti pensò di accelerare nella prima fase, quando gli stati e loro gelose prerogative dominavano la cultura americana, così come era giusto che fosse.

Non c’è scampo: queste sono le ali, piccolo calabrone, che abbiamo, con queste dobbiamo uscire dalla tempesta: tutto il resto ti ucciderà. Più politica monetaria espansiva come dice Draghi? Assolutamente. Più politica fiscale espansiva? Beh, assolutamente. Altrimenti assisteremo al fallimento del solito esperimento di eugenetica, destinato a non essere radicato nell’uomo e nei suoi valori forti di solidarietà e crescita, e dunque a morire con danni collaterali immensi, come sempre.

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Dr. Draghi’s bumblebee needs to grow with its own, small, wings

I welcomed Mario Draghi’s full commitment for a monetary policy meant to reduce spreads in the euro-area government bonds (“to the extent that the size of these sovereign premia hampers the functioning of the monetary policy transmission channel, they come within our mandate”). As I always say, even simply an announcement of that kind would go miles to reduce the cost of debt for sovereign borrowers of the euro area.

I also do not underestimate the battle he is going through with the German Bundesbank to get the right policy in place: his moving forward is the flip coin of the increasing weakness of the hardliners that are seeing the credibility of their austerity strategy weaken day by day.

But let me also repeat that while fully expansive monetary policy is a necessary condition for saving the euro area, it is by no means sufficient. And here is where Dr. Draghi, playing outside of his home turf, is at a disadvantage and provides an insufficient analysis of the challenges ahead.

Dr. Draghi compared the euro area to a bumble bee, the insect that, according to him, “is a mystery of nature because it shouldn’t fly but instead it does. So the euro was a bumblebee that flew very well for several years. And now – and I think people ask “how come?” – probably there was something in the atmosphere, in the air, that made the bumblebee fly. Now something must have changed in the air, and we know what after the financial crisis. The bumblebee would have to graduate to a real bee. And that’s what it’s doing.

Dr. Draghi is a fine expert but clearly not an entomologist. Otherwise he would have known that:

a)    Bumblebees are real bees and do not graduate into anything else. Think of them as monetary unions, like the USA one, big and capable of flying no matter what their internal complexity is. The regular bees are like the United Kingdom, lighter, easier to manage and … less powerful. Indeed, unlike a honey bee’s stinger, a bumblebee’s stinger lacks barbs, so it can sting more than once:  monetary unions are powerful stuff, that help its members become more effective in a geopolitical sense.

b)    Why do bumblebees fly? Because they beat their wings very very fast: quick repetitive power. And, contrary to the common belief, they generate power on the upstroke and downstroke, applying much more muscle and succeeding. That is the right way to see the euro issue and its difficulties in being a strong bumblebee: in the first years of its existence the euro currency area bumblebee showed strength by generating power during the upturn of the economy and gaining an anti-inflationary reputation. But now it seems at odds in fighting the downturn, not being able to acquire a credible anti-austerity economic policy. It is slow to respond and looks like a fatigued bumblebee, at risk of dying.

c)     Actually, bumblebees, at least some of them according to Wikipedia, are disappearing fast from Planet Earth. We should not take their existence for granted and irreversible.

So as usual with everything in Nature, there are strong and weak bumblebees. Indeed, comparing it with the USA bumblebee Dr. Draghi said of the euro bumblebee:

“…it also has a degree of social cohesion that you wouldn’t find …  in the (USA) …

Oh, big mistake.

Dr. Draghi seems to claim that average social cohesion is higher in Europe than in the USA.

But cohesion does not work like inflation: you can’t simply average out national levels of local cohesion to obtain average cohesion in Europe. We know Italy and Germany are cohesive, each one within their respective borders, possibly more than Mississippi and Massachusetts are within theirs. However Europe would be more cohesive than the USA only if Germany and Italy shared more values among them than the ones that Massachusetts and Mississippi do.

Tough luck, impossible.

On cohesion, unfortunately, the euro bumblebee is weak. Simply because it is too young and has not yet learned how to fly well and steadily. In that regard, the United States are more cohesive than the euro area because – for 2 centuries now – a common history has been slowly fertilizing the Stars and Stripes Union. There was a time when the US bumblebee was as weak as the euro bumblebee is today, but that was a long time ago and the US bumblebee weathered the storms that jeopardized its existence. Some of that was sheer luck. Most of that was smartness and willingness to survive.

How so? In many ways. But, for what matters here, simply note that growth policies in the USA or lack of them in Europe exacerbate this growing cohesion divide across the Atlantic. To realistically catch up on our “cohesion gap” with respect to the USA we should pursue even more expansive policies in a downturn than America is doing. Exactly the contrary of what has been done so far.

The euro bumblebee is feeble and any storm could exterminate it. It needs to grow fast now, today, so as to gain cohesiveness, but without putting new wings that its weak young body would never support (as for example the surrender of national sovereignty, that took more than a century in the United States to materialize).

Only expansive monetary and fiscal policies in the euro area can save it. So far we have a promise from Draghi of an expansive monetary stance. Not too late, but too little for the bumblebee to survive.