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Ecco come saprete che il Fiscal Compact è morto per davvero

Circola nel mondo l’idea che ormai “il Fiscal Compact” sia morto, che tutto – in tal ambito, ovvero nel campo della politica fiscale a sostegno dell’economia – sia stato risolto.

Pfui. Leggere per credere il Bollettino economico della Banca d’Italia che con una bella tabellina illustra il “nuovo” paradigma emerso dalla comunicazione n. 12 del 13 gennaio scorso della Commissione europea (ma tu dimmi se la vita delle persone debba essere determinata dalle comunicazioni numero 12/2015 di organismi eminentemente tecnici, democrazia democrazia dove sei tu ….).

https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/bollettino-economico/2015-1/boleco_1_2015.pdf

Dove emerge che un Paese con debito alto, in tempi molto cattivi o cattivi (very bad oppure bad), deve fare manovre fiscali discrezionali restrittive e non espansive. Le cose vanno male? Aumentiamo le tasse o riduciamo gli investimenti pubblici.

Certo poi ci sono i paesi in condizioni “eccezionalmente negative” che prevedono, almeno quelli, non un aiuto ma una tregua dall’austerità. Come dire ad un malato gravissimo: la medicina non te la do, ma il letto non te lo metto fuori in giardino così stanotte non dormi all’addiaccio. Bella consolazione.

Oh, nota al margine: ma come mai l’Italia, che è da tre anni in recessione, non si qualifica come paese in condizioni eccezionalmente negative ed è invece obbligata a dormire all’addiaccio e fare una manovra di 0,25% del PIL come se fosse un paese in condizioni “molto cattive”? Boh. Non è dato sapere il perché del masochismo europeo che ci porterà a un record di quarto anno consecutivo di recessione anche perché non somministra la medicina giusta.

Ma qual è la medicina giusta?

E chi lo sa. Ma visto che qui si gioca col pallottoliere, mi sia consentito dirvi quando Gustavo Piga sarà disposto a dire che il Fiscal Compact è effettivamente morto. Quando il Parlamento europeo democraticamente eletto, e non la Commissione, farà approvare una tabella di questo tipo:

E già. Un letto caldo per il paziente sì, ma non basta: ci vorrà una cura da cavallo di antibiotici per debellare il virus della recessione. Ci vorranno, per tutti quei Paesi in difficoltà, che si autorizzino i Governi, anche quelli con debiti pubblici alti (in fondo sono alti per l’ottusa austerità), a diminuire le aliquote fiscali ed avviare un programma eccezionale di investimenti pubblici.

Solo quel giorno potrete sentirmi dire che il Fiscal Compact è stato effettivamente sospeso. E che l’Europa può tornare a sperare ed anche ad avviare le necessarie riforme che in recessione non funzionano mai.

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Il franco svizzero e la silenziosa rivoluzione dell’euro

Quanta cultura dietro le scelte economiche, quanto l’economia è schiava della storia e delle culture di riferimento. E’ affascinante .

E spesso incomprensibile.

Tanto incomprensibile che gli anonimi mercati – poverini, mezzi sconvolti – ancora stanno cercando di raccapezzarsi per capire cosa sia saltato in testa ai leader elvetici di decidersi ad abbandonare l’aggancio del franco svizzero con l’euro. Una follia parrebbe, visto che l’apprezzamento immediato della valuta d’Oltralpe condanna i venditori di orologi locali e gli alberghi delle stazioni invernali a tempi durissimi e ad esprimere subito il loro dissenso con la decisione delle loro autorità.

Eppure …

Eppure la Svizzera è nel suo DNA molto tedesca, e l’inflazione è un mostro da combattere: da tempo la Svizzera è in semi-deflazione e non ne fa un grande dramma, felice di sentirsi il Paese della stabilità dei prezzi. Talmente stabile che aveva deciso di ancorarsi ad una valuta di riferimento che all’epoca appariva stabile e forte, come l’euro.

L’annuncio della Corte di Giustizia europea che la BCE potrà procedere col tentativo di rinvigorire la sua domanda interna con operazioni di mercato aperto aggressive di quantitative easing è stata con tutta probabilità la goccia che ha fatto traboccare il vaso dei decisori svizzeri. Mettetevi nei loro panni in questi ultimi mesi: costantemente lì a comprare euro e vendere franchi pur di mantenere costante il rapporto di cambio con l’euro, a fronte di una crescente domanda da parte del resto del mondo di una valuta-rifugio (che non fosse solo il dollaro) davanti alle incertezze crescenti europee. A un certo punto si saranno detti che continuare così di fronte alle mosse di politica monetaria espansiva della BCE avrebbe significato cominciare ad importare la possibile futura inflazione europea e si sono chiamati fuori, da ciò terrorizzati (anche a costo di subire altri danni di tipo economico, appunto).

La cultura la spunta sull’economia? Forse, ma in realtà la verità è che l’economia di un Paese è figlia della sua cultura. E dunque anche che le strutture economiche si cambiano lentamente, soltanto con cambiamenti culturali.

Quei cambiamenti culturali che lentissimamente stanno prendendo piede in Europa, quell’Europa che solo 70 anni fa era in piena guerra al suo interno, guerra di predominio culturale e infine economico.

Prendiamo dunque il buono di quanto appare da questa lezione svizzera: i tedeschi, con la loro cultura così vicina a quella degli elvetici, non seguono la Svizzera ma rimangono ancorati all’euro, anzi ne condividono le scelte di espansione monetaria anche se il boccone da ingoiare è notevole e probabilmente spaventoso per loro, come lo è per gli svizzeri. E’ un piccolo sacrificio, quello tedesco, o così appare a noi italiani: ma è probabilmente qualcosa di molto di più in un’ottica storica. Un avvicinamento non da poco quello di non avere detto no alla mossa di Draghi, quello di aver consentito che via tasso di cambio si aiutino le esportazioni europee in un momento di grave difficoltà economica dell’area euro del Sud e che si tenti la carta della maggiore inflazione.

Altri passi dovranno venire, perché la salvezza nell’area euro all’interno di un mondo globalizzato può venire solo dalla domanda interna e dunque dalla rottamazione del Fiscal Compact. Intanto però assaporiamola, questa sensazione che qualcosa va cambiando, lentissimamente, nel progetto dell’euro che rimane un grandioso e rischioso tentativo di avvicinamento culturale all’interno dell’Europa, una scommessa che si accompagna alla dabbenaggine di non avere capito che senza solidarietà in tutti i campi, a partire da quello fiscale, nulla si può costruire sui meri, seppur significativi, simboli cartacei.

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Giustizia e austerità: la tragedia greca non deve essere tale

Pubblicato su Formiche oggi:

http://www.formiche.net/2015/01/07/che-cosa-penso-delle-idee-tsipras-sul-debito-greco/

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Le dichiarazioni di Tsipras e le richieste all’Europa di Syriza nel caso divenisse partito di maggioranza in Grecia, riprese oggi dal Corriere, trovano il loro fondamento etico nell’ultima frase del loro leader: “la Grecia è la patria di Sofocle, il quale ci ha insegnato, con Antigone, che talvolta la suprema legge è la giustizia”. Non la legge fallimentare, né quella amministrativa, no: la giustizia.

Il riferimento ad Antigone aiuta a sufficienza ad inquadrare questa nuova tragedia greca, quella di questi anni, vissuta nell’apparente inconciliabile contraddizione tra leggi umane (il riferimento ovvio è ai Trattati e regolamenti europei) e leggi divine. Ma quali sono le leggi divine odierne a cui si riferisce Tsipras richiamando il concetto di “giustizia”? Qual è il concetto di giustizia rilevante per comprendere questa tragedia, le sue implicazioni e la sua potenziale risoluzione?

Sarebbe utile forse farlo risalire, in un’ottica cristiana alle parole di Papa Francesco, ad un senso di giustizia incondizionata: “la misura della grandezza di una società si trova nel modo in cui questa tratta I più bisognosi”, così affermò di recente il Pontefice. Se la società d’interesse è quella “europea”, allora non c’è dubbio che tutti i dati ci dicono che oggi è la Grecia l’anello debole della costruzione continentale. Debole, attenzione,  non per la sua fragilità finanziaria ma per l’emergenza economica che deve fronteggiare da tempo una fascia non esigua della popolazione: in tal senso non credo sia sfuggita a molti l’espressione usata da Tsipras nel testo – “porre fine alla crisi umanitaria”- giro di parole che in Italia ed in Germania nemmeno un politico populista si sentirebbe in diritto di utilizzare in alcun caso per descrivere i nostri problemi interni, ma che in Grecia è ormai entrata credibilmente nel lessico politico.

Non c’è bisogno tuttavia di scomodare la religione per comprendere un concetto di giustizia basilare, come quello menzionato dal Papa; basterà ricordare il pensiero del filosofo  Rawls che riteneva giusta quella società che mira a migliorare prima di tutto le posizioni relative dei gruppi più svantaggiati.

E’ un’argomentazione, quella della giustizia senza se e senza ma per gli svantaggiati, difficile da far passare in Germania, dove si tende a richiedere ai greci sforzi per pagare la colpa originaria di cui si sono macchiati mal contabilizzando dentro i loro conti pubblici svariate transazioni, finanziarie e non, e così facendo esplodere la questione della sostenibilità del loro debito. A poco varrebbe con i tedeschi argomentare che i loro leader erano al corrente (al momento della loro ideazione) di queste transazioni e che alcune di queste transazioni improprie erano state strutturate con imprese (i sommergibili) o banche (i derivati) tedesche.

Un concetto di (in)giustizia più intuitivo anche per i tedeschi potrebbe riguardare quello che caratterizza gli sforzi fatti dai greci in questi anni per riparare alle “loro colpe” (?) tramite l’austerità, le riforme ed il ripagamento del debito alle condizioni previste dagli accordi con la Troika.  In questo caso il concetto più appropriato di giustizia non è ex-ante, ma diventa ex-post: ovverosia quello che tiene conto del fatto che, successivamente alla formalizzazione di accordi i cui termini si basavano  sulla esistenza nel tempo a venire di un certo scenario di contesto, il contesto si è modificato a tal punto da rendere ingiusto richiedere ad una delle controparti il rispetto di quanto previsto dall’accordo originario. Tema d’altronde previsto nel memorandum del Fondo Monetario Internazionale del 2013 sul quarto riesame della situazione greca (http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2013/cr13241.pdf) dove al punto 55 ci si preoccupa del fatto che la Grecia rimaneva esposta ad incidenti di percorso (“accident-prone”) per un periodo comunque lungo e che a fronte di tali incidenti l’Europa avrebbe dovuto garantire maggiori aiuti per non far perdere al Paese la capacità di sostenere le dure riforme a cui andava incontro.

Due incidenti significativi ed imprevisti sono avvenuti in questi anni che val la pena menzionare: 1) la deflazione è stata decisamente maggiore di quanto previsto al momento della sottoscrizione dei prestiti e dunque i tassi reali pagabili dal Governo greco stanno arricchendo in maniera imprevista (in termini di giustizia distributiva dovremmo dire “più del dovuto”) le istituzioni che hanno prestato alla Grecia e 2) le riforme effettuate dalla Grecia assieme all’austerità non hanno generato quella ripresa che era stata “garantita” dai creditori al momento dell’erogazione dei prestiti.

Questi due imprevisti spingono Tsipras a sentirsi nel giusto nel richiedere una ristrutturazione del debito. Particolarmente felice (e giusta!) sembra la scelta di proporre in tal senso non tanto un default, quanto una ristrutturazione del debito volta a modificare il profilo delle cedola da rimborsare ai creditori da tasso fisso ad un tasso variabile legato all’andamento dell’economia greca. “Siccome voi “non greci” ci dite che se facciamo le riforme la crescita tornerà, e siamo – dopo ben 5 anni di fallimenti delle ricette della Troika – stufi (“giustamente!”, dico io) di credervi, facciamo una bella cosa: i nostri titoli di debito, oggi a reddito fisso come i vostri BTP, i cui pagamenti entrano nelle casse dei vostri Stati e non dei mercati (perché il debito greco è tutto detenuto dai governi, e dunque da noi contribuenti europei, e non più dai mercati, NdR), li ristrutturiamo e li condizioniamo all’andamento del nostro PIL.”

Mossa giusta direi. Perché se le cose andranno da ora in poi bene con le riforme, come dicono da sempre gli europei, i greci ripagheranno il loro debito in toto. Se le cose continueranno invece a non andar bene malgrado le riforme, confermando l’errore nei suggerimenti della Troika, non lo ripagheranno così riuscendo perlomeno a sopravvivere, non morendo di austerità e finanziando la domanda interna (ormai sparita) con meno tasse e più investimenti pubblici, grazie alla minore spesa per interessi.

Quando Tsipras afferma che “non vogliamo il crollo, ma la salvezza dell’euro”, finisco per credergli, perché non può esistere Europa senza un ideale di giustizia che travalichi i Trattati, come quello di Maastricht, e gli accordi, come quello del Fiscal Compact, se questi travalicano il senso della Giustizia. La contraddizione insanabile che condannò Antigone è evitabile, basta volerlo.

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Quel contagio greco che serve per salvare l’Europa e l’Italia

Oggi alla bella trasmissione su Radio24 con Oscar Giannino, Carlo Alberto Carnevale Maffè e Mario Seminerio ho avuto modo di parlare della mia visione della questione “Grecia” e del contagio al resto d’Europa. Ho cercato di spiegare, forse, il perché mi annoia ormai terribilmente qualsiasi dibattito di politica economica che sia “altro” dallo straordinario tentativo greco di esprimere il proprio voto democratico riguardo al proprio futuro. Tutto oggi è Grecia, tutti dobbiamo dirci e sentirci greci, a cominciare, cosa più rilevante per noi, da Matteo Renzi. E nel farlo ho pensato anche che “contagio” è una parola dal doppio significato: assume connotazione positiva o negativa a seconda del contesto e del binocolo che adottiamo per capire il mondo.

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 Premessa: in teoria non vedo perché dovremmo scrivere alcunché su quanto sta avvenendo questi giorni in Grecia. Vi è in ballo una elezione, il popolo si esprimerà, il 25 gennaio, chi vince governa, chi perde va all’opposizione: niente di che, se non un sano esercizio di democrazia. Così tanto banale però la cosa non deve essere. Perché di questa Grecia e delle sue elezioni ne parliamo, eccome, e con toni e tonalità pieni di timori e di paure.

Già. Il che ci ricorda che questa Europa, stanca e incapace di ritrovare i fili del suo destino, teme ciò che un tempo la rese culla di civiltà, la democrazia, mostrando al riguardo un paradossale senso di disagio. Lo sanno bene i greci, a cui è stato impedito di pronunciarsi con un referendum sull’euro all’alba della crisi, lo sappiamo noi che ci siamo impegnati in una battaglia sul referendum Stop Austerità in Italia, contro tutti e tutto, a partire dalla stampa per finire con i partiti politici.

Insomma eccolo una primo contagio che proviene dalla Grecia e dai greci, positivo: non vergognarsi della democrazia e del voto. Raccomando a tutti i restanti paesi dell’area euro di farsi contagiare da questo sentimento, Italia ovviamente compresa.

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Domanda numero 1: “supponiamo che Syriza vinca, al primo appuntamento di gennaio o ad un secondo di marzo (nel caso in cui non emerga una maggioranza chiara dopo il primo voto): che metodo caratterizzerà l’azione del partito nei primi mesi di governo?

Per rispondere basterà leggere le recenti dichiarazioni dell’economista Yanis Varoufakis, nuovo consigliere economico di Tsipras, leader di Syriza, per capirlo: “andremo al tavolo delle negoziazioni con una serie di proposte che sappiamo bene andranno discusse con i Paesi partner dell’UE.”

Ulla.  Informazione importante. Dalla quale deduciamo una caratteristica significativa, prima ancora che di Syriza, del mandato che il popolo greco (in caso di vittoria) darebbe a Tsipras e non più a leader di altri partiti: “vogliamo stare dentro l’Unione europea e dentro l’euro”.

Lezione non da poco: la Grecia ha sofferto tantissimo, 5 anni di terribile recessione e dilagante disoccupazione, eppure vuole restare in Europa e nell’area dell’euro. Segno che non solo il progetto europeo ha una valenza culturale profonda, quasi antropologica, per i greci, ma che l’euro è per loro il simbolo di questo progetto e che, di riflesso, uscire dall’euro e adottare la dracma è il simbolo della fine del progetto europeo e non solo una mera mossa economica, come cerca di convincerci qualche economista nostrano innamorato della liretta. Insomma, è come divorziare: si sopravvive, magari pure meglio, ma non si torna indietro, e le cicatrici, durature, spesso sono pesanti. E i greci al divorzio preferiscono il tentare di far funzionare un matrimonio in grave crisi.

Facciamo che i greci contagino anche i nostri anti-euro locali, così miopi, e gli facciano vedere finalmente la luce, per capire una volta per tutte qual è la battaglia su cui devono spendersi con ardore e passione.

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Domanda numero 2: “quali condizioni pone Syriza all’Europa?”

Sono di fatto due, sono interdipendenti e ci riguardano da vicino.

Prima condizione: “fine dell’austerità, senza se e senza ma”. Quell’austerità che in Grecia non vede la fine, con il PIL nominale che continua a crollare, anche se nell’ultimo trimestre per la prima volta i prezzi sono diminuiti ancora di più di quanto questo non sia sceso. A conferma che non è l’euro che sconvolge i cittadini greci, ma lei, l’ottusa, inutile, austerità nel bel mezzo di una recessione spaventosa che gode ad aggravare.

Ora, di progetti tra Stati diversissimi culturalmente – ma uniti da una moneta comune – ne conosciamo alcuni, e di successo, come Stati Uniti ed India. Sappiamo che per avere avuto successo e durare nel tempo questi progetti hanno dovuto prevedere meccanismi di solidarietà tra gli Stati, che aiutassero quelli tra di loro che fossero in difficoltà. Anche quando queste difficoltà nascono da comportamenti impropri, come quelli di alcuni politici greci che usarono i derivati per operazioni scorrette sotto l’occhio vigile e consenziente, va aggiunto, di tutte le autorità monetarie, politiche e di controllo di allora, BCE ed Eurostat incluse. Meccanismi di solidarietà inesistenti oggi in Europa e la cui mancanza è alla base del crescente senso di distacco delle popolazioni colpite dalla crisi odierna dalle istituzioni europee.

La flessibilità che chiede Renzi all’Europa, un mero ammorbidimento e non una cessazione dell’austerità, deve farsi contagiare dalla giusta convinzione greca che il problema non è l’euro, è il Fiscal Compact, che chiede austerità senza se e senza e  deprime dunque la volontà dei privati di fare investimenti e delle famiglie di consumare: chi lo farebbe in assenza di una costruzione che preveda soccorso in momenti di difficoltà?

Seconda condizione: “Siccome voi “non greci” ci dite che se facciamo le riforme la crescita tornerà, e siamo – dopo ben 5 anni di fallimenti delle ricette della Troika – stufi (“giustamente!”, dico io) di credervi, facciamo una bella cosa: i nostri titoli di debito, oggi a reddito fisso come i vostri BTP, i cui pagamenti entrano nelle casse dei vostri Stati e non dei mercati (perché il debito greco è tutto detenuto dai governi, e dunque da noi contribuenti europei, e non più dai mercati, NdR), li ristrutturiamo e li condizioniamo all’andamento del nostro PIL.”

Mossa geniale direi. Perché se le cose vanno bene con le riforme, come dicono da sempre gli europei, i greci ripagheranno il loro debito in toto. Se le cose continuano invece a non andar bene malgrado le riforme, confermando l’errore nei suggerimenti della Troika, non lo ripagheranno così riuscendo perlomeno a sopravvivere, non morendo di austerità e finanziando la domanda interna (ormai sparita) con meno tasse e più investimenti pubblici, grazie alla minore spesa per interessi. Altro che nuovo prestito con condizionalità di maggiore austerità, come vorrebbe la Troika!

In questo ultimo caso, se ciò dovesse avvenire, il re sarà nudo e il velo verrà finalmente sollevato sulla gestione incompetente di questa crisi così lunga che non ha trovato soluzione ma causa prima nell’austerità: la perdita del debito attuale greco che non verrà ripagato sarà la perdita una volta per tutte trasferita dalle banche europee,  tedesche, francesi – che si sono esposte con irresponsabilità nella bolla speculativa greca – ai cittadini europei, oggi detentori ultimi della “carta” greca. Perdita che vedrà dunque le banche di Germania, Francia ed Italia salvate non dai greci, ma dai loro connazionali: non vi pare giusto?

La conseguenza di ciò sarà clamorosa: i greci saranno riusciti ad imporre alla vecchia, egoista e rapace “Europa dei forti” una “Unione Fiscale forzosa”, ricevendo cioè solidarietà – benché involontaria – dal resto dell’Europa.

Sarà una solidarietà paradossalmente simile a quella desiderata a parole da Draghi, simile a quella statunitense, tra la ricca California ed il povero Alabama, che vede la prima aiutare annualmente la seconda con trasferimenti di risorse. Non sarà, e questo è il punto chiave, una Unione Fiscale simile a quella che desidererebbero fare i tedeschi, e cioè una Unione fiscale in cui l’austerità è stabilita dall’alto e la Troika resa un meccanismo costituzionale che sottrae poteri fiscali ai singoli Stati.

Chi, dopo questa Unione Fiscale forzosa vorrà tirarsene fuori, chiedere alla Grecia di uscire dall’euro, avrà la responsabilità di segnare la fine dell’Europa che i nostri padri fondatori volevano basata non su austerità e stabilità ma su diversità e solidarietà. Saranno stati loro, e non la Grecia, ad aver contagiato della malattia dell’egoismo nazionale il progetto europeo, portandolo alla sua dissoluzione.

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Io mi auguro che la Grecia ci possa contagiare con i suoi slanci democratici e la sua lunghezza di vedute. Che sappia soprattutto contagiare Renzi. Quel Renzi contagiato si dovrà esporre veramente sull’Europa, dicendo senza giri di parole che la Grecia siamo noi, accettando la vera solidarietà, capace di dire basta alle ristrutturazioni infinite e perverse del debito greco, opponendosi a qualsiasi forma di minaccia più o meno velata di fronte alla richiesta di rinegoziazione greca del debito, ed infine avviando quella cooperazione tra Stati membri che il Trattato prevede, osando andare a chiamare il bluff tedesco, e stracciando quel Fiscal Compact che fu approvato scelleratamente, in silenzio, senza che fosse sottoposto ad un vero dibattito pubblico nell’Agorà europea. Così facendo l’Italia, proprio lei, ristabilirebbe e condizioni essenziali per la crescita e la ripresa di un progetto comune di prosperità e sviluppo diffusi in tutta Europa.

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Guarino e l’euro mai nato: come procedere?

Giuseppe Guarino, avvocato da molti considerato “principe del foro amministrativo”,  ex Ministro, ha 93 anni. Se li porta come un ragazzino. Il suo linguaggio sull’Europa è più fresco di quello di tanti giovani economisti che usano modelli con le derivate prime o che suggeriscono riforme del mercato del lavoro per risolvere la più grande crisi economica mai conosciuta in questi ultimi 100 anni dall’Europa.

E’ uscito a novembre (anche in lingua inglese) il suo secondo pamphlet “Saggio di verità sull’Unione e sull’euro” che fa seguito a “Un saggio di “verità” sull’Europa e sull’euro – 1.1.1999: il colpo di stato – 1.1.2014 rinascita!?”. Tutti i lavori sono leggibili su:

http://www.giuseppeguarino.it/pubblicazioni/

Lo ho letto cercando di capire quali sono gli assi portanti del suo ragionamento che lo spingono ad invocare per l’Europa “piazza pulita, dunque. E’ necessario. Coloro che hanno operato nel passato hanno gli occhi foderati delle antiche esperienze. Tenderebbero a difendere le passate condotte, per ragioni di principio e/o per tutelare posizioni acquisite. Prima sgombereranno il campo, meglio sarà” e che senza giri di parole identifica come i responsabili di questa crisi “Waigel e Ciampi  (a metà degli anni 90 Ministri dell’Economia in Germania ed Italia, NdR) … privi di qualsiasi interesse personale  … (ma) ciò non annulla le loro responsabilità. Anche i più nobili sentimenti non autorizzano uno scostamento dall’obbligo del più rigoroso rispetto delle norme da parte di titolari dei poteri vertice. Distinte responsabilità sono acrivibili ai titlari di funzioni di vertice nell’Unione e negli Stati membri. Sono tutti quelli che, a partire dalla proposta iniziale del regolamento 1466/97 e sino ad oggi, quali membri della Commissione europea, o titolari delle responsabilità di Ministro del Tesoro, delle Finanze, della Economia (e simili) negli Stati membri, avrebbero avuto obbligo di rispettare e far rispettare i Trattati … Nei confronti di tutti i soggetti elencati, a prescindere da quelli verso l’Unione, sono in ipotesi applicabili le sanzioni costituzionali, penali, civili, contabili previste dal diritto europeo e dai sistemi giuridici degli Stati membri. Tutti costoro, per dignità e per senso di del dovere dovrebbero farsi da parte. Come è accaduto molte volte nella storia, quando un medesimo tipo di responsabilità sia condiviso da molti, i loro nomi cadrebbero presto nell’oblio. Non vi sarebbero altre conseguenze”.

(le sottolineature sono dell’autore).

Parole forti. Ma di cosa si sarebbero macchiati in prima battuta Ciampi e Waigel secondo Guarino? Semplice, di avere, seppure forse benevolmente, tradito il Trattato europeo che sanciva l’obiettivo di crescere armonicamente in Europa verso uno sviluppo sostenibile anche utilizzando, quando necessarie, le leve del deficit e del debito a cui fanno ricorso tutte le grandi potenze nei momenti di difficoltà. Quel tradimento, avvenuto con il “predecessore” del Fiscal Compact odierno, prese la forma del regolamento 1466/97, una forma giuridica inferiore de ed in contraddizione con il Trattato, e dunque nulla giuridicamente, di strumento legislativo europeo.

Più noto come Patto di Stabilità e Crescita, il regolamento che porterà inesorabilmente l’Europa ad adottare il concetto di bilancio in pareggio, fu accettato dalla Germania di Waigel come “unica valida alternativa” all’esclusione dell’Italia dall’area euro, ottenendo “da tutti gli aspiranti alla zona euro l’accettazione preventiva all’assoggettamento in futuro a controlli di gestione massimamente severi” e dall’Italia di Ciampi, lui che era “pronto ad accettare ogni richiesta” essendo “pessimista sulle sorti dell’Italia” e che vedeva“nell’ingresso nell’euro l’unica via di salvezza”. “Quando il principio della parità di bilancio è accettato nel vertice dell’Ecofin a Dublino del dicembre del 1996, tutti si congratulano con Waigel. E’ stata una sua vittoria” .

Capiamo bene: “Secondo il Trattato gli Stati avrebbero avuto ciascuno una propria autonoma politica economica e l’Unione la avrebbe coordinata con direttive di massima. Lo scostamento operato con il reg. 1466/97 rispetto a tale disciplina rappresentò … un grande salto. Alle autonomia politiche economiche di ciascuno Stato membro, sarebbe subentrata la norma, rigida e ferma nel tempo, del bilancio a medio termine in attivo o in pareggio, imposta direttamente dal regolamento. Al coordinamento da effettuarsi da Commissione e Consiglio con direttive di massima e che si sarebbe concluso con “raccomandazioni”, atti non vincolanti (art. 189 Trattato), venivano sostituite decisioni prese dalla Commissione e dal Consiglio, con il concorso del Comitato economico e sociale, qualificate enfaticamente “inviti”, dotati in realtà di forza cogente”.

Guarino non è contro l’euro. Esplicitamente sostiene che l’euro in realtà non è mai esistito (“moneta mai nata”). Perché avviato all’interno di una costruzione fiscale nulla, quella del Patto di Stabilità e Crescita e del Fiscal Compact, perché successiva ed in contrasto con i Trattati da cui sostiene di discendere. Una sofisticata visione, degna dei migliori analisti recenti della crisi europea, premi Nobel come Sims e Sargent, che capiscono politica fiscale e politica monetaria come inscindibilmente legati ed inseparabili.

E questa costruzione fiscale responsabile per lo stato attuale delle cose, che lui chiama “automaton” – ed io chiamo “pilota automatico” – è così descritto: “l’organismo europeo si è robotizzato…Se sono stati commessi errori nella progettazione e se la macchina provoca danni, questi si produrranno sino a quando la macchina funzionerà. Funzionerà, continuando a produrre danni, fino a quando non imploda”.

Non ha fatto solo ciò: “ha soppresso, il regolamento, l’unico spazio di attività politica soggetto alla influenza del cittadini dei singoli stati membri, lo spazio delle politiche economiche a mezzo delle quali ciascun stato membro avrebbe potuto e dovuto concorrere al perseguimento dello sviluppo, nell’interesse proprio e dell’Unione … Soppresso ogni spazio di decisione politica, è scomparso anche il corrispondente spazio di espansione del principio democratico”.

Ovviamente il regolamento non è responsabile di nulla: la struttura di potere che lo ha generato lo è. Ma su questo Guarino, come detto sopra, concorda pienamente, chiedendo la rimozione di quella classe dirigente che ha messo in atto quello che lui chiama esplicitamente un “colpo di stato”. Avvenuto nel 1999 con la nascita del “falso euro”.

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E un colpo di stato è quello che auspicherebbe Guarino per uscire da questa crisi: “per derobotizzare il sistema occorrerebbe un colpo di Stato, diretto alla creazione di un nuovo regime (democratico) , o quanto meno per reintrodurre, sia pure tardivamente, quello soppresso nel 1999. Appare difficile che avvenga”. E allora?

In realtà, per quanto sia lucida l’analisi di Guarino sulle cause della crisi, è difficile commentare con la stessa convinzione le soluzioni da lui proposte. Nel suo primo pamphlet la soluzione pare essere una nuova valuta comune che nasca dalle ceneri del Fiscal Compact  e del bilancio in pareggio, scelta da quei Paesi – in primis Francia e Italia – che condividano l’enfasi primaria sulla crescita anche nei momenti di difficoltà: se la Germania vorrà esserci, bene, altrimenti peggio per lei.

Per la sua enfasi sul ruolo del Fiscal Compact come causa della crisi e la sua raccomandazione di non temere eventuali abbandoni dalla moneta comune da parte della Germania mi sembra un combinato disposto delle teorie dei referendari anti Fiscal Compact e di quelle degli anti euro.

Nel secondo pamphlet, invece, Guarino pare raccomandare una nuova soluzione, un combinato disposto di una ottimistica maggiore democrazia grazie all’arrivo di nuove generazioni nel Parlamento europeo, e della proposta, come oggi raccomanda Scalfari nuovamente su Repubblica(citando le convinzioni al riguardo di Draghi) , di “fare un salto e puntare sull’Unione politica” come negli Stati Uniti, verso uno Stato federale che accentri la politica fiscale a Bruxelles.

Non potrei essere più in disaccordo con quest’ultima ricetta. E per dimostrarlo utilizzo le parole dello stesso Guarino del primo lavoro: “le idee frequentemente lanciate di federalismo fiscale, federalismo bancario, eurobond, sono ingannevoli. Se attuati in assenza di un potere politico paritario, quindi democratico, i progetti si risolverebbero nell’acquisizione  di maggiori poteri da parte di qualcuno degli Stati maggiori a danno dei minori. Un risultato conseguito per vie traverse, nello stato attuale di confusione e di generale delusione non potrebbe che provocare maggiori danni”.

Detto perfettamente! Una considerazione che il Guarino odierno pare avere dimenticato ma la cui rilevanza sono certo anche oggi non gli sfugga: è ovvio che l’idea condivisa da Draghi e Scalfari di levare per sempre il potere politico fiscale ai singoli Stati membri, in assenza di una condivisione di un progetto solidale comune come quello a cui pensavano i padri nobili dell’Unione europea del dopoguerra, porterà ad un bilancio in pareggio (già lo deve essere oggi quello rachitico europeo) strettamente nelle mani dei tedeschi e dunque esplosivo per la sua incapacità di venire incontro – come invece può e deve fare -  agli Stati in difficoltà, come avviene per i singoli stati degli Stati Uniti.

Di fatto, la scelta del referendum da noi sostenuto questa estate non è stata che il tentativo dal basso di fare quel qualcosa che Guarino sostiene dovrebbe fare qualsiasi governo sostenuto da forze giovani e non compromesse con gli errori del passato: si levi il pilota automatico del Fiscal Compact e si dichiari, come singoli Stati membri, la nullità di quelle firme apposte a regolamenti che non hanno la rilevanza del Trattato originario e sono violazioni di esso, come argomenta il giurista.

La speranza è che tale mossa coraggiosa possa forzare gli Stati come quello tedesco a svelare il proprio bluff e a modificare la propria politica in senso solidaristico senza dover forzare gli altri (o loro) ad uscire dall’euro. Rimane dunque, il ripudio del fiscal compact, una precondizione alle decisioni successive: sia a quella potenzialmente costosa dell’uscita dall’euro in assenza di solidarietà che a quello potenzialmente benefico del rafforzamento dell’Unione europea verso una Unione fiscale basata sulla solidarietà.

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Aggregare gli acquisti: tardi, troppo, male

L’Italia ha sperimentato nel corso di più di un decennio vari tentativi di centralizzazioni degli appalti pubblici, in particolare (e quasi esclusivamente) nel settore dell’acquisto dei beni e servizi. L’idea di fondo è quella che le economie di scala raggiungibili con gare “grandi” e  la maggiore competenza presente in tali centrali ridurrà sprechi e produrrà risparmi di spesa aiutando l’economia a crescere. Con poca immaginazione si è sempre trascurato l’impatto sulle PMI di tale approccio.

La nuova strategia del Governo Renzi poggia su quattro pilastri:

1. L’istituzione del Tavolo tecnico dei c.d. “soggetti aggregatori” (non superiori a 35 stazioni appaltanti, di larga massima la Consip del Tesoro, “Consip regionali” e “Consip metropolitane”), che dovrebbe colmare un gap istituzionale che ad oggi genera mancanza di coordinamento e resistenze al paragone delle performance tra grandi acquirenti pubblici nazionali. Tali soggetti, su categorie di beni e servizi identificate ad inizio anno come facilmente standardizzabili, dovranno essere gli unici a effettuare gare per Stato, aree metropolitane e Regioni. Non è chiaro perché non venga ideata una struttura ed una governance simile anche per i lavori pubblici.

2. La creazione, entro fine di quest’anno, di una stazione centrale stile Consip in ogni Regione.

3. L’esclusione per i Comuni non capoluogo di provincia di acquistare lavori, beni e servizi in autonomia. Rimarrebbe la possibilità di unirsi in aggregazioni comunali o altrimenti di ricorrere alle province o ad un soggetto aggregatore.

4. Lo stanziamento di risorse (minime) per il Tavolo degli aggregatori, presumibilmente per sostenere le stazioni appaltanti che non fanno parte del Tavolo nel disegnare gare per quelle categorie di beni e di servizi che non rientrano nelle categorie individuate ogni anno e dove vige maggiore discrezionalità.

E’ una strategia destinata al successo? Al di là del fatto che i decreti attuativi sono già in ritardo (a testimonianza di una mancanza di un senso di urgenza del tema nelle stanze del Governo), rimangono forti perplessità se veramente si vuole ottenere un sistema di appalti capace di assicurare performance di qualità. Ci vogliono anche investimenti notevoli per ottenere: a) i dati per monitorare le performance (assenti a tutt’oggi) b) una governance dei controlli sulla qualità delle commesse e il rispetto dell’obbligo di acquistare presso i soggetti aggregatori (le lettere di Cantone e Cottarelli mai spedite a chi non si era adeguato agli obblighi nel passato la dice lunga sulla volontà politica di mettere la “casa” in ordine) c) una vera professionalizzazione delle stazioni appaltanti.

Il coordinamento lascia poi insoluta la questione della governance dell’esecuzione delle gare, sia a livello territoriale che di tipologia di appalti. Per quanto riguarda la dimensione territoriale, la richiesta ai Comuni non capoluogo di provincia di costituirsi in unioni di comuni, per quanto difficile da realizzare, rappresenta un obiettivo di dimensione minima delle stazioni appaltanti che va apprezzato ma che rimane da sempre un pio desiderio. Sarebbe ora di forzare la mano ed immaginare che le vituperate cento e passa Province, dove albergano notevoli competenze sugli appalti e che rimangono a livello sociale l’entità organizzativa del territorio più vicina alle culture ed alla storia locale, siano responsabilizzate come unica stazione appaltante, per tutto quello che non è acquisti sanitari da lasciare alle Regioni. Sarebbe un’aggregazione che non darebbe fastidio alle PMI e che permetterebbe un controllo più agevole della qualità delle commesse.

Per quanto riguarda la tipologia di appalti, è noto come la standardizzazione di beni e servizi è possibile solo per una quota parte di questi. Sulla rimanente parte è grande discrezionalità non solo da parte di piccole stazioni appaltanti ma anche di grandi acquirenti come i Ministeri. Tutto ciò è vero anche per la grande galassia dei lavori pubblici. E’ ovvio che tali acquisti vanno non solo tracciati (punto a), controllati (punto b) e gestiti da professionisti (punto c) ma anche programmati in anticipo così da ridurre il rischio che tali appalti non siano in ultima analisi aggiudicati approssimativamente e con procedure non competitive.

Se il Governo veramente volesse combattere sprechi da corruzione e incompetenza dovrebbe far partire una vera macchina da guerra. La lentezza nei tempi di attuazione del decreto e la mancanza di ambizione organizzativa paiono dire tutt’altro.

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L’uovo di Colombo per combattere la corruzione

Ho apprezzato l’articolo di Michele Ainis sul Corriere quando afferma, scettico, che le misure per combattere la corruzione, serviranno a poco: “perché chi ruba e chi intrallazza non pensa al codice penale, pensa di farla franca. E se ci pensa, non saranno dieci anni di galera anziché otto ad arrestare i suoi progetti. Perché inoltre il deterrente non risiede nella durezza della pena bensì nella sua certezza; ma alle nostre latitudini è sempre incerta la condanna non meno della pena. Perché l’ordinamento giuridico italiano ospita già 35 mila fattispecie di reato, che chiunque può commettere senza nemmeno sospettarne l’esistenza.”

E quando afferma che: “Eppure una via d’uscita ci sarebbe: passare dalla (finta) repressione alla (vera) prevenzione“, non posso che concordare con lui.

Ma dissento profondamente dalla sua idea di prevenzione: “potremmo uscirne fuori rendendo obbligatorio per legge il provvedimento deciso dal sindaco Marino dopo la scoperta dei misfatti: rotazione dei dirigenti, degli incarichi, dei ruoli di comando“.

Dopotutto, è l’uovo di Colombo. Se non resti per secoli inchiodato alla poltrona, ti sarà più difficile poltrire, ti sarà impossibile ordire. E il corruttore avrà i suoi grattacapi, se il corruttibile cambierà faccia a ogni stagione come una maschera di Fregoli.”

Strano concetto per un ambiente prono alla corruzione sistemica come quello che si sta rivelando quello italiano: ruotare corrotti con corrotti? E che problemi mai dovrebbe avere il corruttore? E se facciamo tutti parte dello stesso club, che difficoltà mai avrò nel “poltrire”? Studi economici dimostrano che al massimo la rotazione in un simile ambiente porta ognuno ad aumentare le sue richieste di tangenti quando in posizione di comando per far fronte al minor introito futuro dovuto alla rotazione.

Strano poi che Ainis non chieda la rotazione delle cariche per magistrati, universitari, maestri e diplomatici, tutta una vita intenti a fare lo stesso mestiere. E perché mai non lo fa? Semplice, perché sono mestieri che richiedono competenze specifiche, che negli anni permettono l’accumularsi di sapere ed esperienza, condizioni essenziali per creare valore aggiunto per il Paese. I più bravi, sperabilmente, salgono di più nella progressione di carriera: quindi vi è modo per stimolare il non “poltrire” mantenendo tuttavia l’enfasi sulla non rotazione.

E altrettanto, e forse più, dovrebbe valere per chi lavora nelle stazioni appaltanti. Dove il valore per il cittadino dell’esperienza e la competenza è quantificabile in miliardi di euro e che meriterebbero dunque il contrario della rotazione: una percorso di carriera professionale altamente remunerato con promozione per i più bravi. Consentendo così anche di resistere molto più facilmente alla tentazione della corruzione.

Ainis è al corrente di questa seconda soluzione ma la discredita affermando: “Dice: ma così diminuirà la competenza, che cresce in virtù dell’esperienza. Vallo a raccontare agli italiani, alle vittime di un’amministrazione incompetente e per giunta inamovibile.”

Strano ragionare: se è vittima di un’amministrazione incompetente non sarebbe il caso di renderla competente, investendo fior fiore di risorse in essa? E’ quello che d’altronde sta proprio in questi mesi valutando la Commissione europea: come sospingere gli Stati membri più pigri ad investire nelle competenze nel mondo degli appalti pubblici, esattamente come è avvenuto negli ultimi trent’anni nel settore privato. Dove da funzionario di secondo rango dell’organizzazione il responsabile degli acquisti è diventato capo di una funzione tra le più strategiche all’interno dell’organigramma aziendale.

“E comunque l’uovo non lo inventò Colombo: fu deposto nell’antica Grecia. In democrazia si governa e si viene governati a turno, diceva Aristotele. Sarebbe bello se l’Italia sapesse riparare la sua democrazia. Di più: sarebbe onesto.”

Altra confusione: l’alternanza democratica avviene, a ragione, quando fallisce chi è in carica. La rotazione dei funzionari rimuove i bravi come i meno bravi, gli onesti come i corrotti, rendendo inutile l’accumulo di competenze. Rimuovere i meno bravi si può, senza rotazione: basta sapere e volere cambiare. Cercare, selezionare, premiare i più bravi ed onesti si può, anche in un mondo così complesso come quello degli appalti pubblici: basta volerlo.

Ci vogliono tante risorse per farlo ma che renderanno 100 volte tanto.

Certo poi ci saranno quelli che diranno, “bella forza, con tutti questi soldi spesi ci riuscivo anche io”. E il leader che sarà stato veramente coraggioso e deciso a cambiare il Paese per il meglio, come Cristoforo Colombo ed il  suo uovo, gli ricorderà che “la differenza, signori miei, è che voi avreste potuto farlo, io invece l’ho fatto!”.

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No la corruzione non è provinciale

Sabino Cassese sul Corriere della Sera: “il decentramento porta con sé maggiore corruzione: questo risulta da tutti gli studi compiuti nel mondo sulla corruzione“.

http://www.corriere.it/opinioni/14_dicembre_10/punire-corrotti-ma-piu-prevenzione-9c9e4450-8042-11e4-bf7c-95a1b87351f5.shtml

Non sono un fan del decentramento per se. Ma è vero che la frase sopra è sbagliata. Conosco almeno uno studio che dice il contrario, in realtà anche più di uno.

Visto che parliamo di appalti (gli scandali di Roma da lì nascono) e visto che siamo in tempi di potenziale accentramento degli appalti nelle mani di poche stazioni appaltanti (un errore), varrà la pena citare almeno uno studio.

E’  “How Much Public Money Is Wasted, and Why? Evidence from a Change in Procurement Law” di Oriana Bandiera, Andrea Prat, Tommaso Valletti, American Economic Review, Dicembre 2009. A tutt’oggi la più completa analisi degli acquisti pubblici italiani di beni e servizi. Gli sprechi, di corruzione ed incompetenza (ma i due si sostengono spesso a vicenda) sono calcolati sui prezzi di acquisto e divisi per livelli di governo:

Gli enti universitari e le ASL pagano i prezzi più bassi. Paragonati ad essi, il comune medio paga il 13% in più. La differenza aumenta ancora con i governi regionali (21%), gli enti di previdenza (22%), mentre il ministero “medio” supera tutto con prezzi maggiori del 40%”.”

Insomma sembrerebbe che sia il centro a mostrarsi più corrotto.

E poi non scherziamo col fuoco: il Prof. Cassese sa bene quanto l’accentramento degli appalti al centro sarebbe dannoso per le PMI di questo Paese. Non c’è bisogno di aggiungere benzina sul fuoco della recessione più grave da sempre, che sta uccidendo le nostre PMI. Meglio, molto meglio sarebbe, resuscitare le 100 e passa province – dove albergano ottime competenze negli appalti e la giusta vicinanza culturale al territorio – e affidare a loro la razionalizzazione organizzativa degli appalti pubblici.

Cassese prosegue con un altro fattore a suo avviso fautore di corruzione: “quello dei sistemi derogatori, con cui si aggirano le regole sugli appalti. In particolare, a Roma, specialmente dal 2008, con la solita motivazione che le procedure sono arcaiche e farraginose («da sbloccare», nel linguaggio di uno degli indagati), si sono creati percorsi paralleli, meno garantiti e meno controllati.”

Le “regole del gioco” sugli appalti, quelle del gioco “buono”, si aggirano in mille modi, ai fini corruttivi, spesso senza bisogno di deroghe. Condizione  non necessaria, la presenza delle deroghe, ma nemmeno sufficiente, per la corruzione. Spesso le deroghe hanno infatti altra ragione che non la corruzione: l’incapacità di programmare e, a volte, effettivamente l’arcaicità, ma anche l’erroneità delle procedure previste dalla norma.

Che la “scoperta” improvvisa della corruzione non diventi dunque motivo per invocare un nuovo “round” di regole e vietare il necessario passaggio alla maggiore discrezionalità delle stazioni appaltanti che la Nuova Direttiva europea tra l’altro prevede. A scanso di equivoci ribadiamolo: ci vorranno più investimenti nelle competenze, più controlli anche tramite l’aiuto dei dati (ad oggi gelosamente nascosti), più premi e meno regole per un sistema di appalti meno corrotto, meno colluso e più efficace.

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Se muore l’Università, muore il Paese

L’altra giorno all’inaugurazione dell’anno accademico della mia università il Rettore ha mostrato a tutti una slide sulla formazione universitaria che mi ha fatto sobbalzare. La conosco bene quella slide, l’avrò mostrata chissà quante volte sul blog e nei convegni, è diventata il mio incubo, il simbolo di cosa non facciamo per far ripartire questo Paese, della nostra maledetta incompetenza di politica economica, industriale, culturale, a fronte di un patrimonio che ci permetterebbe di volare in alto, più in alto di tutti. Ma ho sobbalzato perché il Rettore ha mostrato l’aggiornamento al 2013, che non avevo mai visto.

E sì che vi è da sobbalzare.

Mostra, la slide, la percentuale, nei vari Paesi dell’Unione europea, della popolazione tra i 30 ed i 34 anni di laureati. L’Italia, il Paese del Rinascimento, è finalmente riuscito a mostrarsi definitivamente per quello che è: ultimo nella classifica, sotto il 25%, quando l’Europa chiede a tutti i Paesi di raggiungere entro il 2020 il 40%, valore già raggiunto dalla maggioranza dei Paesi dell’UE, e che per il 2020 è probabile solo 8 Paesi, ovviamente noi compresi, non raggiungeranno.

E’ ovvio che il dato dipende da mille fattori di cui tenere conto. Essendo persone con età media di 32 anni possiamo immaginare che si siano laureati circa 10 anni fa, quindi ben prima che la crisi finanziaria e poi economica ci toccassero. E’ un problema strutturale, che viene da lontano, quindi. La recessione potrebbe aiutare questi numeri a salire? Tipicamente sì: quando l’economia non tira i giovani trovano rifugio “involontario” nella formazione. Ma sappiamo che i numeri sugli iscritti nelle università italiane vanno calando e quindi non possiamo nemmeno sperare nell’effetto “disperazione”, superato da un qualcosa di apparentemente misterioso che allontana come un virus minaccioso i nostri ragazzi dall’entrata nei nostri atenei.

C’è poi l’effetto emigrazione. Molti ragazzi che provengono da famiglie che possono permetterselo o che sono disposte a fare sacrifici ormai mandano i loro ragazzi all’estero, ragazzi che in buona parte non torneranno, acquisiranno la residenza e forse la cittadinanza altrove e finiranno per non far parte nemmeno della popolazione (quella italiana) di riferimento.

L’effetto emigrazione a sua volta è dovuto sia alla recessione (e quindi lo vedremo tra qualche anno su questo grafico) sia alla migliore qualità media delle università straniere (e quindi questo lo vediamo probabilmente già nella tabella sopra). E’ impressionante notare dal grafico come si stia allargando il gap tra noi ed il resto d’Europa in poco più di 10 anni: gap che tra noi ed i terzi classificati era pari al 25% nel 2004 ed è al 30% oggi.

E a poco serve dire che la statistica non conteggia i giovani di cittadinanza straniera che si laureano in Italia: anche su questo siamo così carenti rispetto agli altri Paesi che si acuirebbe il divario di performance. Ma questo non farebbe altro che segnalare che il problema non sta tanto nella mancanza di sbocchi nell’economia italiana (lo studente straniero si muove rapidamente fuori dalla penisola appena finiti gli studi), quanto piuttosto da una mancanza di attrattività per i giovani del nostro sistema universitario.

*

Non voglio stavolta dire che il colpevole sia il Fiscal Compact, perché gli altri Paesi, anche quelli colpiti dalla recessione e più deboli, crescono tutti più di noi. E anche perché, lo ripeto, queste statistiche provengono da anni “non magri”, prima della crisi. Ma certamente con il Fiscal Compact essi sono destinati ad acuirsi da qui in poi in assenza di una mobilitazione generale. Perché l’Università è destinata ad essere la prima vittima dei tagli richiesti dall’Europa: troppo facile farlo.

Guardiamo le statistiche del DEF delle manovre del Governo Monti-Letta-Renzi di questi ultimi anni per quello che sta facendo sul lato della spesa. Partiamo dagli ultimi dati sul 2015 con la finanziaria: con un PIL che praticamente non cresce la spesa primaria corrente – che include pensioni e spesa per l’università – rimane pressoché costante al 42,7% del PIL. Se le pensioni aumentano di 4 miliardi, il resto dunque diminuisce.

Ma all’interno di questo valore che diminuisce il Governo potrebbe trovare le sue priorità (si chiama spending review, che non vuol dire tagli ma priorità di spesa): l’Università per esempio. La Relazione trimestrale di Cassa appena uscita – che paragona spese nel primo semestre 2012 a quelle del 2014 – sembra dire tutt’altro:

  1. Pagamento di stipendi: da 17,7 miliardi a 17,6 (malgrado l’inflazione positiva del periodo)
  2. Consumi intermedi: da 414 milioni a 324 (includete in queste le manutenzioni delle aule, degli uffici, dell’informatica, ecc.)
  3. Trasferimenti correnti: da 3,2 miliardi a 0,9 (anche se la nota precisa che nel secondo semestre queste differenze saranno riassorbite, il ritardo è un danno, specie se trattasi di borse di studio, che le Regioni, con i tagli attuali, stanno pensando di dover ridurre nel 2015)
  4. Contributi alle residenze degli studenti universitari sempre fermi a … zero
  5. E con… un aumento alle università non statali (!) da 15 a 29 milioni.

http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Attivit–i/Contabilit_e_finanza_pubblica/Trimestral/2014/index.html

I numeri sono chiari e si traducono in investimenti sempre più scarsi: ci vogliono tre docenti che vadano in pensione per poter assumerne uno nuovo; gli stipendi pressoché uguali per tutti (una volta vinto il concorso) – con poca distinzione per la qualità della ricerca di base, della didattica, del rapporto con le imprese – e ormai fermi da tempo, quando nel resto del mondo la qualità viene sempre più premiata.

Non vi è più spazio per i giovani ricercatori.

Le strutture di formazione in lingua inglese per studenti stranieri non sono premiate che minimamente, senza risorse stanziate per potersi presentare nel mondo e combattere alla pari la battaglia per attrarre talenti in Italia: marketing, residenze di qualità, professori stranieri di qualità, lauree congiunte con università straniere di qualità, sono lasciate alla volontà di pochi che resistono.

Il Sistema Paese non si organizza per fare della formazione universitaria un export di valenza strategica come nel Regno Unito, che non solo ottiene significative rette dagli studenti stranieri, ma ottiene da questi una gratitudine che nel tempo frutterà al Paese una rete di conoscenze e benefici indiretti per le proprie imprese ed i suoi cittadini. Il sistema confederale delle imprese e il sistema bancario hanno smesso di aiutare le università pubbliche italiane con donazioni e rapporti intensi di collaborazione e si limitano a rapporti con due tre università private e qualche centro di eccellenza.

In questo stato, non dovremmo sorprenderci se l’Università italiana ha smesso di essere attrattiva. Ma se l’Università diventa meno attrattiva è il Paese che lo diventa. Immaginate l’Università come una palestra: se non la si pratica quotidianamente, si deperisce, si diventa meno forti, si perdono le gare.

*

Traggo spunto da una citazione letta ieri al convegno di Tor Vergata sui 25 anni dei diritti dei bambini. E’ di Anthony Lake DG dell’Unicef, che ha detto: “svariati studi dimostrano che quando si costruiscono politiche e programmi volti a raggiungere gli obiettivi difficili e non quelli più facili, otteniamo più risultati. Certamente ci sono più costi nel farlo. Ma le nostre analisi mostrano come tali costi sono superati dai risultati addizionali”.

Aver lasciato la politica dell’Università fuori dalla spending review, fuori dalle riforme per prediligere questioni irrilevanti ed avergli riservato tagli a casaccio ed indifferenza in tutti questi anni è una delle ragioni primarie del nostro fallimento: è stato come mirare agli obiettivi più facili. Mentre il mondo punta sull’università del domani, noi ci siamo chiusi a riccio nelle polverose stanze della contabilità, a tagliare senza osare, a contare col pallottoliere senza sognare col pennello di tracciare l’affresco stupendo del sapere, affresco che sarebbe alla nostra portata, come lo erano quelli che tracciammo, con immensi sforzi fisici e visionaria follia, nel nostro Rinascimento.

Meritiamo di meglio.

Grazie a Renato e Simonetta.

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La pressione fiscale e il Gattopardo

Non sarà sfuggito ai più come nella importante relazione della Banca d’Italia del Direttore Generale Signorini mancasse il dato sulla pressione fiscale derivante dalla manovra Renzi. https://www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/signorini-031114/signorini-03112014.pdf

Ora abbiamo anche i numeri della pressione fiscale. Per calcolarli ci vuole un po’ di pazienza, ma la base dei calcoli è l’allegato 3, pubblicato nellatto parlamentare C.2679, la trovate verso pagina 124 dell’atto. Vanno calcolati tenendo conto che: a)  è improbabile che la clausola di salvaguardia sull’IVA venga attuata integralmente; b) il bonus – di natura ibrida – è nelle spese.

Leggere per credere:

In sintesi? La pressione fiscale con il Governo Renzi aumenta costantemente in tutti i prossimi anni, fino al 43,8%. Se voleste essere benigni potreste dire che includendo il bonus rimarrebbe costante. Se voleste essere maligni, potreste dire che includendo l’aumento quasi certo delle tasse locali a fronte del taglio dei trasferimenti della spending review aumenterebbe ancora di più.

Ma sta di fatto che è tutto assai chiaro: manovra, quella di stabilità, in puro stile Gattopardo, gattopardo europeo o italiano, poco importa.