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Mind the E: Renzi cambi bene il MinistEro

L’occasione fornita dalle dimissioni del Ministro Lupi è ghiotta come non mai. Nei prossimi giorni Renzi avrà infatti il modo di effettuare una mossa decisiva per il futuro benessere del Paese. No, non avete capito, non è quella di cambiare il Ministro delle Infrastrutture. E’ cambiare, radicalmente, il MinistEro.

E farne, cambiandone nome e connotati, finalmente, quello che tutto il mondo è impegnato a fare per rilanciare la competitività del proprio sistema Paese: un vero, solido, significativo Ministero della Qualità della Spesa. Lasciando il controllo della Quantità della spesa (e vincolando i due Ministeri ad attuare un attento coordinamento tra di loro) al Ministero dell’Economia e Finanze di Via XX Settembre.

Al Ministero della Qualità della Spesa spetterà l’arduo compito di … ?

Beh è semplice: di gestire tutto quello che riguarda quella incredibilmente importante galassia, finora ignorata, degli appalti di beni, servizi e lavori che occupa addirittura il 16% del valore aggiunto che viene creato ogni anno in Italia, fattore di spreco o rilancio a seconda di come viene gestito. Sconvolgente che un Paese come il nostro non abbia mai pensato a gestirlo, vero?

I suoi compiti? Sfidanti ma essenziali.

Primo, urgentissimo. Far recepire immediatamente la nuova Direttiva europea sugli appalti come ha già fatto da qualche settimana fa il Regno Unito, senza alcun fronzolo ulteriore, frutto di sudditanza e dibattiti infiniti con le varie lobby: fare un rapido copia ed incolla del testo europeo, evitando di metterci tre anni e passa come nel caso del recepimento della precedente direttiva. Una scelta di questo tipo avrebbe non solo il pregio della trasparenza ma anche della susseguente stabilità del quadro normativo, essenziale per gli operatori: sarebbe infatti impossibile a quel punto apportare nei prossimi anni modifiche (finora infinite se guardiamo ai precedenti testi legislativi) vista l’autorità della fonte normativa, quella europea.

Secondo, accelerare, ultimare ed avviare il tavolo degli aggregatori delle commesse di beni e servizi, coordinandone le riunioni e fissando le direttive per l’approccio che queste (Consip, le Consip regionali e metropolitane) dovranno seguire quando appaltano. Cosa comprare (quanto “verde”  e quanta “innovazione” immettere negli acquisti pubblici non può certamente essere demandato alle Consip, mere stazioni appaltanti), da chi comprare (imprese con disoccupati? Imprese con portatori di handicap?) per dar seguito alle raccomandazioni europee, dove investire i risparmi derivanti dalla spending review (quali infrastrutture, quali manutenzioni, quali acquisti strategici).

Terzo, avviare immediatamente e gestire un database di tutti i contratti pubblici, centralizzando su una sola piattaforma (non le gare, cosa che ucciderebbe le piccole imprese) la fornitura obbligatoria da parte delle stazioni appaltanti di ogni dato rilevante per stabilire la tipologia di gara, permettendone il confronto con gare analoghe, ed il suo esito finale. A valle di ciò coordinarsi con Autorità Anticorruzione, Direzione Antimafia e Autorità Antitrust per i controlli a campione sulla base dei dati ricevuti ,facendo uso della Guardia di Finanza e di altre unità specializzate delle Forze Armate.

Quarto, monitorare come fa negli Stati Uniti d’America la Small Business Administration, la stesura dei capitolati delle più importanti stazioni appaltanti per verificare che tali gare non siano discriminatorie rispetto alle capacità delle piccole imprese. In ognuna di queste stazioni appaltanti (compresa ovviamente Consip) verranno “stazionati” rappresentanti esperti delle Confederazioni delle PMI che riportano direttamente al nuovo Ministero le proprie considerazioni in caso di mancato accordo sulle modifiche richieste.

Quinto, la creazione di un Fondo speciale del 10% dei risparmi generati dalla spending review, 2 miliardi l’anno circa, dedicati all’assunzione di 20.000 funzionari di carriera esperti di appalti, certificati, ammessi con concorso pubblico basato sulle loro competenze nel campo degli acquisti pubblici. A tali professionisti selezionati, dipendenti del nuovo Ministero, verrà permesso di svolgere una carriera professionalizzante come quella dei diplomatici e dei magistrati in cui la progressione di carriera sarà determinata dal raggiungimento di competenze e risultati all’interno delle stazioni appaltanti locali dove saranno destinati.

Se Renzi riuscirà ad annunciare questa rivoluzione organizzativa avrà la nostra completa ammirazione perché sarà riuscito finalmente a centrare la madre di tutte le riforme, ridando qualità alla nostra spesa pubblica e dunque competitività al nostro sistema economico, oltre che fiducia nella macchina amministrativa.

Tutto il resto è vecchia politica da rottamare.

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Bravi noi italiani se il Paese puzza di meno

Caro Gustavo,

ci sentiamo veramente poco. Ho sentito la notizia di Incalza, che sarebbe stato il grande manovratore alle spalle di ben 7 ministri. Lo sapevamo tutti. Leggi un librettino “Ecomafia” di Antonio Cianciullo (è del 1995, ma nella parte finale parla anche di Incalza). Se la caverà con un niente di fatto. Come tutti gli altri. Ho scoperto per caso che i contractors scelgono/nominano le direzioni lavori. Qui siamo a livello di corruzione brutale e banale che incrementa i costi del millanta per cento!! Chi sono i  geni del male che hanno costruito tante architetture mirabili dove davvero la corruzione è incentivata al massimo? Direi che converrebbe chiudere subito tutti i cantieri, finché non si riesce (se è ancora possibile) a regolamentare/limitare tante oscenità. Ma non ho più voglia. Altro che whistleblowers!! In Italia ormai si tratterebbe di parlare a un mondo di sordi!! Che schifoooooooooo

Tuo, G.

*

Capisco il mio amico G. Eppure gli ho risposto che in questa ennesima vicenda degli appalti pubblici (che questo autore di blog ritiene essere cruciale per la rinascita del Paese, e non solo quando esplodono gli scandali) c’è un elemento di forte ottimismo che deve far ben sperare per il futuro del Paese.

Ricordo ancora quando pochi anni fa si paragonavano gli esempi “virtuosi” di altri Paesi europei – dove chi errava, tra coloro con responsabilità politica, si dimetteva immediatamente - con quelli italici di resistenza ad assumersi le proprie, appunto, responsabilità.

Oggi, quasi nessuno lo nota, l’Italia è tra quei Paesi europei virtuosi dove comportamenti non corretti (non necessariamente contro la legge) non sono automaticamente digeriti e dimenticati. Anzi, è un Paese dove un Ministro sente l’urgenza, ancor prima del dovere, di dimettersi.

Il Paese – e chi lo governa certamente ha fiutato bene i suoi umori – non tollera più certi comportamenti, fino a pochi anni fa tollerati.

Che sia chiaro: non sto parlando dell’eventuale opportunismo politico e del “due pesi e due misure” di Renzi, questione irrilevante nell’ambito del mio ragionamento. Sto parlando di cosa il Paese ha chiesto ed ottenuto da Renzi, sto parlando di cosa il Paese ha chiesto ed ottenuto da Lupi.

Un Paese che cresce, pian piano, ma cresce. Avanti così.

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Gli eroi della lotta contro la corruzione, in memoria di Giorgio Ambrosoli

Ieri eravamo a Pistoia, con i Viaggiatori in Movimento, dove abbiamo assistito alla proiezione del film di Michele Placido  “Un eroe borghese”, tratto dal libro di Corrado Stajano. Dopo di essa è arrivata la signora Annalori, moglie dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso nel  1979  di fronte alla sua abitazione a colpi di pistola di un sicario ingaggiato dal banchiere Michele Sindona, le cui banche erano state poste in liquidazione dal Commissario nominato dalla Banca d’Italia, Giorgio Ambrosoli appunto.  Dopo il suo discorso e di fronte a lei abbiamo avuto la possibilità di confrontarci sul tema dell’economia criminale e della corruzione. Riporto qui sotto quanto da me espresso in questa occasione.

 *

Quando ho saputo che avrei rivisto questo film, mi è tornato in mente in quale cinema e con chi lo avevo visto la prima volta. Questo solo per dire quanto la storia di Giorgio Ambrosoli sia viva dentro di me e credo dentro molti della mia generazione, in cui ha lasciato un segno nascosto e permanente.

Credo che dal film appaia con nitidezza come l’economia criminale si nutra di corruzione, il suo ossigeno principale, e come la lotta alla corruzione sia quindi  fondamentale per prevenirne la crescita. Avrete notato come il film giochi su questa apparente contraddizione: gran parte delle scene dove compare il personaggio di Sindona si svolgono all’aria aperta, mentre Bentivoglio e Placido (che interpretano Ambrosoli ed il Maresciallo Novembre  della Guardia di Finanza) sono quasi sempre ripresi nel chiuso di piccole stanze dove scartabellano centinaia di documenti contabili. Eppure, sono le scene con Sindona quelle piene di claustrofobia, sempre più circondato dal suo misero destino di sconfitto mentre dall’altra parte l’energia positiva, l’aria pulita sprigionate dal coraggio e dallo spirito civile animano nelle indagini i due servitori dello Stato.

Voglio parlarvi, prendendo spunto dal film, della lotta contro la corruzione e delle sfide che ancora oggi essa pone al nostro Paese. Cominciando, vi parrà strano, dalla frase di Stendhal che l’attrice Laura Betti pronuncia nel film (difendendo l’operato di Sindona): “l’onestà è la virtù della gente da poco”. Ho sempre amato il grande scrittore francese e non potevo credere  che questa affermazione fosse veramente sua, quindi ieri sera l’ho ricercata su Internet, trovandone conferma. Non solo, ne ho trovata un’altra, altrettanto sprezzante: «La passion dominante du sherif est de gagner de l’argent par des moyens honnêtes» (la passione principale dello sceriffo è quella di guadagnare denaro con metodi onesti).

Ho ritrovato in un testo di Giulia Oskian sulla rete una buona spiegazione dell’atteggiamento del romanziere: “Stendhal accoglie con diffidenza e disprezzo il diffondersi di questa morale che gli pare corrotta nella misura in cui pretende di rendere dei valori strumentali / valori prìncipi e perché sostituisce al nobile ideale della grandezza un ideale ridimensionato: la probità fine a se stessa.”

http://www.academia.edu/9118206/Lo_spirito_democratico_in_Tocqueville_e_Stendhal

Non la probità di Ambrosoli, ancorata alla grandezza di una coscienza civica, una piena coscienza, lui dice nei diari lasciati alla famiglia, di avere “operato solo nell’interesse del Paese”. Ma l’avvertimento così ben sintetizzato segna a mio avviso un monito potente al nostro modo presente di intendere la lotta alla corruzione: il rischio che corriamo in questo mondo pervaso di burocratici e pervasivi Piani Anti Corruzione, di adempimenti formali, è di quello creare quella che Leonardo Sciascia chiamava una “nuova classe”: quella dei professionisti dell’anti corruzione.

Lo comprende bene anche l’Ambrosoli interpretato da Bentivoglio, quando sottolinea che tutto è negli uomini e nei loro valori e non tanto o non solo nelle regole o le istituzioni: “la Banca d’Italia è fatta dagli uomini non dai muri!” esclama nel film richiedendo sostegno nel momento di difficoltà; ed al finanziere, in un momento di una forte vicinanza, riconosce come “non contano le divise, contano gli uomini che ci stanno dentro”.

Credo sia dunque utile partire da qui, dal porsi la domanda fondamentale: come sono questi uomini?  Per inquadrare al meglio la questione mi faccio aiutare dal Mito di Gige, citato nella Repubblica di Platone, dove si chiede di rispondere a questa domanda: “chi può evitare di fare del male ad altrui per il suo tornaconto se non/mal sorvegliato?”. Socrate risponde: “tutti, perché l’uomo sceglie sempre di fare il bene e se fa il male è solo per via di un errore “intellettuale“. La giustizia infatti dà un senso di felicità e di benessere a chi la compie”. Glaucone, recita convintamente l’opposto: “nessuno, perché l’ingiustizia da più soddisfazione che non la giustizia”.

Sorge spontaneo a questo punto chiedersi quanti sono gli uomini come li pensa Socrate: tanti? Pochi? Io credo che siano tanti. “La Mafia uccide solo d’estate” il film recentemente uscito con Pif racconta in maniera convincente la storia di un esercito di uomini che finalmente emerge nelle piazze della Sicilia per avviare una primavera di rinnovamento sociale nel nome del “mai più tolleranza per la Mafia”.

Certo, resta la questione di sorvegliare i malintenzionati, che esistono, fossero anche una minoranza come io credo. Perché la corruzione, come dice la parola, rompe in mille pezzi. Non volevo fare qui un discorso tanto da economista, ma ora mi si lasci dire che  - è vero – ci sono i numeri sulla corruzione (un po’ casuali a dir la verità, anche perché i dati veri sui reati di corruzione ancora non li abbiamo a disposizione, tema su cui potremmo aprire un ulteriore rilevante dibattito ) come i 60 miliardi di euro di tangenti Ma mi rendo conto: non scaldano molto il cuore. Colpiscono  - invece –  altri dati che ne misurano l’impatto, contandone i danni. Come quelli di due ricercatori brasiliani che hanno mostrato, dopo uno scandalo nelle scuole dei singoli stati brasiliani che ha colpito solo alcune amministrazioni, come i voti a scuola di portoghese e matematica in quegli stati non colpiti dalla corruzione fossero – a parità di tutti gli altri fattori – ben più alti che in quegli  Stati dove i fondi erano stati utilizzati per distrarli a favore “della moglie del sindaco” o dei suoi amici. Ecco, questo è un modo di misurare la corruzione che fa vibrare la nostra indignazione e ci mobilita . 

 

Come sorvegliarla? Concordo con Roberto Bartoli e le sue parole di pochi minuti fa: non con le pene, che arrivano dopo, troppo tardi ed il cui impatto è lieve per i potenti. Sì, con la confisca. Ma mi si lasci anche citare, per meglio inquadrare il mio scettiscismo al riguardo di considerare gli strumenti legislativi come “la soluzione”, seppure essi siano a volte funzionanti in altri Paesi, l’esempio significativo della legislazione sul testimone di corruzione, ancora ai nastri di partenza in Italia. Non parte per un motivo semplice: perché molti li chiamano ancora “delatori” e non “eroi” (parola consona al dibattito odierno su un eroe borghese), perché i giornali  cuciono loro addosso,  l’infelice appellativo di “corvi”. Perché non abbiamo avuto il coraggio di proteggerli con una legislazione apposita, blindandone la sicurezza futura, premiandoli con cifre di denaro atte a compensarli degli enormi stress e pressioni che riceverebbero nel caso di collaborazione con le autorità. Probabilmente la nostra cultura è ancora giovane per strumenti di questo tipo, probabilmente altri passi devono avvenire affinché il nostro legislatore abbia il coraggio di accettare, come non ha fatto  due anni fa quando ha rifiutato la proposta del Comitato di esperti nominato appositamente (di cui faceva a parte il mio collega giurista Bernardo Mattarella) di riservare il 20% della mazzetta scoperta al testimone di corruzione.

Ma per sorvegliare non vi è strumento più efficace che fare emergere l’esercito di buoni, un controllo sociale dall’impatto potente.  Come?

Vi è nella semantica della parola “sorvegliare” un altro afflato, più amorevole, quello che caratterizza il ruolo del maestro con l’allievo, del padre con il figlio, e che attiene al ruolo morale dell’esempio, così ben sintetizzato dalla risposta di Bentivoglio a Betti: “il vero Paese è quello che costruiamo con il nostro lavoro”. Ecco, ora vi assicuro che non ci siamo messi d’accordo, ma quando Roberto Bartoli intervenuto pochi minuti fa ha chiesto che Pistoia venga intitolato un Parco a Giorgio Ambrosoli, ho provato una grande gioia, perché sui miei appunti avevo segnato che la parola “costruire” mi portava ad utilizzare per quanto segue la metafora più appropriata che è quella del “giardiniere” e dell’albero che vogliamo far crescere con amorevole cura. Che richiede una triplice sfida.

La prima: quella delle radici. Un albero per essere forte ha bisogno di radici solide,. Le radici sono tanto più robuste quanto più sono  state curate. Il personaggio di Pif porta in braccio suo figlio appena nato, nei luoghi dove Palermo commemora la scomparsa degli eroi della lotta durissima degli anni ottanta e novanta contro la Mafia. Eroi come Ambrosoli. Che danno coraggio e certezza ad ognuno di noi. Di cosa significhi camminare nel giusto, di sapere che si può camminare nel giusto.

Ma non bastano radici forti, abbiamo bisogno di un giardiniere attento, coraggioso, competente perché quei frutti possano maturare e poi dar vita ad una foresta. E chi è il giardiniere? Ambrosoli lo aveva chiaro in mente. Siamo noi. Quando afferma nei suoi diari, spiegando perché aveva accettato l’incarico di Banca d’Italia, “è stata un’occasione unica di fare qualcosa per il paese”, sminuisce forse un poco la sua vita, permeata di passione ed impegno civile. Perché in realtà i giardinieri sono impegnati ogni giorno nel loro lavoro di curatela del bello. Un lavoro durissimo, come ricorda Italo Calvino al termine delle sue Città Invisibili”:

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti (ma così tanti non sono, vi ripeto, ma capisco l’artificio retorico di Calvino, NdR): accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Farlo durare, dargli spazio: il lavoro del giardiniere che spetta ad ognuno di noi per far crescere l’esercito che alla fine sconfiggerà la corruzione e darà slancio all’albero del nostro Paese.

Ma ci ingaggiamo in questa attività così minuziosa e amorevole non solo per sconfiggere, ma per vedere crescere il bello, lo sa bene il giardiniere. Se un albero ha radici forti è probabile che avrà germogli e frutti buoni. E qui è inevitabile per me ringraziare la Signora Ambrosoli per avere concluso il suo discorso menzionando i giovani, oggi presenti in tanti qui nella sala di Pistoia, come la leva vera per cambiare il Paese, i nostri germogli.

Il tema dei giovani era caro a Ambrosoli, nella sua accezione più diretta, quando ricordava, di nuovo nei diari, i suoi figli alla moglie: “abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il paese, si chiami Italia o si chiami Europa”.

C’è sempre un po’ di scetticismo, di mancanza di fiducia, nei nostri giovani. Ricordo un episodio menzionato nel mio blog, di qualche anno fa. Quando Mario Calabresi scrisse sulla Stampa: “ogni volta che incontro un gruppo di ragazzi di una scuola o universitari che si affacciano al mondo del lavoro faccio sempre la stessa domanda: «Se vi dico la parola futuro cosa pensate?». Non ce n’è uno che mi dia una risposta positiva, incoraggiante o colorata. Le parole che sento ripetere sono: «Paura, incertezza, precarietà». I più intraprendenti mi dicono che se ne vogliono andare all’estero, che fuggiranno appena sarà possibile.”

Interrogai i miei studenti in aula, non convinto da questa visione pessimistica del bravo direttore del giornale torinese. In aula per la prova intermedia a sorpresa, li ho sorpresi chiedendogli di scrivere accanto a nome, cognome e numero di matricola, una parola. Dissi loro: “scrivete cosa vi viene in mente alla parola FUTURO”. Ricevetti quasi trecento risposte. La maggioranza di queste positive. Ne cito alcune: universo , salvezza, infinito, ponte, cielo, astronave, lungo periodo, razzo spaziale, ciliegia, tempo, responsabilità, aspettative,  impegno, spazio interstellare, nuvola. E poi l’ultima, forse la più significativa. “paura ma forza “. Chiudevo scrivendo: “altro che fannulloni, altro che pessimisti. Teniamoceli stretti, questi giovani. Sarà una grande covata questa, specie se vorremo essere con loro, a ampliare le loro opportunità, ad assecondare le loro speranze, a tranquillizzare i loro giusti timori ed il loro concreto scettiscismo.”

http://www.gustavopiga.it/2012/car-calabresi-i-giovani-sono-bellissimi/

Saranno i germogli dei nostri alberi, saranno belli, cresceranno come frutti e i loro semi faranno crescere la foresta dei nostri alberi nel Parco Ambrosoli di Pistoia, Italia. Saranno l’esercito dei buoni del nostro Paese.

Grazie a Giorgio Federighi, per la sua preziosa amicizia.

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Grazie Grecia, grazie, non mollare.

Si fa fatica a vedere cosa è cambiato in Grecia ed in Europa dopo la trattativa serrata sul futuro della politica economica ellenica. O meglio, si fa fatica a trovare un accordo su chi ha vinto e chi ha perso.

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Per un motivo molto semplice: molto è stato rinviato, di qualche mese, a seguito dell’approvazione (compresa quella del Parlamento tedesco) di estendere i prestiti alla Grecia per ancora quattro mesi, a fronte di una sostanziale ambiguità sugli impegni presi dal nuovo governo greco quanto a riforme, austerità e debito.

Si fa fatica anche a capire in base a cosa dovremmo giudicare il successo o meno di Tsipras. Se in base al programma economico pre-elettorale di Salonicco ed alle promesse ivi contenute (nel qual caso il giudizio sarebbe evidentemente negativo) o a quanto ottenuto rispetto a quello che avrebbe portato a casa il precedente governo.

Io propendo per il secondo metro di giudizio semplicemente perché da sempre Tsipras e Varoufakis avevano indicato (con grande pragmatismo) come non si aspettavano certo di vedere tutto quanto da loro promesso riconosciuto al tavolo delle negoziazioni europee.

Ma anche se fosse così, cosa sappiamo? Poco.

Sull’austerità, che ha un vantaggio in termini informativi, ovvero che è misurabile oggettivamente, potremo dire qualcosa in più tra qualche mese sulla base del cambiamento delle stime, ad esempio quelle della Commissione europea,  sul deficit complessivo e sull’avanzo primario stimato per il 2015 (e, in minore misura, per il 2016). L’impressione di molti è che non tutto l’avanzo primario che avremmo avuto con la precedente amministrazione greca si materializzerà. Un piccolo sollievo che alleggerirà l’economia greca dalle grinfie della recessione assieme all’occupazione e con forse qualche riduzione della povertà, specie se le risorse addizionali che si libereranno saranno mirate specificatamente ai più bisognosi. E’ anche vero che in termini di spesa pubblica la promessa (contenuta nella lettera di Varoufakis all’euro gruppo) di spendere per stipendi pubblici complessivamente lo stesso ammontare dell’anno scorso ma aumentando gli stipendi ad alcuni (i più meritevoli ed i più bisognosi) togliendo ad altri (là dove si spreca) sembra non contenere nulla di nuovo rispetto al programma della Troika (dove dopo tagli drastici fino al 2013 questa spesa si fermava nel suo declino), ben lontano da quanto affermato in campagna elettorale e quanto fosse lecito aspettarsi. Ma anche qui, il dato tra qualche mese dirà più e meglio.

Sul debito, e la sua eventuale rinegoziazione in termini di tassi legati all’andamento dell’economia come proposto intelligentemente da Varoufakis, dobbiamo aspettare la fine dei quattro mesi. Tutto è ancora aperto. Varoufakis ha definito l’accordo con l’Europa “una foglia di fico” per portare alla sua conclusione l’euro gruppo senza la riduzione del debito, un accordo dal frasario “deliberatamente” vago così da ottenere l’approvazione dei vari parlamenti europei: una vaghezza, ha detto, di cui siamo “orgogliosi” e addirittura “suggerita dai creditori UE” (i governi dei Paesi membri) altrimenti non ci sarebbe stata l’approvazione .

http://www.ekathimerini.com/4dcgi/_w_articles_wsite2_1_27/02/2015_547715

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E’ sulle riforme che possiamo rimarcare il maggiore passo avanti. Di duplice natura. Innanzitutto formale: il documento è stato scritto dalla Grecia e non più dalla Troika, un risultato importantissimo anche simbolicamente. Una restaurazione (minimale o meno potremo discutere per ore) di democrazia che ad alcuni sembra normale e dovuta, e forse hanno ragione, ma che sancisce la fine dell’anomalia europea della dittatura della Troika. I simboli sono importanti e la vittoria della Grecia su questo non può essere liquidata come “fuffa”: era una precondizione per la salvezza dell’Europa dell’euro, non sufficiente ma necessaria, affinché si possa un giorno – se altri passi seguiranno – convintamente argomentare che il progetto europeo è un progetto democratico.

Ma i cambiamenti ci sono anche nella sostanza: effettivamente il tono e gli impegni sottoscritti da Varoufakis sono più leggeri e vaghi (tanto da avere ricevuto le critiche del FMI, della BCE, dei tedeschi) e con un’enfasi maggiore verso la solidarietà verso i più deboli di quelli contenuti nei vari documenti della Troika.

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Resta una certezza: lo spread è sceso. C’è chi dirà che è sceso perché la Grecia è capitolata, dimostrando che l’euro non è un accordo di cambio ma una vera moneta unica, e chi dirà che è sceso perché la Grecia ha cambiato l’Europa cominciando a farle abbozzare quel disegno più solidale che in questo blog abbiamo sempre argomentato essere l’unica soluzione capace di tenere unito il Continente in un progetto di crescita, opportunità e pace in un mondo globalizzato, simbolicamente uniti dalla stessa valuta.

Sbaglierebbero entrambi. C’è chi si trastulla da giorni su giornali e social media col gioco di chi ha vinto e chi ha perso. Ma la logica della sfida europea si può comprendere solo se la smettiamo di parlare di vincitori e vinti, e cominciamo ad adottare quella logica che appare, vincente, nell’ultima scena del famoso film War games.

Se c’è un modo per far giocare l’Europa contro se stessa è questa crisi greca. Tutto sta nella velocità dell’Europa di apprendere quanto masochista sia questo gioco europeo e quanto la sola soluzione sia uscirne insieme. Il mio ottimismo cresce, e forse per questo lo spread scende. Grazie Grecia, grazie. Non mollare.

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Breve storia di una moneta unica, ieri complicata oggi complessa

Montare un mobile di IKEA è un problema complicato, ma non complesso: un set di istruzioni complicate aiuta a risolverlo. Risolvere invece un problema complesso come coordinare un’orchestra richiede abilità complesse, non chiaramente elencabili su un foglio di carta: falliremmo miseramente nel dare nascita a un concerto di qualità.

Quando l’altro giorno alla mia visita a Pozzuoli presso l’Accademia Aeronautica ho visto questa matrice l’ho guardata con interesse.Il relatore del seminario mostrava come ad ogni tipo di problema corrisponde una dimensione e qualità di risposta logica ideale. Provare a montare un mobile di IKEA con strategie complesse, argomentava, porta inevitabilmente ad un “overkill”, al fallimento: per esempio l’utilizzo di una gru.

E io pensavo all’invilupparsi della crisi dell’Europa dell’euro. Nata come una sfida complicata a fine secolo, le cucirono addosso regole complicate, quelle di Maastricht. Ma l’ambiente era positivo, l’economia ancora tirava e quelle regole non furono troppo d’intralcio, quasi “appropriate”.

Arrivò la crisi e, mistero dei misteri, con essa un aggravamento delle regole che ingessavano la capacità della politica economica di venire in soccorso: siamo al 2010, è l’epoca del Fiscal Compact, il killer dell’economia.

E siamo all’oggi: la situazione da complicata è divenuta complessa, ingestibile, piena di disagio sociale in alcuni Paesi, scetticismo in altri, sfilacciamento della fiducia reciproca. Il fallimento è vicino e non basta nemmeno più eliminare il Fiscal Compact e tornare alle più semplici politiche degli albori del nuovo secolo: c’è bisogno di una soluzione “complessa” dove all’allentamento dell’austerità si combini una sottile opera “sociologica” ed “antropologica” di solidarietà piena e convinta per restaurare la fiducia reciproca infranta.

Altrimenti, il fallimento è alle porte.

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Aprite la cantina del Tesoro italiano

Non è da criticare troppo la relazione del Direttore del Debito Pubblico del Tesoro italiano, Maria Cannata, di fronte alla Commissione Finanze presieduta dall’On. Capezzone, sui derivati fatti da Stato ed enti locali. Anzi.

Ma procediamo con ordine.

Perché l’audizione di un dirigente dell’amministrazione riveste così tanta importanza? Prima forse andrà chiarito come Maria Cannata è da anni al posto di comando per la gestione del debito pubblico, un lavoro delicatissimo. Il che non la esime ovviamente di circoscrivere il suo ruolo e le sue responsabilità: “nel 2002, in applicazione dei principi previsti … in merito alla separazione dell’attività di gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, di competenza dei dirigenti, da quella di indirizzo politico, l’attività in derivati venne delegata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze al Dipartimento del Tesoro; il Direttore … (del Debito) procedeva alla stipula degli accordi stessi ed il Direttore Generale del Tesoro alla loro approvazione… Di tali operazioni era data comunicazione al Gabinetto del Ministro.” Ma la sua relazione sullo stato dei derivati italiani era attesissima dato fino ad oggi il quasi totale silenzio del Tesoro al riguardo (epocale è rimasta la relazione in merito del sottosegretario all’istruzione Marco Rossi Doria alle Camere, persona assolutamente tanto meritevole quanto ignaro del tema) e la possibilità che gli ammontari in gioco fossero rilevanti per cittadini e investitori. La relazione, disponibile sul sito del Tesoro, non ha deluso le aspettative, http://bit.ly/1zgVT1A :  senza dubbio il documento più trasparente e ricco di informazioni che il Tesoro italiano abbia mai pubblicato.

Merito dunque al Tesoro ma anche all’On. Capezzone (e alla frenetica opposizione del Movimento 5 Stelle), perché è probabile che senza questa audizione non si sarebbe mai arrivati a questo punto di non ritorno. Già, perché da qui non si torna più indietro: le informazioni rivelate dalla Cannata in maniera esplicita (alcune erano rintracciabili già oggi presso Banca d’Italia, Istat e Corte dei Conti) faranno parte da ora in poi di un aggiornamento periodico del Tesoro atteso da tempo, ne siamo certi.

La domanda chiave è cosa deve venire in più (perché certamente non basta quanto detto dal Direttore del Debito per dare a contribuenti e mercati quella fiducia nell’emittente sovrano fondamentale per ridurre il costo del debito della Repubblica), che cosa manca ancora. L’On. Capezzone, dopo avere interrotto per mancanza di tempo la relazione di Maria Cannata proprio sul più bello (in particolare alla pagina 23, quella con abbondanza di dati), ha invitato il Direttore per una seconda audizione, alla quale gli ha chiesto di presentarsi con 4 informazioni: il valore totale dei derivati italiani (ma la Cannata mi pare lo dia, 159,6 miliardi di euro per lo Stato e circa 25 miliardi – censiti, ma chissà che non ce ne siano altri – per gli enti locali; il ché conferma che l’enfasi negli anni dei responsabili del debito sui soli enti locali era decisamente sproporzionata rispetto all’effettivo peso dei derivati del Tesoro), la cifra del valore di mercato per ogni contratto (oggi fissata, ci ha aggiornato Maria Cannata, a 36,87 miliardi totali in rosso, con un peggioramento ulteriore rispetto ai dati pubblicati dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio per il 2013, di 29 miliardi, e massimo storico), il valore di mercato dei contratti degli enti locali (che Maria Cannata ha subito detto di non possedere, con comprensibile disappunto dell’On. Capezzone) e infine la divisione territoriale dei derivati degli enti locali (vedi il tutto negli ultimi 10 minuti sul video dell’audizione http://webtv.camera.it/evento/7495).

Valori di mercato negativi non necessariamente sono un ragione per gridare allo scandalo: Maria Cannata ha spiegato come il Tesoro aveva qualche anno fa il (giusto) obiettivo di allungare la vita media del debito per ridurre il rischio debito e il rischio tasso, con un’assicurazione chiamata appunto derivato, emettendo a lunga ed entrando in swap che trasformassero i titoli a breve in titoli a lunga (pagando dunque, nei derivati, un tasso fisso e ricevendo un variabile). Il drammatico e inatteso crollo dei tassi a breve del dopo crisi ha reso negativi i valori di mercato dei derivati (Cannata ha ben spiegato che spesso nella vita come cittadini paghiamo l’assicurazione senza ricevere soldi perché l’evento contro cui ci siamo assicurati non avviene, ma non per questo dobbiamo rimpiangere di esserci assicurati), perdite che comunque non si realizzeranno a meno che il Tesoro non sia obbligato dalle controparti private ai sensi del contratto a interrompere lo scambio di flussi e a rimborsare la parte creditrice prima della scadenza.

E qui nasce appunto il problema dei problemi. Non abbiamo la dimensione di questo rischio. Un esempio su tutti. Maria Cannata fornisce dati nuovi sulla famosa transazione Morgan Stanley e spiega come la clausola di rescissione unilaterale inserita a favore della banca d’affari ha generato significativi costi per il contribuente. Rimane da capire quali fossero le caratteristiche di questo contratto e perché fu sottoscritto, in primis, e con una clausola di questo tipo in secundis.

Il Direttore del debito spiega poi che clausole di rescissione bilaterali si svilupparono nei primi anni per tutelarsi dal rischio delle banche, percepite allora più rischiose della Repubblica italiana: ma ciò non vale per la transazione con Morgan Stanley, dove l’unica a proteggersi con la clausola di rescissione fu la banca stessa.

Altre informazioni mancanti riguardano operazioni più recenti, benché si debba riconoscere la maggiore trasparenza ottenuta grazie alla relazione di Maria Cannata, che comunica come esistano a tutt’oggi “13 contratti  (dove) sono presenti clausole di risoluzione anticipata (bilaterale) al valore di mercato.” Si è arrivati a 22 cancellazioni, da ben 35 nel 2011, “nella maggior parte dei casi contestuale alla novazione soggettiva, ristrutturazione o rinegoziazione delle posizioni che le includevano; solo in due casi è avvenuto l’esercizio da parte dalla controparte (giugno e dicembre 2014”. Ma quanto sono costate queste cancellazioni, soprattutto queste ultime due? Non è dato sapere perché non conosciamo i contratti sottoscritti.

E, già che ci siamo, ricordiamo che Maria Cannata fornisce la lista delle controparti, 19, in appendice della sua relazione. Informazione rilevante, ma che non ci rivela quale sia l’esposizione rispetto alle singole banche o, perlomeno, tra diversi livelli di rating. Andrebbe fatto, in nome della trasparenza e della rassicurazione di contribuenti e investitori, anche perché non si vedono i rischi connessi alla pubblicazione di tale informazione, tenuto anche conto che la stessa Direttrice ha spiegato quanto dal 2011 sia divenuto rilevante il rischio di controparte.

Certo è vero che Maria Cannata ha anche rassicurato tutti su quelle transazioni peculiari in derivati che lei stessa definisce come “sottoscritti (dai Governi) deliberatamente in maniera sbilanciata”, utilizzati molto probabilmente dalla Grecia – e causa dell’avvio della crisi ellenica –  nascondendo un prestito delle banche con un’entrata fiscale pur di mostrare un deficit migliore invece che un maggiore debito come dovrebbe essere, ingannando contribuenti e investitori sulla salute dei conti pubblici greci. Esclude, Maria Cannata, che tali contabilizzazioni “anomale” siano mai avvenute in Italia, visto che lei stessa le descrive come rappresentanti “inequivocabilmente un prestito” e quindi non lasciando dubbi su come il Tesoro abbia contabilizzato correttamente queste operazioni peculiari.

Rimane un’ultima richiesta che andrà prima o poi esaudita, meglio prima che poi. E che ci fa sollevare automaticamente una domanda condita di perplessità: ma perché il Tesoro rimane “avaro” di informazioni sui singoli contratti, tra l’altro richieste dall’opposizione grillina a gran voce (vedi video ultimi 10 minuti)?

Certo, non è detto che la trasparenza sia sempre ideale: in alcune occasioni è bene che un Governo mantenga riservati i suoi comportamenti. In questo caso non è così ed è ampiamente tempo che possa essere per sempre eliminato quel dubbio, che attanaglia i mercati da tempo, che chissà quale mistero circondi transazioni che, invece, il Tesoro ha avuto modo di argomentare in maniera convincente – nell’audizione e in passato – sono state perfettamente in sintonia con una gestione del rischio di un buon padre di famiglia.

Detto questo, sono due gli ordini di spiegazioni che dà il Direttore per l’assenza di pubblicità sui singoli dati.

Il primo, nel dibattito finale, è questo: “la richiesta dei singoli contratti è un po’ particolare perché ci sono delle sensibilità: un grado così granulare di disclosure (informazione, NdR) non lo dà nessuno perché potrebbe avere dei riflessi di farci perdere in termini competitivi rispetto al resto del mercato”.

Non è una motivazione molto chiara (che riflessi? che competitività?) ma soprattutto ci spiace smentire il Direttore del Debito sul fatto che nessun Paese fornisca tale informazione. Basterebbe andare sul sito della Banca centrale danese, che gestisce il debito della Danimarca, per vedere come da sempre questa non solo pubblica – nella sua Relazione Annuale – un capitolo interamente dedicato alla politica dei derivati ma anche fornisce, in apposite tabelle, le singole operazioni (di apertura e chiusura!) su ogni derivato avvenute in quell’anno (vedi tabella sotto), anche se mancano alcuni dettagli delle singole operazioni (nome controparte, tasso dell’operazione, ecc.).

http://www.nationalbanken.dk/en/publications/Documents/2014/02/DN_SLOG2013_uk.pdf

Certo non siamo a conoscenza di un Paese dell’area euro che sia trasparente come Danimarca (ed anche la Svezia) e ci aspetteremmo che BCE, Commissione europea ed Eurostat forzassero la mano a tutti i governi dell’euro per dare più sicurezza agli investitori nell’area della moneta comune. Ma, cominciando dall’Italia, l’esempio danese mostra come non vi sia motivo perché il Tesoro italiano non faccia altrettanto e perché i vertici del Ministero, che Maria Cannata ricorda “stanno valutando la richiesta… e (comunque) non vogliono nascondere nulla”, non siano completamente aperti e trasparenti al riguardo, come i danesi che hanno la trasparenza nel sangue e non percepiscono alcun costo da tale pubblicazione.

Certo, alla fine il Direttore del Debito aggiungerà, come motivo per non dare tali dati, questo: “se ci chiedete tutti i contratti dal ’90 ad oggi noi ci paralizziamo perché dobbiamo andare scavare nelle cantine a ripescare chissà che cosa”.

Ma, se mi permette il Direttore, ritengo proprio che la cantina vada aperta a tutti.

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Qualcuno chiede trasparenza sui derivati. Chapeau. Ora ascoltiamolo.

L’Ufficio Parlamentare del Bilancio, si legge sul suo stesso sito, “è un organismo indipendente che ha il compito di svolgere analisi e verifiche sulle previsioni macroeconomiche e di finanza pubblica del governo e di valutare il rispetto delle regole di bilancio nazionali ed europee. L’organismo è stato costituito nell’aprile 2014 secondo quanto previsto dalla legge rinforzata sul principio del pareggio di bilancio in attuazione delle normative europee sulla nuova governance economica. L’UPB contribuisce ad assicurare la trasparenza dei conti pubblici a servizio del Parlamento e de i cittadini.”

Lo aspettavamo, l’Ufficio, alla prova dei derivati del Tesoro, di cui questo blog si è occupato spesso, manifestando svariate volte l’esigenza di dare una svolta (un taglio è meglio dire) a pratiche sui derivati poco trasparenti che danneggiano il credito della Repubblica, destabilizzano il sistema Paese, rendono fragile la credibilità delle nostre istituzioni. Quanto leggete sotto è estratto dal documento uscito oggi sul sito dell’Ufficio e rende giustizia a questa nostra battaglia – quasi solitaria – in questi ultimi dieci anni, visto che chiede quelle riforme sui derivati del Tesoro che ogni Ministro succedutosi a Via XX Settembre, anno dopo anno, governo dopo governo (Renzi compreso), ha pensato bene di evitare. Chapeau dunque all’Ufficio ed al suo coraggio istituzionale.

http://www.parlamento.it/1152

*

L’ampio utilizzo di strumenti finanziari derivati da parte delle Amministrazioni pubbliche, soprattutto nella seconda metà degli anni ’90 e nella prima parte dello scorso decennio, ha creato nel tempo incertezza in numerosi osservatori, scaturita essenzialmente dalle scarse informazioni e dall’insufficiente trasparenza delle operazioni stipulate, dai riflessi negativi che si sarebbero potuti (e si potrebbero) avere sui conti pubblici (soprattutto a causa della rischiosità dei contratti), dalla preoccupazione che tali operazioni fossero realizzate principalmente per migliorare temporaneamente i conti pubblici.

… Negli anni sono stati fatti passi avanti, ma non sono sufficienti. In particolare: per le operazioni in derivati stipulate in passato e ancora in essere le informazioni sono ancora incomplete, frammentarie o, per alcuni aspetti, inesistenti.

…Per i contratti stipulati ex-novo sarebbe opportuno fornire lo stesso set di informazioni. Sebbene l’attuale operatività in strumenti derivati sia divenuta limitata … il Dipartimento del Tesoro dovrebbe impegnarsi a rendere pubbliche con regolarità (ad esempio annuale) le informazioni…

… Allo stesso modo, sarebbe utile sapere se chi si occupa di gestire il debito pubblico, nelle scelte delle operazioni da fare, opera sulla base di una specifica strategia dettata dal vertice ed, ex-post, viene controllato l’effettivo perseguimento del risultato; oppure se agisce autonomamente e solo successivamente dà conto del proprio operato al Ministro. Sembrerebbe, dai siti web degli altri paesi europei, che molti di questi pubblicano la strategia da perseguire.

…Sarebbe interessante che il Dipartimento del Tesoro fornisse una ricostruzione storica degli obiettivi perseguiti con il ricorso agli strumenti derivati.

… La complessità di questi strumenti e la velocità con cui nuovi prodotti finanziari invadono i mercati, potrebbero inoltre essere giuste motivazioni per considerare un rafforzamento della Direzione del Ministero dell’Economia e delle finanze che opera in questo campo, prefigurando la possibilità di aumentare il personale specializzato in risk management che affianca coloro che effettivamente si occupano dell’esecuzione dell’operazione finanziaria e della gestione del debito pubblico, con il compito esclusivo di valutare e monitorare l’insieme dei rischi.”

Avremmo poco da aggiungere, e sperare solo che il Ministro Padoan si adegui e si impegni a realizzare tutte le richieste fatte dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio nel giro di qualche giorno.

Ma.

Ma resta una ultima curiosità, che deriva da alcuni dati che non avevo mai letto, pubblicati nella relazione dall’Ufficio in 2 tabelle. Dati Eurostat, quindi disponibili e non segreti.

La prima tabella (numerata come Tabella 3) mostra come l’Italia sia in assoluto il Paese che in euro ha l’esposizione di mercato negativa più alta dell’Unione europea, stabilizzatasi attorno a trenta miliardi di euro (sì avete capito bene, trenta miliardi, ma basta leggere la tabella) negli ultimi anni. Se l’Italia fosse obbligata dalle controparti bancarie a vendere tutte queste posizioni, il contribuente italiano dovrebbe pagare trenta miliardi di tasse o subire tagli ai servizi sociali di un analogo ammontare. E’ possibile e forse probabile che il Tesoro non sia obbligato a venderle, ma siccome è già avvenuto almeno una volta, NON sappiamo la vera entità dell’esposizione veramente a rischio, detto che comunque il numero fa impressione.

In percentuale di PIL, così da correggere per la dimensione dell’economia, solo la Grecia, sì la scandalosa Grecia che anche questo Governo pare non voler difendere “perché noi siamo diversi (…)”, ha una esposizione di una simile dimensione alla nostra (Tabella 4), attorno al 2% di PIL. La Svezia, che usa tantissimo i derivati con grande professionalità e trasparenza, è il Paese che ha il valore positivo più alto.Trenta miliardi sono un rischio tale da giustificare una riforma radicale come quella chiesta dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, non credete? E’ tempo di dare al Paese quello che si merita: la semplice, trasparente, verità.

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Dove sta il leader della spending review? Ad Anzola dell’Emilia. Il resto? Non pervenuto.

In parte tratto dal mio articolo sul Panorama di questa settimana.

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L’ha detto anche Obama, l’Europa ha bisogno di crescita ora, non dopo le riforme. L’Italia non fa eccezione. Se lasciare andare l’austerità sin da subito è quello che ci chiedono i nostri pragmatici amici d’oltre Atlantico, e visto che loro ci sono riusciti e che proprio grazie a ciò ne sono usciti (dalla crisi), dovremmo ascoltarli.

Rimangono le remore perché in Italia non possiamo, così dice il mantra, “fare più spesa pubblica”. E chi dice di farne di più? Chiunque mastichi non dico di economia ma di bilancio familiare sa che c’è una bella differenza tra lo spendere bene e lo spendere male. E dunque se solamente riuscissimo a sostituire spesa cattiva, identificandola prima e disincentivandola poi, con spesa buona, il Paese sarebbe a cavallo. E magicamente quando si sarà dimostrato che si sa fermare lo spreco non si potrà più dire che non si può spendere perché “non si sa spendere”.

Precondizione per tutto ciò, appunto, conoscere e gestire. Ma, nel nostro Paese, ancor prima: legiferare. E così, invece di concentrarsi sulla obbligatorietà del ricevere il dato in tempo reale sugli appalti o sulla spinta alla professionalizzazione delle stazioni appaltanti (tutte cose che si fanno senza bisogno del Parlamento) siamo qui in dolce attesa da mesi che si materializzino i famosi decreti che spingano il tavolo dei c.d. “aggregatori” (le grandi stazioni appaltanti) a riunirsi e coordinarsi.

Qualcosa in realtà si muove: dopo mesi di silenzio il 20 gennaio scorso sono usciti in Gazzetta Ufficiale i primi decreti necessari affinché si determini chi siederà al tavolo. Adesso dovranno passare i soliti tempi di legge per chi vuole partecipare per fare domanda: oltre alle regioni infatti dovranno entrare altri grandi aggregatori, come città metropolitane ecc. e più sei grande più chance avrai di esserci.

Altrove, qualcosa si muove di più e meglio: ed è presso il comune di Anzola dell’Emilia, i cui acquisti sono visibili on line e scaricabili in formato tale che i ricercatori li possano utilizzare senza costi ulteriori. Mi dice il mio amico Lucio Picci che ne mastica di queste cose:

nel suo piccolo è tra i migliori Comuni in Italia per pubblicazione di dati aperti (grazie in parte a una solerte funzionaria che ci crede). Basta che guardi una riga a caso.

“Come vedi, c’è praticamente tutto: impresa, funzionario responsabile, ecc. Potrebbe poi esserci altro, in primis, maggiori informazioni su quel che è stato acquistato. Manca una descrizione del prodotto/servizio, secondo un’”ontologia” che si dovrebbe realizzare. Manca inoltre un’eventuale georeferenziazione. A quel punto, inter alia, si potrebbero applicare i metodi (alquanto imperfetti) per scoprire comportamenti collusivi da parte delle imprese. Ovviamente, conoscendo l’insieme dei contratti di ciascuna impresa, e non solo quelli di Anzola.”

Ovviamente. Ma questo Governo, esattamente come i precedenti, è per caso interessato, oltre a fare i tavoli degli aggregatori che metteranno in grande difficoltà le piccole imprese, a scoprire i cartelli e gli sprechi che spesso favoriscono le grandi imprese, tramite l’investimento massiccio nella raccolta, gestione e disponibilità dei dati? E’ disposto il nostro Governo a fare quanto fa il comune di Anzola? O il suo immobilismo totale in materia è da legare ad un totale disinteresse alla spending vera, decisiva per far ripartire il Paese?

Diteglielo voi ad Obama. Intanto le crisi rimane.

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Lo 0,6 politico e quella politica economica italiana fallimentare

E così parlò la Commissione europea. Raccontandoci di come andrà l’economia italiana nel 2015.

http://ec.europa.eu/economy_finance/eu/forecasts/2015_winter_forecast_en.htm

Toh, sorpresa, crescerà allo 0,6%. Un triplo mistero.

Mistero perché è lo stesso esatto numero previsto dalla stessa Commissione in Novembre quando fece l’ultimo aggiornamento delle stime, malgrado i non minuscoli cambiamenti in positivo avvenuti da allora per l’economia europea.

Mistero perché è, di nuovo, lo stesso esatto numero previsto dal Governo nei suoi documenti ufficiali di finanza pubblica per la crescita 2015.

Mistero perché cozza contro le fanfare di ufficiose revisioni al rialzo delle stime di crescita previste dalla Banca d’Italia pochi giorni dopo l’uscita del suo Bollettino Economico di gennaio e, in maniera più ambigua, da altri centri studi. Fanfare riprese in maniera convinta da esponenti governativi. Il mantra? “Siamo fuori dalla recessione, state sereni”.

Può darsi, ma la Commissione sembra dire ben altro: che malgrado tutti i fattori positivi intervenuti da novembre ad oggi (e sono tanti: prezzo del petrolio in calo, tasso di cambio che si deprezza, spread in (leggera) chiusura (seppure solo nominalmente e non in valore reale, cioè tenendo conto dell’inflazione)) l’Italia non cresce di più, ma stagna. Con una disoccupazione 2015 che cresce, rispetto a novembre, dalle stime di 12,6% a 12,8%. E’ un vero peccato, se la Commissione avesse effettuato una stima “seria” almeno questa volta, che istituti di ricerca nazionali prestigiosi e che dovrebbero essere indipendenti si prestino a fare da coro asservito agli slogan di Governo: ne perdono di credibilità. La verità vera rimane quella di un’economia che al primo fruscio di vento rischia di andare a rotoli (vedi recessione) per il quarto anno consecutivo: tensioni con la Russia, con la Grecia e rischio di downgrading da parte di agenzie di rating sono veramente rischi concreti con probabilità non irrilevante.

Messa a nudo la propaganda, resta l’altro mistero: perché quel numero non si schioda? Due le spiegazioni, complementari e non alternative.

Primo, basta leggere il dettaglio dei dati della Commissione per capire le ragioni di una performance che non si smuove da quella minimale prevista in novembre, malgrado un contesto per ora più favorevole: gli investimenti privati sono scesi nelle stime da una aspettativa di crescita del +1,4% di novembre ad una del +1%. Ovviamente, come sempre si fa quando si vuole dare qualche finta speranza, gli investimenti 2016 (quelli che occupano i pensieri di maghi e stregoni) sono previsti crescere sempre più: dal 3,1% al 4,1%. La verità vera, espressione assurda, è semplice: le imprese rimangono pessimiste sul futuro e non scommettono i loro soldi, trattenendo liquidità. E lo fanno per una ragione molto ovvia: una assenza di domanda interna malgrado la crescita forte dell’export, una mancanza di ossigeno che è presto spiegata dalla revisione dell’andamento dei consumi pubblici (stipendi ed appalti pubblici), che dal previsto -0,3% passano al -0,5%. Tagli di spesa buoni? Macché, ovviamente pessimi, a casaccio, vista la totale latitanza della spending review dall’agenda di Governo. Tagli che distruggono PIL ed occupazione e bloccano la manina privata degli investimenti.

Altra storia in Spagna, dove la crescita è stata rivista al rialzo addirittura dall’1,7% di novembre al 2,3%: con un deficit che rimane attorno al 4,5%, e con una spesa per consumi pubblici in salita è ben più facile sostenere l’economia! Ma questa intelligenza di politica economica pare mancare al nostro Governo che si contenta di dire che abbiamo negoziato con successo in Europa. Un successo che tutti i numeri della Commissione su quello che conta davvero per la gente, PIL ed occupazione, mostrano renitenti all’appello.

Rimane poi la seconda spiegazione, quella dello “0,6 politico”, più assurda ma non da escludere: che oggi la nostre economia viaggi veramente al misero 0,6 grazie all’economia europea sospinta dal tasso di cambio e che in realtà a novembre, quando la Commissione tirò fuori lo stesso dato in un’economia senza sostegno forte della politica monetaria, si sovrastimò abbondantemente la crescita italiana per non mettere in difficoltà il nostro Governo che aveva da poco fatto uscire il suo +0,6% (guarda un po’, lo stesso numero) di PIL per calcolare il valore dei saldi di finanza pubblica.

Come la giri la giri, c’è una professione in grave crisi ed in cerca di credibilità: quella dei previsori economici, ormai schiavi della politica e della sua esigenza di nascondere sotto il tappeto le prove evidenti della sua mediocrità progettuale e programmatica.

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The Greek Mouse and the German Elephant

I apologize to my foreign readers for being so lazy in this period. But I have a good excuse. For the first time since the beginning of this blog in 2011 facts are moving faster than ideas, anti-austerity policy-makers than anti-austerity economists, optimism than pessimism. For a Cassandra like me, it is time to step aside and watch European History in the making.

It is quite a show, let me tell you, this Euro-Greek affair. A show that is capturing not just the interest of bystanders like me, but is stimulating the intervention of relevant geopolitical actors, like President Obama. Who, sensing with great flair the critical juncture, could not resist pushing Europe to adopt a new strategy:

“you cannot keep on squeezing countries that are in the midst of a depression. At some point  there should be a growth strategy so that these countries pay-off their debt and eliminate some of their deficit … there is no doubt that Greece … in order to compete … had to initiate a series of changes ….but  it is very hard to initiate changes if people’s standards of living are dropping by 25%… over time eventually the political system and society can’t sustain it. My hope is that Greece can remain in the euro zone … this will require compromise on all sides. I think there is a recognition on the part of Germany and others that it would be better for Greece to remain inside rather than outside…. But more broadly I am concerned about growth in Europe”.

http://www.keeptalkinggreece.com/2015/02/01/obama-on-greece-you-cannot-keep-on-squeezing-countries-in-recession-video/

Behind words, Obama fears the embrace of non-euro Greece with Russia and its geopolitical implications in the Mediterranean area in a very delicate international situation there. He is also obviously concerned with the economic performance of the Old Continent, damaging for US exporting firms. Whatever the reason, the new strategy he calls for is not so much growth, but a pre-condition to it in the European setting: compromise.

The European political and economic history is filled over the past centuries with experiments to end the deep engrained cultural separation between the focus on stability first – in the Northern German-led core – and growth first – in the Mediterranean France-led core. While the two have to come together, have to reinforce each other, the history of Europe is one where parties have divided in an uncompromising way over where (who) to start first.

So many European exchange rate agreements – mostly of a fixed or semi-fixed nature – have collapsed, either over time or following a sudden crisis, for the stubborn resistance of the North to enlarge credit in difficult moments to weaker countries and of the South to adopt restraint in the easier moments when economies were enjoying fast growth typically driven by spurs of innovation or greater global trade.

Monetary Union was, we might say, the last – desperately hopeful – attempt to end this constant historical pattern of failed cooperation. Its creation made  exchange rates “semantically” irreversible by claiming simply that it was so (by the way, the heart of the Greek crisis is all in this: its exit from the euro would destroy forever that semantic, showing that the remaining countries are bound not by a common currency but by the n-th fixed exchange agreement of their history, prey to the thirst of speculative attacks by profit-making driven markets).

Was Monetary Union a good idea? Oh absolutely yes for the purpose of solving the issue of exchange rate stability with which Europe has struggled for centuries. In a time where everybody seems to say that the construction was ill-fated, destined to destruction, I dare to say that it has shown, in the face of the greatest – unexpected – economic crisis of the past 80 years, the capacity to help European countries to stay together even in the face of the hardest temptation to quit the boat and proceed in solitude. No other exchange rate agreement would have been able to sustain such a shock and we would have seen the German mark appreciating immediately and strongly against the Lira and the French Franc (not to mention the Greek dracma). Its best success, invisible to most people, is shown by the events unfolding in Switzerland in the past few weeks: a country culturally similar to Germany, in love with price-stability and for a few years locked in to the euro, decided to abandon the European currency  and let its Franc appreciate against it. The recent aggressive European Central Bank stance to fight deflation via monetary expansion was too much for the Swiss citizens, as they feared importing inflation. A similar attitude could have easily been the one adopted by Germany only a few years ago, and the fact that the Germans have accepted instead (with minor concocted noise from the Bundesbank, the German central bank) to go along  and play the euro dance is the best sign of the cultural change passing through the DNA of German society, readier than before to abandon a bit its fixation on stability first.

Clearly it is not enough. Clearly the depth of the crisis of some Mediterranean countries shows that the institutions that have been forged in the euro area are not capable of making the system, in the words of Obama, sustainable. Clearly societies have to find in their own interest to participate to a party, otherwise they don’t show up and this is what Greece is pondering right now. Should I stay or should I go. It is remarkable that even in the face of such social disruption Greece is still debating the question, is still strongly determined to try to remain in the euro area.

But the compromise must go on, at a faster speed. If Germany has agreed to enter into a monetary union of unequal, just like in the United States where Mississippi and Alabama sit side by side with California and Massachusetts, to replicate its success it must push its cultural stance one step closer to the Greek one. Explicit transfers from the rich states to the poor states like in the USA are too fast an acceleration: but debt restructuring and ending austerity – the requests of the Greek government – are not. Solidarity is the price that Germany has to pay to obtain stability. Not a bad deal, but a deal that requires, indeed, compromise.

Obviously Greece is currently the Ambassador of Mediterranean countries, and its Prime Minister’s successful trip across Southern European countries seems to say only one thing: that Greece has become the leader of the Southern coalition. The mouse will visit the elephant in its quarters in the next few days and it is not clear at all who the winner will be. But it must be obvious that if a sole winner will emerge we will soon deal with the usual bitter taste of European defeat. But history can still surprise us: possibly the Greek mouse will wake up the German elephant and make it move forward in a joint adventure across the world.