THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Dio ci salvi dal Fiscal Compact

Oggi sul Messaggero, il mio pezzo.

*

Qualcuno ha cercato di attribuire le ragioni del successo di Cameron alle recenti elezioni britanniche al fatto di avere attuato politiche di austerità – meno spese pubbliche e più tasse – responsabili, ad avviso di questi, di aver fatto ripartire la crescita dell’economia d’oltre Manica. Un dibattito che riguarda da vicino noi italiani: quale migliore spot pubblicitario – in apparenza – di quello inglese, per coloro che avocano politiche del rigore per uscire dalla crisi?

Le cose stanno, in realtà, molto diversamente e basterà far parlare i dati per dimostrarlo. Il Regno Unito colpito dalla crisi nel 2008 ha un debito pubblico del circa il 40% del PIL, valore che oggi è più che raddoppiato e pari al 90%; il deficit pubblico che ante crisi era del 3% del PIL, è salito addirittura all’11% nel 2009 e oggi resta superiore al 4%, sempre sopra la soglia del 3% di Maastricht e lontanissimo dall’equilibrio di bilancio imposto in altri Paesi europei dal Fiscal Compact; la spesa pubblica sul PIL sale, in percentuale del PIL, dal 42,9% nel 2007 al 49,7% nel 2009 ed oggi rimane a livelli superiori a quelli ante crisi, attorno al 44,4% del PIL; le entrate fiscali, vicine al 40,5% prima della crisi, diminuiscono nei primi anni ed oggi risalgono e sono di poco superiori, attestandosi attorno al 41% di PIL.

Guardando questi dati non sembra proprio un Paese che in questi anni ha applicato l’austerità. Certo, ha ridotto deficit e spesa pubblica nel tempo, ma solo dopo averli fatti crescere enormemente a sostegno dell’economia nel “subito-dopo crisi” e comunque lasciandoli ancora oggi a livelli superiori a quelli “ante-crisi”. Se Italia e Regno Unito hanno ambedue ridotto nel tempo i loro deficit pubblici, lo hanno fatto partendo da livelli molto diversi; in particolare il secondo lo ha ridotto solo dopo una massiccia dose di sostegno iniziale all’economia. Immaginate di aiutare un malato dandogli una forte quantità iniziale di medicinali, 10 pasticche, e poi lentamente di togliergliene, fino ad arrivare a 5; e ora immaginate lo stesso malato che al picco iniziale della malattia riceve 5 pasticche e alla fine dello stesso periodo non ne riceve nessuna: quale dei due pensate, di fronte ad una brutta malattia, abbia avuto più possibilità di cavarsela? Certamente il primo.

Aggiungete che a questa politica fiscale espansiva si accompagnò una politica monetaria sin da subito a sostegno e capace di abbattere il cambio -  da circa 1,5 euro a sterlina prevalenti prima della crisi a circa 1,15 per molti anni dopo la crisi iniziale – aiutando il settore delle esportazioni britanniche.

Ma il segreto del successo britannico non sta solo nel maggiore sostegno immediato al malato appena colpito da un virus temibile. Ben presto il Regno Unito si è reso conto che se voleva continuare a sostenere l’economia a forza di maggiore domanda pubblica non poteva farlo continuando a far crescere il debito pubblico. Ha dunque fatto partire la madre di tutte le riforme: una vera spending review – specie negli appalti pubblici  - che non fosse a caccia di tagliare a tutti i costi ed a casaccio la spesa, ma solo quella parte che non genera ricchezza, gli sprechi. Per farlo ha investito, ovvero ha speso soldi, per permettere di migliorare la professionalità delle proprie stazioni appaltanti, selezionandovi i migliori dipendenti, dando loro responsabilità e gratificazioni in caso di appalti ben aggiudicati e sorvegliati; ed investendo ha dunque risparmiato. Con questi risparmi ha potuto investire nuove risorse, senza fare più maggiore debito, a sostegno dei settori ritenuti più strategici, come sanità e spesa sociale.

Ecco spiegato il successo del Paese: un mix geniale di immediato aiuto all’economia nel momento di massima difficoltà ed una espansione quantitativa via via minore col passare dal tempo, accompagnata però da una crescente qualità della spesa. Come paragonare questa rapida storia britannica a quella di un Paese come l’Italia appartenente all’area euro? Cos’è che loro hanno avuto e noi no per riprendersi economicamente al contrario di noi?

A qualcuno verrà in mente di dire: “loro hanno la sterlina che hanno deprezzato, noi abbiamo l’euro che ci ingabbia e da cui dobbiamo uscire”. Nulla di più falso. La recente manovra di Draghi ha dimostrato come sia possibilissimo dentro l’area euro abbattere i tassi d’interesse verso lo zero con la politica monetaria e deprezzare il tasso di cambio. Il problema semmai è stato quello di un clamoroso ritardo nella scelta della BCE di “quando” ricorrere al potente cannone di politica monetaria e di cambio rispetto alla veloce e pragmatica Bank of England.

Ben altro hanno avuto i britannici: il coraggio, quasi unico tra i Paesi dell’Unione europea, di rinunciare a quella macchina infernale chiamata Fiscal Compact che, senza se e senza ma, obbliga i Paesi come l’Italia a ridurre i deficit anche nei momenti in cui l’economia privata ha più bisogno di una spinta possente dallo Stato. Oggi, ad esempio, mentre il Regno Unito veleggia attorno al 5% di PIL di deficit, Renzi si lega le mani annunciando urbi et orbi che nei prossimi tre anni ridurrà il deficit su PIL dal 3% del PIL allo zero, deprimendo la voglia di investimento delle imprese italiane e incartandoci sempre più in un circolo vizioso che dura da anni. Quel Fiscal Compact infine, obbligando l’Italia a tagliare la spesa ogni anno e avvenendo in assenza di una spending review seria, ha fatto sì che i tagli fossero per forza fatti a casaccio, rendendoli dunque spesso poco giustificati e suscettibili di contestazioni, come quelle per la deindicizzazione all’inflazione delle pensioni.

Ma la spending review mancata non è certo da addebitare all’Europa: non abbiamo investito in questi anni nella professionalità delle nostri stazioni appaltanti e non siamo dunque capaci di identificare quegli sprechi che, una volta tagliati, darebbero, a loro volta, le risorse per finanziare quegli investimenti pubblici così essenziali per restituire ottimismo e ossigeno all’economia italiana.

Se qualcosa il Regno Unito insegna all’Italia ed all’Europa è che un sano pragmatismo privo di ideologie, una efficace reattività alle sofferenze immediate della popolazione ed una ferrea volontà di realizzare poche ma essenziali riforme portano un Paese a uscire da momenti di difficoltà estrema e ad offrire ai suoi concittadini opportunità, sollievo, progresso.

Post Format

Chi ha paura della Direttiva UE sugli Appalti?

Da Formiche, questo mese.

Se conosci il nemico e conosci te stesso, nemmeno in cento battaglie ti troverai in pericolo. Se non conosci il nemico ma conosci te stesso, le tue possibilità di vittoria sono pari a quelle di sconfitta. Se non conosci né il nemico né te stesso, ogni battaglia significherà per te sconfitta certa”, Sun Tzu.

*

Non sono 60 miliardi il costo della corruzione. Immagino questa cifra sia stata calcolata applicando una percentuale del 20% della “tipica” mazzetta al totale della spesa per appalti, poco meno del 20% di PIL, 300 miliardi circa. Per quanto lodevole l’invenzione del dato, che mirava ed è riuscita a generare maggiore attenzione dei media su tema, essa rischia di rallentare ed ostacolare le necessarie riforme utili per il Paese in tema di sprechi pubblici, per tutta una serie di motivi.

Primo, perché potrebbe far pensare che l’amministrazione sia in possesso di quella serie di dati sul fenomeno della corruzione che costituiscono condizione necessaria per “conoscere il nemico”, per avviare cioè una battaglia contro di esso senza quartiere. Sapere dove, come, quando si ripetono reati di corruzione dà al decisore le informazioni utili per concentrare i controlli nelle aree, geografiche ed ambientali, più a rischio. I dati invece languono nelle cantine polverose di qualche Ministero.  Purtroppo l’amministrazione pubblica italiana non è nemmeno desiderosa di conoscere se stessa: da anni non fa utilizzo dei dati sulla spesa pubblica per acquisti di beni e servizi che essa annualmente e meritoriamente genera. Sconfitta certa, dunque?

Secondo, perché la corruzione non “costa” al Paese il valore delle transazioni corrotte, ma ben di più. Dovremmo cominciare a contarla bene, la corruzione, come fanno ad esempio in Brasile, dove analizzando gli scandali nel mondo della spesa per istruzione emerge come nei comuni più corrotti in media l’11% in meno dei maestri riceve formazione pedagogica e dove, soprattutto, si scopre come, là dove la corruzione è più alta, minore è la bontà dei risultati scolastici dei ragazzi (15% in meno nel punteggio in matematica e portoghese) e la loro capacità di terminare gli studi (3% minore il tasso di coloro che si diplomano). Dovremmo cominciare a contarla, la corruzione, per il valore di tutto quello che distrugge, per quegli investimenti, privati e pubblici che non consente. Dovremmo combatterla, la corruzione, perché in questa crisi economica devastante macchia l’unico strumento che potrebbe tirarci fuori dalle sue sabbie mobili, gli investimenti pubblici che generano domanda alle imprese ed occupazione e che una retorica esagerata porta a non ricorrervi per paura che siano “soldi sprecati”.

“Esagerata”? E’ esagerata la dimensione della corruzione italiana? Ogni indicatore sembra dire il contrario, a cominciare dai famosi indici di “corruzione percepita” di Transparency International che ci relegano tra i primi Paesi del mondo avanzato. In realtà studi più seri basati su dati reali mostrano che una buona parte del problema degli sprechi italiani non risiedono tanto nella corruzione quanto nell’incompetenza prevalente presso le stazioni appaltanti (e se quest’ultima è ragione perché la corruzione filtri meglio, come dice qualcuno, ragione in più per battersi per la competenza!). “Conoscere se stessi” implica innanzitutto rivoluzionare la macchina organizzativa degli appalti pubblici, basandola non sulla rotazione dei responsabili che cancella sapere acquisito e repressione a valle con un aumento delle pene per chi compie atti illeciti che poco spaventa nel nostro Paese, tutt’altro. Come?

La nuova Direttiva europea degli appalti, approvata di recente dal Parlamento europeo e destinata ad essere recepita da tutti gli Stati membri, innova sensibilmente (anche se poteva essere decisamente più coraggiosa, senza dubbio), specie spingendo i Paesi a lasciare più discrezionalità alle stazioni appaltanti. Il Regno Unito ha già approvato la nuova legge e con grande entusiasmo ha già sposato la nuova filosofia europea, mentre l’Italia, sempre a rilento nel suo adeguarsi, teme – dando più potere decisionale ai singoli responsabili degli appalti pubblici, dove si concentra un terzo circa della spesa pubblica italiana – il rischio di vedere la corruzione materializzarsi maggiormente.  Una contraddizione solo apparente: il Regno Unito ha spinto in questi anni con decisione e convinzione sulla leva delle competenze dei dipendenti nel campo degli appalti pubblici, riconoscendogli anche progressioni di carriera e emolumenti, mentre in Italia è avvenuto di fatto il contrario. La discrezionalità accompagnata alla professionalità è leva di sviluppo, lasciata a se stessa è invece destinata a inviluppare il Paese nella morsa del declino.

Purtroppo è probabile che in Italia alla fine la discrezionalità abbinata alla competenza lascerà spazio alla consueta pervasività delle leggi. Un primo assaggio lo vediamo già nel dibattito nelle aule parlamentari sulla Legge Delega che dovrebbe dare le linee guida al Governo, sul tema del recepimento della Direttiva europea, volando in teoria “alto”: ecco invece che il Senato negli emendamenti ha inserito addirittura una clausola specifica “per quanto riguarda il settore dei servizi sostitutivi di mensa, salvaguardando una specifica normativa generale di settore”! Legge delega che già pare dare dunque poca attenzione alle esigenze della imprese di sburocratizzazione (nell’epoca di internet, ancora la pubblicità dei risultati delle gare sui giornali a costo delle imprese vincitrici del bando!) e tanta attenzione alla forma. Il rischio vero che corriamo è quello di accentuare le problematiche corruttive, portando le aziende sane a spostarsi verso l’estero e la domanda pubblica a restare in mano a quelle meno efficienti e più legate a doppio filo, in accordi poco leciti, con stazioni appaltanti non all’altezza della vera sfida, quella di contribuire a ridare competitività al nostro sistema imprenditoriale.

“Investire per risparmiare e risparmiare per investire” dovrebbe diventare il nuovo motto per combattere la corruzione in Italia. Investire con moneta sonante per permettere alla classe degli acquirenti pubblici italiani di diventare, come per diplomatici e giudici, una famiglia professionale in cui spendersi per tutta una vita grazie alle competenze accumulate al servizio del Paese è il modo migliorare per generare risparmi ed eliminare gli sprechi, altro che leggi ad oltranza. Risparmiare eliminando gli sprechi significa a sua volta  avere a disposizione le risorse senza far addizionale debito per quegli investimenti pubblici che il Paese, settore privato incluso, attendono da tempo per ridare slancio alla produttività del Paese ed innescare il circolo virtuoso della ripresa.

Leader disposti a cavalcare questa rivoluzione e vincere questa battaglia disperatamente cercasi.

Post Format

Quando la Corte Costituzionale fa la politica economica (giusta) che il Governo non (o)sa fare

Renzi può dirsi fortunato. Se lui ha deciso, come pare, di aderire  masochisticamente all’austerità europea ed a rinunciare a quel cannone potente chiamato politica fiscale espansiva, qualcun altro lavora al posto suo, venendogli in aiuto, anche se dubito che lui possa capirlo.

Questo qualcuno si chiama Corte Costituzionale che, bocciando la norma Monti che bloccò l’indicizzazione al costo della vita delle pensioni sopra i 1500 euro per il biennio 2012-2013, ha ridato ai cittadini un pezzo di reddito disponibile, una una-tantum di 5 miliardi. A questa una-tantum potrebbe aggiungersi una ulteriore spesa, questa volta permanente, se questa maggiore indicizzazione nel biennio si ripercuoterà, tramite una maggiore base di calcolo di partenza, sulle pensioni future – a cominciare da quelle dal 2013 in poi – via meccanismo di indicizzazione (visto che Letta infatti ristabilì il meccanismo di ancoraggio ai prezzi, anche se non completo al 100%). Se poi questa sentenza sbloccherà anche altri stipendi bloccati, come quelli della scuola, l’effetto, in parte una-tantum ed in parte permanente, sarebbe ancora maggiore, certamente superiore a 5 miliardi, qualcuno dice pari a 10 miliardi.

Quello che conta tuttavia è capire se questo “stimolo all’economia” della Corte Costituzionale sia capace di generare nuovi consumi (e dunque PIL e produzione industriale) o solo maggiori risparmi, come ha fatto per il poco efficace bonus fiscale renziano.

Ebbene Christina Romer, nota per essere stata capo della squadra economica di Obama nel suo primo mandato e oggi di nuovo Professoressa alla prestigiosa Berkeley University, con il marito David Romer, si è occupata della questione analizzando l’impatto negli Stati Uniti di cambiamenti dei pagamenti pensionistici, per ragioni una-tantum o permanenti.

http://eml.berkeley.edu/~cromer/Transfers%20Draft%20December%202014.pdf

I risultati sono abbastanza chiari: se l’effetto del trasferimento è percepito come permanente, un aumento del reddito dovuto ad esso dell’1% genera un aumento di 1,2% nel consumo, un effetto positivo che persiste per 5 mesi circa, a partire dall’arrivo del pagamento. Meno rilevanti appaiono gli effetti di trasferimenti una-tantum.

I Romer mostrano anche come aumenti dei trasferimenti agiscono molto più rapidamente di diminuzioni dello stesso ammontare di riduzioni delle tasse.

Insomma, sembra proprio che Renzi debba essere grato per il Tesoretto che ha scovato la Corte Costituzionale e che gli permette di fare quello che non osa fare da solo, e cioè politiche che aiutino l’economia a risollevarsi e non ad affondare, come quelle che ha fatto sinora, seguendo timidamente come uno scolaretto l’Europa austera. Politiche che tengano il deficit sotto controllo ma ad un livello pari al 3% del PIL e non il folle 0% da raggiungere in 3 anni che si è proposto nel DEF, progetto che sta distruggendo il potenziale di ripresa del Paese, come i recenti dati su occupazione e disoccupazione mostrano bene.

Certo, avremmo forse preferito che il Tesorone vero, l’unico che esiste, del deficit al 3% invece che allo 0% fosse dedicato agli investimenti pubblici piuttosto che ai trasferimenti ma, di questi tempi, di fronte a tanta ignavia di politica economica anche una Corte Costituzionale può bastare.

Post Format

Quel Governo Renzi disinteressato alle sorti delle PMI negli appalti pubblici

Il recepimento della Direttiva Europea sugli Appalti è un’occasione straordinaria per misurare la volontà del Governo Renzi di mettere mano sul serio, e non con tagli lineari, alla spending review e utilizzare lo strumento della domanda pubblica per sostenere sviluppo, occupazione, stabilità.

Qualcosa già lo sappiamo: quanto a velocità, Renzi latita. Incredibile a dirsi, sarà veloce su altre questioni, ma su questa proprio no. Già recepita con entusiasmo dal Regno Unito, la discussione sulla Direttiva procede invece a rilento in Italia, la legge delega del Parlamento avendo appena superato lo scoglio degli emendamenti del Senato ed essendo ora destinata a passare alla Camera dei Deputati. Essa deve contenere le linee guida che il Parlamento richiede al Governo di seguire nella scrittura della legge.

Se il buongiorno si vede dal mattino, siamo messi malissimo: spicca per brillantezza l’emendamento approvato dal Senato

«… tenendo in debita considerazione …. il settore dei servizi sostitutivi di mensa, salvaguardando una specifica normativa generale di settore».

I servizi di mensa nei principi generali a cui si deve ispirare il Governo! Complimenti, roba da far svenire la povera Commissione europea che aveva chiesto in tutte le salse al Governo italiano di fare, stavolta, la cosa giusta: copiare la Direttiva europea senza aggiungere una riga, garantendo così la stabilità della normativa italiana sugli appalti per i prossimi anni, quella stessa normativa che negli ultimi anni aveva subito più di 100 variazioni, facendola divenire una giungla selvaggia impossibile da attraversare per qualunque impresa, italiana e non, che avesse voluto approcciare il mercato della domanda pubblica italiana. Ma la tentazione era irresistibile ed il Governo Renzi a quanto pare non sembra troppo interessato a governare il dibattito in Parlamento.

Al di là di questo, rimane una questione chiave della legge delega che, se passata sotto il silenzio generale, rischia di lasciare la ripresa strutturale del Paese ad un futuro troppo lontano per poterne apprezzare gli eventuali frutti.

Sto parlando  della decisione del Governo italiano di rafforzare il meccanismo della centralizzazione degli appalti, ben noto da tempo (anche se il Ministro Del Rio si è apprezzabilmente pronunciato per un cambiamento – tutto da verificare – di filosofia dalle grandi opere ai piccoli appalti) e presente anche nei principi fissati dalla Legge Delega dove si legge:

contenimento dei tempi e piena verificabilità dei flussi finanziari anche attraverso adeguate forme di centralizzazione delle committenze e di riduzione del numero delle stazioni appaltanti … con possibilità, a seconda del grado di qualificazione conseguito, di gestire contratti di maggiore complessità e fatto salvo l’obbligo, per i comuni non capoluogo di provincia, di ricorrere a forme di aggregazione o centralizzazione delle committenze di livello almeno regionale per gli affidamenti di importo superiore, rispettivamente, a 150.000 euro per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, a 250.000 euro per i comuni con popolazione compresa fra 5.000 e 15.000 abitanti e a 350.000 euro per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti

 

Alla maggiore centralizzazione vengono dunque affidati due ruoli: quello del controllo dell’informazione sulla spesa pubblica negli appalti, auspicabile soprattutto ai fini della spending review, e quello della  crescita della dimensione media delle gare in Italia, meno auspicabile e certamente non da suggerire via legge ma che andrebbe piuttosto lasciato alla discrezionalità d’analisi – pragmatica e concreta, con riferimento alle singole situazioni specifiche di gara – da parte delle stazioni appaltanti. Certo, stazioni appaltanti competenti e remunerate maggiormente per il loro compito strategico: ma la parola competenza nella legge delega appare solo per i direttori lavori appalti e per le commissioni di gara, senza da un lato spiegare come verrà raggiunta per queste figure ed escludendo dal suo perimetro tutta quella galassia enorme di dipendenti pubblici coinvolti nel processo di acquisto di beni, servizi e lavori.

Il pericolo di una centralizzazione crescente di questo tipo? Ovviamente quello di distruggere ulteriormente quel germoglio strategico del Paese che sono le nostre PMI, che non possono certamente pensare di partecipare a gare di dimensioni troppo ampie e che invece dagli appalti pubblici, come avviene in tanti Paesi al mondo, potrebbero ricevere quella “protezione” per i primi anni di vita che le permetterebbe di imparare a crescere e divenire competitive per il mercato globale. In Italia, com’è noto, è massimo rispetto a tutti i Paesi dell’area europea il tasso di discriminazione verso di esse negli appalti, misurato dalla differenza tra la quota che le PMI hanno nell’economia nel suo complesso e quello che si aggiudicano negli appalti pubblici.

http://www.gustavopiga.it/2014/come-si-uccidono-le-pmi-european-style/

La legge delega parla delle PMI solo una volta menzionando come di debba lavorare per il:

 

miglioramento delle condizioni di accesso al mercato degli appalti pubblici e delle concessioni per le piccole e medie imprese e per le imprese di nuova costituzione, anche attraverso il divieto di aggregazione artificiosa degli appalti

 

Poca roba, tanto più se si considera che il divieto di aggregazione artificiosa di appalti può essere aggirato facendo meramente due o più lotti, tipicamente di una dimensione tale da rendere comunque impossibile la presenza delle PMI in gara. Una gara impossibile, come se mettessimo sulla stessa pista di corsa uno Usain Bolt maturo ed un giovane campione mondiale juniores. Un esito scontato che porterà alla fine all’abbandono della corse da parte del giovane futuro talento, per impossibilità di competere vincendo.

http://www.gustavopiga.it/2014/the-race-we-would-like-to-watch-protect-smes/

Come frenare il rischio enorme della crescente centralizzazione degli appalti in Italia e ottenere piuttosto che “buona centralizzazione” e “piccole imprese” convivano in un circolo virtuoso?

Spetta alla Camera ora modificare questo DL scritto chiaramente da chi non ha gli interessi delle piccole a cuore. Ecco alcune proposte che mi permetto di suggerire:

divieto di richiesta di requisiti tecnici specifici sproporzionati e non coerenti con l’oggetto dell’appalto; previsione della presenza di almeno un rappresentante delle piccole imprese presso ogni stazione centrale d’acquisto per la valutazione dei singoli capitolati ai fini della massima partecipazione delle suddette imprese; presenza di progetti formativi e consulenziali che coinvolgano stazioni appaltanti centralizzate e piccole imprese; inserimento nella giustificazione della politica dei lotti della stazione appaltante di un criterio che esamini il miglioramento delle condizioni della numerosità dei lotti nel tempo per la stessa categoria di beni, servizi o lavori; obbligo di pagamento immediato – anche attraverso accordi con la Cassa Depositi e Prestiti – per le piccole imprese con meno di 50 addetti e, per le imprese in subappalto che lo richiedono, anche di anticipi; esistenza di piani di consultazione diretta semestrali per ogni stazione centrale d’acquisto esclusivamente dedicata ai rappresentanti delle PMI.

Altre sono immaginabili. Sarebbe un timido inizio di attenzione alle piccole imprese, all’interno di una cornice di politica industriale che deve smettere di rappresentare esclusivamente grandi imprese, in crisi e non.

A tali misure aggiungeremmo la seguente richiesta, per evitare la cattura da parte delle imprese più grandi di stazioni appaltanti non competenti e/o corrotte:

creazione di un albo nazionale, gestito dall’ANAC, dei responsabili unici del procedimento a cui accedere via concorso nazionale specifico, basato su emolumenti salariali legati ad avanzamenti specifici sulla base delle competenze acquisite e della performance raggiunta.

Si può fare, anche se dubito che questo Governo abbia intenzione di lasciarsi “catturare” dalle piccole imprese e da tutto il bello potenziale che esse hanno dentro i loro progetti di sviluppo.

Post Format

DEF 2015: la trappola dell’austerità

Pubblicato sul Messaggero di oggi.

L’Italia che Renzi ha preso in mano, nel febbraio dello scorso anno, era affetta da due malattie: un’emorragia che rischiava di essere fulminante – fatta di perdita di lavoro, specie non qualificato, consumi e investimenti privati in calo, chiusura di imprese, soprattutto le più piccole e nel settore delle costruzioni – ed una condizione cronica, altrettanto grave, fatta di scarsa competitività, a sua volta nutrita da bassa produttività, di  poco dinamismo imprenditoriale, di un alto tasso di migrazione della forza del lavoro fuori dal Paese.

Quando il Documento di Economia e Finanza fu presentato, due mesi dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, quasi un anno fa, la carta che il Premier tentò fu quella dell’ottimismo. Nelle previsioni la produttività del lavoro veniva data finalmente e fortemente in crescita già dal 2014, mentre per gli investimenti privati nel il biennio 2014-2015, dopo il crollo di quasi il 5% del 2013, si scommetteva che sarebbero cresciuti del 2 e poi del 3%. Il PIL era dato in crescita dello 0,8% per l’anno in corso.

Non è andata così tanto bene, anzi. Il PIL ha perso lo 0,4%, anche perché gli investimenti privati sono diminuiti di addirittura il 3,3% e la produttività del lavoro dello 0,6%: sia l’emorragia che la malattia cronica sono peggiorate, portando il tasso di disoccupazione al suo livello più alto nel XXI secolo.

E’ giusto dire che eravamo agli inizi del mandato Renzi: molte variabili macroeconomiche non erano allora ancora sotto il suo stretto controllo, ma figlie dell’azione dei precedenti Governi, nessuna riforma era ancora stata attuata. A modificare il quadro si aggiunge il recente cambiamento drastico di orientamento della politica monetaria europea, il cui impatto più significativo si trasmetterà all’economia italiana via deprezzamento dell’euro, capace di ravvivare l’export italiano delle nostre imprese più internazionalizzate, tipicamente ma non esclusivamente le medio-grandi del Nord.

Motivi per sperare che il 2015 non ripeta il fallimento del 2014 dunque ve ne sono. Ma anche per temere che, malgrado la BCE, non si sia appreso a sufficienza dagli errori del passato, fossero essi del governo Monti, Letta o dello stesso Renzi. Quali sono stati gli errori chiave di questi ultimi anni? Senza dubbio il principale è stato sottostimare l’impatto che avrebbe avuto sulla domanda interna europea l’austerità fiscale avviata a partire dal 2011, proprio quando l’economia del Continente cominciava a rialzare la testa dopo la prima durissima crisi del 2008-2009.

Nel 2011 partiva infatti in tutta Europa la costruzione del Fiscal Compact che richiedeva ai governi senza se e senza ma di tagliare le spese ed alzare le tasse, annichilendo la timida ripresa privata con piani di rientro a quattro-cinque anni per ridurre debiti e deficit pubblici. Quattro o cinque anni, ovvero lo stesso orizzonte temporale lungo il quale gli imprenditori decidono se fare o disfare i loro progetti d’investimenti. Mentre negli Stati Uniti senza Fiscal Compact la disoccupazione rientra ai livelli ante crisi, in Europa esplode, come ben mostra il grafico riprodotto qualche mese fa da Mario Draghi. E la spiegazione è semplice: come negli anni Trenta, il settore privato è sparito dall’economia, rinunciando a consumare ed investire per il dilagante pessimismo ma, contrariamente ad allora, è invece mancato uno Stato che sorreggesse le imprese a suon di appalti pubblici, come fece Roosevelt e come in parte ha fatto Obama, lasciando dunque in ultimo precipitare la situazione europea ai livelli odierni.

IL DEF 2015 purtroppo pare non avere appreso nulla dagli errori del passato: sulla base delle richieste austere europee Renzi si impegna infatti a ridurre il deficit pubblico sul PIL del quasi 3% in tre anni. 10 miliardi di manovre ogni anno di maggiori tasse e minori spese a casaccio, come ormai è tradizione, scoraggeranno molti imprenditori dall’investire.  Addirittura Renzi si mostra più realista dell’Europa quando si impegna per il 2018 e 2019 a superare (!) l’equilibrio di bilancio (strutturale) previsto in Costituzione e chiesto dall’Europa, e dichiara di avere effettuato uno “sforzo fiscale (di riduzione della spesa, NdR) superiore a quello richiesto” dai parametri europei: meno 1,6% in termini reali nello scorso anno e -0,5% nel biennio 2015-2016, contro la richiesta di aggregato di spesa costante da parte dall’austera Europa per il triennio.

L’alternativa? Mantenere il deficit pubblico al 3% di PIL nei prossimi tre anni, una decisione che avrebbe arrestato l’emorragia, liberando circa trenta miliardi di risorse da investire nel rifacimento, ad esempio, della nostra edilizia scolastica, dando lavoro a tantissime piccole imprese in crisi.  Al contempo avremmo cominciato a curare la nostra cronica malattia, ripartendo dalla base più naturale per ricostruire la competitività del Paese, e cioè dal sapere e dalla speranza dei giovani, dopo aver restituito loro il diritto-dovere di studiare in ambienti e strutture che li facciano sentire seguiti ed apprezzati.

Post Format

Mario Pirani

Occorre ripensare a una carriera universitaria basata solo sulla ricerca, benché, se fatta seriamente, molto importante. È  necessario riqualificare la didattica, attraverso valutazioni oggettive sui docenti, i cui risultati incidano sul punteggio dei concorsi universitari, al fine di far perdere la sensazione, che molti studenti universitari hanno, di essere un inciampo nel frenetico movimento dei loro professori.”

La Repubblica, l’ultima rubrica di Mario Pirani, scomparso ieri.

http://www.repubblica.it/cultura/2015/04/17/news/rubrica_mario_pirani-112197267/

Mi mancherà.

Post Format

Cosa hanno in comune Alesina, Giavazzi e Renzi? Tanto

La Banca Centrale Europea ha ridato fiato, oggi, a Alesina e Giavazzi 1.0. In soffitta, dopo pochi mesi di innovazione prototipale, A&G 2.0, che chiedevano al governo Renzi di tenersi su di un deficit del 3% di PIL, negoziando con l’Europa una riduzione delle tasse senza accompagnarla immediatamente con un calo delle spese pubbliche. Era l’epoca, solo pochi mesi fa, in cui si temeva il quarto anno di recessione consecutiva ed il rischio di una guerra sociale pericolosissima nella penisola. Pericolosissima per tutti, anche per quelli poco interessati alle sorti di breve periodo dell’occupazione, come i nostri due economisti. Ma l’azione della BCE, autorizzata dalla Merkel, che ha abbattuto il cambio euro-dollaro e ridato un pizzico di ossigeno alle imprese internazionalizzate, specie del Nord, ha fatto rientrare il senso di emergenza che aveva motivato il loro cambio momentaneo di posizione. Siamo dunque tornati al vecchio modello, quello puramente ideologico e nemmeno un pizzico pragmatico: abbassare le tasse abbassando la spesa. Ideologico perché A&G sanno benissimo che questa ricetta distrugge PIL e occupazione (altrimenti perché passare alla versione 2.0?) ed è motivato solo da un desiderio di avere meno pubblico nell’economia. Poco pragmatico perché dalla recessione non siamo fuori e le tensioni sociali rimangono fortissime, altro che ripresa.

http://www.corriere.it/opinioni/15_aprile_12/slancio-perduto-premier-56953d30-e0da-11e4-87d6-ad7918e16413.shtml

*

A&G sbagliano (al di là della loro incredibile pervicacia nell’argomentare che tagli di spesa fanno bene all’economia, malgrado dileggiati da mesi da Premi Nobel di un qualche rilievo come Krugman e Stiglitz) su due fronti, sapendo di sbagliare.

Il primo è far pensare alla platea dei lettori del Corriere che il Governo Renzi non abbia, esattamente come i suoi predecessori Monti e Letta, ridotto la spesa pubblica. Eccome se lo ha fatto, e, ovviamente lo ha fatto ciecamente, casualmente, trasportato da un’ideologia simile a quella di Alesina e Giavazzi e addirittura più radicale di quella imposta dall’Europa. Basta leggere il DEF a pagina 59, dove leggiamo per l’ennesima volta come il Governo abbia effettuato uno “sforzo fiscale (di riduzione della spesa, NdR) superiore a quello richiesto” dai parametri europei: -1,6% in termini reali nello scorso anno e -0,5% nel biennio 2015-2016, contro la richiesta di aggregato di spesa costante voluto dall’austera Europa per il triennio. Aggregato di riferimento che non include la spesa per interessi e la (magra) spesa per investimenti pubblici ma che include le (crescenti) spese pensionistiche: il ché significa che per ben più di quel valore medio di sopra sono state tagliate la spesa per stipendi e per acquisto di beni e servizi che incidono in maniera decisiva sulla domanda per consumi rivolta alle imprese, in un momento drammatico in cui queste, soprattutto le piccole, urlano per avere l’ossigeno che verrebbe dalla domanda governativa.

Che sia chiaro: questi tagli sono stati fatti a casaccio, senza la minima vera spending review che generasse al contempo spesa di qualità e risorse dal taglio degli sprechi.  Ecco, l’economia italiana è in crisi per questa duplice miopia: non scommettere su più qualità del settore pubblico (spending review? ma scherziamo?) e conseguentemente non poter sostenere la domanda interna con vera spesa pubblica dai fondi rimediati dal taglio degli sprechi.

*

Ma alla qualità della spesa pubblica né Renzi né A&G (in qualsiasi versione, 1.0 o 2.0) sono interessati.

E’ qui infatti il secondo errore di A&G: non solo quello di chiedere meno spesa, ma di chiedere che la riduzione della spesa pubblica sia finanziata da maggiori pagamenti diretti dei cittadini, specie quelli più abbienti. Per esempio, riducendo la spesa pubblica per l’università facendo pagare più rette universitarie alle famiglie (intuizioni parzialmente simili si applicano alla scelta della salute pubblica). Che errore pensare che le cose così migliorerebbero.

Se veramente le tasse fossero introdotte solo per i più abbienti l’effetto sarebbe complessivamente microscopico per le università (la maggior parte dei figli dei ricchi è già “fuggita all’estero”) e così anche il taglio della spesa pubblica consentito per tenere costanti i servizi d’istruzione degli Atenei. Se lo schema fosse invece quello di alzare le tasse universitarie per tutti per finanziare le università pubbliche che non ricevono più soldi direttamente dallo Stato, due sarebbero gli effetti: spostare verso il privato i consumatori più capaci di valutare il prodotto se quello pubblico non è ritenuto di qualità (forse qualche studente di più in Bocconi? qualche nuovo ospedale privato nascerà?) e, soprattutto, scoraggiare definitivamente l’ingresso dei meno abbienti (già abbondantemente lontani, per esempio, dall’università, per la sua scarsa qualità percepita) a meno di non reinserire borse di studio abbondanti, ma allora rieccoci in uno schema finanziato dal pubblico che A&G 1.0 non desiderano. 

Notate che nulla avverrebbe in questo schema al problema principale del Paese: la qualità dei servizi pubblici. A&G 1.0 pensano che i cittadini avrebbero con la loro proposta “un forte incentivo ad esigere servizi di qualità”: pia illusione, spesso i cittadini non si spostano “con i piedi” verso la qualità e spesso non sono in grado di valutare la qualità dei servizi ricevuti. La questione in effetti rimane una sola: non ridurre la spesa, bensì razionalizzarla per far tornare a scintillare le nostre università, i nostri ospedali, ecc. così contribuendo al contempo alla ripresa della stagnante produttività italiana (che, a proposito, nel primo anno del Governo Renzi è scesa dello 0,6%). Usare poi contemporaneamente le risorse derivanti della razionalizzazione per aumentare la domanda interna via investimenti pubblici, invece che con riduzioni delle tasse che non generano ripresa per il dominante pessimismo prevalente (bonus fiscale docet).

*

Ma a A&G 1.0 e al Governo Renzi tutto questo non interessa. I tre hanno questo in comune, e non è poco: l’idea che privato e pubblico siano “sostituti” e che il primo sovrasti il secondo come il treno vola più del mulo;  mentre quello che è vero è che nei Paesi che crescono in maniera convincente privato e (buon) pubblico sono complementi, come il treno e la rotaia. Alla fine è tutto qui, l’oceano che mi divide da A&G&R.

Post Format

L’azzardo greco e il pendolo della storia

Dal Messaggero di oggi.

*

Perché esiste il Fiscal Compact? Perché esiste questa macchina infernale senza pause, che obbliga lo Stato a dimagrire, senza se e senza ma, con pochissima attenzione da parte del decisore Europa a se questa consunzione sia all’interno di un processo di sana spending review o invece di recessivi tagli lineari, di cessione per mere esigenze di cassa di controllo pubblico o di intelligenti e mirate liberalizzazioni?

Sono due le risposte immediate a questa domanda, che sollevano ulteriori questioni, più dirimenti, sulla natura del progetto europeo e sulla necessità di una nuova visione politica che sostenga il cambiamento nelle scelte pubbliche del Vecchio Continente.

La prima risposta ha a che fare con quella che io chiamo la “questione ideologica”. La mia generazione di cinquantenni, oggi al potere in tutti i gangli delle amministrazioni nazionali e sovranazionali, si è formata nelle università al tempo in cui il verbo neo-classico aveva preso il sopravvento. Partito in sordina alla fine degli anni sessanta presso la scuola di Chicago, fu sospinto dai fallimenti evidenti negli anni settanta del  modello keynesiano, applicato dalla classe dirigente di allora senza interrogarsi se l’intervento statale che Keynes perorava durante la Grande Depressione da crisi di domanda degli anni trenta fosse necessario in economie alle prese invece con problemi strutturali di offerta che cominciavano ad affliggere il benestante Occidente.

Thatcher e Reagan si fecero forti di quel modello (contano le idee, eccome se contano!) per adottarlo con convinzione e poca attenzione ai dettagli, generando prima disoccupazione e poi ripresa, modificando per sempre la struttura produttiva e finanziaria di Gran Bretagna e Stati Uniti. Ma anche, per quello che conta di più per noi, dando vita – più o meno volontariamente – ad una nuova ideologia che, come spesso accade, pervase i corridoi delle migliori università del mondo: il fallimento del pubblico (meno interventismo) e il liberismo (più mercato), divennero i due pilastri del messaggio economico con il quale siamo stati cresciuti sui banchi degli atenei negli anni novanta.

Oggi, come è avvenuto spesso nel corso della storia, il pendolo ritorna indietro, e una crisi da domanda simile a quella degli anni trenta richiede soluzioni simili a quelle persuasivamente argomentate da Keynes allora. Ma questa classe dirigente al potere oggi non riesce ad accettarle, troppo imbevuta di quello che allora era sapere ed oggi è mera ideologia.

La questione ideologica in Europa avrebbe comunque le gambe corte se ad essa non si accompagnasse una questione europea di superiore importanza: quella democratica. Il potere decisionale in quest’ultimo decennio è rapidamente salito verso il centro, verso Bruxelles, senza che appropriati meccanismi di rappresentanza effettiva consentissero di sensibilizzare la politica sulla situazione di disagio e – talvolta – di vera sofferenza dei cittadini, specie quelli colpiti dalla recessione. In fondo, meccanismi oliati di rappresentanza  avrebbero consentito facilmente alla politica di ordinare alla burocrazia di abbandonare rapidamente la sua dannosa ideologia. Così non è stato, così non è, a meno di un crescente e conseguenziale consenso per nazionalismi di sinistra e di destra per ora sterili – incapaci cioè di influenzare le politiche economiche –  ma certamente più attenti alle sofferenze dei singoli territori, delle località.

E’ un’Europa, quella che abbiamo costruito, dal “liberismo standardizzato”, che chiede cioè, senza se e senza ma, meno presenza del pubblico e più mercato nell’economia e riforme uguali per tutti, confermando la sua lontananza  dalla specificità dei problemi che ogni Paese, e spesso ogni regione, vorrebbero affrontare e risolvere. Questa è l’Europa che si sta lacerando e dividendo sempre più, basti vedere la crescita galoppante degli anti euro in Germania.

Che Europa contrapporre a questa fallimentare per sperare che il disegno europeo possa sopravvivere, permettendo al Continente di crescere unito e dunque capace finalmente di affrontare con efficacia e determinazione le più spinose questioni geopolitiche di questo difficilissimo scenario mondiale, ragione per cui in fondo era nata l’idea di Unione? Al “liberismo standardizzato” dovremmo sostituire un “liberalismo democratico”: dove la questione centrale di quest’ultimo sarebbe quella del pieno conseguimento delle libertà individuali, senza le catene che derivano dalla sofferenza, dalla disoccupazione, dal fallimento che questa recessione in primis genera; dove le riforme sono quelle, diverse per ogni Paese, più utili alla causa della libertà d’impresa e del diritto-dovere di lavorare, nel pieno riconoscimento della diversità come valore fondante dell’Unione europea (come argomentava Jean Monnet); dove la Politica rappresenta con coraggio le volontà dei cittadini-elettori di ogni singolo Paese e vede le proprie richieste destinatarie di pari dignità al tavolo delle decisioni europee.

Non mi stupirei se molti di voi riconoscessero nell’attuale tentativo greco l’azzardo coraggioso di risvegliare il Continente europeo e portarlo appunto verso una nuova Europa, più democratica e più liberale e – dunque – più solidale, dove ci sentiremmo maggiormente a casa (peggio di così, scontentando tutti, è difficile fare). Non a caso la battaglia si combatte oggi in Europa sul fronte della “quantità di solidarietà” per chi soffre in Grecia e sulla lista di riforme che la Grecia dovrà adottare. Non una lista “pre-stampata” ma elaborata sulla base di richieste dal basso di un popolo che vuole fortemente rimanere in Europa e migliorarsi, ma decidendo insieme agli altri Stati membri la strada da percorrere, senza imposizioni.

Come finirà lo diranno gli storici. Come potrebbe finire lo possiamo decidere noi, esercitando coraggio e saggezza, rimuovendo il Fiscal Compact e ascoltando finalmente gli europei.

Post Format

The European Index of Fiscal Folly

To be effective in containing budgetary imbalances, fiscal rules need to be equipped with appropriate characteristics within the institutional framework of budgetary policy: whether a fiscal rule will be respected or not depends to a large extent on its institutional features. To capture the influence of these features, DG ECFIN has constructed an index of strength of fiscal rules, using information on (i) the statutory base of the rule, (ii) room for setting or revising its objectives, (iii) the body in charge of monitoring respect and enforcement of the rule, (iv) the enforcement mechanisms relating to the rule, and (v) the media visibility of the rule.

http://ec.europa.eu/economy_finance/db_indicators/fiscal_governance/fiscal_rules/index_en.htm

*

At a moment when Europe is putting finally its head out of the sand and the private sector is pondering whether to re-enter the economy, at a moment in which euro devaluation, oil prices and interest rates decline are making the investment risk of some firms more palatable, it is quintessential that economic policy does not spoil this timid and very shy European recovery.

It has happened before. In 2010, as you can see from the graph, both the US and Europe – also thanks to a mild and not restrictive fiscal policy stance – were showing the same signs of pick-up. What happened after that in 2011 is a history we all know but that it is worth re-playing for the sake of the reader: the US blossomed, the euro are exploded in a second devastating recession, where firms backtracked and gave up on investing, scared away. By what? A crazy constitutional invention, the Fiscal Compact, which affected deeply continental expectations, for the worse. By asking all European governments to implement fiscal restrictions (higher taxes, lower spending no matter what the content of the spending) for several years ahead, consumers and firms understood that the signal governments were sending was one and one alone: “you are on your own, good luck, son!”. The graph clearly shows how a crisis US-driven starting in 2011 soon became a solid exclusive European madness.

Today we cannot afford to do the mistake twice. Europe cannot ask its member States to engage in additional fiscal restrictions at this critical juncture: it would imply a second and perhaps final collapse of the euro project, with social unrest driving the dominant political will in some key countries toward abandonment of the joint project for lack of hope.

The index of fiscal strength elaborated by the European Commission shows clearly what we have experienced in the past few years, the worse years of a self-made recession: the absurd increase of all indicators of fiscal retrenchment. They should have remained stable or declined, to help economies survive with some oxygen from the public sector but as you can see institutional restrictions madly accelerated, preventing internal demand in each country to support oneself and other member states  recovery.April is the time when each government of the European Union presents its plans for the four years to come in terms of fiscal policy. It is quintessential that the fiscal stance becomes at least neutral, preventing further deficit reductions everywhere. It is quintessential that Greece is allowed to see its plans for social spending for the poorest implemented fully.

If our small leaders do not show the courage that Greek leaders have had in representing their electorate ‘s suffering, no QE and no reform will save our European construction from its final geopolitical demise.

Post Format

Benvenuti all’Isola delle Sirene (Famose)

Gli economisti, o alcuni di loro, non imparano mai dal passato. Le economie, loro invece, le ripetizioni del passato le rivivono spesso in maniera identica, riaprendo cicatrici profonde che finiscono per non rimarginarsi mai. Impareremo mai dal passato per evitare il ripetersi di errori marchiani e dall’impatto devastante?

*

Ricorderete tutti la storia di questo lustro appena trascorso. Mentre gli Stati Uniti, che la crisi finanziaria avevano avviato trasmettendola a tutto il mondo come un virus, nel 2011 avviavano la loro ripresa grazie ad un mix (non sempre sapiente) di politiche monetarie e fiscali espansive, noi europei affondavamo, proprio in quell’anno, dando vita ad una seconda recessione che ha distrutto posti di lavoro, aumentato le ineguaglianze, messo a rischio la costruzione europea.

La ragione la conoscete: proprio quando gli imprenditori del Vecchio Continente cominciavano a rialzare il capo timidamente immaginando di riprendere gli investimenti i leader politici dell’euro decidevano di inventarsi la macchina infernale del pilota automatico chiamato Fiscal Compact, che richiedeva aumenti di tasse e riduzioni a casaccio di spese per cercare (inutilmente, ovviamente) di ridurre il debito pubblico sul PIL. Senza paracadute, senza la sicurezza che la ripresa sarebbe stata sostenuta dalla presenza della manona pubblica, come invece è percolato nelle aspettative statunitensi, decisero di ritirarsi come un gregge, smettendo di investire  e generando appunto la seconda recessione consecutiva del decennio. Vedere i dati per credere.

Oggi ci troviamo in una situazione identica, o quasi, a quella di allora. Grazie ad una politica monetaria finalmente più sapiente siamo forse riusciti ad evitare la quarta recessione consecutiva (notate che l’Italia crescerà nel 2015 dello 0,6%, quanto Padoan prevedeva a novembre nella legge di stabilità prima del QE di Draghi: senza quest’ultimo saremmo dunque stati in realtà a parlare oggi di valori nuovamente negativi della crescita). Ma l’economia è fragilissima e gli imprenditori sono ancora scossi dal trauma di due stop consecutivi: non dobbiamo ripetere l’errore del passato. Dobbiamo fermare la macchina dell’austerità ora, esattamente con la stessa determinazione con cui si muove la Grecia, con la stessa semi-grandeur francese, con la stessa furbizia spagnola.

Padoan è in questi momenti alle prese con il vero ed unico documento rilevante ai fini della politica economica (non è certo la Legge di Stabilità, che arriva quando i giochi sono fatti): il Documento di Economia e Finanza, da presentare ad aprile. E parrebbe dai giornali che stia già pensando a dove trovare le risorse per far quadrare gli inquadrabili conti italo-europei, le astruse ed ottuse richieste dell’Europa masochista e sadica che stanno mettendo in ginocchio un intero progetto di sviluppo in comune.

*

Lo intuiscono i nostri amici Alesina e Giavazzi che si lanciano immediatamente ad avvertire Renzi (su cui pare abbiano un qualche ascendente) dalle pagine del Corriere della Sera su cosa scrivere all’interno del DEF.

http://www.corriere.it/cultura/15_marzo_22/fate-prima-legge-stabilita-96379086-d064-11e4-a378-5a688298cb88.shtml

Se Renzi dovesse cedere ai canti di queste due sirene il naviglio Italia si sfrangerà drammaticamente sugli scogli, interrompendo definitivamente il viaggio ambizioso verso l’ignoto dell’Europa dell’euro.

Le 2 sirene partono dall’evidenza che la spesa pubblica è pressoché stabile nel suo complesso per dichiarare il fallimento della stagione dei tagli mai partiti e rilanciare, chiedendo finalmente che questi avvengano.

Follia. Le 2 sirene sanno bene che se il totale della spesa è rimasto pressoché costante è perché, a fronte di un continuo ed inesorabile aumento dei trasferimenti dovuti alle pensioni (valore che non incide contabilmente sul PIL, è solo redistribuzione tra cittadini), la costanza della spesa totale si è avuta con un calo drastico (nominale ed ancora più drammatico reale) di tutta la spesa corrente e capitale del Paese. Dal 2012 al 2015, recita la Nota di Aggiornamento del DEF, la spesa totale per stipendi, consumi intermedi e spese in conto capitale scende (in valore monetario!) di 4 miliardi (in un periodo di inflazione!) mentre sale di 20 miliardi quella per pensioni.

Bene direte voi? Assolutamente no. Essendo tali tagli di spesa avvenuti a casaccio, linearmente, senza trovare quella parte di loro che veri sprechi erano (dovuti a corruzione, collusione o incompetenza), il PIL e l’occupazione sono crollati: in ogni documento della BCE e della Banca d’Italia (non proprio dei templari dell’anti austerità) si legge che la domanda interna è rimasta debole a causa della riduzione della domanda pubblica (che è, ripetiamolo, la spesa non per pensioni: stipendi, acquisti di beni e servizi e lavori pubblici, che soli rappresentano domanda vera per le imprese, oltre all’export al di fuori dell’area euro grazie alla svalutazione).

Le nostre sirene continuano ad affermare che bisogna ridurre “subito” la spesa per evitare l’aumento della tassazione, tramite l’Iva. Nel dire questo non mettono in dubbio la bontà di tale schema proveniente dall’ottusa Europa. Invece di dire “no all’aumento delle tasse, no al taglio a casaccio della spesa” cantano al prode timoniere le virtù di meno tasse e tagli a casaccio (“subito”) pur di soddisfare le richieste del Fiscal Compact. Solo pochi mesi fa si erano temporaneamente alleati al coro del “fermiamo la riduzione del deficit”, ma ora probabilmente pensano – erroneamente – che basterà Draghi a togliere le castagne dal fuoco.

E perseverano.

La ricetta è chiara: tagliare le spese, innanzitutto per evitare un aumento dell’Iva e poi per poter ridurre stabilmente le aliquote fiscali. Ma i tempi sono cruciali. È in atto una timida ripresa dell’attività economica, per ora sostenuta soprattutto dalla domanda di esportazioni grazie alla svalutazione dell’euro. Il momento per agire è oggi….  E il solo modo per farlo credibilmente è tagliando la spesa.”

Peccato che la ricetta ha fallito ovunque ed è la causa dei nostri mali: il taglio a casaccio della spesa è quello che mostra i moltiplicatori recessivi più ampi per l’economia italiana, e le nostre 2 sirene lo sanno bene.

Lo sanno tanto bene che poi accennano a quale sia la vera soluzione: “ridurre gli sprechi ed evitare la corruzione negli appalti pubblici è importante ma non basta se l’obiettivo è una riduzione della pressione fiscale di cui famiglie e imprese si accorgano”. Già, ridurre gli sprechi (cosa che richiede tempo e professionalità e che il Governo Renzi continua a rinviare) non basta e non si può fare perché ci si mette troppo tempo, bisogna fare tagli a casaccio.

E così abbiamo finalmente teorizzato il nuovo modello A&G. Benvenuti all’isola delle sirene: non bastava quella dei famosi.