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Quel freddo che abbraccia l’Unione europea

120 firme raggiunte per l’appello in poco più di 1 giorno, bene. Grazie a tutti e un grazie particolare agli studenti del Politecnico di Torino per la loro passione. Continuiamo a passare parola, dobbiamo arrivare a 1000 firme!

Interessante giornata in Danimarca parlando con gestori di fondi pensione. La Danimarca pare schierata con la Germania, malgrado mantenga la sua valuta, sul modello rigorista.

Grande interesse sull’Italia e sul suo destino. Fatalismo sulla Grecia. Nessuno ha mosso ciglio quando ho suggerito che la via migliore per la Grecia è fare default totale restando nell’euro, riducendo la spesa per interessi e dunque ottenendo qualche margine di respiro sul taglio dei salari pubblici richiesto dall’Europa. D’altro canto sono in buona compagnia nell’avere questa visione.

Domanda dal pubblico di gestori: “L’Italia potrà approvare una manovra di taglio dei salari del 20%, come quanto proposto in Grecia?” Sono trasecolato. Gli ho detto: “non ci avevo mai pensato, il che ve la dice lunga che non è nemmeno pensabile. Nemmeno un calo del 5% sarà possibile”.

Altra cosa, ho continuato, sarebbe un calo dei salari reali del 5% con salari nominali stabili ed inflazione, ma questa è roba che spetta alla BCE e sappiamo come la pensano a Francoforte …

Pare strano, ma è noto dalla storia delle riduzioni dei salari che una riduzione della busta paga in euro viene vissuta come una intollerabile umiliazione. Una medesima riduzione del potere d’acquisto di salari via inflazione non viene vissuta come un trauma. In realtà, ad esser pignoli, non è proprio sempre così; per esempio nei periodi di deflazione così non è: negli Stati Uniti, nel periodo 1841-1891, un periodo di prezzi stabili o decrescenti, su un campione di 13453 cambiamenti di salari, 41,1% furono in aumento e ben 31,7% in diminuzione (27,2% stabili). Ma non credo vi sia assolutamente un clima sociale in Italia che, anche di fronte a scelte drammatiche come quelle greche, sia disposto a tollerare tali tagli.

Sulle riforme si sono ritrovati quando gli ho raccontato quanto mi aveva detto il mio amico Elu, Professore in Germania: “tutte le riforme in Germania le ha fatte Schroeder, con l’enorme costo politico di avere perso le elezioni e di avere creato a sinistra del partito social democratico un partito comunista forte che ha indebolito la sinistra moderata tedesca”. Abbiamo concordato che una riforma di quel tipo del mercato del lavoro, d’accordo coi sindacati, ha avuto bisogno di 10 anni per maturare i suoi frutti, grazie anche alla sua tempestività di fronte all’arrivo della competizione cinese.

Ho anche parlato di una strategia europea guidata dalla Merkel di espansione fiscale. Mi è stato fatto presente del rischio di un aumento dei tassi reali a lungo termine tedeschi che un tale programma comporterebbe (ricordando quello che avvenne durante il salvataggio della Germania dell’est nei primi anni 90 da parte del Cancelliere Kohl) e quindi di perdite in conto capitale per gli investitori che detengono Bund. Non credo che una espansione in una fase domanda così debole avrebbe questi effetti sui tassi, che non si smuoverebbero. Anzi, ho detto, parliamo degli spread italiani e spagnoli che crollerebbero a seguito di un simile annuncio della Merkel!

La vera questione: ce la farà la Merkel ad arrivare a fare tanto, come fece con la Germania dell’est Kohl? Forse con l’arrivo di Hollande in Francia che parla di maggiore spesa pubblica?

Nel frattempo tutta l’Europa rimane congelata, attonita, nell’attesa che un leader la riscaldi.

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Un appello per un nuovo Rinascimento guidato dai giovani.

In questi giorni ho ricevuto molti inviti a proseguire nel progetto di incentivo per un nuovo e quantitativamente rilevante servizio civile nella Pubblica Amministrazione per i giovani, specie quelli disoccupati, così che riacquistino  fiducia nel proprio potenziale e diano slancio al nostro Paese, con uno Stato più forte a supporto dell’economia. Vi prego dunque di leggere quanto segue.

*

Carissimi/e, vi chiedo di valutare la possibilità di apporre la vostra firma a questo appello al nostro Presidente del Consiglio. Se siete d’accordo inviatemi il vostro consenso con la vostra mail a: gustavo.piga@uniroma2.it. Soprattutto ai giovani studenti, vi prego di diffondere questo appello e di farmi avere liste di giovani (con rispettive e-mail) a gruppi di 25 o 50 nomi. L’appello sarà inviato al Presidente del Consiglio solo se raggiungerà almeno le 1000 firme.

Vostro

Gustavo Piga

*

Chiediamo al Governo che destini 1% del Prodotto Interno Lordo di ogni anno finanziario del prossimo triennio, 16 miliardi di euro, senza addizionali manovre fiscali – come permesso dal Patto fiscale di recente approvazione dato lo stato di recessione della nostra economia – ad un Piano per il Rinascimento delle Infrastrutture Italiane che veda occupati ogni anno 1.000.000 di giovani ad uno stipendio di 1000 euro mensili, con contratto non rinnovabile di 2 anni, al servizio del nostro Patrimonio artistico, ambientale, culturale e a  quelle iniziative della Pubblica Amministrazione che siano volte a rafforzare il nostro sistema produttivo nazionale riducendo barriere e ostacoli che si frappongono allo sviluppo di idee, progetti e, domani, di imprenditorialità.

Siamo giovani e meno giovani, italiani. Laureati e non laureati. Donne e uomini. Abbiamo voglia di contribuire al Rinascimento del nostro Paese. Crediamo che il lavoro sia una parte essenziale della dignità della persona e che esso contribuisca ad unire le persone attraverso la condivisione di conoscenze e la creazione di nuove idee e progetti.

Come ha detto alla Camera dei Deputati il Premio Nobel Edmund Phelps:

E’ questo un periodo di crisi economica per l’Italia e per molti altri paesi, in cui instaurare nuovamente uno spirito di impresa e di istituzioni economiche al loro servizio è la chiave per un ritorno della prosperità e dello sviluppo personale della persona. L’Italia è fortunata perché possiede quella cultura economica che è necessaria per un rinascimento della creatività e di spirito d’avventura nell’economia. Quello di cui adesso c’è bisogno è di istituzioni che permettano all’Italia di riguadagnare tutto il suo potenziale.

Il tasso di disoccupazione giovanile nazionale, con l’avanzare della recessione globale, è tornato ai livelli attorno al 30% dell’inizio del secolo.  Il rischio terribile che si annida nella mancanza di opportunità quando si è giovani è quello del cadere nella disperazione, nell’indifferenza e infine nell’abbandono di ogni nuova opportunità, facendo sfiorire il potenziale di rinascita italiana.

Al contempo, le infrastrutture sociali, fisiche e immateriali del nostro Paese languono in attesa di essere rivalorizzate, mantenute, riscoperte, protette. Altre ancora sono in attesa da troppo tempo di nascere per aiutare l’Italia nel far fronte alle opportunità ed alla sfida di un mondo più globalizzato, per supportare le imprese, specie le più piccole e le più dinamiche, nel loro percorso competitivo di investimenti, innovazione, invenzione.

Queste due malattie del nostro tempo di crisi possono trovare in Italia una soluzione che riconcili i nostri governanti e le nostre istituzioni con le risorse più giovani e volenterose del Paese, al contempo stimolando la crescita economica necessaria per contribuire ad uscire dalla crisi e preservando la forza delle nostre istituzioni europee.

Sostengo e appoggio con la mia firma il Piano per il Rinascimento delle Infrastrutture Italiane.

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Il Patto sociale del XXI° secolo che dobbiamo riscrivere

Domani pubblico sul Foglio un articolo sulle tesi di un economista giapponese Koo, presso il Nomura Research Institute, sulle recessioni patrimoniali (balance sheet recessions). Di grande interesse.

Nel rileggerlo, tuttavia, mi colpisce qualcosa di cui non ho tanto discusso nell’articolo, e cioè la sua enfasi sul fatto che dopo queste recessioni, dove la gente continua a ridurre la propria domanda di beni per ridurre i propri debiti e nel farlo si inviluppa in una depressione spinta da sempre minore domanda, rimane forte nella mente delle persone l’imprinting del ricordo di quegli anni devastanti. Nel DNA di quella generazione resta l’idea che prendere a debito sia una follia da evitare per sempre:

“dopo la devastante esperienza di ripagare i propri debiti durante la Grande Depressione, la stessa avversione a prendere a prestito ha tenuto a lungo particolarmente bassi i tassi d’interesse per ben 30 anni, fino al 1959. Il fatto che ci siano voluti 3 decenni per riportare al 4% i tassi d’interesse anche con massicci stimoli fiscali come quelli del New Deal e quelli dovuti alla seconda guerra mondiale è chiara evidenza di questo trauma. Di fatto, molti di quegli americani che furono forzati a ripagare i propri debiti durante la Depressione non presero mai più a prestito.”

E’ così. Nel mio periodo negli Stati Uniti di studio ho conosciuto tanti anziani che guardavano a noi giovani studenti che vivevamo con le carte di credito come essere anomali e, un po’, immorali.

Perché parlo di questo.

Perché faccio il paio con il grafico già proposto sull’ineguaglianza, rimasta bassa dopo la Grande Depressione per 60 anni, e ripartita verso la fine degli anni Ottanta.

E penso che ineguaglianza e debito vanno di pari passo, quando va a morire un patto sociale basato su solidarietà e crescita assoluta e non relativa. Quando si dimenticano i legami di solidarietà, ognuno è per conto suo e i più poveri soffrono della loro condizione e cercano di rimediare imitando i più ricchi (ed indifferenti) prendendo diabolicamente a prestito quando non potrebbero permetterselo.

In un mondo con poca disuguaglianza forse non c’è così tanto bisogno di vivere al di sopra dei propri mezzi perché il contesto sociale e normativo è più attento a ridurre le sofferenze altrui e dunque la gente si concentra sul reddito assoluto e non relativo, lavorando ad un comune obiettivo.

E’ quel patto sociale infranto che ha portato alla crisi? E’ quel che patto che va riscritto per uscirne fuori: solidarietà senza debito? Ci sarà qualche giovane ricercatore che ha già analizzato questo legame? Che lo farà?

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7 anni vissuti inutilmente?

Come è cambiato dal 2003 ad oggi il mercato del lavoro italiano?

A guardare questo grafico (fonte Istat), che mostra gli andamenti nazionali, per nulla.

In verde (scala di dx) il tasso di disoccupazione in Italia, dato  dal rapporto percentuale tra la popolazione di 15 anni e più in cerca di occupazione e le forze di lavoro. Notevole il calo in meglio fino allo scoppio della crisi mondiale. ma nel 2010 siamo esattamente tornati a dove eravamo nel 2003.

Il tasso di occupazione 20-64 anni (scala di sx), in rosso, si ottiene dal rapporto tra gli occupati tra 20 e 64 anni e la popolazione della stessa classe di età per cento. Anche qui, grande miglioramento fino alla crisi, ma nel 2010 siamo tornati a dove eravamo. Una dinamica simile la mostra il tasso di attività (in blu, scala di sx), si ottiene dal rapporto percentuale tra le forze di lavoro (occupati o in cerca di occupazione) nella fascia di età 15-64 anni e la corrispondente popolazione, anche se qui l’andamento sembra meno legato al ciclo.

Se andiamo a vedere a livello di aree territoriali, con qualche differenza Nord e Centro replicano l’analisi mostrata a livello nazionale.

Quel che sconvolge assai il lettore attento è cosa è successo al Sud.

Le notizie apparentemente buone proverrebbero dalla linea verde: la disoccupazione durante il ciclo economico negativo è sì cresciuta, ma non ai livelli del 2003 (16 vs. 14%). Felicità?

Mica tanto. Un rapido sguardo al tasso di occupazione (rosso) e soprattutto al tasso di attività (blu) raccontano una storia ben diversa. Il tasso di disoccupazione al Sud è sceso nel settennio non perché sono di più gli occupati (come vedete sono meno) ma perché sono aumentati costantemente coloro usciti fuori dal mercato del lavoro regolare (gli inattivi), rinunciando a cercare occupazione regolare dichiarandosi disoccupati.

In questi anni dunque si va atrofizzando e incancrenendo il problema del nostro mercato del lavoro meridionale che, di fronte a prospettive di sviluppo scarse, reagisce, tuffandosi nel nero e nell’informale. Una malattia che non si cura rinunciando all’art. 18 o introducendo contratti più flessibili. Si cura con istruzione, imprenditorialità, sviluppo e politiche che rendano possibile l’emersione e la competitività di lungo periodo, come il supporto alle piccole imprese, le infrastrutture fisiche ed immateriali degne di questo nome, un sistema finanziario più vicino e presente.

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A volte (ri?)tornano

Incredibile. Dopo una serie infinita di articoli “va tutto bene, continuiamo così”, Eugenio Scalfari ha mutato linea. Cosa è successo? Non importa entrare nei suoi pensieri, spesso distorti da tattiche politiche.

Importante è che un opinion-maker importante scriva che:

Il vero tema che riguarda il lavoro è la creazione di nuova occupazione. Per realizzare questo risultato occorre che vi sia un rilancio della domanda interna ed estera. Quest’ultima dipende dall’andamento dell’economia internazionale e quindi è fuori dal nostro controllo, ma il rilancio di quella interna dipende dalla politica economica e fiscale del governo, dalle imprese e dai sindacati. Gli ultimi due – sindacati e imprese – possono anzi debbono darsi carico del problema della produttività e della competitività. Il governo dal canto suo deve trovare le risorse per accrescere il potere d’acquisto dei consumatori, senza di che le imprese non sono indotte a investire. Non si investe se i prodotti restano in magazzino. Il governo ha poi un altro strumento per creare nuovi posti di lavoro: lanciare un piano sostanzioso di lavori pubblici. Esiste una mole enorme di lavori pubblici non solo utili ma necessari: l’edilizia scolastica, l’edilizia carceraria, la modernizzazione delle strutture portuali, quella della rete ferroviaria, gli argini fangosi dei fiumi e dei torrenti, lo “sfasciume pendulo” delle montagne.
Anche qui il problema è quello delle risorse. A costo zero fu il mantra di Tremonti e si è visto dove ci ha portato: all’immobilismo più disastroso. 

Ci sono quattro modi per procurare risorse: 1. Tagliare la spesa pubblica dai suoi sprechi dovuti a disorganizzazione e a benefici clientelari. 2. Recuperare i miliardi evasi. 3. Alienare la parte più facilmente vendibile del patrimonio pubblico. 4. Imporre una tassa ai ricchi e sgravare le imposte ai redditi bassi e alle imprese lasciando così invariata la pressione fiscale.
Potenzialmente le cifre in discussione sono molto ingenti, ma per fermare la recessione e volgere in positivo il “trend” dell’economia reale occorre che la loro disponibilità sia utilizzata entro i prossimi mesi e allora le dimensioni si riducono molto. Dall’evasione è realistico aspettarsi quest’anno 15-20 miliardi, altrettanti dalla spending review e altrettanti ancora dalla vendita di beni pubblici.
Dall’utilizzazione immediata e senza alcuna nuova imposta ci si può dunque aspettare 50-60 miliardi. L’imposta patrimoniale, se riservata alle fasce più elevate di ricchezza, non darebbe un gettito significativo. Estenderla a fasce più basse è possibile se si tratta d’una patrimoniale ordinaria con aliquota non superiore all’1 per cento, visto che, almeno in parte, il ripristino dell’Ici contiene già un prelievo “progressivo”.
Sessanta miliardi utilizzabili costituiscono comunque una massa di manovra non trascurabile. Le condizioni per rilanciare la crescita dunque ci sono, tanto più se alle poste sopra indicate si aggiungano gli introiti derivanti dalla riforma pensionistica e dalle liberalizzazioni, che dovrebbero fornire alcuni effetti già nel 2013.

Adesso riposo in pace. Buona domenica.

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Università: ma quale valore legale, qui c’è da far entrare (quasi) tutte e premiare la qualità

Non avevo terminato su quanto asserito dai miei colleghi Fabiani e Giavazzi sul Corriere, che  si ritrovano dalla stessa parte della barricata quando chiedono anzi “sperano” che le università telematiche non vengano accreditate. E’ uno strano modo di vedere le cose per un liberale (lontano cioè dalla visione di Einaudi che diceva sul tema: “intendo indagare quale ordinamento rispetti meglio il principio di libertà”). Se ci sono progetti che superano un livello minimo di qualità, perché non approvarli, ed anzi perché non approvarli e basta, lasciandogli alcuni anni di tempo per verificare se hanno stabilito corsi di una certa qualità? Ci sono così tanti corsi di laurea nelle università normali (non telematiche) che probabilmente meriterebbero di essere “ispezionati” e “chiusi”, che abbiano pochi o tanti studenti che sia: perché non cominciamo da lì i divieti?

Perché sarebbe comunque poco intelligente. Prima di tutto, chiariamo subito che la questione va ben al di là del se dire sì o no alle “telematiche”. Anche perché abbiamo bisogno di molte e molte università per recuperare il nostro gap di laureati rispetto al resto dell’Europa. E abbiamo bisogno di università tecniche dove formare futuri lavoratori, in sintonia con le organizzazioni imprenditoriali, private o pubbliche che siano. Capirete dunque che assieme all’aumento del numero di università si pone urgentemente la questione delle “licenze” alle università per operare, come per i commercianti. Decisione da prendere in maniera meditata. Perché una decisione sbagliata su di ciò potrebbe divenire ostacolo alla crescita del nostro numero di laureati (come la situazione odierna, avendo noi in Italia un bel cartello di una qualche settantina di atenei). Come comportarsi?

Vietare di operare in caso di “scarsa qualità”? E’ veramente opera complessa. Sulla base di quali criteri? Mi vengono in mente i film americani dove si deve selezionare la giuria per giudicare l’accusato e gli avvocati si danno da fare per escludere giurati che paiono partire già prevenuti. Ecco non lascerei mai a Giavazzi e Fabiani in una commissione a valutare le università telematiche: hanno già un’opinione a prescindere.

Ma anche  un giudice “obiettivo”, a quale università dovrebbe dare il suo OK? C’è chi dice, lasciamole entrare tutte che poi le famiglie “votano” con i piedi, spostandosi verso le migliori. Non è esattamente così. Sia perché esiste il valore legale del titolo di laurea che riduce il valore di studiare nelle università migliori (e non le segnala al pubblico) sia perché, come dicevano tempo fa sul blog noise from amerika, “una frazione della domanda è principalmente interessata ad una formazione accademica vicino a casa; un’altra frazione della domanda non è proprio in grado di valutare la qualità della formazione né mai lo sarà; una ulteriore frazione della domanda teme la qualità del servizio didattico, invece che desiderarlo. … Propongo quindi di capire meglio quali siano le effettive caratteristiche della domanda. Se però la domanda non reagisse come immaginato, verrebbero a cadere le indicazioni di policy.”

OK, allora aboliamo pure il valore legale della laurea là dove possibile. Fatto ciò o non fatto ciò, resta però la questione chiave di come identificare la qualità (altra questione, diversa ma legata, è quella di come “incentivare” la qualità, ma ne parliamo solo un poco alla fine di questo post) per aiutare coloro che vorrebbero inviare il loro figlio ad una buona università.

Qualcuno dice: facciamo fare al Ministero (o all’Agenzia Anvur) il pagellino alle università e pubblichiamolo, così renderemo note le classifiche alle famiglie che si orienteranno meglio. E’ un’idea. Ma vi immaginate voi le pressioni politiche su quei poveri burocrati?

Una soluzione, menzionata nella bella intervista da Daniele Bertolini, è quella di delegare la valutazione della qualità a organi indipendenti a cui si rivolge la singola università (tipo agenzie di rating regolate) per essere sia accreditata con un livello minimo sia valutata nel tempo, per salire (o scendere) nella valutazione dopo essere stata accreditata.

Soluzione, direte voi, che soffre del problema di come identificare le buone università. Bertolini menziona come “la molteplicità dei criteri consentirebbe di formare innumerevoli classifiche a  seconda del peso relativo da dare a ciascun elemento. Dietro ogni classifica c’è  sempre una scelta circa l’importanza da dare ai vari elementi presi in  considerazione. In questo modo, ciascuno sarebbe libero di scegliere a quale  ranking affidarsi o quale sia l’ente valutatore più prestigioso o più  affidabile”. Vero, ma le famiglie hanno bisogno di messaggi chiari, non confusi. La prima cosa più importante che mi viene in mente: come è noto molto spesso i professori bravi nella ricerca insegnano poco agli studenti agli studenti delle lauree triennali (quelle che si affrontano usciti da scuola, per capirci) e molto spesso professori bravi nella didattica, capaci di trasmettere tanta conoscenza, non sono necessariamente i migliori ricercatori. Come catturare questo aspetto?

Negli Stati Uniti la questione è stata risolta creando di fatto due canali universitari: uno per la didattica (tantissimi piccoli college dove  importante più di tutti è la didattica) ed uno per la ricerca (alcuni college di grande reputazione dove conta molto la qualità della ricerca). Con il vantaggio aggiuntivo di concentrare presso pochi atenei di qualità i migliori nostri ricercatori, oggi dispersi presso tanti atenei diversi, con possibilità di interagire meglio tra loro.

C’è un vantaggio in un sistema a prevalenza pubblico come quello italiano di lavorare verso un sistema di questo tipo. A queste università, qualora pubbliche, potrebbero essere associati schemi di finanziamento diversi. Più soldi alle università di ricerca per meglio remunerare i suoi docenti/ricercatori, meno soldi a quelle più di didattica, ma sempre legati alla loro qualità.

Insomma, con o senza valore legale del titolo di laurea, un mondo ideale sarebbe costituito (forse) da tre fasce di università: fascia A, di università che conferiscono solo la laurea triennale e master specialistici (specie tecnici, ma non solo); fascia B che conferiscono lauree biennali e master specialistici e fascia C di atenei di ricerca con programmi avanzati e dottorati. Si potrebbero prevedere 15 atenei di qualità, 5 al Nord, 5 al centro e 5 al Sud. Ogni 5 anni il migliore ateneo di fascia B in ogni area geografica si candida, se lo desidera, per sostituire il peggiore ateneo di fascia C di quell’area, così da non far diventare un “cartello impigrito” il gruppo di top 5.

Ogni università di fascia A e B viene accreditata per i (diversi) requisiti minimi (possibilmente non troppo stringenti) e ottiene un rating da una serie di certificatori che si cercherà essa stessa tra quelli autorizzati.

Altro che  valore legale o meno del titolo di studi, qui c’è da rialzare la posta in gioco. C’è in ballo il chiudere una volta per tutte il nostro gap strutturale di laureati e incentivare la qualità della ricerca in maniera credibile. E il tutto, in un colpo solo.

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Economics 101. For some. L’economia spiegata a un bambino (italiano). Da un irlandese.


Tratto da David Mc Williams, blogger irlandese.

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Quando lo spread Germania-Italia è a 52 ed è un disastro.

144 a 92. Sono i detenuti italiani e tedeschi per 100 posti letto nelle carceri.

A dirlo era Ascanio Celestini stasera al bel teatro Palladium della bellissima Garbatella. Ma non mi va di mettervi il video di Nanni Moretti che gira per le sue strade.

Più importante ricordare che continuiamo a non avere carceri decenti ed umane. Sarebbe così facile ottenerle. Sembra così difficile, piuttosto, volerlo.

Michel Foucault ebbe a dire una volta (mia traduzione): “di che ci meravigliamo se le prigioni rassomigliano alle … scuole, alle caserme, agli ospedali, che tutti assomigliano alle prigioni?”. Ecco, il simbolo potentissimo di carceri decorose ed umane: quello di uno Stato decoroso e umano che saprà anche rendere decorosi e umani ospedali, caserme, scuole.

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News from Spain: random correlations?

So here goes quarterly GDP in Spain for 2010 and 2011:

A press realease just came out in Italy, saying that (my translation):

“… SEOPAN data indicate a very negative trend in public procurement in Spain. In 2011 they were worth 13,754 bn euro, with a 47,5%  decline with respect to 2010, a year in which a decline had already occurred of 33%.

Central administrations had a positive increase of 18,5%, while local and regional public administrations were hit hard by a liquidity crisis, reducing public procurement by 61,4% (the regions) and 68% (local entities). The decline was largest for works in schools, hospitals, sports centers.”

Maybe there is some link between GDP performance and public procurement spending? Just maybe?

See the interesting indirect exchange that occurred between the New York Times correspondant Suzanne Daly regarding waste in local procurement in Spain with Edward Hugh that commented it as follows:

“I started to smell a rat when I saw the example she chose to highlight in her article – the prison at Puig de Les Bases, Figueres (which just happens to be located only a few kilometers from where I live). What worried me is that the prison you can see in the photo above is NOT an example of something that isn’t needed, like a phantom airport, or a golf course where no one will ever play golf. The problem with Puig de Les Bases is not that there aren’t prisoners waiting to be moved there from the two outdated prisons which are scheduled to close (there are, 300 of them, to which can be added an additional 450 once the new one is open). No, the problem here is that there isn’t enough money to run the place after it opens. This situation is not untypical, since many town halls and regional governments, not to mention the central government itself with its new high speed train network that the country can ill afford, find that they invested money on projects using the extraordinary income they were receiving during the years of “excess” but that now they don’t have the current revenue to keep the facilities created operating. In fact Suzanne Daly does notice this, but she seems to get so carried away with the force of her own rhetoric that she doesn’t catch the significance of the point.

“Evidence of the regional profligacy dots the countryside. On the top of a hill here in the birthplace of Salvador Dalí, in northeastern Spain sits a giant, empty penitentiary. But even without a single prisoner in residence, the prison is costing Spain’s heavily indebted regional government of Catalonia $1.3 million a month, largely in interest payments. If prisoners were actually moved in, it would cost an additional $2.6 million a month. So it sits empty, an object of ridicule around here, often referred to as the “spa.” “

So the question is, is this an example of regional profligacy, or an example of cuts which are biting, and a country which is coming to terms with its new reality?”.

So this was a good debate.What matters, when dealing with public spending in a recession is: 1) identify needs, 2) prevent waste, 3) boost the economy.

The austerity-driven speakers instead argue: 1) cut funding, 2) reduce waste and needs, 3) … get the GDP that comes out of it, 4) rejoice in stability, 5) wonder why stability did not come after all.

Which game does Europe want to play?

Thanks to Daniele.

The Dali Museum in Figueres.

I enjoyed this summer Figueres (not the prison, the Salvador Dalì musem, see picture). I recommend the museum (a bit less the food and the flies, says Chiara).

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Investimenti e protezione del lavoro. O delle banche?

Una maggiore protezione del lavoro riduce gli investimenti in capitale da parte delle imprese, mostra un rigoroso studio scientifico, nei settori naturalmente ad alto tasso di creazione e distruzione di occupazione, ovvero quelli dove la protezione del lavoro rischia in effetti di creare danni all’economia.

Questo impatto specifico sugli investimenti è tuttavia ridotto laddove esistono minori problemi di razionamento del credito per l’azienda. Quindi sembra che la nostra normativa, che prevede la non applicazione dell’art. 18 per le aziende più piccole – che sono tipicamente più razionate nel credito - abbia una sua logica su questo aspetto.

E soprattutto saembra proprio che un settore bancario più liberalizzato ed efficace nel prestare alle aziende possa essere un’ottima alternativa ad una minore protezione del lavoro.

Liberalizziamo il mercato finanziario piuttosto che il mercato del lavoro? Sembrerebbe proprio così. Se è vero infatti che là dove i mercati finanziari sono poco efficienti per le imprese è più utile per loro “aiutarsi” con meno protezione del lavoro, è proprio in quei paesi che i lavoratori necessitano di maggiori protezioni dai danni della disoccupazione perché non ricevono aiuto dalle banche nei momenti difficili della loro vita.

Ma, soprattutto, è importante ricordare che l’Italia non spicca tra quei paesi dove la protezione del lavoro è alta. Forse lo era, ma il grafico (estratto dal lavoro citato) chiaramente mostra che siamo stati il Paese con uno dei maggiori tassi di aumento della precarizzazione.

La freccia verde a sinistra mostra il livello di protezione del lavoro in Italia (istogramma scuro), chiaramente intermedio, mentre è il Paese ad avere avuto (istogramma chiaro, freccia rossa) la maggiore diminuzione (1997-2003) di protezione.

Non spicca infatti come paese a basso livello di investimenti o capitale per lavoratore (grafico in alto o in basso a destra).

Fornero e Passera dovrebbero dunque concentrarsi sulla riforma bancaria piuttosto che su quella del lavoro? Così parrebbe.