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Senza parole. Basta la stupida austerità, abbiamo la ricetta giusta.

La migliore risposta agli articoli di tanti colleghi malamente innamorati dell’utopica austerità espansiva proviene proprio da … Banca d’Italia.

Francesco Caprioli e Sandro Momigliano raccontano una storia che – lo dico io, non loro, interpretando i loro importanti risultati, sia chiaro – vale la pena trasformare in realtà per uscire da questa recessione e salvare l’euro. Più spesa pubblica, anche non per investimenti,ma semplicemente per acquisti di beni e servizi, ripaga a breve termine con la crescita di PIL, pari debito e minore rapporto debito-PIL.

Quanto segue è preso verbatim dalla sintesi del lavoro. Si spiega da solo, senza parole aggiuntive. Il grassetto è mio.

Un aumento della spesa pubblica per consumi finali pari all’1 per cento del prodotto del settore privato induce un significativo aumento delle entrate nette (calcolate come differenza tra le entrate e le spese, escludendo i consumi finali, gli interessi e le spese per investimenti).

Tale aumento persiste anche dopo il venir meno dello shock alla spesa, determinando il riassorbimento in 3 anni dell’aumento iniziale del debito.

Gli effetti sul prodotto del settore privato  sono positivi e significativi per oltre 2 anni,  con un picco pari a 0,45 punti percentuali nel  quarto trimestre. Il moltiplicatore (ossia il rapporto tra gli effetti cumulati sul PIL e la maggiore spesa per consumi finali) raggiunge un valore massimo, pari a 2,7, dopo circa tre anni, per poi ridursi gradualmente.
Dinamiche analoghe si ottengono per le  due principali componenti dei consumi finali: i  redditi da lavoro e gli acquisti di beni e servizi; questi ultimi hanno un effetto maggiore sull’attività produttiva….

L’impatto sui prezzi è trascurabile, quello sui tassi di interesse è positivo. L’insieme dei risultati è robusto a varie specificazioni alternative del modello.
Restringendo l’analisi al periodo successivo al Trattato di Maastricht del 1992, il riassorbimento del debito è più rapido, i tassi d’interesse non aumentano e il moltiplicatore è più elevato.

Un aumento delle entrate nette pari all’1 per cento del prodotto ha un effetto depressivo  sull’attività privata, che raggiunge 0,2 punti percentuali nel quarto trimestre. L’effetto è statisticamente significativo per circa un anno. Il moltiplicatore (ossia il rapporto tra gli effetti  cumulati sul PIL e le maggiori entrate nette) è inferiore all’unità. Tali risultati sono meno robusti e stimati con minore precisione rispetto a quelli relativi a uno shock ai consumi finali.

Prof. Monti, la palla è nel suo campo. Proceda senza esitazione!

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You need a Greek to go to China.

The leader of Greece’s Orthodox Church warned on Thursday that rising poverty could trigger a “social explosion” amid deep austerity and record-high unemployment, as the country enters a fifth year of recession.  “Homelessness and even hunger — phenomena seen during (World War Two) — have reached nightmare proportions,” Archbishop Ieronymos wrote in a letter to Papademos.  “Patience among Greeks is running out, giving way to a sense of anger,” he said. “The medicine we are taking has proved fatal for the nation. More painful, and more unjust measures are now set to follow along the same, hopeless course.” The Greek church has stepped up a charity drive this week, during a cold snap that left much of the country in subfreezing temperatures and a growing number of homeless people at risk. Unemployment in Greece has surged to 19.2 percent, with the jobless rate for people under age 25 at 47.2 percent, according to figures for October from the EU statistics agency, Eurostat. The Washington Post, today.

In the meantime Mrs. Merkel is in China, as documented for example by this article. Where she is working, as she should, for promoting German exports like German leaders have done for the past 20 years and other euro nations have not, which perfectly explains the huge increasing divergence that has taken place in trade performance of ants (Germany?) and crickets (Greece?) in the euro area.  Paradoxically, the more she goes to China while other euro leaders do not, the greater the chances that a euro break-up will occur as competitiveness divergence increases and devaluation of crickets will become inevitable.

She advertises her currency, the euro. She means well, trying to attract Chinese lending for a cash-thirsty euro area. She does that by trying to convince Chinese authorities that other euro members are making the right adjustments, of the recessionary kind, the ones Germany has been increasingly asking for.

She further acts as potential mediator between the Usa and China on the Middle East delicate scenario.

Mrs. Merkel has a conflict of interest. She pursues the German interest, while her bargaining position and her prestige is strengthened by the euro. She represents the euro, while imposing the view that its stability is protected by dubious German pro-austerity measures imposed on other euro counties.

But here is the catch. Her position in the world is weak, because she acts alone: she is therefore hardly credible when she speaks on behalf of the other euro countries. Her position would be strengthened if she were able to be perceived as representing the interests of all euro countries. But so it is: we are not united. And we are not united because we do not share together the pains of one another, like it should be in any Nation made of different states. We are not yet the United States of Europe. And if we are not the United States of Europe we can forget of its symbol, a unique currency.

Time is running out.

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Quella neve a Roma di 27 anni fa.

13 gennaio 1985, Roma-Torino 1-0. Come sempre noi c’eravamo. Segnò il Bomber, Pruzzo, al Toro del grande Radice. Liedholm e Agostino erano già partiti per Milano e la nostalgia ci attanagliava, e come sempre la neve, caduta su Roma, ingigantiva il ruggito dello stadio e i ricordi.

 

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La monotonia della disoccupazione. Può terminare?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Civilian Corporation Corps statunitensi, 1933-1942, volontari “poco abbienti” tra i 18 ed i 25 anni.

Monti: “Che monotonia il posto fisso i giovani si abituino a cambiare“.

Benissimo. Rovescerei il messaggio: che monotonia stare a casa disoccupati. I giovani si abituino a cambiare.

2 milioni circa di giovani disoccupati. Uno spreco incredibile per il nostro Paese.

Immaginiamo di metterli tutti al lavoro. Fine della monotonia. Contratto a 3 anni, 1000 euro al mese, non rinnovabile, non tassati. In totale, 12.000 euro l’anno, 25 miliardi di euro, poco più di 1% di PIL.

Pavlina Tcherneva, professoressa negli Stati Uniti, ritiene che il vero messaggio keynesiano durante una crisi non fosse quello di spingere (come sostengo io) sulla spesa pubblica per beni, servizi e lavori, destinata ad aiutare poco – secondo lei – i più svantaggiati. Ma di aiutare direttamente questi più svantaggiati, così da avere sì l’addizionale effetto di stimolare la domanda, ma soddisfacendo al contempo le esigenze dei più bisognosi.

Questi ragazzi, lavorando nei Ministeri, presso i Musei, nelle università, nei cantieri, nel supporto agli anziani … quante cose imparerebbero? Quante incontri utili farebbero? Quanto aiuterebbero la ricostruzione del nostro Paese? Di quanto aumentarebbe la loro probabilità di trovare poi un lavoro grazie alle abilità acquisite.

Altro che soldi per sussidi di disoccupazione, quelli sì fonti di frodi in larga scala. Uno stipendio piccolo ed un impegno monitorato costante: quanto basta forse per scoraggiare i falsi disoccupati dal fare domanda per prendere i soldi e scappare, quanto basta forse per incoraggiare i veri disoccupati a candidarsi.

Ricorderete, ci fu un tempo in cui lo facemmo. Si chiamava servizio militare. Non fu usato come strumento ciclico, ma strutturale. Unì l’Italia forse più ancora della televisione e delle emigrazioni al Nord. Ora questo servizio civile per ricostruire l’Italia potrebbe salvare tanti dalla monotonia di una vita vissuta con angoscia e delusione. E potrebbe anche salvarci dalla monotonia di una vita senza l’euro. Pensiamoci.

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Il conflitto d’interessi di Frau Merkel

Che impressione paradossale mi fa leggere questo articolo sul viaggio della Cancelliera Merkel in Cina. C’è, dentro queste scarne righe, tutta la storia della nostra Europa, il nostro dramma, la nostra speranza.

C’è la Merkel che va in Cina per aprire ulteriormente le vie commerciali per le sue imprese, confermando che la formica tedesca è sempre viva e vegeta, formidabilmente conscia della sua forza e della bontà di un’etica del lavoro indefesso, anche presso i suoi governanti. E’ la Germania che in 20 anni di sacrifici si è meritata la crescita ed il benessere che ha generato per se stessa ed anche per gli altri, con le sue esportazioni e le sue importazioni, anche di beni prodotti da aziende italiane. E’ la Germania che ora ha un surplus commerciale straordinario a fronte di quei paesi cicala che non hanno saputo organizzare al loro interno un Sistema paese coordinato e voglioso di sopravvivere grazie all’unità delle sue parti. Quei paesi cicala che ora mettono a repentaglio, con la loro inevitabile tentazione di svalutare per recuperare la competitività persa, la costruzione stessa dell’euro.

C’è la Merkel che va in Cina per difendere la reputazione dell’euro, per aprire ulteriore spazio per il nostro sistema finanziario, largamente dominato da banche tedesche non sempre floride, all’interno del portafoglio delle riserva valutarie della grande formica cinese. La Merkel che garantisce della stabilità della nostra valuta perché i conti pubblici delle economie dell’euro verranno messi a posto.

C’è la Merkel che si pone come interlocutore privilegiato tra Stati Uniti e Cina nello scacchiere planetario della geopolitica medio-orientale.

C’è la Merkel dunque che viaggia da sola per il mondo, con questo enorme conflitto d’interessi nella valigia, rappresentando la sua nazione dall’alto dell’euro, rappresentando l’euro dall’alto della posizione austera tedesca. E’ tutta qui la crisi dell’euro, il paradosso dell’euro: la Germania senza l’euro sarebbe poca cosa, così come l’euro senza la formica tedesca; ma il lavorare separati e disuniti porta a non comprendere questa fondamentale e salvifica sinergia.

Sono certo che i Cinesi, con il loro senso della storia, dietro il loro imperscrutabile sguardo hanno dovuto pensare a questo quando ascoltavano la Merkel perorare la sua (o la nostra?) causa, percependo l’inevitabile debolezza della sua posizione.

Qualcuno, diverso dalla Merkel, forse un leader greco, deve accompagnare la Merkel nei suoi viaggi, per convincere interlocutori così potenti che si è decisi nel volere vincere la partita come Stati Uniti d’Europa. Ma per avere gli Stati Uniti d’Europa bisognerà, come ogni Stato-nazione, avere nel frattempo messo in piedi accordi di solidarietà per fronteggiare i momenti di difficoltà per i singoli compagni di viaggio, non clausole di espulsione. Anche se i compagni di viaggio sono stati monelli e indisciplinati. Insomma un compagno di viaggio greco non accondiscendente, ma indipendente e alleato.

Bisogna farsi forti delle proprie differenze e non ambire all’omogeneità. L’Europa delle differenze e della solidarietà ha un potenziale ben più solido e duraturo di questa Europa della solitaria Merkel.

“Il genio dell’Europa è … il genio di una diversità linguistica, culturale, sociale, di un mosaico ricchissimo che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, nella frontiera tra due mondi … l’Europa morirà se non combatte per difendere le sue lingue, le sue tradizioni locali, le sue autonomia sociali. Perirà se dimentica che “Dio si trova nei dettagli” “. George Steiner

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La corruzione? No grazie. Progressi in vista.

Il 23 dicembre 2011 il Ministero per la pubblica amministrazione (P.A.) e la semplificazione ha istituito la Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella P.A.

Il 31 gennaio 2012 la Commissione ha elaborato un primo rapporto legato alla prima parte del suo mandato, quello di formulare in un arco temporale contenuto, alcune proposte di emendamento al disegno di legge in materia di anticorruzione (A.C. 4434), che da tempo giace triste e trascurato nelle aule parlamentari.

40 giorni, comprese ferie e domeniche. Niente male. Un bravo sincero a Ministro e componenti della Commissione. Anche perché il documento prodotto si legge bene, velocemente, e non perde troppo tempo in salamelecchi: va dritto al punto fornendo una serie di proposte di emendamento ad una legge che, se scritta bene, potrebbe essere importante per combattere più di una delle cancrene che riduce l’efficacia dell’azione pubblica nell’economia: in particolare la corruzione e la presenza di conflitti d’interesse, che ricadono nel tema più ampio di un cultura dell’integrità nella P.A.

Sono persone competenti (alcuni di loro sono cari colleghi che stimo molto e dunque avverto subito di essere in conflitto d’interesse potenziale nell’apportare delle critiche al loro lavoro!). Purtroppo sono solo giuristi e questo è un problema e si vede nell’afflato tutto teso a regolare che permea le loro raccomandazioni di emendamento e la mancanza, ma solo a volte, di attenzione agli aspetti più prettamente economici. Insomma, sì, per pessimo spirito di corpo avrei desiderato la nomina in Commissione di alcuni tra i nostri valenti economisti, esperti di corruzione, o di statistici. Ma così va il mondo.

Veniamo a noi. Cerchiamo di essere criticamente costruttivi. A cominciare dal fatto che la Commissione esalta, e gliene va dato merito, il ruolo della formazione e promozione di una cultura della legalità sui temi dell’integrità ma rimane molto parca negli emendamenti quanto a risorse ( e Dio sa se ne sono state date a iosa negli anni) da dedicare a Università meritevoli di essere finanziate su questo tema con appropriati concorsi e valutazioni oggettive (penso per esempio al fantastico lavoro che sta conducendo in magnifica solitudine Alberto Vannucci a Pisa col suo Master).

Il rapporto della Commissione comincia sciorinando dati sulla corruzione (in calo nel numero dei delitti e delle denuncie, ma ciò sappiamo non voler dire molto: se è in calo potrebbe essere che la gente vi è solo più rassegnata e non la denuncia) mostrando di essere al corrente della piaga sulla carenze delle statistiche al riguardo, questione questa sollevata anche dal gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO) nel suo rapporto sull’ Italia. Manca, negli emendamenti proposti, la previsione di un affondo sulla ricostruzione del fenomeno, delegando l’Istat, con appropriati fondi magari sul budget CIVIT (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), ad esplorare proprio con la CIVIT la dimensione del fenomeno.

Già che ci siamo, siccome la CIVIT è nel disegno di legge individuata come l’autorità nazionale anticorruzione, sarebbe stato utile, prendendo spunto dal lavoro certosino dell’ACA, portale di tali autorità anti corruzione nel mondo, migliorare la governance di una istituzione, la CIVIT, che per questa missione non era stata creata. Per evitare di creare un organismo svuotato di operatività sarebbe necessario prevederne il rafforzamento operativo, con più personale e legami specifici e forti con guardia di finanza, autorità antitrust ed autorità dei contratti pubblici. Poco è stato proposto su questo: possiamo aspettarci che la CIVIT possa partire subito appena approvata la legge senza avere le spalle larghe su un tema di questa importanza e delicatezza istituzionale?

Gli emendamenti sono efficaci nell’individuare, cosa che nel disegno di legge attuale manca, con sufficiente precisione all’interno delle singole amministrazioni i responsabili apicali di mettere in piedi il modello organizzativo anti corruzione. Particolarmente rilevante la proposta (art. 1 comma 11) della Commissione che “in caso di commissione, in seno all’amministrazione, di un reato di corruzione accertato … il responsabile individuato risponde”  del danno erariale e all’immagine della P.A. salvo che provi di aver efficacemente attuato prima della commissione del fatto il piano di prevenzione anti corruzione e di aver vigilato sul funzionamento dello stesso, nonché che il reato sia stato commesso eludendo fraudolentemente il piano. Bene: il dirigente sarà spinto ad agire per prevenire il fenomeno al suo meglio.

La seconda proposta, quella della trasparenza, si occupa di rafforzare la pubblicazione dei dati delle singole amministrazioni ai cittadini. Peccato che, non riprendendo il lavoro importante di una vita del bravissimo Lucio Picci di Bologna al riguardo, non preveda standard informatici (e uniformi) per tale trasmissione dati. Potrebbero essere cioè poco rilevanti file pdf (come fece il Ministro Brunetta) e non “machine readable”, cioè leggibili da una macchina, per la loro aggregazione ed analisi. Peccato anche aver perso l’occasione per richiedere l’obbligo di inviare in tempo reale  all’Autorità dei Contratti Pubblici tutti i dati riguardanti la gara d’appalto a pena di non validità del contratto successivamente alla gara.  Tra l’altro, una malignità: che la Commissione non abbia chiaro l’enorme ruolo che può giocare l’informatica lo si vede dal fatto che sul sito si ritrovi sì il rapporto (e per questo un plauso) ma sia un file scannerizzato con tanto di firma al margine che impedisce di leggerlo come un qualsiasi pagina html o pdf che si può tagliare e copiare.

L’articolo 3 è certosino nel migliorare e a volte innovare radicalmente nel concetto di conflitto d’interessi e susseguenti incompatibilità,incandidabilità, ineleggibilità dei dirigenti delle P.A. Importante anche il focus sui codici di condotta. Bravi.

L’art. 4 è quello “rivoluzionario”, ripreso giustamente anche dalla stampa. L’introduzione del premio al “testimone” nella P.A. che denuncia fatti corruzione. L’attuale proposta in Parlamento prevede per questo “eroe” (che ingiustamente molti tacciano di “infame”) la mera protezione da sanzioni o licenziamenti. Un’idiozia, perché nessuno mai denuncerebbe (a parte se sei Serpico) un fatto sapendo bene di non averne nessun guadagno ma solo (enormi) complicazioni. A questi pentiti, secondo la proposta, spetteranno ora “un premio in denaro non inferiore al 15 e non superiore al 30 per cento della somma recuperata all’erario a seguito di condanna definitiva della Corte dei Conti”. Sarebbe un risultato storico che creerebbe molta più incertezza nei rapporti tra corruttore e corrotto e potrebbe anche ridurre la tentazione di comportamenti illeciti in maniera significativa.

Ma assieme a questo premio andrà prevista una protezione speciale, quasi da testimone anti mafia, e proprio la DIA sarebbe stato utile coinvolgere già in sede di proposta di emendamento, vista la delicatezza del tema, prevedendo che tali denunce (segnalazioni) dei testimoni più che al Dipartimento di funzione pubblica (poco attrezzato per compiti così gravosi di sicurezza)  fossero appunto inviate alla Direzione Investigativa Antimafia.

Un’ultima critica. Il 30% massimo incontra un inspiegabile limite di “2 milioni di euro”. Conti presto fatti. Facciamo che si dia il 20% a un testimone. Per mazzette fino a 10 milioni di euro, il 20% è OK. Da mazzette più grandi di 10 milioni di euro, il premio tende a scemare in proporzione al valore della mazzetta. Perché questa è una pessima idea? Perché la mazzetta è in proporzione al valore dell’appalto, e tanto più cresce il valore dell’appalto tanto meno è attraente il premio rispetto a quanto potrà offrire un corruttore per ottenere il silenzio del testimone.

Mi direte. Ma una mazzetta di 10 milioni di euro comporta un appalto di 50 milioni di euro, è enorme! Vero. Ma è noto che la vera grande corruzione si annida proprio in quei pochi (meno di 100) appalti di grande valore. Che senso ha introdurre un protezione “aristocratica” per quei corruttori?

Ma comunque. Andiamo avanti, magari con qualche aggiustamento. Ma la strada contro la corruzione sembra ben avviata.

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Lo stupido Patto con qualità

“Gli ideali hanno delle curiose qualità, tra le quali quella di trasformarsi bruscamente in assurdità quando si cerca di conformarvisi rigorosamente.”

L’uomo senza qualità, Robert Musil

Eccoci qui, con questo Patto, lo Stupido Patto. Il patto delle multe per chi sfora dal suo cammino di deficit PIL (immaginate Obama che multa la California o il Kansas per avere sforato l’obiettivo deficit-PIL …)! Sì lo stesso Patto che ha fallito miseramente nel primo decennio. Con in più la clausola di riduzione del debito PIL verso il 60%.

Ma come, direte? Abbiamo sventato la minaccia, ora conta anche il risparmio privato, come italiani ne usciamo bene, non ci chiederanno riduzioni così ampie del 3% nel debito-PIL ogni anno!

E’ vero. E dunque bravo a Monti per avere sventato la minaccia più ortodossa, anche se non sapremo mai se quella posizione estrema tedesca era stata presa per chiudere il negoziato proprio dove ci troviamo ora, e cioè nella palude. E’ una tecnica negoziale nota: spara alto per chiudere a metà della distanza, con grande soddisfazione perché proprio lì volevi chiudere.

Tutto dipende da dove si partiva, e si partiva da una regola proposta stupida. Quella regola è in gran parte rimasta. E chi ha proposto emendamenti per renderla veramente più intelligente e non solo meno dannosa, non ha vinto. Coloro (e non erano attori irrilevanti) che avevano proposto come emendamento che il Patto avesse come obiettivo specifico anche la promozione di una crescita economica più forte sono rimasti delusi. Nella versione attuale la crescita non è un obiettivo diretto del Patto ma la conseguenza del perseguire la stabilità. Bell’assunzione. E se la stabilità promuove la recessione? Beh, promuoverà la crescita nel lungo termine. Addio crescita. Bagatelle? Mica tanto, gli avvocati a Bruxelles dietro questi dettagli ci stanno attenti eccome.

E poi non è vero che il Patto sia stato reso “meno severo”. E’ anche, in altre parti, più severo. La prima versione prevedeva che in caso di deviazione dall’obiettivo di riduzione del deficit la legge nazionale (i Parlamenti) individuassero meccanismi di rientro automatici. Quei meccanismi nella nuova versione saranno ora decisi dalla Commissione Europea. Come dire: con la proposta di commissariare la Grecia non abbiamo scherzato, è cominciata l’era della riduzione dei poteri dei Parlamenti nazionali.

Accettabile, direte voi. C’è un piccolo dettaglio. Chi è stato chiamato a farlo, il commissariamento, non è il Parlamento europeo, è una Commissione di tecnici chiamata Commissione (in nomen omen) europea. C’è una bella, grande, differenza.

E non fa bene che, appunto, il Parlamento Europeo, l’istituzione più democratica che abbiamo in Europa, sia stata lasciata fuori dalla porta, potendo (ma non dovendo) il Presidente del Parlamento essere invitato alle riunioni e ricevendo il Parlamento meri “rapporti” sulle riunioni. Pfui. Ma la democrazia mette così tanta paura che si è pensato bene di inserire una clausola per evitare all’Irlanda di dover ricorrere al referendum per approvare il Patto.

Mi sussurra nell’orecchio l’amico Corrado un PS: Pensiamoci a questa crisi della democrazia. Pensiamoci bene a cosa questo significhi. Vogliamo qualcos’altro? Ci piace il modello cinese? Non ci piace il modello statunitense? Parliamone, ma non nascondiamoci, perché se lo facciamo siamo destinati alla sconfitta.

Ma basta lamentarsi. Quello che conta è cercare di capire come è cambiata l’Europa dopo questo patto. Due cose spiccano a mio avviso.

E’ più divisa e frantumata. Abbiamo perso non solo il Regno Unito ma anche la Repubblica Ceca. Non è cosa da poco. Le fondamenta della casa comune si fanno sempre più instabili. Continuiamo a far finta di nulla, ma queste cose sono come i terremoti, che sono preceduti da piccoli impercettibili smottamenti.

E’ un’Europa che tornerà a distrarsi e gingillarsi sui numeri, facendo fare ai suoi burocrati incredibili peripezie per controllare se il debito-PIL è veramente sceso al 110% e non al 110,1%, come è avvenuto per i deficit su PIL al 3% nel primo decennio. E così ci riempiremo di trucchi contabili per raggiungere gli obiettivi richiesti, oppure strutture finanziarie e di governance complesse che coinvolgeranno nuove istituzioni (KFW? Cassa Depositi e Prestiti? E chissà cos’altro) . Ci scorderemo nuovamente di lavorare per la crescita ed il benessere dei cittadini.

Insomma, un progetto che soffoca invece di ampliare le prospettive.

Oh, dimenticavo. Lo spread è salito dopo l’approvazione del Patto.

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Quella buona spesa pubblica che si può fare. Se ….

Mi sollecita Beniamino giustamente dicendo: “non mi convinci, la spesa corrente come è strutturata oggi non aiuta chi ha bisogno ma i quartili benestanti.”

Ecco cosa ho detto a seminario poche settimane fa (grazie a Promopa ed a Annalisa).

Quando nel nostro Paese si parla di spesa pubblica vi si associa solo un verbo: tagliare.

Nel resto del mondo, invece, il dibattito si sta spostando: nel Regno Unito, presso la Commissione Europea, altrove nel mondo si parla della spesa pubblica come potenziale volano di crescita e di ripresa.

Questo volano di crescita ha però tre “se”:

  1. se ci sono le competenze per fare bene le gare d’appalto. Non sono più sufficienti competenze standard (giuridiche?), sono necessarie  competenze cross, ovvero c’è bisogno di ingegneri, di organizzativi, di gestionali, di deontologici, di  informatici, di economisti che conoscano la struttura del mercato rilevante.
  2. se c’è organizzazione all’interno della struttura. Questa organizzazione non deve essere più volta a misurare il proprio lavoro (quante ore ho lavorato), ma al risultato. In tutto il mondo troviamo sistemi di misurazione tramite Key Performance Indicators per il procurement (appalti) pubblico. La Banca Mondiale ci sta lavorando da tempo e in Italia non se ne parla per niente.     
  3.  se c’è monitoraggio, non formale, ma effettivo, reale, lungo la vita del contratto.

Come fare a far diventare questi “se” in certezze e poi in sviluppo? 6 condizioni:

  1. Condizione necessaria ma non sufficiente, è che vi sia il patentino della PA: non si può operare negli appalti pubblici se l’organizzazione e le sue persone non hanno il patentino. Per fare questo c’è bisogno di una serie di istituzioni/Enti che siano certificatori insieme all’Autorità dei Contratti Pubblici delle abilità delle persone. L’hanno fatto 10 anni fa nel Regno Unito, lo possiamo fare anche noi. (Mio conflitto d’interesse: dirigo un Master che potrebbe fare benissimo questo lavoro, come altre università, ma ci sarebbe bisogno di centinaia come noi!).
  2. La questione della centralizzazione degli appalti, concepita nel modo giusto. Non solo negli Stati Uniti, ma in Brasile, Corea, Messico e Romania (ci possiamo paragonare a loro? penso di sì) hanno una sola piattaforma in tutto il Paese sulla quale si possono fare le gare di tutte le stazioni appaltanti del Paese. Tutte! Ogni stazione appaltante mantiene la sua autonomia (non è come la Consip che fa la gara per le altre stazioni appaltanti). In esse si viene dunque a creare un database impressionante dove raccogliere dati statisticamente rilevanti.
  3. Con questi dati si possono creare degli indicatori di performance, ovvero progettare degli indicatori di output sulla performance della stazione appaltante, diminuendo così anche il ruolo, spesso asfissiante, delle norme, perché saranno gli indicatori a raccontare se hai fatto bene o no la tua gara (ma non fare indicatori su input! chiedere quante ore di training sono state fatte fare ai propri dipendenti è un tipico indicatore di input che non fornisce indicazioni sulla qualità del lavoro fatto per i cittadini). Per esempio, quanti fornitori sei riuscito a far accedere alla tua gara? Che risparmi hai ottenuto rispetto alle altre stazioni appaltanti?
  4. Ultimo aspetto riguarda l’uso efficiente ed intelligente di questi indicatori; la Banca Mondiale e l’OCSE li hanno usati per fare una cosa errata: dagli indicatori ha ricavato un sistema di voti per ogni Paese sul proprio sistema nazionale degli appalti pubblici e, all’interno di ogni Paese, tra stazioni appaltanti diverse. In  questo modo, tutte le organizzazioni hanno fatto tre passi indietro invece di farne due avanti e questo perché si sono sentite in competizione le une con le altre, falsificando i loro dati pur di non perdere. L’unico Paese che si è distinto sono state le Filippine, che non hanno realizzato confronti  interorganizzativi ma un Action Plan nazionale, anche perché le stesse singole stazioni appaltanti hanno  oggettivamente obiettivi diversi e strutture diverse. Nelle Filippine, ogni organizzazione si dà i suoi target di miglioramento rispetto alla performance richiesta su un determinato periodo, di 1 anno o tre anni; se l’amministrazione  raggiunge gli obiettivi viene premiata dal governo; il confronto riguarda non le amministrazioni tra di loro ma le singole amministrazioni e il governo.
  5. Soldi. Soldi per quelle amministrazioni che raggiungono gli obiettivi. Soldi per stipendi più alti, come nel Regno Unito, per non far scappare verso il settore privato i più bravi acquirenti pubblici, coloro che portano così tanti risparmi alla Pubblica Amministrazione. E controlli a tappeto, ma mirati, là dove sorgono dubbi sulla bontà dell’appalto grazie alle verifiche incrociate (ma attenzione, chi compra a prezzi più alti a volte è solo perché è il più bravo a ottenere la qualità giusta dal fornitore!)
  6. Usare tutti i risparmi sugli sprechi per farci vera spesa pubblica: PIL, PIL, PIL.

Il controllo della spesa pubblica non va basato sui tagli, ma su di uno Stato che entra in  campi nuovi, mai considerati sinora. Sono mesi che chiediamo ai vari governi che si sono succeduti di prevedere l’obbligo per tutte le stazioni appaltanti che fanno acquisti di inserire online in tempo reale in una banca dati cosa acquistano, il prezzo unitario e le quantità acquistate, pena la non validità del contratto. Una sorta di codice a barre per la PA. Meglio ancora la piattaforma di cui parlavamo sopra.

Stiamo ancora aspettando che questa rivoluzione silenziosa sia adottata. Ma siamo pazienti. E non molliamo nel pretendere più spesa buona piuttosto che la solita formula di meno spesa che rimane cattiva.

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Keynes, Thatcher e il Bello

Come fa un keynesiano convinto ad amare la Thatcher.

Era quello che mi chiedevo mentre guardavo il film Iron Lady.

Questa donna che urla con voce antipatica che tagliare la spesa in recessione non solo è logico, ma è anche giusto.

Una prima risposta è che non sono un keynesiano convinto. Giustissimo. Lo sono solo durante le recessioni da domanda, come quella che conosciamo noi oggi, mi convinco. Mi piace l’idea che lo Stato arretri per far posto al privato quando l’economia tira. Ripagando magari i debiti contratti nei momenti bui.

Ma la risposta più giusta me la dà Andrea, seduto accanto durante il film. “La recessione inglese era tutt’altra cosa di questa da domanda mancante. Era questione di riallocazione settoriale – via da miniere da chiudere verso banche e borse da valorizzare -  uno shock da offerta di proporzioni notevoli”. A questa si aggiunse una battaglia per abbattere le aspettative d’inflazione. Insomma Keynes forse avrebbe capito la Thatcher e le sue manovre ben di più di quelle della Cancelliera Merkel.

E, poi, i leader non si amano solo per quel che fanno per l’economia. Nel film appare chiarissimo il senso di cosa significhi essere leader di una Nazione. Quando si tratta di inviare le innumerevoli navi britanniche verso le Falkland a combattere per la libertà di una piccola isoletta davanti alle coste argentine, i  collaboratori della Thatcher le fanno notare la spesa pubblica immensa che ne deriverebbe, sconsigliando di entrare in guerra. Lei si rifiuta ed ordina la spesa immensa, proprio lei, fissata coi tagli di spesa pubblica. Perché lo fece? Il film è chiaro su questo. Perché era in ballo qualcosa per cui valeva la pena spendersi, un valore in cui la Nazione si riconosceva e che avrebbe reso fieri gli abitanti britannici. Non ebbe torto e rafforzò la sua posizione di potere.

Ecco, pensavo durante il film, quali sono le nostre Falkland, per noi italiani che così guerrieri non siamo? E’ così semplice darsi una risposta. Vorremmo così tanto un leader che facesse rinascere Pompei, il Colosseo, le mille chiese abbandonate, i mosaici romani, i musei d’arte che chiudono senza una ragione. Ci farebbe sentire così orgogliosi di essere italiani se mettessimo 20-30 miliardi di euro per restaurare, mettere in sicurezza, riaprire i luoghi d’arte.  Dando lavoro a tanti, soldati di una battaglia per il bello che tutto il mondo ci invidia.