OK, un po’ lungo ma molto sentito questo post che segue.
Allora. Dicono che non parlo a sufficienza dell’euro. E in fondo sta tutto lì, lo spread ed il resto, giusto? Non si muove per la manovra Monti, si muove se succede qualcosa a livello europeo che convinca i mercati che l’euro “resta” e non si spacca. In questo momento si prezza non il default della Spagna, dell’Italia, della Francia, dell’Austria (tutti governi con alti differenziali rispetto ai Bund tedeschi) ma la loro (diversa per ogni singolo Paese) probabilità di seguire o non seguire la Germania nell’altrettanto possibile morte della valuta unica. La probabilità di morte della valuta unica è un evento con probabilità uguale per tutti (bassa o alta che sia): Germania o Italia o altri. La probabilità di quanto si svaluterà o apprezzerà quella singola valuta varia a seconda delle valutazioni dei mercati e delle loro situazioni macroeconomiche specifiche.
Perché si parla di rottura dell’area dell’euro? Un passo indietro. Quando creammo l’Unione Europea, i popoli che vi aderirono decisero di fatto di “conoscersi meglio” abbattendo barriere allo scambio ed alla mobilità delle persone e delle loro ricchezze. Fu un momento fondamentale, funzionale all’abbattimento dei sospetti reciproci susseguenti alla seconda guerra mondiale, quelli che invece non furono rimossi in tempo a seguito della prima guerra. Poi venne … Ryan Air a completare il quadro, assieme ad Internet – a riprova che le tecnologie ed i mercati possono essere messi a disposizione del progresso, eccome – e oggi possiamo dire che questa conoscenza reciproca è un bene fondamentale per ridurre il ricostituirsi di focolai di odio ed incomprensione.
Poi però abbiamo rilanciato, con un qualche grado di ambizione, costruendo l’area dell’euro dentro l’area dell’Unione Europea. I paesi che vi aderirono non lo fecero per risparmiare i costi di cambiare le banconote, come all’epoca cercarono di dimostrare alcuni economisti poco sensibili ai grandi scenari su cui si staglia la politica economica mondiale. No, lo fecero, una volta conosciutisi meglio, per diventare più simili. I tedeschi per divenire più italiani e gli italiani più tedeschi? Esatto. E come, Sig. Piga, lei pensa che la mera adozione di una valuta, un pezzo di carta qualsiasi per quanto nobile, possa fare quello che la storia non è mai riuscito a fare se non in epoche lontane sotto imperi ben più centralizzati?
Semplice. O meglio, non così semplice. Porcediamo per passi successivi. Risposta: fissando tassi di cambio irrevocabilmente fissi tra i Paesi. Fissando un valore di scambio tra marchi e lire, tra franchi e pesetas e così via, nel 1998, si individuarono dei rapporti di conversione tra monete che all’epoca parevano garantire una qualche equilibrata competizione tra le imprese dei diversi Paesi membri. Non era certo una promessa di pari competitività futura: ciò sarebbe dipeso dalla capacità dei singoli paesi di mantenere dinamiche egualmente virtuose quanto a … Quanto a cosa? Beh, immaginate che nel 1998 Germania ed Italia potessero vendere una lavatrice nel mondo allo stesso prezzo, suddividendosi equamente il mercato mondiale. Ora fate passare il tempo e … che succede al prezzo della lavatrice in Italia ed in Germania? Beh, la lavatrice la costruiamo con tanti lavoratori. Quanto costano ogni ora lavoro quei lavoratori alle imprese? Dipende dalla dinamica salariale dunque. Si dà il caso che in contemporanea con l’adesione all’area dell’euro e con la comprensione delle dinamiche di penetrazione mondiale dei mercati da parte di alcuni grandi paesi emergenti, il Sistema Paese Germania (politici, imprese, sindacati, cittadini) decisero che la loro economia sarebbe sopravvissuta solo con una forte moderazione salariale, a cui si attennero. Le formiche tedesche pensavano al futuro. Questa eguale moderazione salariale mancò in Italia, dove il Sistema Paese non si mobilitò con eguale attenzione al futuro. La cicala italiana aveva altre priorità. Eppure non tutto era perduto. Certo un salario orario troppo alto ci metteva in difficoltà con le imprese tedesche, ma sarebbe stato tollerabile se le imprese italiane fossero riuscite a fare la lavatrice in meno tempo: salari più alti sì, ma compensati (e forse dovuti a) maggiore produttività del fattore lavoro? Mi spiace, ma anche su questo le formiche tedesche si rivelarono superiori alle cicale italiane. Ma molto. E dunque cosa è successo nel tempo? Esatto. La lavatrice italiana ha cominciato a costare sempre di più, e le imprese italiane hanno perso quote di mercato, lasciandole alle formiche tedesche. Ecco perché il Pil tedesco in questo decennio è cresciuto più del nostro. Siccome le cicale italiane non hanno adeguato il loro tenore di vita alla minore ricchezza hanno cominciato ad indebitarsi (con lo Stato soprattutto). Siccome le formiche tedesche sono formiche anche come famiglie, i loro crescenti redditi li risparmiano. E come fecero le cicale italiane ad indebitarsi? Esatto, grazie alle formiche tedesche. Fino al 2008. Quando le banche germaniche cominciano ad impaurirsi, si allontanano pian pianino e vengono rimpiazzate, nel finanziare le cicale, da aiuti ufficiali. Oggi stentano ad arrivare anche quelli. Mentre la nostra competitività continua a peggiorare e con essa la nostra bilancia commerciale.
Ora l’euro è dunque giunto ad un bivio e ad esso anche i paesi che ne fanno parte. Che non sono diventati simili mentre l’euro glielo chiedeva: le formiche sono rimaste formiche e le cicale sono rimaste tali. Che fare? 4 sono le opzioni. Ma poche sono realisticamente percorribili.
Opzione 1: Weimar 2
La BCE sommerge di euro l’area fino a quando non si tramuti in cotanta inflazione che ne deriva da far sparire il valore reale dei debiti. Non è opzione folle, questo default mascherato. Negli anni Trenta con l’amministrazione Roosevelt da una deflazione del 26% si passò ad un’inflazione del 13%.
Perdenti: la Germania creditrice e più in generale il sistema bancario europeo.
Vincenti: i contribuenti europei che non devono più pagare tasse per gli interessi.
Efficacia: scarsa. Il problema della competitività rimane aperto e a breve rimetterebbe pressione sul sistema della moneta unica.
Fattibilità: 5%. Non siamo più ai tempi di Roosevelt quando le banche non erano la lobby più importante dell’Occidente (allora era forte il manifatturiero) e l’occupazione nei servizi bancari non così significativa. E la Germania-Draghi non accetterebbero un intollerabile ritorno al passato di
Weimar.
Opzione 2: Euro blu, euro giallo
C’è un modo molto semplice affinché le aziende italiane possano riprendere a vendere lavatrici al mondo senza timore della competizione tedesca, almeno per un po’ riossigenandosi e frenando l’emorragia di imprese ed occupazione che stiamo sperimentando. Esatto: uscendo dall’area dell’euro (magari assieme a Portogallo, Spagna, Grecia…) e deprezzandosi rispetto all’euro tedesco.
Perdenti: il progetto euro. Le imprese tedesche (a breve finché non recuperano la competitività). Non è chiaro se la Germania si sentirebbe sconfitta da questa opzione che la vede però come (di nuovo) una isolata e rigida grande potenza che suscita timori e tensioni.
Vincenti: le imprese italiane (per un po’). I contribuenti italiani che invece di essere tassati vedono, grazie alla maggiore crescita, un momento di sollievo.
Efficacia: alta o bassa? Il grande rischio è che il progetto europeo, compreso quello dell’Unione Europea, si interrompa per le tensioni e l’acrimonia che si creerebbe tra separati in casa. E’ un rischio che probabilmente non vogliamo correre.
Fattibilità: 25%. Tutto sta a capire se la Germania ha intenzione di correre questo rischio. O meglio, se la Merkel, che certamente non vuole questo esito, riesce a resistere alla foga della piazza e delle non troppo lontane elezioni.
Opzione 3: Il Piano di Austerità (di Marsiglia)
Questa è l’opzione proposta a Marsiglia e che sembra la più probabile, visto il forte momentum che essa ha sviluppato. Richiede che la cicala adatti il suo tenore di vita alle sue (minori) disponibilità con forti contrazioni della domanda delle famiglie e del governo italiani. Alla deflazione che seguirà, i sindacati devono aderire a riduzione dei salari nominali per evitare l’aumento dei salari reali che creerebbe addizionale disoccupazione e gravissima recessione. La formica va avanti come se nulla fosse, certa delle sue virtù.
Perdenti: l’Italia e (forse) il progetto euro. Gli abbassamenti dei salari nominali sono difficilissimi da accettare, psicologicamente, in ogni parte del mondo (Keynes lo sapeva bene, ecco perché temeva così tanto la deflazione). Volete conoscere le conseguenze? Basta guardare quello che sta avvenendo oggi in Grecia. -6% oggi, -3% nel 2012 e con conti pubblici che non raggiungono mai la parità a causa della crisi. E’ probabile dunque che rapidamente il progetto 3 divenga il progetto 2 e si sfasci l’euro. O no?
Vincenti: Nessuno.
Efficacia: Nulla. Il grande rischio è che il progetto europeo, compreso quello dell’Unione Europea, si interrompa per le tensioni e l’acrimonia che si creerebbe tra separati in casa. Le riforme non partiranno mai in un clima recessivo e se partissero, sarebbe la fine anticipata. E’ un rischio che probabilmente non vogliamo correre.
Fattibilità: 50%. Tutti paiono credere nel miracolo del Patto di Austerità. Sarà la nostra nemesi.
Opzione 4: Il nuovo Piano Marshall
Questa è l’opzione che non è stata proposta a Marsiglia e che sembra la meno probabile, visto il momentum che essa stenta a sviluppare.
Richiede che la formica tedesca adatti il suo tenore di vita alle sue (maggiori) disponibilità con forti espansioni della domanda delle famiglie e del governo tedeschi: diminuzioni di imposizione fiscale e spesa pubblica in Germania implicano espansione del PIL nell’area dell’euro tutta, senza grandi rischi di inflazione; espansione basata su export non tedesco (compreso il turismo!). Di fatto qui si chiede alla Germania di fare quello che fece negli anni ’90 per i suoi fratelli tedeschi dell’Est, loro con problemi di competitività mostruosamente più grandi di quelli della cicala italiana di oggi. E’ vero non siamo fratelli, né cugini di primo grado, né forse di secondo grado. Ma la bellezza del sogno europeo è questo: che al contrario di quello che avviene con le famiglie, con il passare delle generazioni i cugini di secondo grado diventano di primo e poi diventano fratelli. E dunque dobbiamo, come fanno spesso i tedeschi, meglio di noi, guardare più in là del giardino del contingente e sognare ad occhi aperti.
Perdenti: Nessuno.
Vincenti: Tutti. Soprattutto la Germania che avrà per sempre mostrato di avere dimenticato la vendetta rispetto ai francesi che le negarono aiuti in un momento di gravissima difficoltà dopo la I° guerra mondiale quando si trattava di cancellare le riparazioni di guerra dovute. Ciò non avvenne e da lì partì l’inflazione che portò al potere Hitler. Nella stessa situazione, oggi, la Germania farà l’opposto di quel che fecero allora i francesi.
Efficacia: Massima. Con questo piano Marshall la Germania darà vita ad una vera Unione Fiscale. Perché si parla di Unione Fiscale non solo quando comuni sono le regole dell’agire dei governi e degli Stati ma quando questi ultimi danno vita ad un accordo di “risk-sharing”, che altro non è un accordo di solidarietà e supporto in caso di bisogno. Anche l’eurobond fa parte di questo piano. Alla fine avremo preservato l’euro e convinto i mercati della solidità del nostro credibile accordo. Sempre che ….
Fattibilità: 20%. Solo ad una condizione, l’unica che può smuovere le formiche tedesche. Che la cicala si impegni sin da subito a … no, sbagliato. Non a un pareggio di bilancio ma a riforme per la crescita. Italiani, greci, spagnoli, portoghesi, grati alla formica per essere stati salvati, metteranno subito in atto queste riforme e, in un clima di crescita, sarà più semplice ancora approvarle. Avremo delle formiche più cicale e delle cicale più formiche, ovvero l’Europa che si conosce e si assomiglia. Da qui la via in discesa è segnata.
14/12/2011 @ 09:41
Non concordo con alcune affermazioni del mio collega e amico gustavo piga.
In particolare con quanto afferma relativamente al costo del lavoro delle imprese italiane. Invito a guardare i dati di una recente indagine condotta dall’Ufficio studi di Mediobanca (in collaborazione con Confindustria e Unioncamere) e sulle medie imprese europee (scaricabile, anche con i file dei dati, per utili elaborazioni autonome, dal sito http://www.mbres.it), dalla quale indagine (è all’inizio e quindi al momento contiene solo dati relativi al 2006) si evince che il problema della competitività delle imprese italiane, rispetto alla Germania, per esempio (limitatamente ai settori in cui questo problema esiste) non è nell’eccessivo peso del costo del lavoro, se si ha evidentemente l’accortezza di confrontare dati omogenei, per esempio imprese di uguale dimensione e che fanno lo stesso mestiere. Perchè ragionare sulle medie imprese? Perchè in Italia ormai è la media impresa e l’indotto di piccole imprese connesse ad essa, prevalentemente operanti nei distretti, che svolge la parte del leone in termini di fatturato e valore aggiunto nella manifattura (la grande impresa e i grandi gruppi, ormai, sono una specie in via di estinzione in Italia e hanno performance scadenti rispetto alle MI: anche su questo consiglio i rapporti annuali sempre di Mediobanca sulle MI italiane e, scusate l’autocitazione, un mio saggio in uscita a breve sulla rivista on line Economia e politica: http://www.economiaepolitica.it). L’indagine è molto rappresentativa per l’Italia (l’universo di oltre 4000 MI) e abbastanza rappresentativa per la Germania (1641 MI, ma non l’universo) e quindi può essere una buona base di partenza per il confronto. Non posso riportare i dati per le lavatrici, citate come esempio, perchè quello degli elettrodomestici non è un settore presidiato significativamente dalle MI e quindi accorpato con altri, ma per esempio facendo riferimento al settore “Machinery and equipment”, che è un settore importante nella manifattura perchè – come insegna Pavitt – fornitore di innovazione per molte produizioni di beni di consumo (ma si possono fare anche esempi di altri settori: sono disponibili i dati di stato patrimoniale e conto economico per aggregati), si vede chiaramente che l’Italia ha un costo unitario del lavoro più basso della Germania (-20%), il costo del lavoro pesa meno sul fatturato, il fatturato per addetto è maggiore e la redditività delle vendite (cioè il trade-off prezzo/costo) è più o meno allo stesso livello. Ovviamente il confronto varia nei diversi settori, ma è pericoloso generalizzare affermazioni valide solo in qualche settore. Risulta invece, per esempio, e questo in tutti i stetori, che il tax rate delle MI italiane è più che doppio di quello delle consorelle tedesche (nel settore citato il 59% rispetto al 27%), per effetto delle distorsioni prodotte dall’IRAP per le imprese che operano in settori più labour-intensive, che sono poi quasi tutti i settori del Made in Italy, in cui la ns manifattura eccelle.
14/12/2011 @ 23:05
Che enorme piacere risentire la mia bravissima (un’aziendalista che ha il senso dell’economia come poche altre, ed una docente di grandissimo rigore che fa lavorare e sudare i suoi studenti permettendogli di raggiungere grandi soddisfazioni) amica e collega Daniela dopo qualche anno. Potenza del blog.
Ho provato ad andare sul sito di Economia Politica ma non ho trovato l’articolo per leggerlo. Dan, quando puoi me lo mandi vero?
A naso direi due cose, precisando ovviamente che chi guarda al micro vede una realtà ben più complessa di quella tratteggiata dal macroeconomista.
Prima cosa, non mia, cito Mario Draghi, “Abbiamo subito una evidente perdita di competitività rispetto ai nostri principali partner europei. Tra il 1998 e il 2008, nei primi dieci anni dell’Unione monetaria, il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è aumentato del 24 per cento in Italia, del 15 in Francia; è addirittura diminuito in Germania. Questi divari riflettono soprattutto i diversi andamenti della produttività del lavoro: in quel decennio, secondo i dati disponibili, la produttività è aumentata del 22 per cento in Germania, del 18 in Francia, solo del 3 in Italia. Nello stesso periodo il costo nominale di un’ora lavorata è cresciuto in Italia del 29 per cento: più che in Germania (20 per cento), molto meno che in Francia (37 per cento).” http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2010/draghi_5nov10/draghi_51110_ancona.pdf
Forse Daniela tu paragoni in un dato momento di tempo e non fai la serie temporale delle’evoluzione da quando è nato l’euro?
15/12/2011 @ 15:47
Molto interessante questo confronto micro-macro!
Vorrei provare a prendere il meglio dei due approcci: tenere conto della maggiore complessità della realtà rispetto ai grandi aggregati “macro”, ma anche dell’evoluzione temporale forse trascurata dall’ottica “micro”.
Visto che ci sono, perché fermarmi all’evoluzione da quando è nato l’euro?
Potrei risalire al periodo post-bellico e rilevare che, per lungo tempo, i paesi con CLUP più alto erano anche quelli che aumentavano di più le loro quote sul mercato internazionale. Altre volte, però, è successo il contrario. Ma è successo ancora nel periodo 1978-1994. Quindi non c’è alcuna relazione certa tra CLUP da una parte e crescita e competitività sui mercati internazionali dall’altra. Come mai?
Anche qui è una questione micro vs macro. Sul piano micro è relativamente semplice misurare il CLUP, soprattutto per imprese monoprodotto (al denominatore ci sono quantità fisiche). Sul piano macro le cose si complicano, perché il CLUP macro non è una media ponderata dei CLUP micro: al denominatore, infatti, mettiamo il valore aggiunto.
Ma allora cos’altro misura il CLUP se non la quota dei redditi da lavoro sul reddito totale?
Non basta. Per tenere conto dell’evoluzione temporale, è necessario ragionare sul valore aggiunto reale, non nominale. È cioè necessario introdurre un deflatore. Teniamone conto e guardiamo cosa è successo, nei 12 paesi del primo euro, nel periodo 1980-2007 (1995-2007 se non sono disponibili i dati prima del 1995):
a) il CLUP è aumentato in tutti, ma meno in Germania e Olanda;
b) dal 1995 i salari nominali sono aumentati ovunque, ma meno in Germania;
c) i salari nominali sono aumentati ovunque più della produttività del lavoro.
Tuttavia:
d) dal 1995 la produttività del lavoro è aumentata in Irlanda e in Grecia più che in Germania;
e) la quota del lavoro sul reddito totale è aumentata un po’ in Grecia, è rimasta costante in Belgio e in Portogallo, ma è diminuita in tutti gli altri nove paesi;
f) il deflatore è aumentato in tutti i 12 paesi.
Ne segue che… l’aumento tanto lamentato del CLUP, ovunque tranne che in Grecia, non è altro che il risultato dell’aumento del deflatore!
È ovvio che bisogna stare attenti a non confondere il deflatore con il tasso d’inflazione, tuttavia è chiaro che c’è stato un pesante “effetto prezzo”.
Tanto per dirne una, il costo del lavoro reale è aumentato meno della produttività in tutti i paesi tranne Grecia e Portogallo.
Ma… se la quota del lavoro diminuisce, aumenta quella del capitale.
Perché non ragionare allora anche di un CCUP, di un costo del capitale per unità di prodotto? Si scoprirebbe che in tutti i paesi tranne la Grecia il CCUP è cresciuto più del CLUP, che in tutti i paesi il saggio di profitto è diminuito meno della produttività del capitale (che ingordi…).
In sostanza, ragionare solo di CLUP potrebbe risultare alquanto “misleading”.
Ma forse (ora divento un po’ più “micro”) anche guardare sempre alla Germania può esserlo.
La Germania è uno dei pochi paesi al mondo (insieme a Giappone, Svezia, Svizzera, USA, Finlandia e UK) che esporta i prodotti detti più “complessi”, quali acido metacrilico, apparecchiatore foto-cinematografiche, apparati elettronici di misurazione e controllo ecc. Questo vuol dire che non è un concorrente diretto per i PIGS (soprattutto se da questi escludiamo l’Italia).
Il vero concorrente diretto per i PIGS (in buona parte anche per l’Italia) è invece la Cina.
E si vorrebbe forse competere con la Cina in termini di CLUP? Non scherziamo…
L’unica posibilità è una riqualificazione dell’export, che però richiede tempi lunghi, preventivi investimenti in ricerca, superamento del nanismo industriale ecc.
E allora forse l’opzione più accattivante è proprio la 2 (che però leggo: i paesi “deboli” oppure i paesi “forti” escono dall’euro): ci darebbe, per qualche tempo, le risorse per imboccare quella strada. Anche se non è affatto detto che poi verrebbe davvero percorsa (qualcuno ha mai sentito parlare di “politica industriale”?).
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PS: Ovviamente tutto quello che precede non è (né potrebbe essere) farina del mio sacco. Mi sono limitato a cercare “unit labor cost” su Google e ho trovato un punto di vista “asiatico” che, se ne ho capito qualcosa, mi pare preferibile a quello di Draghi: Jesus Felipe e Utsav Kumar, «Unit Labor Costs in the Eurozone: The Competitiveness Debate Again», Asian Development Bank, Manila, Filippine, WP 651, febbraio 2011, http://www.levyinstitute.org/pubs/wp_651.pdf. Prendetela pure come una segnalazione un po’ romanzata…
15/12/2011 @ 23:32
Hai ragione quando dici che il micro presenta una maggiore complessità rispetto al macro, ma si rimedia ragionando su aggregati di dati micro. L’aggregato cui fa riferimento Draghi è molto più ampio della manifattura e quindi la minore produttività italiana non è necessariamente da attribuire alla manifattura (le tue lavatrici), ma anche ai servizi, alle infrastrutture, ecc. (anche Draghi sembra essersene convinto: Relazione BdI 2008). Ma ragioniamo sui dati. Gli indicatori strutturali dell’Eurostat forniscono il dato sui livelli della produttività apparente del lavoro nella manifattura (in termini di valore aggiunto lordo per occupato): tra il 1999 e il 2007 la Germania ha fatto +20,3%, la Francia +22,6% e l’Italia +30%; la Spagna ha superato tutti con +47,4%. Il costo del lavoro per unità di prodotto è effettivamente diminuito in Germania e Spagna (rispettivamente -8,8% e -7,3%), ma l’Italia è a -0,4% e la Francia a +1,6%. La competitività dipende dai “livelli” della produttività (da considerare a valore, non a volume; i prodotti non sono tutti uguali e ragionare in termini di unità fisiche, in presenza di elevata differenziazione dei prodotti, soprattutto in settori di nicchia, ormai è del tutto inadeguato: qui rivendico l’ottica micro) e del costo del lavoro e l’Italia in questo resta avvantaggiata rispetto alla Germania. Per i livelli del costo del lavoro (l’operaio che fabbrica la lavatrice), l’indagine internazionale dell’Unione industriale di Torino (la più completa e autorevole basata sui dati di 60 multinazionali italiane in 41 paesi esteri) documenta con grande precisione come il “livello” del costo per dipendente in Germania superi quello italiano del 30-37% (rispettivamente blue e white collars); anche la Francia ci supera (23-22%) mentre in Spagna i blue collars costano il 6% in meno e gli white il 14% in più (dati al 2010 misurati sulle fabbriche italiane all’estero). Quando restringiamo il campo alle grandi multinazionali il quadro ovviamente cambia. Qui ci aiutano i dati R&S Mediobanca, la cui ultima indagine (Multinationals. Financial aggregates, p. LIII) è sui consuntivi del 2009: la produttività (valore aggiunto netto per dipendente) in Germania era 61.800 euro contro i 51.200 italiani, ma la variazione rispetto al 2000 è stata rispettivamente -9,8% e +6,9% (incide ovviamente il fatto che i dati riguardano la somma delle attività in Italia e all’estero); il costo del lavoro per dipendente per le italiane è aumentato del 13% mentre per le tedesche si è ridotto del 2,5%, ma il “livello” italiano è sempre il 20% in meno e il costo del lavoro per unità di prodotto al 2009 era l’84% in Italia e l’87% in Germania (questo rapporto, per le sole medie imprese al 2006, è 72% contro 78% – Spagna 71% – quindi più favorevole che non per le grandi: 6 punti percentuali contro 3). Aggiungo che la lavatrice è sempre costata meno in Italia rispetto alla Germania, tanto che loro hanno dovuto produrre lavatrici elitarie (Miele) oppure hanno fatto fare queste stesse lavatrici a noi italiani. Ma il problema per noi non è tanto la Germania, quanto piuttosto la competizione dei Bric, dove tutti stanno delocalizzando. Dovremmo per questo sposare il modello Marchionne? No grazie.
Inoltre, il costo e la produttività del fattore lavoro è solo una parte della storia. Ovviamente c’è anche il fattore capitale e un eventuale maggiore peso del lavoro sul valore aggiunto non implica necessariamente una minore competitività, se pesa meno il costo del capitale industriale (dipende dal mix produttivo).
Grazie per i complimenti!! Il mio paper sulle imprese italiane e la crisi sarà pubblicato a breve. Approfitto anche per segnalare a te e a chi ti legge il mio blog (www.nonsolofinanza.posterous.com), dove al momento mi occupo della riforma Fornero.
16/12/2011 @ 10:36
Un’altra proposta
Il Fondo Monetario Internazionale potrebbe cancellare una parte del nostro debito ed essere rimborsato nel tempo. Questo ovviamente sotto vincoli di condizionalità (ad esempio un piano di riforme strutturali – sistema giustizia etc.. tutte quelle che conosciamo benissimo- con un calendario di scadenze).
Esempio
Se ad esempio cancellasse il 60% del nostro rapporto debito/Pil, questo scenderebbe al 60%.
Gli interessi sul debito sarebbero più che dimezzati. Il premio per il rischio (e con esso i tassi che paghiamo) decrescerebbe eccezionalmente. Se i famosi 70/80 miliardi di interessi annui diventassero di colpo 25 il risparmio di spesa sarebbe significativo. Potremmo restituire 2/4 punti di Pil l’anno al FMI per un certo numero di anni che sarebbe così rimborsato.
Così la stabilità monetaria cara ai tedeschi sarebbe tutelata, l’economia reale ripartirebbe come uno shuttle ed avremmo risolto definitivamente il problema del nostro debito.
Forse è una proposta bizzarra, senza senso ma è sempre una modesta proposta.
16/12/2011 @ 13:00
Bisogna capire: il debito di chi?
Non è una proposta bizzarra ma presume che il problema che prezzano i mercati oggi sia il debito. Io non credo sia così perché il premio a rischio spagnolo è come il nostro e quello austriaco è cresciuto.
L’area dell’euro è il problema: è una Unione fiscale con un patto di risk-sharing al suo interno e dunque la volontà politica di venire incontro ai problemi che la mancanza di crescita può generare, quando arriva uno shock, in un singolo paese?
I mercati non ci credono e dunque scommettono sulla fine dell’euro.
16/12/2011 @ 15:37
Sicuramente fare parte di una squadra rende il singolo giocatore meno vulnerabile e responsabile dell’esito della gara. E’ la squadra che vince o perde. Dunque, tanto più si rafforzano i meccanismi di gruppo, quanto più la squadra è solida.
Ma non dimentichiamo che il core per vincere la partita non è dato solo dall’affiatamento e dallo spirito di squadra dei giocatori ma anche dalla competenza dei singoli. Giocare con Pelè o con me in attacco non sarebbe proprio la stessa cosa.
Credo che la soluzione a questa crisi passi per entrambe le cose. Migliorare i singoli (e qui il perchè della mia proposta), fare più squadra.
Professore: se andassimo sempre in vacanza a Sue spese probabilmente dopo un paio d’anni non mi vorrebbe più come Suo ospite per quanto possa esserLe simpatico/antipatico. Per migliorare le nostre vacanze forse dovrei mutare il mio comportamento.
Questo è il risultato di evitare crescita inflazionistica. Bisognava entrare nell’Unione con livelli di debito decenti, non appellandosi agli effimeri trend decrescenti facili a perdersi negli oceani degli shock economici e dei mercati finanziari.
Quanto al discorso sui premi a rischio mi viene da dire: ormai la Germania è in squadra con noi. Quando comincia a vacillare il difensore più importante (l’Italia), l’intera difesa comincia ad essere posta sotto pressione. Se questa dovesse cedere i problemi sarebbero fatali anche per gli attaccanti (si vedano ad esempio i rischi di downgrade per la Francia). Se continua così tra poco andranno in panchina a mangiarsi anche “l’allenatore”.
16/12/2011 @ 16:02
Usciremo da questa crisi prendendo il toro per la corna.
1) Non vogliamo crescita inflazionistica? Bene, i nostri debiti devono essere a livelli adeguati. Non possiamo pensare di comportarci come le formiche e di abbattere in tal modo i nostri debiti. Ci vorrebbero decenni. Alla prossima crisi saremmo punto e a capo.
2) Come diceva il Professore migliorare la squadra.
3) Risolvere i deficit di competitività strutturali dei singoli con un piano di riforme serie: può aiutare una Autorità europea che monitori i singoli stati e dia loro dei risultati da raggiungere entro certe scadenze con certe pene serie e sicure?
Basta guardare i nostri problemi. Li conosciamo benissimo tutti, sono anni che se ne discute ma c’è solo il fumo e mai l’arrosto. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica: entro luglio 2012 devi rimettere la giustizia italiana in piedi (un processo deve durare 2 anni, non la prescrizione) così che riprendano le transazioni, entro tale data voglio i costi dell’apparato ridotti da circa 25$ a cittadino a 10/15 come nel resto d’Europa, entro tale altra data voglio una seria normativa anticorruzione che dia risultati.