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Liguria 2006: quando si combatté seriamente la lotta agli sprechi. E si perse, con onore.

Da tempo diciamo che la questione degli sprechi nella Pubblica Amministrazione (vedi anche il video di Piazza Pulita di questa settimana) è una questione di organizzazione interna degli uffici la cui attuazione è ampiamente alla nostra portata, di disponibilità di tecnologie abilitanti ampiamente accessibili sul mercato, di volontà politica ampiamente assente dagli schermi nazionali.

Questa mail di questo lettore lo conferma con un esempio concreto e così datato nel tempo da far sospettare che effettivamente è la volontà politica l’input mancante alla risoluzione del problema.

Il sottosegretario Giarda può prendere nota di questa mail e nel giro di qualche settimana rimediare alla questione degli appalti pubblici in Italia, ovviamente con la piccola aggiunta di un mini decreto legge che nessuna gara di appalto pubblico genera a valle un contratto tra fornitore e stazione appaltante a meno che 1) tutti i dati di questa gara non siano confluiti in tempo reale presso un database centrale appositamente predisposto dove sono contenuti tutti i dati per verificare le eventuali differenze tra prezzi degli acquisti nonché quantità acquistate, da amministrazione a amministrazione,  e dunque verificare eventuali sprechi e 2) il pagamento al fornitore avvenga entro 60 giorni.

Lo diciamo seriamente, siccome conosciamo il Prof. Giarda, la sua rigorosa attenzione ai dettagli nonché la vasta conoscenza della materia. Inoltre, essendo che volere è potere non dubitiamo che tutto ciò possa avvenire nel giro di poche settimane.

*

Caro Prof. Piga,

dal 2000 al 2006 coordinai un gruppo di lavoro per la predisposizione, in Liguria, di un sistema telematico finalizzato al controllo ed alla razionalizzazione della spesa su base regionale che, con la  costituzione degli osservatori regionali sui contratti pubblici, ricevette anche una giustificazione nel sistema dei poteri e delle competenze.

… si fondava sulla creazione di una comunità virtuale formata da tutti i responsabili dei procedimenti d’acquisto operanti nel territorio regionale, sulla trasparenza in tempo reale dei dati sui contratti  – dal bando d’appalto alla conclusione del medesimo – sulla conseguente moralizzazione dei comportamenti attraverso il controllo reciproco dei responsabili di procedimento e sul  rilevamento automatico ed in tempo reale degli scostamenti dalle medie e da altri indicatori di spesa. Ma c’è di più: attraverso la costituzione di una rete di competenze consentiva alle amministrazioni più deboli – sovente molto piccole –  di affidarsi a quelle più forti per svolgere le parti più complesse del ciclo d’appalto e per accedere on line in tempo reale all’enorme patrimonio tecnico che andava, via via ad accrescere la base di dati.

Dal 2003 al 2004 il gruppo mise in  rete oltre 500 stazioni appaltanti liguri (dai Comuni, ai concessionari di servizi pubblici, alle amministrazioni dello stato che operavano sul territorio regionale), ne faceva parte anche un giornalista che aveva il compito di divulgare, nella comunità, le best practices via via rilevate e di promuovere, attraverso un lavoro giornaliero, la cultura della trasparenza . Il sistema era realizzato in open source e soggetto a continua manutenzione.

Da previsioni effettuate avrebbe potuto far risparmiare al sistema pubblico ligure non meno di 300 – 400 mil.ni di euro anno, a fronte di un  costo di esercizio intorno ai 500.000 euro anno (sostanzialmente stipendi, per altro modesti,  del gruppo di lavoro interdisciplinare necessario per gestire i servizi per circa 5000 responsabili di procedimento appartenenti alle oltre 500 amministrazioni servite)

L’idea iniziale era di sperimentarlo in Liguria per poi estenderlo a tutte le regioni italiane, tramite accordi interregionali ed il pagamento alla regione liguria di un “canone” per la manutenzione e sviluppo ulteriore del sistema. Iniziarono trattative, molto positive, con l’assessore all’informatica della Regione Lazio.

Proiettando i dati regionali a scala nazionale si ottiene un risparmio presunto di circa 5 miliardi l’anno. Moltiplicando il dato per i dieci anni trascorsi, si ottengono 50 miliardi. Ma sopratutto sarebbe cambiata la qualità della spesa e la competitività dei sistemi economici regionali. Al riguardo concordo del tutto con il prof. Piga che ho sentito ieri sera.

Non appena il sistema produsse i primi risultati iniziò anche una fiera opposizione del centrodestra prima e del centrosinistra poi, con la sola eccezione dei “comunisti italiani” e di un piccolo gruppo di funzionari interni alla regione, che portò, tra il 2005 ed il 2007, a smantellare il gruppo di lavoro, a non dar seguito alle trattative con la regione Lazio ed a ridurre le funzioni implementate alla  mera raccolta di dati per l’invio (tardivo) dei medesimi alla autorità di vigilanza sui contratti pubblici. Inviai molte lettere al presidente della Regione pregandolo di sostenere l’iniziativa nella forma in cui era stata concepita, ma non ottenni mai alcuna risposta.

In questo caso c’era un sistema e c’erano le condizioni organizzative e tecnologiche per farlo funzionare, ma non si volle farlo funzionare.

Cordiali saluti

Roberto Nastri

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Cousins Today, Brothers Tomorrow

10 years ago, February 17, 2002.

Where was the former Governor of the Bank of Greece and at the time Vice-President of the European Central Bank Lucas Papademos, today Prime Minister of Greece, with his wife Shanna?

Don’t try guessing, too hard. They were at a reception, on the occasion of the 75th anniversary of the Bank of Greece, organized for an exhibition of a selected group of 39 paintings and prints covering the period 1830-1930 from its own collection and from other – mostly private – Athenian collections.

The event was inaugurated with a speech by then Governor Nicholas C. Garganas on Monday, 17 February 2002, 10 years ago.

Spirits were full of high hopes then in Athens and in the rest of the euro area. The euro was showing its beneficial effects already: spreads in Greece and elsewhere with respect to the German Bund had collapsed, making – as a seemingly innocuous consequence – the cost of borrowing for Greek (and Italian) families incredibly low. Consumer credit-driven economic growth started then. It fuelled the profits of the banking sector, eager to lend vitality to a credit boom with little worry for its likely bust.

Greece had entered the euro with the lowest, among the 12 countries, productivity rate. Convergence of Greek productivity to euro countries standards should thus have been essential to preserve stability in the currency area, by reducing the temptation to exit through devaluation as a consequence of lower competitiveness, lower export, lower growth. Indeed, the EU Treaty requires convergence.  And the Greek abided to their uneasy task: a Mc Kinsey report on Greece shows that over the 2000-2009 Greek yearly productivity growth by far exceeded the EU one: 2.5 vs 1.1%. Alas, it was still not enough: in 2009 it still was 29% below EU-15. More reforms, a daunting task, should have been done to recuperate export competitiveness.

Why not all reforms were done?

Because the drug of credit-led growth made Greece and its peers, the EU council, forgetful  that unless competitiveness was fully restored fragility would rise. Actually the EU did something worse: instead of focusing on reforms, it focused a decade of debate on whether deficit to GDP ratios were under the magic and absurd 3% threshold. Nothing else was discussed for 10 years in Brussels. No reforms and none of the necessary investments were forced on Greece. Nothing.

Actually a 3,1% deficit to GDP figure was the scariest thing that could occur to a country, that would have been forced to a humiliating and Kafka-style trial to justify and rectify itself in front of its peers. So here you have why accounting tricks became the norm. It still not justifies why all other countries, that obviously knew about these tricks, turned their head the other  side and faked not knowing.

In 2008, the financial crisis made its appearance and it was Game Over. Greece had no fuel anymore to grow: the banking fuel was gone and the credit crunch started biting, as the ROE of Greek banks went from 15% of the 2005-2007 period to -1,5% in 2009. But, also, the other, sounder, fuel for growth, productivity and investment, had not been inserted and it was too little too late to have it in a few periods.

Then here came the second European mistake. It asked Greece finally to do more reforms, and that was good, a bit too late though. So it needed a quick boost to recuperate immediately growth. But, fundamental mistake, it did so by asking to do austerity to restore competitiveness, through wage deflation and restrictive fiscal policies.

Quite a strange choice, especially if you consider it was in full contradiction with what was done in a previous European experiment just 20 years before. A monetary union, between country A and country B, with A having high productivity and B a very low one. The Prime Minister of country A decided, against all polls and against the Central Bank opinion, to expand public investment dramatically in country B and to raise wages in it. Country A was West Germany, country B East Germany.

East Germany is not Greece, a friend says. Try again. The sums involved in saving the Greeks is way way lower than the sums that were poured in East Germany. Second objection: East Germans were the brothers of West Germans, Greeks are distant fourth-degree cousins. Try again. Greeks are the brothers of tomorrow, this is why my generation has subscribed to the euro and EU project, in the hope of brotherhood.

In its speech 10 years ago at the vernissage for the Greek art exhibition, the Governor of the Greek Central bank said:  “This is a marvellous occasion for us all to appreciate the emergence of modern Greek painting in those formative years following Greece’s independence. Art not only reproduces what we see; it helps us better understand what we see.”

I agree, we need art to better understand what we see. Here, get “Greece in Gratitude” (1858) – Theodoros Vryzakis, following Greek’s war of independence.

Independence from Europe, gratitude to Europe: what is it that you see?

 

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Recessioni patrimoniali à la nipponica

Il decennio perduto. Non parliamo di quello già perso dall’Italia, che ha avuto dal 2000 al 2012 (stimando per quest’anno un ottimistico -1,5%) un tasso di crescita medio del PIL negativo. No, parliamo di quello che rischia di piombarci addosso visto che, come avverte Richard C. Koo, economista brillante che lavora per il Nomura Research Institute di Tokyo, ci troviamo, come lo furono Giappone e Stati Uniti tempo addietro, a fronteggiare una tempesta perfetta, chiamata recessione patrimoniale (balance sheet recession). (nella foto Richard C. Koo).

Questo tipo di recessioni, secondo Koo, avviene tipicamente a seguito dell’esplosione di una bolla finanziaria e porta imprese, banche e famiglie a concentrarsi per un lungo periodo di tempo, piuttosto che verso crescita e profitti, a ridurre anzi minimizzare i loro debiti, tagliando domanda ed attività economica.

Per i nipponici la bolla culmina nel 1991 (prezzi della case che crollano dell’87%), negli Stati Uniti nel 2006, con un andamento nel tempo, prima il cumularsi e poi lo sgonfiarsi, incredibilmente simile. Così come incredibilmente simili sono i rischi delle conseguenze connesse con l’esplosione della bolla, quando la politica monetaria si rivela inutile, perché nessuno è interessato a prendere a prestiti: l’economia si inviluppa, argomenta Koo, fino a quando si è così poveri che si smette di risparmiare e si entra in depressione. Ecco il suo esempio: “si consideri un mondo dove una famiglia ha un reddito di 1000 euro e ne risparmia il 10% (100 euro). Normalmente questi 100 euro vengono intermediati dalle banche e prestati. Quando colui che li prende a prestito li spende, il totale della spesa nell’economia eguaglia il totale del reddito prodotto. Se, in tempi normali, nessuno domanda a prestito i 100 euro, i tassi d’interesse scendono per renderlo possibile. Ma in un mondo dove il settore privato pensa solo a ridurre il suo debito, anche a tassi zero nessuno chiede a prestito quei 100. Si spende dunque solo 900, che vanno a pagare quell’imprenditore che produce quei beni prodotti. Ma quell’imprenditore dei 900 ne spende solo 810, 900 meno i 90 che risparmia. Quei 90 di nuovo non vengono prestati. E l’economia si contrae e si contrae e si contrae…” . Un racconto horror ma plausibile, chiamato recessione patrimoniale.

Se non avesse reagito, il Giappone della bolla sarebbe crollato al ritmo del 10% l’anno, un po’ come gli Usa nella Depressione degli anni Trenta. Come fecero ad evitare questo scenario? Facendo entrare in campo lo Stato, disposto a domandare a prestito e a spendere, così che il PIL non crollò. Esattamente come fece Roosevelt dal 1933. Negli Stati Uniti dal 2007 il deficit pubblico, ampio, non è riuscito a compensare il crollo dei risparmi messo in atto per ripagare i debiti dei privati. Ma ad arginare il crollo, e a riprendersi, come fece il Giappone, è servito eccome. E i risparmi per sottoscrivere il debito pubblico? Ci sono, ovviamente, come visto sopra; cercano solo dove allocarsi, come dimostrato dai bassi tassi dei bond statunitensi in questo periodo.

Direte: ma non funziona così nell’area dell’euro, anch’essa con i privati alle prese con la riduzione dei debiti. I risparmi degli spagnoli e degli italiani ora come ora finiscono in Germania. Appunto. Ecco perché secondo Koo qualsiasi soluzione non può che passare – assente una irrealistica autarchica chiusura dei mercati dei capitali – per un’espansione fiscale di spesa pubblica guidata dalla Cancelliera Merkel.  Il decennio perduto rischia di derivare da questa renitenza tedesca a spendere, ammonisce il ricercatore nipponico. E che spenda a lungo, perché due tentativi di rientro del debito pubblico tramite austerità giapponese nel 1997 e nel 2001 furono disastrosi, interrompendo la ripresa e portando alla crescita e non alla diminuzione dei debiti pubblici.

E in Italia, paese con poco spazio per prendere a prestito? Uno studio recente di due ricercatori della Banca d’Italia, Francesco Caprioli e Sandro Momigliano, argomenta come “un aumento della spesa pubblica per consumi finali pari all’1 per cento del prodotto del settore privato induce un significativo aumento delle entrate nette … (che) persiste anche dopo il venir meno dello shock alla spesa, determinando il riassorbimento in 3 anni dell’aumento iniziale del debito. Gli effetti sul prodotto del settore privato  sono positivi e significativi per oltre 2 anni ….”: più spesa, meno debito-PIL.

Per Koo non è importante come spendere, importa che lo Stato spenda. Fino a quando non se ne esce. Quando se ne uscirà? Non facile prevederlo. Anche perché le persone traumatizzate da queste crisi patrimoniali tendono a non prendere più a prestito per tanto tempo (pensate a tutta una generazione di anziani che negli Stati Uniti hanno continuato ad evitare di farlo, ricordando gli anni bui della grande crisi). Si dovrà pensare, allora, a sussidiare i prestiti. Ma, questo è domani. Ora ci si preoccupi di evitare un nuovo decennio di crisi.

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700 colpi per un nuovo Rinascimento

Ringrazio Agora Vox Italia per avermi dato una opportunità in più per ragionare sul senso dell’appello per un nuovo Rinascimento e la lotta alla disoccupazione giovanile:

http://mobile.agoravox.it/Lavoro-ai-giovani-L-economista.html

Rispetto a quell’intervista siamo 700 e non più 400. Grazie a tutti. Un ultimo sforzo, parlatene, diffondete, discutetene con chi non è d’accordo, elaborate critiche, e, se volete, firmate.

Foto Fotosciop.

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Comunicazione ufficiale sul rapporto Debito Pubblico PIL

Il rapporto debito pubblico italiano-PIL - nel 2010 al 118,4% - per il 2011 si attesta ”in un range compreso tra il 119,5 e il 120%”.

Ecco i primi effetti contabili (visto che a tanti interessa la contabilità e non la sostanza) delle manovre politiche per l’austerità. Senza crescita, nessuna stabilità. Aspettiamo con ansia di vedere a che livello arriverà il rapporto debito pubblico PIL nel 2012 con queste manovre europee ed italiane che generano recessione e instabilità.

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Alziamo la posta in gioco, e per fortuna alzaremo anche i salari.

Faccio fatica a seguire Alesina e Ichino su un tema molto importante per le vite di tutti noi come quello della riforma del lavoro verso una maggiore flessibilità.

Siccome l’articolo (Se il posto non è fisso il salario va alzato) ha il pregio di suddividersi in una serie di argomentazioni logiche divise con chiarezza, vale la pena riprenderle una ad una (in corsivo le loro parole).

I benefici del posto fisso (per chi lo ha) sono ovvi. La domanda rilevante è: quanto costa la garanzia del posto fisso al singolo e alla collettività? Un fatto spesso ignorato è che questo costo non è nullo anche per chi il posto fisso già ce l’ha. A parità di altre condizioni, per godere della protezione offerta dall’articolo 18 il lavoratore riceve una retribuzione inferiore a quella che otterrebbe se rinunciasse alla tutela contro il licenziamento. L’imprenditore, infatti, privato della possibilità di licenziare qualora il posto diventasse in futuro improduttivo, sopporta un costo potenziale aggiuntivo, oltre alla retribuzione. Se è disposto a pagare il lavoratore 100 mantenendo il diritto di licenziarlo, vorrà pagare solo, diciamo, 90 per assumerlo senza possibilità di licenziamento. La differenza è una sorta di premio di assicurazione che il lavoratore paga al datore di lavoro per correre meno rischi.

Non c’è il minimo dubbio. Impresa e lavoratore entrano – con o grazie all’art. 18, in un contratto di assicurazione. Ovviamente mutualmente vantaggioso, come avviene ogni volta che si effettua sul mercato uno scambio, per sua natura volontario (non è come l’assicurazione della macchina, obbligatoria). E allora? Buon per loro.

Un contratto di lavoro con salario fisso e sicurezza del posto è in qualche misura anche un contratto assicurativo. Ovviamente più i rischi economici per l’impresa salgono, più l’impresa vorrà far pagare ad alto prezzo questa assicurazione e più basso sarà il salario di un lavoratore con il posto fisso. In periodi turbolenti come questo, quindi, il posto fisso costa molto al lavoratore, perché offrire assicurazione costa di più alle imprese.

Certo. Ma in periodi come questi un posto fisso vale molto di più, il rischio di perdere e non ritrovare lavoro è molto più alto. Dunque è giusto che l’assicurazione sia più cara. Ma sempre di scambio mutualmente vantaggioso stiamo parlando: i lavoratori preferiscono questo contratto ad un contratto, anche più remunerativo se non licenziati, senza questa assicurazione.  Buon per loro.

Ma allora perché in Italia sembra che i lavoratori precari abbiano non solo un posto insicuro ma anche una retribuzione inferiore? Perché i lavoratori protetti, ossia i dipendenti pubblici e quelli nelle aziende sopra i 15 dipendenti, sono difesi dai sindacati mentre i giovani precari no.

Non solo per questo. A volte (spesso) questi contratti sono meno remunerativi per i giovani perché le imprese non li conoscono e li provano, con un salario che li compensa, appunto, per il rischio di sostenere un costo non in linea con la produttività del giovane.

A loro sono lasciate le briciole in una specie di sala d’attesa in cui il giovane invecchia aspettando che qualche lavoratore protetto vada in pensione e liberi il posto sicuro.

Vero, questo è anche dovuto alla riforma delle pensioni. Come mai non attacchiamo la riforma delle pensioni per questo? E poi questo presume che nuove aziende non creino nuovi posti di lavoro e così le pubbliche amministrazioni: perché non li creano? Ci saranno tanti motivi che dovrebbero essere affrontati per la scarsa produttività del lavoro, o no?

… La soluzione che propone il sindacato è semplice: diamo a tutti il posto fisso.

Ma non mi pare proprio. I sindacati hanno accettato in questi ultimi anni una documentata ampia riduzione della protezione del lavoro rispetto ai partner europei e non siamo certo fuori dalla media.

… Un mondo incentrato sul posto fisso è un mondo in cui il welfare lo fa la famiglia, con le risorse guadagnate dal padre (tipicamente unico a godere della sicurezza) e distribuite ai familiari dalla madre che spesso lavora in casa, con nonni e figli adulti che vivono insieme e si assistono gli uni con gli altri….

E perché con il contratto ancora più precario cosa cambierebbe?

Sia ben chiaro: la famiglia italiana ha dei benefici enormi di cui dobbiamo andare orgogliosi. Ma se deve sostituire un welfare pubblico che non funziona, le conseguenze non sono tutte desiderabili. Un sistema di welfare basato sulla famiglia riduce la mobilità geografica e sociale e ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese.

La famiglia ostacola la meritocrazia e la concorrenza? Non a casa mia, mio padre e mia madre mi hanno insegnato proprio l’importanza di guadagnarsi e meritarsi il pane senza lamentarsi. Gli devo tutto.

Per poter godere del welfare familiare, che aiuta anche a trovare un impiego grazie ai contatti dei genitori più che alle reali capacità, i giovani promettenti frequentano università mediocri sotto casa o non si allontanano per trovare un posto di lavoro migliore e più adatto alle loro caratteristiche.

Ah, ecco, dovevate dirlo un po’ meglio. Quindi il problema è la corruzione e la riforma dell’università? Concordo! Cominciamo subito dall’attaccare questo problema, ma che c’entra la maggiore precarietà dei contratti di lavoro? E poi, se non si allontanano per un posto fisso perché dovrebbero farlo per un posto precario? Magari vogliamo prima aggiustare la questione dei costi, psicologici e materiali, degli spostamenti e della vita fuori di casa? Comunque io vedo tantissimi miei studenti che partono senza problemi e si avventurano a cercare posti fissi o precari. Magari non li trovano in Italia, ma questo è un altro discorso. Vogliamo di nuovo chiederci perché la domanda di lavoro per giovani è così scarsa? Forse ci sarà qualche altro motivo che non il posto fisso (che dominante è sempre meno con l’attuale legislazione)?

La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi anche perché le imprese possono imporre condizioni retributive peggiori non dovendo temere che i lavoratori si spostino altrove se trattati male.

Oddio, mi pare così convoluta la cosa. Chiedete ad una impresa se questo è il suo problema. Ne sarei sorpreso. Le aziende che conosco io, quando cercano, cercano gente brava. Il problema è che spesso non le trovano, ma non è che non le trovano sotto casa, non le trovano in tutta Italia perché enormi sono i problemi della formazione ed istruzione dei giovani. Ma spesso le aziende non cercano. E non cercano a causa della recessione (chi se la sente oggi di assumere?) e a causa delle difficoltà di fare impresa in Italia, quali una pessima Pubblica Amministrazione che aspetta di essere rivoluzionata ed incentivata a fare meglio.

…. Ma il problema vero è che sono gli italiani a volere questa struttura sociale perché non ne hanno ancora compreso i costi….  Dei costi aggiuntivi siamo responsabili noi. La discussione sul posto fisso e su un sistema di welfare impostato sulla famiglia, quindi, va ben al di là di una riforma del diritto del lavoro. Tocca al cuore la mentalità e l’organizzazione sociale degli italiani. La soluzione più facile è continuare a non affrontare il problema. Oggi, perlomeno, ci si sta provando.

Gli italiani hanno compreso benissimo i costi. Del non fare le cose che servono a tutti noi. Del fare le riforme sbagliate o quelle inutili. Del rinviare a chissà quando le vere riforme, difficili da fare, mediaticamente più oscure, ma di cui il Paese ha veramente bisogno. Da tempo, perlomeno, ne stiamo parlando. Ma chi ascolta?

Alziamo la posta in gioco, così potremo alzare i salari, le opportunità dei giovani e la nostra felicità.

 

PS: aggiungo per generare + dibattito il commento or ora arrivato di Mauro Poggi, lettore assiduo ed apprezzato!

Ho letto l’articolo di A ed I e sono abbastanza perplesso. Intanto quello che non capisco è come si continui a confondere il posto fisso con l’art 18. Per quanto ne so io  il posto fisso non esiste: in caso di difficoltà economica il datore di lavoro può licenziare eccome. Di ristrutturazioni aziendali ne abbiamo viste a iosa da sempre. Io stesso, in quanto dirigente d’azienda e amministratore delegato, ho avuto il dispiacere di praticarne quattro durante la mia carriera. Quello che non è consentito, al datore di lavoro, è licenziare senza giusta causa. Anche qui l’art 18 non c’entra, semmai è la legge 604/66 che lo sancisce, e non limitatamente alle aziende con più di 15 dipendenti ma a tutte. L’art 18 stabilisce solo che in caso di licenziamento illegittimo il datore di lavoro è tenuto al reintegro del lavoratore, il quale può optare però per un risarcimento. Nelle aziende fino a 15 dipendenti, è invece il datore di lavoro che può scegliere fra reintegro o risarcimento. Che una vertenza  possa protrarsi anche diversi anni non dipende né dall’art 18 né dalla legge 604, ma dai tempi biblici della giustizia in italia – questo sì un problema per gli imprenditori.

A questo punto viene il sospetto che quello che si vuole abolire non sia l’art 18 in sé, ma il divieto di licenziamento ingiustificato: e vai con l’arbitrio!

Quanto alla tesi secondo cui l’art 18 comporterebbe una compressione dei salari perché su quelli ci sarebbe una sorta di pedaggio assicurativo che il datore fa pagare, beh, è tutta da provare. Allo stesso modo è possibile sostenere che una volta abolite le tutele del lavoratore questi sarebbe obbligato ad accettare qualunque condizione, e non solo dal punto di vista economico, visto che si verrebbe a trovare in una posizione di estrema debolezza contrattuale: non dico che non ci siano datori di lavoro illuminati, ma non è su costoro che ci si può basare per riscrivere le regole.

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Cappuccino à la Moody’s

Buongiorno Italia. Ola Espana. Questa mattina vi siete svegliati e, se per fortuna non siete nottambuli come noi, avrete trovato servito con il vostro cappuccino e cornetto una sorprendente retrocessione dei vostri due paesi. L’Italia da A2 ad A3, la Spagna ancora peggio, da A1 ad A3. Servita sul piatto caldo da Moody’s, agenzia di rating, nota ai più. Ora siamo alla pari, italiani e spagnoli, insieme dalla padella alla brace.

 

Foto: Patricia K. Thomas

In fondo abbiamo degli spread che, al di là della loro volatilità (sottolineata da Moody nella sua spiegazione del perché della decisione), si assomigliano tanto, che c’è di strano?

Ho letto e riletto stasera le valutazioni di Moody’s dei 2 paesi, per cercare di capire, nella testa dei mercati, quali siano le similitudini e le differenze percepite tra i nostri due paesi. Esercizio interessante, entrare nella testa dei mercati.

Una similitudine: paghiamo ambedue “l’incertezza sulle prospettive di riforma istituzionale nell’area euro e le scarse prospettive di crescita nella zona”. A conferma di quanto da mesi sosteniamo su questo blog: la crisi non è del debito pubblico italiano, è una crisi europea, anche della Spagna dal basso debito pubblico. E si cura a livello europeo. Ma, a quanto pare, l’attuale cura europea “incerta”, non convince i mercati.

Vi sono altri due fattori che spiegano la scelta di Moody’s di abbassare il rating e qui le cose cambiano un pochino tra paesi. Mentre le spiegazioni sulla Spagna fanno riferimento ad una debolezza strutturale del settore bancario e ad un peggioramento dei conti pubblici iberici, le nostre guardano ad una debolezza strutturale complessiva assieme ad un debito troppo alto.

Il che porta ad una diversa enfasi sulle soluzioni attese ed il loro ordine di priorità: mentre per la Spagna sembra che preoccupino più i saldi fiscali che la crescita economica, dell’Italia il timore numero uno è quello della crescita che non c’è.  E delle riforme che necessitano di tempo per produrre risultati, risultati di cui non si può valutare, ora come ora, nemmeno l’impatto. Non a caso la menzione da parte di Moody’s dell’ottima riforma del mercato del lavoro spagnolo di pochi giorni fa non ha evitato alla Spagna la doppia retrocessione di rating: non ci illudiamo, vi prego, che ci salvi la eventuale dipartita dalla scena dell’art. 18!

Moody’s chiude la sua analisi interrogandosi infine su cosa potrebbe portare a cambiamenti verso l’alto o il basso del rating. E dalla semantica si capisce che il rischio di un ulteriore peggioramento c’è per ambedue i paesi, ma forse più per noi.

Nessuna speranza? Certo che sì, leggete la frase chiave:

“Conversely, a successful implementation of economic reform and fiscal measures that effectively strengthen the Italian economy’s growth pattern and the government’s balance sheet would be credit-positive and could stabilise the outlook. “

La terapia a tenaglia che andiamo auspicando da mesi? Esatto. Riforme E misure fiscali che rafforzino credibilmente il ritmo di crescita dell’economia italiana  e i saldi fiscali. E quali misure fiscali rafforzano il ritmo di crescita economica e al contempo i saldi fiscali? Oh certo, i miei colleghi Alesina e Giavazzi diranno:  solo credibili misure di austerità . Certo, come no: basta guardare la Grecia.

Riforme e politica fiscale espansiva, l’unica soluzione. In Germania più spesa privata (già vi si accenna in Germania nella CDU quando si chiedono finalmente maggiori salari per i lavoratori) e pubblica, anche in deficit. In Italia, maggiore spesa pubblica, non in deficit, finanziata da tasse o, meglio, da tagli di sprechi. Ma tagli seri e non i tagli dei convegni del Ministero dell’Economia. Tagli di cui il sottosegretario Giarda ci deve dire qualcosa da mesi, ma pare interessi a pochi. E il tempo passa.

Buona colazione a tutti noi.

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Medaglia d’oro a Monti o Alemanno? A Zeman, che domande.

Buffo cosa succede se diventi percepito come keynesiano. Di prima mattina ti scrive uno dei tuoi più cari amici di anni passati a Macerata insieme, teutonico orso e fervente anti-spesa pubblica, che mi scrive: “a quando un post di sostegno ad alemanno x olimpiadi?” (per il lettore: il mio amico è ironico).

Zdeněk Zeman

Poi telefonate di giornalisti che vogliono sapere delle mie reazioni al no di Monti alle Olimpiadi a Roma. Mi dicono che mi chiamano conoscendo la mia posizione pro-Olimpiadi (ci mancava che dicessero anti-Monti…). In realtà non ho mai né detto né pensato nulla sulle Olimpiadi. Interessante però che succede: sei pro-spesa? Allora entri nel partito del “qualsiasi spesa pubblica va bene”. Cose che succedono quando vivi in un Paese i cui rappresentanti e gli opinion-makers dicono solo che bisogna ridurre ridurre ridurre la spesa!

Torniamo a noi. Cosa ho detto ai giornalisti dopo essermi (un minimo) documentato? Che i dati sulle Olimpiadi sinora svolte, comprese quelle di Atene, parlano di investimenti co-finanziati dal settore privato, di dimensioni ampie per un singolo evento, ma non enormi. Quelle di Atene furono attorno all’ 1% di PIL (mi vien da ridere quando qualcuno dice che furono la causa della crisi greca) e studi di una qualche credibilità scientifica sostengono che esse abbiano generato una crescita aggiuntiva di circa 1% di PIL negli anni precedenti ai Giochi (ed addizionale occupazione e minore disoccupazione) e un impatto minore che sfuma nel tempo al termine dei Giochi. Altri Giochi producono stime simili. Ripagandosi pienamente, ma non troppo di più.

Insomma certamente non si può dire che sono uno spreco. Né un investimento dal grande ritorno. E’ esattamente questo il punto. “Insomma Professore, lei sta con Monti o Alemanno”? Con nessuno dei due. E’ una follia, chi mi legge lo sa bene, rinunciare a spendere in una recessione come questa, miriadi di studi scientifici lo sostengono e l’evidenza di questi anni lo dimostra (penso alla Grecia? Non c’è bisogno di cercare così lontano, noi siamo un esempio perfetto di cosa fa l’austerità. Oggi Giavazzi sul Foglio ha spostato l’asticella ancora di più nell’abisso parlando di una crescita del PIL 2012 al -3%, chissà perché!).

E dunque? Fare le Olimpiadi?

Ma scherziamo? E mettere in sicurezza le scuole dei nostri ragazzi? Fornire materiali scolastici ed ambiente puliti ai nostri maestri? E dare dignità ai nostri carcerati invece che sbatterli per strada in attesa che si droghino o che tornino in carcere più umiliati di prima? E mettere mano al nostro dissesto geologico? E Pompei? E gli ospedali? E i campi di calcio per i ragazzi (bellissimo Zeman, grande Zeman, ieri sul Foglio: “servono strutture per consentire ai ragazzi di tornare a giocare, per ore e ore, sempre col pallone tra i piedi. Come si faceva una volta, da mattina a sera, per strada”)? E le attrezzature scientifiche per i nostri laboratori universitari?

Da più di un decennio abbiamo fatto il contrario dei tedeschi e degli americani, che hanno un settore privato forte perché hanno uno stato forte e presente, riducendo gli investimenti pubblici in maniera drastica. E allora prendete quei dannati soldi per le Olimpiadi e date dignità a questa bellissima favola ingrigita chiamata Italia con uno Stato forte e degno di questo nome. Un po’ di coraggio per Dio.

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Il re in ognuno di loro

“Ma è proprio malvestito”.  “E ha l’aria affamata”. …”Chi sei ragazzo?”. “Sono il re” fu solenne risposta.

Le due ragazzine sussultarono, sgranarono tanto d’occhi e per un minuto almeno rimasero senza parole. Poi la curiosità prevalse sullo sbalordimento. “Il Re? Quale Re?”. “Il Re d’Inghilterra”.

Il principe e il povero, Mark Twain

L’Europa dei giovani si sta destando? A quanto pare sì.
In Spagna, il Governo Rajoy richiede che ai giovani disoccupati con sussidio sia richiesto di impegnarsi nelle Amministrazioni pubbliche per le realizzazione di opere e servizi di interesse generale e sociale.
In Francia, il candidato Hollande propone il suo patto generazionale, promettendo 150.000 posti di lavoro per facilitare l’inserimento dei giovani nelle occupazioni e nell’azione del volontariato, con priorità per quelle impegnate nei quartieri popolari.

In Italia? In Italia raccogliamo le firme per i nostri giovani disoccupati e il Rinascimento italiano: siamo arrivati a quota 500 firme, con un enorme entusiasmo che potete verificare dai tantissimi commenti sul post.
Ora aspettiamo di arrivare a quota 1000 e poi chiederemo al Governo ed al Paese, di andare oltre la proposta di flessibilità in entrata ed uscita, e di mirare a ideali e speranze che restino.

Per tirare fuori il re in ognuno di loro.

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Quella Grecia così simile all’Europa

Siamo così diversi dalla Grecia, noi europei? Il loro settore pubblico è così scandaloso? Uno studio recente di 8 ricercatori della … Banca Centrale Europea, sembra dire tutt’altro. Specie se poi confrontiamo le performance del pubblico con l’andamento delle dinamiche salariali nel settore privato, questione decisamente rilevante per una comparazione più informativa.

Rubens, Il supplizio di Prometeo

In Italia l’occupazione nel settore pubblico è leggermente inferiore a quella greca, 27% da noi contro 29 da loro, ma ambedue sono a livelli ragionevoli: è del 38% in Belgio.

Decisamente di più, sia nel privato che nel pubblico, i laureati greci rispetto a quelli italiani ma nel settore pubblico la differenza è più evidente: 56% in Grecia, 34% in Italia. Uguale la percentuale dei part-time ma decisamente superiore il numero di dirigenti nel settore pubblico italiano: 26% contro 18%.

Quanto a età media dei lavoratori pubblici, siamo lì: maggiore che nel settore privato in ambedue i paesi, 44 in Italia e 41 anni in Grecia. Il numero di ore lavorative settimanali è praticamente identico.

I salari medi sono più alti nel settore pubblico che non nel settore privato: i salari medi pubblici netti orari greci, malgrado siano più bassi che in Italia (10 euro contro i nostri 12), sono più alti di quelli prevalenti nel settore privato: del 55% in Grecia contro il nostro 42%. Ma se guardiamo al guadagno complessivo medio annuale (che tiene conto delle ore lavorate) di 19000 euro in Italia contro i 15000 in Grecia, tali differenze si stemperano (ovviamente, perché nel settore privato si lavorano più ore) con un “premio per il pubblico” del 27% greco contro il 22% italico. Per riferimento: 18% il premio tedesco per i dipendenti pubblici che hanno un pagamento medio pubblico annuale netto di 23.000 euro.

Questi numeri sono difficilmente paragonabili, vista la diversa composizione della forza lavoro nei vari paesi, il loro livello di istruzione, il settore pubblico in cui lavorano ecc.

Una volta che teniamo conto di tutte queste differenze, emergono 3 gruppi di paesi, divisi per la generosità delle paghe mensili rispetto a quelle del settore privato.

Gruppo A, i “privatisti”: Belgio e Francia (ebbene sì, la Francia del pubblico d’eccellenza) che hanno paghe mensili  pressoché simili tra settore privato e pubblico;

Gruppo B, gli intermedi: Austria, Italia e Portogallo;

Gruppo C, gli “statalisti”: Spagna, Irlanda e … Grecia e Germania, quest’ultima con un premio per i salari pubblici del 15% contro il 16% greco.

Non pare dunque essere, il settore pubblico greco, questa grande anomalia. Ha una presenza dell’occupazione pubblica importante  ma non  diversa da tanti altri paesi. Ha meno dirigenti di quelli che abbiamo in Italia malgrado abbia tassi di scolarizzazione universitaria migliori dei nostri. E il settore pubblico non pare trascinare verso una peggiore competitività il settore privato greco, visto che il premio salariale è in linea con quello tedesco.

Certamente il problema greco è quello di una scarsa competitività complessiva (in parte dovuta ad una eccessiva centralizzazione della contrattazione collettiva). Ma a guardare i numeri, il crescente peso del “pubblico” nell’economia greco che tante critiche sembra attirare è dovuto a qualcosa di ben altro: al crollo del denominatore, ovvero al crollo del PIL e dell’economia, dovuto a politiche di austerità e di dissennate connivenze internazionali nel settore bancario emerse con la crisi (il ROE delle banche greche è passato dal 15% circa del 2005-2007 al -1,5% del 2009). E al fatto che, per fortuna, quando l’economia crolla il settore pubblico, come avviene in ogni paese del mondo, crolla più lentamente svolgendo una funzione di assicurazione.

Peccato, dicono i dati. Ce la siamo giocata proprio male, l’occasione di aiutare la Grecia e con essa noi stessi.