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An irrelevant debate for the Sad Europe?

Euro zone finance ministers agreed on Friday on a temporary increase in their financial rescue capacity to prevent a new flare-up of Europe’s sovereign debt crisis, but markets may judge it too small to be convincing. Austrian Finance Minister Maria Fekter said the 17-nation currency area would combine two rescue funds for a year to make more money available in case of emergency. Reuters today

The big debate today: 500 bn. euro? 800? 1000? 2000? How much money do we need to save the banks… sorry, the euro, in case of trouble? Sad Europe. Sad. A Europe that when employment support is needed talks about making firing easier. A Europe that when demand-boosting policies are needed talks about sacrifices and austerity. A Europe that when confidence is needed talks about how to save investors from default. A bunch of inconsolable widowers lead the Continent with their embedded pessimism.

Tamara de Lempika, La Vedova, 1924.

But pessimism apart, here is the true reason why the debate on the size of rescue funds to be provided might turn out to be totally irrelevant. Simply read the rules of the game establishing the European Stability Mechanism:

If indispensable to safeguard the financial stability of the euro area as a whole and of its Member States, the ESM may provide stability support to an ESM Member subject to strict conditionality, appropriate to the financial assistance instrument chosen. Such conditionality may range from a macro-economic adjustment programme to continuous respect of pre-established  eligibility condition.

If a decision pursuant to paragraph 2 is adopted, the Board of Governors shall entrust the European Commission – in liaison with the ECB and, wherever possible, together with the IMF –  with the task of negotiating, with the ESM Member concerned, a memorandum of understanding  (an “MoU”) detailing the conditionality attached to the financial assistance facility. The content of  the MoU shall reflect the severity of the weaknesses to be addressed and the financial assistance instrument chosen.

So, let me explain if it is still not clear. You, country A, are in trouble. You will get assistance from us only if you do what we tell you. Great. There is only one problem: country A is in trouble because so far it has been doing what told, i.e. austerity, with the help of the same guys that will be in charge of deciding the financial assistance package.

If it must do more austerity to get the funds, better not get the funds and do growth policies by boosting spending and demand!

The only chance would be to have an IMF-led process, since recently the IMF seems to have been discovering the virtues of keynesian expansive policies in a recession to improve stability prospects. But, even there, I would not rely too much on the IMF impact in a matter where the European Commission will want to be the lone (sad) ruler.

So, 1000 bn or 2000 bn assistance is irrelevant. What matters is if these bn are to be spent for joy and opportunities or for sorrow and sacrifices. If for the latter, yield spreads will never go down, no matter how much money you will pour-in, since as we know country conditions will worsen, as they have all over the past (austerity-driven) year.

And we will sing, remembering the famous song: Bye bye happiness, hello loneliness, I think I am going to die. 

Thank you Ale.

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Salviamo gli Ambasciatori d’Italia

 Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. Napoli è l’altra.

Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta.

Curzio Malaparte, La Pelle.

Ecco, all’articolo di Cécile Allegra sul quotidiano francese Le Monde di oggi che mi capita quasi per sbaglio di leggere sull’aereo che mi riporta a Roma, manca solo il riferimento al meraviglioso libro di Malaparte. Allegra si inerpica nei vicoli della nostra Napoli. E mostra che il quadro che di Napoli dipinse appunto Malaparte alla fine della guerra mondiale, di un misto poetico e grottesco di degrado morale ed  umanità che caratterizzava allora la città campana, non si è modificato di molto.

Il sottotitolo dell’articolo: “migliaia di ragazzi hanno abbandonato la scuola e lavorano illegalmente per far fronte alle loro necessità ed a quelle della famiglia. Nell’indifferenza quasi generale.”

Come Gennaro, 14 anni, che lavora  in nero a meno di 1 euro l’ora, guadagnando al massimo 50 euro a settimana. La madre dice che mai avrebbe immaginato di levarlo da scuola: lo sveglia all’alba per farlo arrivare a tempo dal fornaio dove ora lavora. L’altra figlia ha 6 anni e, morto il padre, si è dovuto scegliere: “non ho i mezzi per pagare i libri a tutti e due: o era l’uno o era  l’altro”. Sul tavolo di cucina, continua la corrispondente del Monde, un pane di segale a lunga conservazione che costa solo 5 euro, prodotto degli anni della fame del dopo guerra”. Eccolo, Malaparte.

Dal Comune di Napoli i dati arrivano chiari: sono 54 000 in tutta la Campania ad avere lasciato la scuola tra il 2005 ed il 2009, 38% di essi con meno di 13 anni.

Dal 2008 le successive finanziarie hanno portato ad una crisi nel sostegno ai giovani più poveri. E il paradosso è che l’allungamento della scuola obbligatoria a 16 anni, provvedimento utile se non lasciato fine a se stesso, dice Allegra, ha spinto alcuni a lasciare la scuola ancora prima. La Camorra rimane la seconda opzione.

Nel quartiere Barra, “vero e proprio supermercato della droga” riescono ad entrare in pochi della squadra degli educatori. Come Giovanni Savino, del Tappeto di Iqbal, associazione che prende il nome dal ragazzo schiavo pachistano che si è rivoltato ed è stato per questo assassinato. Giovanni Savino, continua l’articolo, “è arrabbiato, con i camorristi, con un sistema scolastico fatiscente, con lo Stato che abbandona questi ragazzi: dalla crisi ad oggi il fondo per l’aiuto sociale è stato ridotto dell’87%, da 2 anni i 20000 educatori campani non vengono pagati e si indebitano per lavorare”.

Seduto accanto a me sull’aereo che vola da Francoforte a Roma siede Matteo, un giovane romano di 16 anni, dallo sguardo pieno di vita e curiosità. Ha lasciato quasi per caso la scuola romana per avventurarsi per un anno di scuola tedesca presso una famiglia. Sta dibattendo con i suoi genitori sul cosa fare alla fine di quest’anno. Non sa più se vuole tornare. “La scuola qui in Germania è un’altra cosa. E’ attiva e non passiva, i docenti ci danno fiducia e ci fanno dibattere da pari a pari. E poi, la Germania mi ha accolto, mi aspettavo rigidità ho trovato apertura. Mi sento come l’Ambasciatore d’Italia, so che se faccio bene contribuisco a modificare gli stereotipi sugli italiani dei tedeschi. Lo vedo già che sta succedendo.”

Matteo è stato fortunato di avere dei genitori che si sono sacrificati per questo, anche (ma non solo) perché potevano farlo. Paola Rescigno, la mamma di Gennaro, non poteva.

Non è più tempo di infiltrarsi dentro Barra come degli intrusi. Barra è nostra. E ci spetta riprendercela, in tutto il Meridione d’Italia. Sì, scusate se insisto, con risorse e determinazione. Non è una cosa brutta, non è un sacrificio, è una grande opportunità di sviluppo e di civiltà. Il declino è a un passo, il riscatto pure.

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Viva l’IVA che non toglie e abbasso la stupida austerità

Non è vero che se non abbassiamo la spesa pubblica (per i vari motivi visti ieri) non è possibile ridurre le tasse sui fattori della produzione e tramite questo effetto stimolare a breve ulteriormente la produzione e l’occupazione.

Per esempio spostando il carico fiscale dalla tassazione su lavoro (specie i contributi lavorativi a carico dell’impresa) verso la tassazione dei consumi (che è anche in parte un favorire i risparmi). Cose note.

Ma un bel lavoro scientifico di due ricercatori del Fondo Monetario Internazionale uscito pochi giorni (anche sui quaderni NBER) contribuisce a capire meglio la posta in gioco.

Ne sintetizzo i 10 punti chiave qui sotto.

1)    Si può pensare ad un passaggio via dai contributi lavorativi verso l’IVA come ad una svalutazione? Sì. Se si assume che i lavoratori negoziano il salario al netto dei contributi questi non chiederanno un aumento dei salari a fronte di una riduzione dei contributi stessi e ciò permette alle imprese di vendere gli stessi beni ad un prezzo più basso, aumentando la loro competitività anche esterna (con tasso di cambio fisso). Combinato con un aumento dell’IVA ciò rende anche rende le importazioni più care. Insomma, una svalutazione competitiva. Che tuttavia non riduce il valore delle attività finanziarie per chi detiene titoli in euro.

2)    Ma c’è un ma. Se si combinano aumenti di IVA con riduzione degli oneri contributivi, tale aumento riduce il potere d’acquisto dei salari. E’ pensabile che i sindacati rimangano muti al riguardo? Per almeno un po’ sì, ma certamente non possiamo pensare ad un effetto di lungo termine sulla competitività. Di breve, forse. E Dio sa se abbiamo bisogno di un breve termine più sereno. Inoltre, altro ma, se tutti i paesi dell’area euro facessero questa “svalutazione” è ovvio che i vantaggi per ogni singolo paese si ridurrebbero rispetto ai numeri al punto 3).

3)    La verifica empirica dà risultati sorprendenti, ma validi solo per l’area euro: l’effetto combinato di più IVA e meno contributi a carico delle imprese (che lasciano invariato il deficit pubblico) di 1% di PIL comportano un forte miglioramento della bilancia commerciale estera del Paese (dell’area euro), di circa il 3% del PIL nel breve termine! Ma c’è di più: il breve termine è lungo nell’area euro: 3 anni e mezzo dopo tale manovra il miglioramento sarebbe ancora dell’1,75% di PIL.

4)    Per generare (area euro) spostando 1% di PIL di carico fiscale dai contributi all’IVA (senza avere impatti sul deficit pubblico) sarebbe necessario aumentare l’aliquota IVA del 2,5% e ridurre quella contributiva del 2,9%.

5)    Questa manovra ha importanti effetti redistributivi che vanno spiegati bene ad un politico per capire se avrà la volontà di farlo. C’è un forte vantaggio in termini di minore disoccupazione ma un forte taglio, per esempio, al valore reale delle pensioni.

6)    Vi è un accordo non formale tra paesi dell’Unione europea a non superare quota 25% nell’IVA. Dal 2009 al 2001 13 dei 27 paesi UE hanno aumentato l’IVA. Forse aggiungo io, sarebbe bene pensare a differenziare gli aumenti di IVA (legati a riduzione dei contributi) negoziando a livello europeo che tali incrementi siano concessi ai paesi euro-med (Italia compresa) attualmente alle prese con una grave crisi indotta anche da scarsa competitività via export.

7)    Quale è l’efficienza dell’IVA? Viene misurata da un rapporto, tra il gettito conseguibile con una data aliquota e quello effettivamente conseguito. In Europa l’efficienza nel raccogliere l’IVA è più bassa che altrove ed in Italia di più che in Europa (peggio di noi nello studio: Messico e Turchia). Se l’Italia fosse efficiente come la Francia, per esempio, le entrate IVA crescerebbero dello 1,2% del PIL! Ma come accrescere l’efficienza della raccolta?

8)   L’efficienza nella raccolta dell’IVA dipende da 3 fattori: da una parte vi è il rispetto del pagamento da parte del contribuente (compliance) e dall’altro il disegno imperfetto da parte della legislazione (policy), a sua volta scomponibile in presenze di deduzioni (exemptions) e mancanza di uniformità di applicazione (differentiation). Nell’UE a 15, l’Italia spicca per mancanza di rispetto di pagamenti (siamo secondi solo alla Grecia), ma anche quanto a gettito perso per deduzioni e mancata uniformità non siamo malaccio (vedi grafico, più basso il numero minore l’efficienza).

9)   Ma le deduzioni su particolari beni o servizi, si dice, è fatto per evitare impatti regressivi sui più poveri. Siamo sicuri? Se tassiamo meno di IVA il pane, chi ottiene maggiore reddito i poveri che mangiano in proporzione più pane o i ricchi che spendono in euro più per il pane anche se all’interno della loro spesa il pane pesa percentualmente di meno? Ovviamente i ricchi. I poveri, è il parere degli autori, è meglio aiutarli con misure specifiche indirizzate a loro soltanto.

10) Gli autori del FMI si preoccupano (beati loro) anche di verificare che uno spostamento della tassa sui consumi non sia troppo recessiva in questo momento e non abbia l’effetto opposto a quello a cui la manovra mira, e cioè aumentare il PIL subito. Lo considerano un effetto marginale.

Insomma, la ripresa non è depressa dal fatto che la spesa pubblica non scende per 2 motivi: perché la spesa pubblica stimola la domanda in questo momento di crisi e perché a parità di spesa pubblica uno spostamento (neutrale in termini di gettito) verso l’IVA (ma non a parità di altre tasse come ha fatto questo Governo) e verso minori contributi a carico delle imprese aumenta il PIL e l’occupazione e dunque riduce deficit su PIL e debito su PIL.

Possiamo per favore darci da fare?

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La riforma numero 1 di Mrs. Thatcher e Mr. Blair.

Abbassare le tasse non serve all’Italia, con buona pace del bravo Luca Ricolfi.

Non darà una grande spinta alla domanda aggregata: imprese e famiglie eviterebbero di spendere i ribassi di imposizione, pensando così di affrontare un futuro oscuro e contribuendo a renderlo ancora più buio.

Ma forse a Ricolfi non interessa tanto questa crisi (come a tanti d’altronde) e pensa al medio periodo, quello in cui non tutti ma tanti saranno morti. Allora sì che la tassazione e la sua struttura contano nell’influenzare la crescita, non ne dubito. Ma in che direzione?

Meno tasse più crescita? Non credo proprio. Le nostre aziende hanno bisogno per essere competitive di quello che tanti altri Paesi rivali annoverano tra i loro migliori fattori produttivi. Quale fattore? Lo Stato. Già, lo Stato con la sua spesa, per stipendi e per acquistare beni pubblici. Francia e Germania per esempio, ci massacrano quanto a capacità di supportare le loro aziende con la macchina pubblica, direttamente o indirettamente.

Ridurre le tasse per avere meno Stato fa male alle imprese? Credo che possiamo provocare a sufficienza affermandolo con una buona dose di convinzione.

Ma lo Stato in Italia non funziona!

Certo, per questo facciamo le riforme, per cambiare le cose. Se cambiamo (con vantaggi che rasentano lo zero) i mercati dei beni e servizi con le liberalizzazioni e il mercato del lavoro con l’art. 18, non vale la pena riformare il fardello più penalizzante che ci impedisce di rilanciare le nostre imprese?

Se l’obiettivo è chiudere lo Stato non solo l’economia crolla a breve (con conseguenze permanenti sui perdenti) ma anche a lungo, e le imprese lo sanno.

E questo Governo – come molti dei suoi predecessori – poco sta facendo per far sì che quella spesa pubblica così essenziale si cominci a trasformare in valore per le imprese e per i cittadini. Certo ci vuole tanto tanto sforzo, ma il problema è che non vediamo in giro né la Thatcher né il Blair che hanno saputo (in modo diverso ma complementare) rivoluzionare la P.A. britannica – cadente e burocratizzata – facendone il volano della ripresa e dell’affrancamento dal declino in cui versava l’Impero.

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Yes, Mrs. Thatcher loved the Public Service

Let us never forget this wonderful speech by Mrs. Thatcher (thank you to Giordano). Listen to it first.

 

I use it since my colleague Fausto Panunzi seems to think that I am (a bit?) crazy saying that Mrs. Thatcher and Mr. Blair greatest joint reform has been – together and complementarily – the one of improving the quality of the public sector away from a bureaucratic bunch (1970s) to a team of workers that supports British firms development and strives more than any other government for the well-being of its citizens.

It is true that Thatcher during her mandate reduced public spending over GDP from 43% to 34% (some of that, almost 2%, was due to lower interest expenditures, due to inflation and debt reduction).  It is also true that public spending is today in the UK at 45% of GDP (most of it due to the crisis and to smart public spending during it). Are we thus back to where we were before? No way. The quality of the British public sector, its productivity, has dramatically improved since the 1970s  (even though official statistics I could find start in end 1990s only).

Mrs. Thatcher herself puts it beautifully in her speech, where she destroyed the concept of public money and shifted to the one of taxpayers’ money, the move that made the concept of accountability in the public sector rise again, after many years of wrong Labor policies:

“How much of your money should be spent by the State, is one of the great debates of our times …”. She set the stage to destroy public waste, as she did, in the bloated public sector of the time when she says that: “prosperity will not come by inventing more and more lavish expenditure programs, by taxing citizens beyond their capacity to pay”.

But Mrs. Thatcher did not think that the public sector was irrelevant. To the contrary. She pretended a lot from it:

 “We have the duty that every penny we raise in taxation is spent wisely and well…. Protecting the taxpayers’ purse. Protecting the public services. These are the two great tasks and their demands have to be reconciled”.

Mrs. Thatcher did not want the public sector destroyed, she wanted it first and foremost functioning. And also smaller. The first goal pertained to her duties of a leader, the second to her beliefs. When Blair came to power, he did not move away from the concept of having a functioning public sector that would fight waste. He simply increased the focus on the size of government (3 or 4 points larger in terms of GDP on average than the Thacher one) because he had different beliefs.

Nothing is more indicative of their differences than the different stance they had in public procurement matters. The first would only do price-only tenders, the second would also reward quality features and pushed less for price competition.

But both of them shared the view that waste was intolerable, whether government was smaller or bigger.

Why do I say that both of them together were the great reformers of the British public sector? Because there would have been no Blair without Thatcher first, with her capacity to fight to death against rents and waste in the public sector not listening to anyone that would try to dissuade her. Blair was able to add greater weight to the public sector in the economy, but only because Thatcher had changed it forever. At that point and only then the excesses of the Thatcher era could be credibly cancelled. Had they planned it, they couldn’t have done it better.

The reductions in the size of Government that are currently asked in the European Union have nothing to do with a vision of discussing and facing as Thatcher said “one of the greatest debates of our times”. They are done to cut numbers for accounting purposes, claiming the existence of an emergency, without any interest in the quality of what is provided.

This kind of reduction of public spending destroys little or no waste and reduces only what Thatcher called the essential “public services”. It is also for this reason, and not only for the obvious recession-motivated needs, that cutting spending in Europe right now should not be allowed, whether you are a left winger or a right winger.

Let Europe allow the rise of leaders that have a vision, and then we will be able to discuss government cuts, their size, their meaning. Or, for that matter,  if taxpayers will agree, for public spending increases.

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L’isola di Arturo.

Meraviglioso Messico.

Non sapevo che Città del Messico fosse stata una isola, a suo tempo. In cui gli Atzechi affinavano la loro arte di guerrieri. Prima di esserne cacciati via dagli spagnoli, che cancellarono quasi ogni testimonianza della loro esistenza.

Me lo racconta Arturo, l’autista quasi settantenne che mi porta in giro per l’enorme metropoli, poco più vasta di Roma, con il triplo degli abitanti.

Molti di loro si inerpicano lunghe le colline che circondano la Città, abitanti di piccole case senza fogne, acqua e poca elettricità. Molti di questi la mattina si inoltrano nel centro città per lavoretti marginali. “Tanto le aziende in  periferia danno 57 pesos al giorno (3,5 euro), non vale la pena darsi il disturbo di chiedergli un lavoro”, dice Arturo. Mi racconta di quando alla fine del XIX secolo, prima della Rivoluzione, presso le Tendas de Raya i lavoratori erano costretti a trasformare i loro salari in fame acquistando quanto venduto loro dai padroni, grano e alcol. Raya significa riga, per la riga che tracciavano i lavoratori analfabeti per firma di ricevuta.

Non c’è speranza né rabbia né umiliazione negli occhi di Arturo. Un distacco perfetto, sereno. Dei suoi antenati indigeni di 2000 anni fa, gli Olmec, ammira sincero il loro essere stati guerrieri. Ora anche io combatto, mi dice: il traffico quotidiano in macchina. Parla degli 82.000 più ricchi (ne conosce il numero come quello del suo cellulare) come diversi dai restanti 120 milioni: “non sono messicani” dice convinto e comunque anche se lo fossero “non sono felici come noi, perché devono vivere costantemente sotto protezione”.

Lungo le casette strette strette pare si inerpichino quotidianamente dei camion cisterna con 8000 litri d’acqua ognuno. La portano, su prenotazione, dopo 4-5 giorni agli abitanti che ne fanno richiesta. Costa poco, sussidiata dal Governo che non tassa i proprietari delle casette.

Non che ci riuscirebbe. Qui vengono chiamati paracaidistas, paracadutisti, persone molto povere che costruiscono su terre che non gli appartengono. Arrivano spesso in gruppo per rendere più difficili le operazioni di evacuazione da parte delle autorità. Cascano a gruppi, come paracadutisti buttati giù dal cielo verso un destino certo di povertà.

Il Messico è ancora vasta disuguaglianza, malgrado piccoli miglioramenti, quella stessa che portò alla Rivoluzione un secolo esatto orsono, anno più anno meno. “Ci promisero un PC per ogni studente nelle scuole”, racconta Arturo del perché il partito progressista PAN perderà le prossime elezioni questa estate, per far tornare il sempiterno partito conservatore PRI: “in realtà dovevano far arrivare prima l’elettricità”.

Arturo attraversa veloce l’Avenida de Insurgentes. Il viale degli insorgenti, non degli insorti. Un participio presente che mi piace. Che racconta di una rivoluzione non ancora portata a termine.

La questione chiave universale rimane, come suggerisce Milner, “di fronte alla riconciliazione dei notabili ed alla solidarietà tra i più forti, come fare in modo che il debole abbia poteri?”. Dei poteri, non il potere, così ardua è la questione.

Per rispondere alla domanda bisognerebbe prima rispondere a queste due. Come si trasforma nuovamente un guerriero in un insorgente? Come paracadutare quei milioni, invece che nei loro ghetti senza speranza, al centro delle piazze pulite e decorose a loro vietate?

Sono domande che ci paiono lontane, ma in un qualche modo, le sento universali anch’esse.

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Parachuting the Warriors

There is no traffic today while our car drives with ease toward the outskirts  of one of the largest metropolis of the world to take me to the Pyramids of Teotihuacán, the first metropolis of the Americas. Its name was given to it by the nobles and meant “there where men become gods”.

“I must thank you Sir, for taking you around Mexico City. You just spared me washing dishes for the Sunday. Let’s roll!” Please welcome Arturo, my Mexican driver for the day, nearing retirement. “Distant? No, we do not go distant. You Italians are always asking that, why is it?”. Yes, it was distant for me. But I will learn quickly. Distant in Mexico means else.

At the end of our day around Mexico City Arturo will take me to look at the colossal head of an Olmec, the first major civilization in Mexico, at the entrance of one of the aisles of the remarkable Museum of Anthropology (see picture). Just to proudly ask me if I notice how much resemblance his gentle face has with the one of the warrior. “I fight like him, in the traffic, everyday,” he tells me.

Teotihuacán and its Pyramids. 2000 years ago the population lived below in the valley, while we tourists are allowed today to climb slowly the 360 stairs to the top of the amazing Pyramid of the Sun (the third largest in the world), like the priests would do then.

The distance to honor the Gods did not get lost with the arrival of Christianity and the Spanish domination. Arturo points at a Monastery near the road, built centuries ago: “See that beautiful Church, there? We call it an open chapel. You know the priest at the beginning tried to get the Indigenous inside the chapel for Mass, but we (yes, Arturo said “we”) did not want to go in. We believed we needed to respect God by not getting too close. So the priest, smart guy, decided to use the terrace, where he would give Mass from the top and the Indigenous would listen to him, outside of the church”. Distant, but close.

I am tempted to think that this is still true today when I enter the huge new Basilica of Guadalupe accommodating (according to Arturo) 10.000 people (the beautiful and unstable old one attached to it, dating back to the XIV century, does not accommodate more than 500). The number of people listening to the homily is astonishing, possibly 5000. And the priest is there, far away, at the top of the stairs that remind me of the 360 ones that I had to climb to reach the top of the Pyramid of the Sun. The right amount of distance to be fully near to them, I think.

But Mexico City talks to me of another pyramid and another distance, different and similar to the ones I just told you about.

The gentle hills that surround the capital, that made settling here over the centuries easier for migrant civilizations, do not exist anymore. They are quickly disappearing under the infinity of small, poor-looking houses that have incessantly been built with no authorization by the millions that decided to rush toward the city to find a job in these past decades. The density of these modern pyramids is so astounding that I ask Arturo if there are streets for cars that pass through them.

“Oh yes, he answers. They are large enough to have the trucks with water pass every day.” Which trucks, which water. “Oh, there is no water and no sewage system. So everyday trucks carrying 8000 liters of water stop and provide water for all families, how much depending on the number of inhabitants. 8000 liters for water heavily subsidized by the Government. When the water is finishing you go down to the police station and you book it. In 4-5 days it arrives”.

They are called paracaidistas, parachutists.

In Mexico, we use the term “paracaidistas” to refer to people who build their houses/shelters/huts in land that’s not theirs. “Paracaidistas”, who are mostly very poor people, most times arrive in groups so as to make evacuation procedures more difficult to authorities.

Paracaidistas. A great philosopher, John Rawls, once spoke of the veil of ignorance where  ”…no one knows his place in society, his class position or social status; nor does he know his fortune in the distribution of natural assets and abilities, his intelligence and strength”. Not the Paracaidistas, parachuted from the Gods below, but destined to poverty, knowing everything about their fate ahead of time.

They are at the top of the pyramid, yes (the poorer you are, the closer to the top of the hill is your house, more and more distant from basic public services), closest to the Gods, maybe, but, unlike the priests of the pyramids or churches, absolutely powerless.

The distance is so amazing that it becomes infinite, i.e. irrelevant. “These 82 thousand, the richest ones, they are not Mexican like the remaining 120 million” Arturo tells me smiling. “Rich people – Mafia leaders, politicians entrepreneurs – are afraid and need to buy security for themselves to be protected. We do not, we are happy”. Distance so big one does need to feel the urge to bridge the gap.

Inequality. Of a strange kind. Of a dignified kind, that does not beg or betrays humiliation.  But inequality all the same. “57 pesos per day (5 dollars) at the factory makes it hard for a living, better to wash car windows in the city”, says Arturo. Not much seems to have changed from the days before la Revolución when workers were forced to spend their wages in the local Tendas de Raya to buy what sold by the owner of the firm, corn and alcohol.” Raya means “line” for the line that illiterate workers would trace as a signature in receiving the goods.

The car passes the Avenidas where the purple of jacarandas gently caresses the beautiful villas of the richer ones. Yes, we also pass Avenida de Insurgentes. The Insurgentes. I love this word. The insurgents. Those that fight against oppression. Better: those that do not stop fighting against oppression. Always. Relentlessly rebelling.

Where are the Insurgents? I do not see one in the gentle eyes of Arturo. But I see the warrior in him, the pride.

What does it take for a Warrior to become Insurgent again? What? When will the Warriors be parachuted by the Gods in the rich downtown and cancel distances once again? When? When will all men, and not only the noble ones, become gods? When?

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Mangiate la torta, che fa bene. E dite NO ad Olli Rehn.

Non puoi aver la torta e mangiartela. E’ tutto relativamente fragile e dunque la Spagna deve confermare i suoi obiettivi per evitare ogni peggioramento in termini di costi d’indebitamento.” “You cannot have the cake and eat it,” Mr Rehn said. “This is still relatively fragile, and therefore Spain needs to stick to its targets in order to avoid any setbacks in terms of its borrowing costs.”

 

 

Era il Commissario europeo Olli Rehn spinto dai giornalisti del Financial Times a rispondere sul concedere alla Spagna più spazio per maggiore deficit  pubblico a causa del peggioramento dell’economia.

La torta. Da mangiare. Interessante questa immagine del Commissario Rehn. Tradisce: a) un modo di parlare come quello di un papà ad un bambino (la Spagna) e b) una idea che il bambino è o discolo o grassottello o forse solo un bambino un po’ incapace di controllarsi.

Forse l’idea è che dopo averla mangiata, la torta, si sta peggio col mal di pancia (spread più alti?). Insomma, Olli Rehn come un buon padre di famiglia?

E se la torta invece fosse buona per il ragazzo e lo rendesse felice? Allora evidentemente Olli Rehn farebbe la figura del sadico (c’è una torta lì che ti fa bene ma io te la nego).

Buon padre di famiglia o sadico?

Lasciamolo decidere ad altri. Ma prendiamo per farlo persone che non possono essere accusate come me di rigidità ideologica keynesiana. Per esempio il Direttore presso il Fondo Monetario Internazionale degli Studi Fiscali, Carlo Cottarelli.

Di sicuro, i mercato non amano debiti e deficit pubblici alti, ma non amano nemmeno bassa crescita. Guardate al recente declassamento dei rating di molti dei paesi europei. Sono stai causati da meri problemi fiscali? No. Guardate alle parole utilizzate da Standard & Poor’s: “un processo di riforma basato solo su un pilastro di austerità fiscale diventa autolesionista, perché la domanda interna cala, assieme alla crescente preoccupazione delle famiglie sulla sicurezza del posto di lavoro e del reddito disponibile, il ché erode le entrate fiscali”.

Parte del nostro lavoro al Fondo Monetario Internazionale mostra questo punto con chiarezza. Dimostriamo come debiti pubblici e deficit pubblico su PIL più bassi portano sì a minori tassi d’interesse, ma così fa anche una crescita di breve termine più veloce. Così,  quando i paesi conducono politiche fiscali più restrittive e l’economia rallenta, parte dei guadagni di migliori fondamentali fiscali si perdono a causa delle minore crescita. Scopriamo anche di una relazione non lineare tra crescita e spread sui titoli. Gli spread hanno più probabilità di salire quando la crescita è già bassa e l’austerità fiscale si fa forte. Se la crescita scende abbastanza a causa dell’austerità, i tassi d’interesse potrebbero salire  mentre scende il deficit”.

Mmmm. Insomma la torta è buona, fa bene alla salute e Olli Rehn tutto pare meno che un buon padre di famiglia.  E noi dovremmo seguirlo perché, come dice Cottarelli, siamo autolesionisti? Insomma una relazione sado-maso blocca il futuro dell’Europa?

Per favore, dite NO a Olli Rehn, siete grandi abbastanza per farlo.

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La spending review è invisibile

“Lo studio Astrid rivela, per esempio, che nel 2009 le convenzioni Consip non arrivano al 2% della spesa per beni e servizi, quando è dimostrato che alle pubbliche amministrazioni il metodo delle aste online garantisce una economia media del 20%. E siccome lo Stato spende ogni anno per questo capitolo 140 miliardi, una decina almeno se ne potrebbero facilmente risparmiare utilizzando in modo serio il sistema della centralizzazione informatica degli acquisti.”

Un po’ di imprecisioni e qualche rischio da questa frase tratta dall’importante editoriale di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera di oggi.

Detto che non sono le gare on-line a generare risparmi (molte gare Consip, la stazione appaltante che aggrega la domanda pubblica interamente controllata dal Ministero dell’economia, sono fatte con i metodi tradizionali), è vero che i risparmi ci sono stati eccome. Le cifre che indica Rizzo, risparmio del 20%, sono validate da studi molto rigorosi.

Tuttavia centralizzare ulteriormente le gare maggiormente fa male, tanto male, a molte ottime piccole imprese. Non solo, riduce lo stimolo ad acquisire competenze all’interno di molte Pubbliche Amministrazioni che possono far meglio se lasciate da sole dato che conoscono meglio il mercato a loro vicino.

E comunque non ce n’è bisogno per raggiungere i risparmi del 20%. C’è una legge da anni mai applicata, per una inerzia tutta da addebitare al Ministero dell’Economia e delle Finanze, che prevede che le singole amministrazioni pubbliche possono procedere a farsi la gara da sé purché adottino come prezzo di partenza massimo quello di Consip. Nessuno ha mai mai verificato sistematicamente. Non credo esista nemmeno un ufficio presso il Ministero incaricato di ciò. Dovrebbe invece avere 50 dipendenti minimo, da sguinizagliare sul territorio con il supporto di Consip. Ma tant’è….

Perché il Ministero non vigila? E perché la Corte dei Conti non controlla su questo fatto? E l’Autorità dei Contratti Pubblici?

La Consip può invece, diventare lo strumento strategico immediato per centralizzare, come in Corea, non tanto le gare quanto tutta l’informazione su tutte le gare in tempo reale, a cui legare l’OK (del Ministero) per procedere alla firma di un contratto di appalto col fornitore. Ogni gara sarebbe così sorvegliata e monitorata, cosa che ogni paese civile dovrebbe saper poter fare. E si potrebbe quantificare il risparmio ottenuto e indirizzarlo ad un fondo speciale dedicato al taglio delle tasse o alla vera spesa pubblica addizionale per rilanciare l’economia italiana.

Fa bene Rizzo a prendersela comunque col Governo e con la spending review di Giarda che latita. Sarebbe ovvio dedicare tutte le forze della nostra amministrazione, piuttosto che a ridicoli viaggi a Bruxelles per incontri infiniti che ci portano alla fine solo a firmare lo Stupido Patto scritto dai tedeschi che rovinerà la nostra economia, a questa questione.

Tanti bravissimi giovani funzionari del Tesoro e di altri Ministeri stanno in questo momento lavorando su questioni minimali come impatto per il Paese mentre non gli si chiede di interessarsi a questione di primaria importanza come quelli della spesa. Tantissimi consulenti (e società di consulenza) di grande qualità sarebbero pronti ad aiutare per qualche spicciolo di centinaia di migliaia di euro il Governo a generare risparmi di miliardi di euro.

Vogliamo mettere anche questi aspetti all’ordine della invisibile spending review?

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Mexico!!!

Domani in viaggio per il Messico, spengo il motore. Ci sentiamo domenica.

Tomorrow travelling to Mexico. See you on Sunday.