THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Chi salverà gli imprenditori?

Oggi vivono una mera lotta per la sopravvivenza, sia dell’impresa che personale. Perché sono ormai molti – troppi, maledizione! -  gli imprenditori italiani piccoli e grandi che schiantano di vergogna al pensiero di andar male, di non poter restituire i debiti, di dover licenziare le persone con cui hanno lavorato fianco a fianco per tutta la vita. Non riescono a trovare il coraggio di dirlo a nessuno, spesso nemmeno alle loro mogli, e allora avviano a vivere una vita di finzione durante la quale sprecano i loro ultimi risparmi per mostrare una prosperità perduta da tempo, e questa imitazione di vita dura finché durano i soldi, ma poi arriva il giorno in cui letteralmente non ce n’è più, e allora finiscono per perdersi d’animo, per disperare, si abbandonano a pensieri cupi e aggrovigliati dentro l’azienda muta e senz’ordini, e nel momento più nero, soli, si tolgono la vita. Per il lavoro.

Edoardo Nesi, scrittore, Le nostre vite senza ieri.

Ho finito di leggere un lavoro di 4 psicologi americani che lavorano in università di prestigio. Il titolo m’intrigava: “Class and Compassion: Socioeconomic Factors Predict Responses to Suffering”, “Classe sociale e compassione: fattori socioeconomici spiegano le reazioni alla sofferenza”.

Come reagiscono le persone meno abbienti di fronte a minacce? Con due tipi di possibili comportamenti. In alcune situazioni con una ostilità maggiore, in altre – quando un’altra persona sta soffrendo o è bisognosa – individui più poveri ma che sono, è così, più attenti all’ambiente circostante, si mostreranno più empatiche verso coloro che soffrono di quanto non farebbero persone più ricche.

In parte già lo sapevamo. Ci sono tanti studi che mostrano come i meno abbienti sono più generosi dei ricchi: i dati sulla beneficienza dimostrano che la proporzione di reddito donata è più alta tra i più poveri.

Ma qui non parliamo di generosità, ma di compassione, empatia, per chi soffre. Né di tristezza, né di ansia. Un sentimento “sociale” di vicinanza. Che può rivelarsi importante nei momenti di sconforto nelle organizzazioni, nelle comunità.

Ci interroghiamo oggi chi può aiutare gli imprenditori in difficoltà di fronte ad una politica che fa finta di commuoversi ma pare di fatto indifferente. Alcuni sottolineeano le organizzazioni di supporto (Terraferma è un buon esempio).

Eppure potrebbero proprio essere i lavoratori a diventare prima soccoritori e poi salvatori dell’Uomo in difficoltà chiamato imprenditore. Ci sta.

Come per George Bailey, ne La vita è meravigliosa di Frank Capra:

Quando arriva il finale e tutti cantano Auld Lang Syne mi rimetto a piangere come ogni volta, perché proprio non reggo – non ho mai retto, a dirla tutta – a vedere il mondo rimesso a posto e quell’esercito di allegri perdenti che corrono ad aiutare George Bailey perché si ricordano che lui ha fatto loro del bene, e ognuno di essi – anche la negra! si stupisce qualcunoè felice di depositare una parte dei propri risparmi in un cesto di vimini per salvare George e la sua banca.

Edoardo Nesi, imprenditore, Le nostre vite senza ieri.

 

 

Post Format

¿Qué se puede hacer con 8,122 millones de pesos?

The slides that I cherished the most in Mexico City’s wonderful conference on Transparency and Integrity in public procurement  were presented by Dr. Javier Dávila Pérez, Head of the Unit of Public Procurement Policies in the Subsecretaría de Responsabilidades Administrativas y Contrataciones Públicas of the Government of Mexico, a wonderful man that believes that procurement is all about changing for the better peoples’ lives.

Ecco le slide che ho amato più di tutte alla bellissima conferenza messicana su trasparenza ed appalti pubblici. Sono tratte dalla presentazione del Dr. Javier Dávila Pérez, Capo dell’Unità degli Appalti Pubblici nella Subsecretaría de Responsabilidades Administrativas y Contrataciones Públicas del governo messicano, un uomo dagli occhi pieni di gioia e calma passione che crede che con gli appalti pubblici possiamo rendere migliore la vita dei cittadini.

They are poetry for me. He had previously said (slides not shown) that the Mexican Government had achieved 8,122 mn. of pesos of savings through good procurement. And then he asks, “what can you do with 8,122 mn pesos?”. Yes, what can you do with all these savings? Just watch. I won’t translate, the poetry needs a bit of effort from you to savor beauty.

Queste slides sono poesia. Nelle slides precedenti aveva appena finito di dimostrare come il governo messicano, grazie ad una politica efficace degli appalti (sconosciuta in Italia) aveva raggiunto 8,122 milioni di peso di risparmi. E si domanda “cosa si può fare con 8,122 milioni di pesos?”. Già, cosa si può fare? Guadate sotto. Non traduco, è poesia e merita di essere letta con tutta la lentezza del caso per assaporare la bellezza.

This is the one I like the most. Look at the bridge. The bridge of Mexico. Questa è la mia preferita, 8,122 milioni per unire due rocce e consentire la traversata. 20 centers for Culture. 20 centri per la Cultura.

Mexico! Messico!

It can be done. Si può fare.

Even in Europe. Anche in Europa.

Anche nel nostro bellissimo, stanco, Paese.

Post Format

Ricetta per la felicità dei Piccoli e del Paese.

Prendete 3 economisti. Non gli ultimi arrivati. Yale, MIT di Boston, Banca Mondiale.

Mandateli in Messico, a Puebla.

Fategli monitorare un piano di assistenza pubblica a piccole e medie imprese locali, finanziato con soldi dei contribuenti. Esso permette a 80 aziende sorteggiate di fruire di servizi di consulenza manageriale per 2 anni (incontri di 1 volta a settimana per 4 ore per ogni impresa), sugli aspetti operativi su cui l’azienda rivela essere più indietro in base alla valutazione di test standardizzati e della valutazione degli stessi consulenti.

Le micro imprese sorteggiate hanno pagato il 10% del costo della consulenza, le piccole il 20%, le medie il 30%. Il costo della consulenza non scontato era di circa US$57 orari in media, 11,856 dollari annuali ad impresa (4 ore per 52 settimane).

Fategli paragonare al termine del programma i cambiamenti di performance rispetto a quelli di un altro gruppo di imprese di settori e dimensioni simili, non aiutati dalla consulenza.

Ecco gli ingredienti. Il piatto che ne risulta? Sorprendentemente squisito.

80% per cento di più di vendite e 120% di più profitti per le aziende che ricevono supporto consulenziale. Grazie, soprattutto, ad aiuti su due funzioni chiave: marketing e finanza e controllo. Al termine del periodo di affiancamento salgono anche nelle 80 aziende l’auto-stima e la sicurezza del padrone-imprenditore.

C’è di più. L’esperimento essendosi svolto poco prima della crisi economica del 2008, è interessante domandarsi cosa sia avvenuto ai due gruppi di aziende durante la stessa. Ebbene: 89% di esse, aiutate o no dai consulenti, si sono dette colpite dalla crisi. Quando gli è stato chiesto come hanno reagito alla crisi, le risposte si sono differenziate proprio tra gruppi di imprese. Quelle che erano state aiutate dai consulenti si sono dimostrate di avere 8% meno di probabilità  di avere tagliato la produzione di quelle che non avevano avuto supporto consulenziale. Forse perché avevano più strumenti manageriali e strategici per reagire alla crisi?

Perché allora così poche aziende piccole usano servizi di consulenza? Forse non sono poche: forse quelle che non li usano non ne hanno bisogno e quelli che li usano sono quelli che più ne beneficiano come sembrano dimostrare i risultati. Ma allora, comunque, perché quelle che hanno tanto guadagnato da questi servizi non li prendevano prima? Ci avrebbero guadagnato, mostrano gli autori, eccome, anche pagandoli senza sussidio statale. L’evidenza mostra che molte aziende a cui erano stati offerti tali servizi, anche scontati, e li hanno rifiutati, hanno motivato la risposta dicendo che avevano problemi di liquidità. Ma anche questa risposta non spiega tutto: perché allora le aziende di consulenza non  si fanno pagare a risultato o le aziende si fanno prestare i soldi per pagare una consulenza che si ripagherà abbondantemente?

Forse c’è una ignoranza sul valore enorme che la consulenza può avere specie per le piccole imprese.

C’è dunque una risposta diversa, nuova, più fresca e ottimista al famoso nanismo delle piccole, che nulla ha a che vedere con l’art. 18 e la sua grigia riforma. “Il capitale serve, certo, ma bisogna saperlo usare … Ci vogliono capacità manageriali” per crescere dicono gli autori. Ma per acquisire queste capacità qualcuno te le deve insegnare. Il problema è che spesso non sai di non averle: mentre non avere credito il padrone lo tocca con mano, non avere doti manageriali non lo nota, è umano. E quindi non si domandano servizi consulenziali.

Ecco dove può entrare lo Stato con la sua mano potente. Negli Usa la famosa Small Business Administration, Ministero vero e proprio per la piccola impresa, si dà da fare anche per formare i managers delle micro e piccole, sovvenziandonandole con training appropriato.

Invece di licenziare capitale umano, aiutiamo il capitale manageriale, mi verrebbe da dire. Ma va là, mi dicono i piccoli imprenditori, chi ci pensa in questo Paese a noi piccoli?

Ecco un’altra prova che siamo un Paese di im-pari opportunità? No, ecco una nuova opportunità di sfidare il declino con attivismo e intelligenza di politica economica. Si può fare. Si può fare. Si può fare.

Post Format

La vera sfida per il sindacato è nella Pubblica Amministrazione

Introdurre flessibilità nel settore pubblico?

Questione non facile da risolvere. Dipende che tipo di flessibilità.

Nel settore pubblico maggiore possibilità di licenziare rende più forte il datore di lavoro, la politica, e apre una grande porta alla corruzione. Non solo, ma facilità di licenziare potrà poi portare ad una facilità ad assumere anche individui che appaiono meno bravi (tanto poi lo licenzio se non funziona…) che poi è … probabile verranno trattenuti nuovamente per motivi politici, con scadimento della qualità forza lavoro pubblica (vedasi il lavoro per la Sveiza “Job Security And Work Absence: Evidence From A Natural Experiment”, di Assar Lindbeck, Mårten Palme and Mats Persson).

Questione ben più importante appare quella del legame tra salari pubblici e produttività.

Questione importante non soltanto perché un rialzo “eccessivo” degli stipendi pubblici si riverbera su inflazione e rivendicazioni salariali nel settore privato, minando la competitività internazionale delle nostre imprese, ma anche perché incoraggia i più giovani a mettersi in fila in attesa del posto pubblico e a indebolire così il settore privato, e nuovamente, i suoi costi.

Il grafico (fonte Aran) vede una quasi uniformità raggiunta a fine 2010 tra retribuzioni private e pubbliche che farebbe pensare a una situazione non problematica. In realtà il grafico nasconde tre potenziali problemi.

Primo, a fronte di una minore incertezza lavorativa nel pubblico, dovremmo immaginare salari medi più bassi per il settore pubblico e non “uguali”.

Secondo, perché si nasconde una dinamica territoriale alquanto pericolosa. Nel Meridione infatti, a fronte di una uniformità delle dinamiche salariali pubbliche a livello nazionale, vengono erogati salari pubblici con maggiore potere d’acquisto che al Nord (a causa della diversa dinamica dei prezzi), mettendo in crisi ulteriore il settore privato meridionale già affaticato da una più bassa produttività di partenza. Mai pensato ad una rivoluzionaria gabbia salariale Nord-Sud nella Pubblica Amministrazione in base al costo della vita?

Terzo, perché rimane aperta la questione del legame con la produttività del dipendente, legame che fatica a emergere nelle tipologie contrattuali. Alcuni ruoli nella Pubblica Amministrazione, per i vantaggi o danni enormi che arrecano, dovrebbero vedere premi consistenti in caso di raggiungimento del risultato. E non è detto che in questi settori strategici sia difficile misurare la produttività o la qualità dell’azione pubblica. Penso agli appalti pubblici (come fa il Regno Unito da anni) o all’evasione fiscale, dove è pensabile introdurre misuratori di performance degli ispettori grazie alla disponibilità potenziale di dati, ed in cui un buon lavoro fatto porta a scoprire miliardi di euro di risorse. Penso all’università, dove qualità della didattica e della ricerca possono portare ricavi ingenti da iscrizioni di studenti stranieri a cui imporre una più alta tassazione per l’iscrizione.

Certo ciò significa introdurre premialità differenziate ed ampie a seconda dei settori e delle performance nella P.A.

Anni fa, lavorando al Tesoro, mi ricordo di un dirigente che doveva valutare uno scansafatiche, da tutti riconosciuto come tale, e mi diceva che aveva problemi a dargli 9 su 10. “Poi i sindacati mi massacrano”, mi disse.

Ecco parlare di qualità nella P.A. richiede ai sindacati di contribuire ad una nuova stagione che non deve essere basata su licenziamenti più facili ma su modalità premiali ben diverse da quelle ipocrite e inutili per le quali si sono battuti negli ultimi decenni. Di questo dovremmo chiedere conto a Camusso et Co.

Altro che art. 18.

Post Format

Inequality and Dishonesty by the Rich = Financial Crisis?

As you may recall, I mentioned the theory that the credit boom and bust of the late 1920s and mid 2000s might have been driven by rising inequality that pushed individuals that turned out to be non-solvent to borrow to keep consumption equal to the one of their solvent and richer peers. Inequality, in this idea, would explain both credit booms and busts. The graph below certainly entertains that thought.

As it occurs many times, thank God, I discovered not being the lonely one in this planet to have had this idea. In particular is was presented by Raghuram Rajan in his 2010 book, Fault Lines.

Now. Somebody worked on proving us wrong. And some smart guys too: Proff. Bordo and Meissner , who study empirically the phenomenon for 14 countries (Australia (1880-2008), Canada (1880-2008), Denmark (1891-2008), France (1886-2008), Germany (1889-2008), Italy (1880-2008), Japan (1894-2008), Netherlands (1906-2008), Norway (1880-2008), Spain (1906-2008), Sweden (1880-2008), Switzerland (1912-2008), United Kingdom (1886-2007), and the United States (1902-2008)).

Their paper is not yet published in a journal and we should exercise caution. Anyway let’s go to the point. They find (argue) that credit booms cause banking crises. So the key question that remains is, what causes credit growth: inequality? Other factors like innovations and upswings or monetary policy?

They end-up dismissing the view that increasing inequality drives credit booms. They find no such empirical relationship in the 14 countries. Indeed, for them inequality and credit booms might be created by a third factor, an economic upswing, but inequality did not cause credit booms:

For the 1920s, time series for the US show that the share of income earned by the top 1% increased from 15% in 1922 to 18.42% in 1929. Research based on top-incomes, as well as early work by Williamson and Lindert (1980), identify this as a period of rising income inequality. However, this rise in income inequality does not seem to be associated with any stagnation in real wages for the working class. Indeed annual income of nonfarm employees rose grew at an average of 1.89 percent or a total of 23 percent between 1919 and 1929. In addition, rises in the standard of living must have been even greater. Leisure increased in this period as the standard work week fell to 48 hours by 1929. The introduction of electrification, better indoor plumbing and a host of new consumer durables including automobiles, radio, washing machines and refrigerators, made home production more efficient and leisure more enjoyable. At the same time, as credit allegedly “boomed” in the 1920s, the economy grew largely above trend from 1923 up to 1929.

OK. Suppose they are right and that there was no “bad credit-demand boom” due to inequality here at work. My question is: are we sure that inequality plays anyway no other role in such crises? I ask this because I noticed that the 2 authors do not enquire as to why credit booms ultimately cause financial crises.

And then another idea came to mind (wow!).

It came when I read of recent experiments by Californian University of Berkeley psychologists that suggest that people who are socially and financially better-off are more likely to lie, cheat, and otherwise behave unethically compared to individuals who occupy lower rungs of the socioeconomic ladder (“We’re not saying you should distrust the rich, or the rich are corrupt,” says Piff. “Instead, this highlights the disparities in social environments  that different positions occupied give rise to almost natural tendencies and divergent social values”. “What accounts for this divergence? The independence offered by financial security may foster  a sense of entitlement and a lack of concern for others, the authors suggest. On a more concrete level, affluent people may be more likely to get away with misbehavior (because they are less supervised at  work, for example), and they may be more willing to take ethical risks because they have the resources to bail themselves out – both literally and figuratively – if they get caught.) Add to that, says my friend Paolo, a sense of impunity and the capacity to afford the best lawyers and access to powerful networks.

Anyhow.

I  wonder, after reading this, if there might not indeed exist an impact of inequality on crises, but not so much a direct one that goes through  causing a (fragile) credit boom (as Rajan and I were arguing), but rather one that  impacts on the likelihood of financial crises given a credit boom (something that Bordo and Meissner do not check). So inequality does NOT cause credit booms but it raises the chances that a (growth-driven) credit boom, if accompanied by greater inequality,  might go more easily bust because of greater frauds and less ethics in the system.

I like this theory. I find it possible. Yes, financial crises would be more likely to occur with credit booms when inequality increases because of more dishonesty in richer individuals. The presence of more dishonesty in individuals that are more likely – because of their greater wealth – to receive loans and thus more likely to default on them given their dishonest behavior would explain why much of the busts in credit cycles is accompanied by many stories of fraud and scoundrels, as Kindlerberger used to call them.

Thank you Paolo.

Post Format

Petit est beau

Oscillava tra il 4 e 6% nelle intenzioni di voto a dicembre, ma oggi è calata al 2 o 3%, la candidata verde alle elezioni presidenziali francesi del prossimo 22 aprile, Eva Joly. Magistrato francese che ha passato i suoi primi 20 anni in Norvegia, dove ha forse acquisito nel suo DNA la strenua avversione contro la corruzione. Non vincerà ma ci piace leggere che nel suo programma c’è la proposta di riservare le gare di appalto pubblico sotto soglia (50-70.000 euro) alle piccole imprese e l’insoddisfazione per uno Small Business Act europeo che è la pallida sbiadita copia di quello targato Usa. Almeno non è catturata dagli interessi della grande impresa come la Commissione Europea che da anni si rifiuta di riservare quote di appalti alle piccole.

Vive la France.

Eva Joly, the soon to be losing candidate for the Green Party in the coming April French elections for President proposed to shift to a serious Small Business Act like the one enacted since 1953 in the United States. She also proposes that all public tenders below a 50-70 thousand euro threshold  be reserved to Small and Medium firms. In fact, she is in favor of competition while the European Commission, that still pretends it acts fairly when it claims that large and small firms have an equal chance in procurement, is captured by the lobby of large firms.

She might lose, but we like her tough fight on issues like this one, so critical for Europe.

Grazie Marta.

Post Format

La qualità dello Stato è spendere per combattere l’evasione e ….

Condivisibile articolo di Alesina e Giavazzi sul Corriere della Sera. Focalizzato sulla qualità degli interventi pubblici e non la quantità e contro il mero aumento delle tasse per rimettere a posto l’economia italiana, anche quando appare come taglio della spesa (taglio ai trasferimentia agli enti locali) che di fatto si traduce solo in mero aumento delle imposte locali.
Ma se parliamo di qualità allora non possiamo dire, come fa il titolo del Corriere, “tagliare le spese si può e si deve”. Anche io penso che si possa, ma non credo che si debba, a meno che, appunto come chiedono A&G, non sia fatto bene.
Fare tagli lineari della spesa a casaccio è un’idiozia. Mostra incapacità organizzativa e sadismo. Punisce le amministrazioni brave che fanno bene il loro lavoro come quelle inette. Cosa aspettiamo per identificare gli sprechi, dal cui taglio potremmo ottenere non meno del 2-2,5% di PIL? E questo senza ridurre la spesa reale ma solo quella nominale (sempre 2 stampanti compro ma ad uno sconto del 20%)?
Spostarci verso l’IVA, come argomentavamo e come A&G ribadiscono, fa bene. OK, ma come farlo “con qualità” massimizzando il potenziale di questa riforma per non tassare eccessivamente? Ovviamente combattendo l’evasione.

Dalla qualità nella lotta all’evasione: un altro 2,5% di PIL può emergere. Ma come combattere l’evasione con efficacia e qualità? Con spesa di qualità. Ho a questo riguardo alcune domande per il Ministro dell’Economia su come fa lavorare l’Agenzia delle Entrate, piena di competenze (forse) inutilizzate:
1) Quale obiettivo quantitativo per il 2013 è stato concordato per l’Agenzia da raggiungere nella lotta all’evasione? E cosa ha fatto sì che non si sia scelto, eventualmente, un obiettivo più alto ricorrendo a più assunzioni e risorse per l’Agenzia e la Guardia di Finanza? Possiamo saperlo?
2) Si è discusso – tra Ministero e Agenzia – se raggiungere questo obiettivo specificando la probabilità di monitoraggio per fascia di imponibile dell’azienda? Possiamo saperlo? Non vorremmo che non sia stato fatto. Perché, se così fosse, è ovvio che l’Agenzia focalizzerà le sue (limitate) energie su (pochi) pesci grandi invece dei tanti pesci (piccoli) all’interno dei quali molti non dichiarano. Ma, specie se questo è fatto da anni, sapendolo la moltitudine di piccoli evasori non sentirà nessuna pressione a non evadere. Certo ci vogliono più risorse per fare più controlli, ma sarebbero una briciola rispetto alle entrate che ne deriverebbero dall’emersione del nero.
3) Quali compensi ricevono i funzionari dell’Agenzia che lavorano sul territorio in una lotta che mi pare impari? Sono, nelle loro visite alle aziende, supportati dalla guardia armata della Finanza? O per caso sono lasciati a visitare aziende in territori dominati dalla camorra, mafia, n’drangheta da soli? Sono pagati, per questi loro atti di eroismo, 1500 euro al mese o piuttosto – come dovrebbero - 3000 più bonus in funzione dei risultati? Ed il bonus è un misero 5000 euro l’anno o l’1% di quanto ottenuto in più di un certo target?

Se siamo veramente disposti a combattere il mostro dell’evasione allora dobbiamo armarci e non lasciare soli coloro a cui demandiamo tale lotta. E per armarci, si spende, non se ne esce: in risorse umane, organizzazione, attrezzature, protezione, indagini. Tutto il resto è demagogia.

Ecco che se spendiamo bene, abbiamo 4-5% di PIL in più: 75 miliardi di euro di risorse. 75 miliardi. A quel punto, felici di vivere in un mondo dove lo Stato spende bene e l’evasione è stata sconfitta, ci chiediamo cosa fare di queste risorse addizionali per generare crescita che generi anche pari opportunità: ridurre le tasse (dove, a chi, come?) o aumentare la spesa pubblica di qualità (per chi, per cosa, dove). Sarà il più grande spettacolo dopo il Big Bang, vedere il nostro Paese rinascere.

Post Format

Oh you’ve Got to Love This

Thank you Cristiano!

Post Format

La spesa pubblica Usa per i geometri e la ghiaia. Meglio di Harvard

So much of America needs to be rebuilt right now.

Che bello se sentissimo i nostri leader europei dire la stessa cosa che dice Obama: “così tanta parte del nostro Paese ha bisogno di essere ricostruita adesso” (sotto vedi video sottotitolato in inglese). Ma non lo fanno.

Né si chiedono che servizi pubblici desiderano i nostri concittadini. Nel rapporto allegato dell’Amministrazione Usa, invece, si legge che “4 americani su 5 condivide la frase: “affinché gli Stati Uniti rimangano la prima superpotenza mondiale abbiamo bisogno di modernizzare la nostra infrastruttura di trasporti e mantenerla”. Siamo più abituati a sentirci dire, di solito dalla Commissione europea, cosa è buono per noi.

C’è tanto di bello – come approccio – nella proposta Usa verso una ricostruzione massiccia dell’infrastruttura viaria. Una attenzione alle infrastrutture, sì, ma anche al momento di farle (ORA, durante la crisi), al loro forte e positivo impatto distributivo (a favore dei disoccupati nel settore edile e della classe media), al loro contenuto qualitativo, eco-compatibile e volto a ridurre i rischi di trasporto. E, non ultimo, ad una quantità rilevante di spesa pubblica per sospingere l’economia americana e raccogliere la sfida mondiale (non a caso Obama menziona nel discorso sotto solo Cina e Germania) .

Eccoli i perni dell’azione pubblica Usa.

Le quantità. Ampie. Un appello alla Camera bassa del Congresso per sbloccare immediatamente i fondi. Nemmeno tantissimi. 476 miliardi di dollari per 6 anni, a cui sommare ora uno sblocco immediato di 50 miliardi addizionali. Circa lo 0,6% di PIL ogni anno per 6 anni. Come se noi in Italia (che abbiamo un deficit pubblico minore di quello Usa) sbloccassimo domani per 6 anni 9 miliardi annualmente di euro in più, per far fronte alla crisi e per rilanciare il paese.

Il timing. Obama sottolinea il vantaggio economico di effettuare investimenti se si reggono sulle proprie gambE quanto a rendimento sociale. Per questo l’analisi sul timing è corretta: ora c’è, nel settore delle costruzioni, un numero alto di lavoratori disoccupati ma con abbondanti capacità, inutilizzate. Farlo ora, l’investimento, costerà di meno che domani quando l’economia tira e si dovranno assumere lavoratori meno esperti con costi addizionali di addestramento. Farlo ora aiuterà le amministrazioni locali che in tempo di recessione tagliano prima di altri capitoli quelli relativi agli investimenti.

La distribuzione dei vantaggi occupazionali. L’analisi suggerisce che il 61% dei lavori creati sarebbe nelle costruzioni, 12% nel manifatturiero e 7% nei servizi. Il 90% di questi posti di lavoro vanno alla classe media. Leggiamo ancora: “la spesa pubblica in infrastrutture genera domanda di prodotti e servizi da una varietà di industrie. Per esempio la costruzione di strade non solo richiede lavoratori nelle costruzioni, ma anche macchinari per la pavimentazione, gasolio e diesel per queste macchine, una varietà di attrezzi, e poi cemento, ghiaia ed asfalto, ingegneri e progettisti, geometri, ed anche ragionieri per seguire il budget”. E’ bella questa poesia dei mestieri scritta dal Presidente degli Stati Uniti non trovate? Mai sentito parlare così i nostri leader? Si interessano per caso alla ghiaia che verrà venduta in più ed ai geometri che troveranno lavoro?

La distribuzione dei vantaggi agli utenti. La famiglia media americana spende più di $7,600 l’anno nel trasporto, più di quanto non spendono per cibo ed il doppio di quanto spendono su prodotti medici. Per il 90% degli americani i costi di trasporto assorbono un settimo del reddito.  Un costo che potrà essere ridotto riducendo tramite infrastrutture viarie congestione e perdita di tempo.

La valutazione della qualità. Tramite la creazione di una Banca di Infrastrutture Nazionali che possa valutare la qualità di progetti e attirare finanziamenti privati. Ma gli Usa già si stanno muovendo in questa direzione da qualche tempo. Non a caso quando il rapporto parla del 5% di progetti infrastrutturali approvati (i migliori), fa riferimento orgogliosamente ad un tasso di accettazione dei progetti “più basso di quello di Harvard al primo anno”, a conferma della scrematura e del focus attenti alla qualità dell’investimento.

Più spesa pubblica per i settori strategici. Gli americani scommettono sul trasporto, ma noi abbiamo altre priorità: scuole ed ospedali da ridipingere e mettere a norma, per esempio. Anche noi dando lavoro a piccole imprese, imbianchini, geometri, elettricisti, anche noi comprando attrezzature sanitarie, informatiche. Ma ce lo vedete voi un leader europeo che parla di elettricisti? Verrà quel giorno. Verrà l’Europa.

Post Format

Il sole di Napoli

Commento di un lettore al pezzo di ieri sugli ambasciatori d’Italia. Grazie Giuseppe.

Sono nato e vivo in uno di quei vicoli di Napoli nei quali c’è meno sole che durante la notte polare di Tromsø. Conosco alcune di queste storie che, in certo senso, si intrecciano con la mia e mi fanno capire quanto sia stato fortunato. La sorte ha voluto che i miei genitori, pur non essendo persone colte, abbiano compreso l’importanza della scuola, consentendomi di essere, a 24 anni anni (e quindi al di sotto della soglia di “sfiga” indicata dal Professor Martone), prossimo alla laurea in Giurisprudenza. I bambini che giocavano a pallone con me fino ad una decina di anni fa, in alcuni casi non hanno nemmeno conseguito la licenza media (e non so come ciò possa essere possibile nell’Italia dl nuovo millennio). Oggi alcuni li vedo tornare la sera con i pantaloni sporchi di calce, felici di portare a casa 200 euro alla settimana “in nero”. Altri non ci sono più, perchè finiti in galera, oppure perchè  finiti sotto terra. Quanto vorrei che questo frammento di Sud del Mondo incastonato nell’eurozona riuscisse ad emergere con tutte le sue enormi potenzialità… Dopotutto è tra questi vicoli che nacque, nel 1224, la prima Università statale e laica del Mondo ed è tra questi vicoli che teneva lezione in lingua italiana quell’Antonio Genovesi che tanto ha contribuito alla diffusione del pensiero economico.

Serve la scuola e servono investimenti, ma sembra che i tecnici non abbiano tempo per occuparsene.