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Incentives. For What, To Whom?

I noticed with some delay the communiqué by EU ECOFIN meeting, EU’s 27 economy and finance ministers – which decided to give “further incentive” (so goes the title) to Hungary:

“…. EU’s economy and finance ministers adopted a new recommendation asking Hungary to implement consolidation measures within the next six months that will bring their deficit below 3 per cent of GDP in 2012 and decided to suspend commitments from the Cohesion Fund for Hungary as of 1 January 2013. The ministers’ will revisit the case again at their meeting on 22 June and if the Council decides at that meeting or later that Hungary has taken the necessary corrective action they will lift the suspension without delay. The suspension does not apply to funds granted for already running projects – only for projects which are yet to be effectuated.”

I am aware that Hungary is currently considered the black sheep of the European Union. I thus understand a bit more tolerantly why such harsh treatment with respect to Hungary that, ceteris paribus, would never be adopted against other countries that were to run a similar deficit to GDP.

But just a bit. I resent that Europe motivates the cancellation of important funds that supposedly go the population and industries of Hungary with the failure to reach an accounting goal that has no economic sense, has even lower sense in a recession, and for which no other country has been punished before (and will not be in the future). How can you explain this to Hungarian citizens?

One last thing. About semantics. We have been leaving for many years under the idea that “incentive” (coming from the Latin incentivum, music for soldiers to act more excitedly and fight better; incinere being related to the act of singing) was something to reward. Indeed it went so far to go too far, with all the wasted subsidies that went on in Europe for years.

No more.

Now, in a game-theoretic slang, we have shifted from “promises” to “threats”. Incentives are not anymore swift gifts but harsh punishments. One could argue that there is a still a promise in the incentive given to Hungarians since we are telling them “oh, if you go back to behave well, we’ll give you back the ice-cream”. The difference? We are not dealing with ice-creams but with huge amount of resources, we are not dealing with spoiled kids but with hard-working and certainly not rich grown-up workers or unemployed people.

When politicians loose touch with citizens and their real problems, when they enter the realm of absurd economic models of reality, that is when we put at risk the fabric of society. We did not elect University Professors, we did elect Politicians. Better give them incentives to understand that. We have the tools, called elections. Let us make it clear to them we could use them.

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Quotes of the Night, IMF-style

“… society, in its many dimensions, also adapts to higher persistent unemployment. When unemployment and the proportion of long-term unemployed becomes high, society is compelled, mostly through the political process, to make life bearable… through unemployment benefits, safety nets, real or pseudo-training programs, governments basically make sure that people do not starve. This is the normal response…. [I]t has very much the same effect as the factors I discussed earlier, namely that, by making unemployment more bearable, it increases the natural rate of unemployment…”

Olivier Blanchard (1997), “Comment on Ball, ‘Disinflation and the NAIRU’”, in Christina D. Romer and David Romer, eds., Reducing Inflation: Motivation and Strategy (Chicago: University of Chicago Press).

Olivier Blanchard is currently IMF Chief Economist.

“For sure, markets don’t like large debt and fiscal deficits, but they also don’t like low growth. Take the recent downgrades of several European countries. Were they purely the result of fiscal problems? No. Look at the words used by Standard & Poor’s: “a reform process based on a pillar of fiscal austerity alone risks becoming self-defeating, as domestic demand falls in line with consumers’ rising concerns about job security and disposable incomes, eroding national tax revenues.”

Some of our analytical work at the IMF makes this point clearly. It shows that lower debt ratios and deficits lead to lower interest rates on government bonds, but so too does faster short-term growth. So, when countries tighten fiscal policy and the economy slows, some of the gains from better fiscal fundamentals will be lost through lower growth. We also see some evidence of a nonlinear relationship between growth and sovereign bond spreads. Spreads are more likely to increase when growth is already low and the fiscal tightening is large. If growth falls enough as a result of a fiscal tightening, interest rates could actually rise as the deficit falls.”

Carlo Cottarelli (2012), “Fiscal Adjustment: Too Much of a Good Thing?” http://www.voxeu.org/index.php?q=node/7604

Carlo Cottarelli is currently Director of the Fiscal Affairs Department, IMF

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Steve Jobs e la spesa pubblica in recessione

Era naturale che avvenisse, c’era da aspettarselo.

Dopo che una (piccola) schiera di economisti è stata autorevolmente distrutta  (teoricamente ma soprattutto empiricamente) nel suo inefficace tentativo di dimostrare che esiste un qualche cosa chiamato “austerità espansiva”, ovvero che dal taglio della spesa pubblica l’economia può tornare a crescere, è soltanto logico che un altro gruppo di economisti si cimentasse con il tentativo di motivare teoricamente quello che i dati ci raccontano da anni, ovverosia che l’economia da queste crisi si riprende solo con aumenti di spesa pubblica.

Lo fanno due pesi massimi della macroeconomia mondiale, Bradford DeLong e Larry Summers, quest’ultimo potente stratega della politica economica del partito democratico e Ministro dell’economia di Bill Clinton  (PS numero 1: è stato anche un polemico e mai rimpianto primo Rettore di Harvard ad essere allontanato dal suo posto prima della fine del mandato).

Lo fanno con una qualche oggettività, devo dire (ma qui sono in conflitto d’interessi: essendo d’accordo con le loro conclusioni, potrei essere abbagliato dalla luce!).

Cosa dicono?

Seguitemi con calma. Dicono che le espansioni di spesa pubblica temporanee, che aumentano il PIL e riducono la disoccupazione e che vengono finanziate con emissione di debito (quindi che creano deficit), in periodi di recessione con bassi tassi d’interesse si autofinanziano.

Notate il “temporanee”: trattasi di aumenti della spesa volti a combattere le recessioni e poi a essere abbandonati. Per “si autofinanziano” intendiamo che, malgrado l’iniziale aumento di spesa pubblica e di debito, il rapporto debito su PIL non cresce grazie all’aumento a breve e lungo periodo del PIL. Quindi crescita, occupazione e stabilità grazie alla spesa pubblica. Se vi va, rovesciamo la prospettiva: dicono gli autori che riduzioni di deficit in recessione, avranno effetti negativi di breve e lungo periodo su crescita e debito e potrebbero addirittura peggiorare i rating e gli spread per timore di un più probabile default.

Ma, attenzione, sostengono i due economisti, le nostre ricette di maggiore spesa pubblica non valgono in periodi dove l’economia tira, anzi sono dannose.

(PS numero 2: Appena appena notiamo che sono i risultati trovati dai valenti ricercatori di Banca d’Italia che mettemmo in luce qualche mese fa).

Che ipotesi ci sono dietro questo roseo quadro? Un moltiplicatore della spesa pubblica (di quanto aumenta il PIL dopo un aumento di 1 euro di spesa pubblica) realistico di 1,5, un tasso d’interesse reale sul debito dell’1%  compatibile con gli attuali livelli ed una sensibilità di tasse e spesa al ciclo economico  pari a quella osservata (circa 0,33). Insomma ipotesi credibili.

Come lo dimostrano?

Considerando i 4 effetti della maggiore spesa pubblica sul PIL odierno e futuro.

1. L’aumento immediato del PIL dovuto alla maggiore domanda di beni nell’economia da parte dello Stato.

2. L’importantissima novità di dare peso ad un effetto di lungo periodo, che tiene conto che i danni delle recessioni si trasmettono al futuro per un lungo periodo tramite lo scoraggiamento dei lavoratori che abbandonano per sempre la forza lavoro (PS numero 3: chi ci segue da tempo sa quanto peso diamo a questo effetto: siamo felici sia stato così tanto considerato da Delong e Summers) e tramite i minori investimenti da parte delle imprese. E dunque che l’evitare oggi, grazie alla spesa pubblica, una peggiore crisi genera di per sé maggiore occupazione e ricchezza permanente nel futuro.

3. Vero è che l’espansione di breve di cui parliamo genera anche la necessità di maggiori imposte per tenere costante il rapporto debito-PIL e questo è un costo per l’economia che gli autori comunque tengono in conto.

4. Ma, all’opposto, è anche vero che le maggiori entrate di lungo periodo dovute alla maggiore crescita renderanno possibile una diminuzione delle aliquote fiscali senza far aumentare il livello del debito pubblico sul PIL. E anche questo effetto positivo sul PIL viene tenuto in conto.

Solo un moltiplicatore basso ed un tasso reale alto potrebbero impedire alla spesa pubblica temporanea di portarci al contempo via dalle secche della recessione e a stabilizzare il rapporto debito PIL. Ma il moltiplicatore è alto proprio durante queste recessioni – argomentano gli autori. Ed il tasso reale è veramente basso in questo periodo, tanto più se la Banca Centrale evita con politiche accomodanti una deflazione che sinora, per fortuna, non si è vista.

Che implicazioni?

Prima. Sorprendente. Che la spesa pubblica espansiva temporanea ha effetti più nel lungo periodo che non nel breve grazie al fatto che permette oggi di avere più risorse permanenti (giovani, occupati, piccole imprese, capitale fisico) di quelle che avremmo se consentissimo alla recessione assassina di sopravvivere. Una minore crescita di 1% per 2 anni dovuta ad una mancata espansione della spesa pubblica genera perdite che potrebbero arrivare, secondo gli autori, addirittura ad un massimo di 0,31% per anno nel PIL potenziale di lungo periodo dell’economia. Lo stesso effetto negativo avverrebbe per quei disoccupati che non rientreranno più, perché scoraggiati, nella forza lavoro.

Seconda. Paradossale. L’assenza di intervento statale sulla spesa pubblica implica che lo Stato cambia atteggiamento per fronteggiare queste crisi con impatti di lungo periodo.  Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, già aveva avuto modo di dire che in queste crisi gli Stati “si sentono spinti, il più delle volte tramite il processo politico, a rendere la vita più sopportabile [a chi soffre] …con sussidi alla disoccupazione,  benefici, programmi di formazione  veri o falsi … e così, rendendo la disoccupazione più sopportabile, alzano il tasso naturale di disoccupazione …”. Impressionante similitudine con le riforme del lavoro del nostro Governo non trovate? Nessuna spinta alla domanda pubblica, protezione per i disoccupati. E dunque, dice Blanchard, maggiore disoccupazione. Fantastico!

Terzo. Fatti, non parole. La recente esperienza del Governo Obama uscito dalle secche della crisi con deficit su PIL mai visti in Europa (vedi grafico) ha dimostrato che la spesa pubblica durante le recessioni ha un impatto, rapido e che, come ha dimostrato l’annuncio di Obama, può essere ridotta quando non serve più.

Quarto. Sperabile. La politica monetaria deve aiutare e non diventare restrittiva a fronte di una espansione della domanda pubblica. Questo, dicono gli autori, ha fatto Bernanke coordinandosi con l’amministrazione Obama.

Quinto. Casa nostra. Se i tassi d’interesse sono alti, c’è il rischio che i mercati si rivoltino contro o che i vantaggi della maggiore spesa pubblica siano più limitati. Questo vale per Grecia, Italia e company. Come da sempre dico, l’Italia non può scatenarsi in un deficit come quella Usa. L’Italia può tuttavia usare le sue entrate – invece che per uccidere l’economia – per finanziare maggiore spesa pubblica (senza deficit) e può tagliare gli sprechi di spesa pubblica (che domanda di beni all’economia non sono ma trasferimenti dai contribuenti a imprese e funzionari pubblici corrotti). La Germania invece deve fare quello che fanno gli Stati Uniti, spesa pubblica in deficit, per dare il segnale ai mercati che c’è una volontà politica europea, di tutti, di affrontare il problema come fece Kohl quando salvò la Germania dell’Est e rese grande la Germania unita con una immensa spesa pubblica. Facendo questo darà forza anche ai paesi più deboli dell’area euro nel perseguire le giuste politiche economiche.

Quarto ed ultimo PS.

Qualcuno dei miei studenti mi dice: “Professore, ma i suoi modelli di economia, che ci racconta e insegna in aula, sono finti?” “No” rispondo. “E allora perché tutti dicono che lei è pazzo?”. “Bella domanda” dicevo fino a ieri. Ora dirò, “vedete, siamo in tanti. I pazzi intendo”.

Ma non è pazzia come la pensano loro. E’ quella pazzia intraducibile in italiano, forse per questo comprensibile solo dagli americani, che menziona Steve Jobs quando parla ai giovani e gli dice: “be hungry, be foolish”.

ll messaggio di Steve Jobs vale anche per anche per la politica, a cui spetta di avere ambizioni, ideali, coraggio.  Ecco, forse il nostro Governo è a dieta ma non ha fame. Ma non per questo  dobbiamo essere come loro. Be foolish, be hungry. Chiedete l’abolizione dello Stupido Patto Fiscale e chiedete il Rinascimento italiano. Chiedeteli senza timore perché siete dalla parte della ragione e degli ideali.

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L’azzurro europeo che scompare assieme al treno dei desideri

Mi accorgo di non avere più risorse, senza di te, e allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te, ma il treno dei desideri nei miei pensieri all’incontrario va.

Eh già, niente più risorse. Così muore un continente. Per mancanza di ossigeno.

Di che parlo? Sono a Manchester, bella Manchester dei grandi Bobby Charlton e George Best dello United. Sì lo so, Manchester della rivoluzione industriale. Siamo a cena, con il mio collega portoghese. Gli basta un bicchiere di vino per dirmi che il Portogallo è in ginocchio. Gli chiedo perché. E’ allora che mi dice del treno.

«Court detects illegalities in high-speed train», reports Jornal de Notícias, after the government announced the end of the controversial project of the construction of high-speed train lines in Portugal. The Audit Court rejected the budget for the high-speed rail service that would connect Lisbon to the village of Caia, on the border with Spain.

Notizia di oggi, mi dice. Il treno ad alta velocità, quello che doveva unire Portogallo a Spagna, basta, kaputt, finito. La Corte dei Conti portoghese ha trovato irregolarità nella gara ed il Governo, così mi dice, ne ha approfittato per chiudere tutto il progetto per risparmiare soldi.

Il treno che avrebbe portato da Lisbona, Portogallo a Caia, Spagna. Risparmiare soldi. Niente più risorse.

Il mio amico è triste. Certo che è triste. E’ portoghese, ha bevuto un bicchiere. No, è il treno.

Così all’incontrario va l’Europa, cancelliamo le strade con la gomma da cancellare sulle mappe. Cancelliamo i progetti di fratellanza che passano sulle rotaie. Cancelliamo i sogni dei poveri che vogliono viaggiare per vedere l’Europa. Pure i sogni. Cancelliamo. In fondo mancano le risorse, no?

Le train, l’automobile du pauvre. Il ne lui manque que de pouvoir aller partout. Jules Renard.

Il treno, l’automobile del povero. Non gli manca che di poter andare ovunque. Jules Renard.

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Che fare?

Il mio amico e collega Stefano Manzocchi così scriveva ieri sul Sole 24 Ore:

Il perimetro dell’industria italiana si contrae, a motivo di un mercato interno regressivo compensato solo in parte dalla dinamica degli sbocchi all’estero: non inatteso ma comunque allarmante, questo riporta l’Istat su fatturato e ordini industriali a gennaio 2012. Beni strumentali ed intermedi sono le vittime principali della sfiducia diffusa tra gli imprenditori, che l’Istituto ha già fotografato nelle stime preliminari riferite al 2011 dove gli investimenti e le scorte segnano un calo molto significativo su base annua, e ancor più forte se consideriamo solo il secondo semestre. La sequenza è nota: la crisi finanziaria di agosto e settembre ha spaventato famiglie e imprese; le misure emergenziali del governo Monti hanno ridotto il potere d’acquisto e continueranno a farlo; la minor tensione sui titoli del Tesoro stenta a tradursi in maggior credito e maggior fiducia “reale”.

È possibile che tra pochi mesi si assista ad una inversione di tendenza, se gli acquisti di beni durevoli riprenderanno e con essi le scorte e gli investimenti. Il 2012 potrebbe chiudersi con un “meno uno virgola” come spera il Governo. Ma non si può escludere, invece, che si realizzino le previsioni che parlano di un “meno due virgola”, e allora il rischio di perdere molti altri pezzi significativi del patrimonio produttivo diventerà alto. Tre giorni fa, al convegno “Cambia Italia” è stato mostrato il grafico di come la crisi attuale stia scavando un solco più profondo della crisi del ’29 nell’economia italiana, a differenza di quella mondiale. La produzione industriale è quella che ne sta pagando le conseguenze peggiori. È lecito quindi chiedersi in cosa consisterà la nostra struttura produttiva una volta completato il deleveraging che gli analisti finanziari prevedono proseguire. Un indizio ci parla di un nucleo forte di imprese esportatrici, ma se questo non si espande non compensa né la debolezza del mercato interno, né le importazioni. Secondo indizio è che in futuro si produrrà con più “conoscenza” e meno “lavoro”, e che prima ci si adegua a questo paradigma meglio ci si posiziona per mantenere o conquistare le posizioni.

Che fare? I cantieri aperti delle riforme lavorano per il medio periodo, al netto del pur rilevante effetto sulle aspettative. La soluzione del problema dei crediti incagliati delle imprese è importante ma ha i suoi tempi, mentre la ripresa del flusso del credito bancario è decisiva ma rischia di scontrarsi con la debolezza della congiuntura. Le opere infrastrutturali procedono con troppa lentezza per dare sollievo in questa fase. Un segnale importante sarebbe dar corso alle richieste avanzate da questo giornale con il Manifesto per la cultura, e destinare qualche rilevante risorsa aggiuntiva per l’istruzione e la cultura. Si può forse utilizzare il quadro della strategia Europa 2020 per negoziare conla Commissione un piano straordinario di edilizia e di informatizzazione scolastica, magari lasciando che i Comuni fiscalmente più virtuosi partano prima e utilizzando al Mezzogiorno i fondi europei mal e poco spesi. Altrettanto importante sarebbe il segnale di una serie di interventi straordinari sulle porzioni più malandate del nostro patrimonio archeologico, architettonico e naturale, con un potenziale impatto di volano per il turismo. A tal fine si potrebbero destinare sin da ora i proventi futuri di altre dismissioni immobiliari pubbliche.

Per la ripresa degli investimenti privati nel nostro Paese, italiani ed esteri, sarebbe poi auspicabile un decreto che attribuisca al Ministero dello Sviluppo, opportunamente riorganizzato per agenzie e non coi vecchi e consunti Dipartimenti, un potere di “facilitazione” che consenta di superare gli ostacoli burocratici e amministrativi che ne impediscono la realizzazione. Una sorta di decreto “Investi in Italia” che utilizzi tutta la leva concessa al Ministero anche nei confronti delle Regioni dal Titolo V della Costituzione, e consenta a chi vuole scommettere sul futuro produttivo del nostro Paese di farlo e non scappare dopo il primo round di incontri coi “funzionari”.

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Difendiamo la nostra Patria dal Nemico.

Ho fatto il servizio militare. Nel dicembre del 1987 entrai dai cancelli della Scuola di Fanteria e Cavalleria di Cesano come fante del 77mo Battaglione Meccanizzato. Ne uscii come Caporale Maggiore circa 12 mesi dopo. Entrai da “spina”, uscii da “nonno”. Ma soprattutto ne uscii, credo, una persona nuova.

Foto tratta dal sito fotofamilia.it.

Una esperienza unica. Dura, difficile, per certi versi stressante. Eppure potente. Ebbi modo di conoscere persone fuori dal mio ambiente, provenienti da classi sociali diverse dalla mia, da città lontane dalla mia Roma, che mai avrei potuto conoscere altrimenti. Mai, datemi retta.

Persone incredibilmente uniche, spesso meravigliose. C’era chi entrò analfabeta e uscì con la licenza elementare. Chi con quest’ultima entrò e con la licenza media uscì. C’è chi del Sud non aveva mai conosciuto una persona. C’è chi del Nord non sapeva nemmeno i capoluoghi di regione.

Ci aiutavamo a vicenda per sopravvivere in condizioni non sempre facili. Un’intera nazione di giovani si conobbe e dunque si unì. Senza saperlo, davamo forza e linfa vitale al nostro Paese, ponevamo le basi per lavorare assieme, una volta congedati, per il successo collettivo.

Oggi non abbiamo  più bisogno di difenderci da un nemico esterno. Ma da un nuovo nemico, tutto attorno a noi, forse sì.

I nostri giovani non partecipano più, nemmeno per un breve periodo della loro vita, ad un progetto di costruzione collettiva come quello a cui partecipammo noi. Un progetto che gli darebbe sicurezza ed orgoglio, che gli insegnerebbe l’importanza di dare e di fare squadra assieme.

E nulla si fa per metterli nelle condizioni di costruire qualcosa per il Paese. Basta guardare allo stato del nostro Servizio Civile, a cui potrebbe essere affidato il rilancio delle nostre infrastrutture pubbliche, come chiediamo anche nel nostro appello per un nuovo Rinascimento.

Dal Sole 24 Ore: “A quarant’anni dalla legge che ha istituito l’obiezione di coscienza (la n.772 del 1972) il servizio civile nazionale rischia di chiudere i battenti per mancanza di fondi. Se non saranno reintegrate, infatti, le risorse disponibili, che la legge di stabilità 2012 (legge 183/2011) ha ridotto dai 113 milioni all’anno per il 2012, il 2013 e il 2014 a 68,8 milioni per il 2012, 76,3 milioni per il 2013 e 83,8 milioni per il 2014, è a rischio la partenza di volontari per il 2013. Per il momento, l’Ufficio nazionale per il servizio civile non ha, infatti, pubblicato alcuna data per il deposito di nuovi progetti, da parte degli oltre 3.500 enti accreditati, per l’anno prossimo.”

Ecco. L’elemosina è servita.

Dove sono i progetti per i giovani? Dove gli ideali da chieder loro di rilanciare, per ridare forza alla nostra nazione? Cosa ci vorrebbe, quanto sforzo via dal grigiore, per dedicare 1% di PIL per farli lavorare in un nuovo  servizio civile, a servizio cioè del nostro incredibilmente vetusto ma potenzialmente meraviglioso Patrimonio Pubblico?

Charlie Chaplin disse “la gioventù costituisce uno straordinario elemento di ottimismo perché sente d’istinto che l’avversità non è che temporanea”. Verissimo. Solo loro hanno quel patrimonio di energia positiva da mettere al servizio del rilancio del Paese. E solo noi possiamo impedirglielo spengendo l’interruttore.

Parta oggi, finito il dibattito sulle liberalizzazioni dei vari mercati, il vero programma di rilancio del Paese.

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Inflexible? No, control freaks.

Interesting information contained in the Benchmarking Working Europe 2012 of the European Trade Union Institute.

Out of the many graphs, I looked with interest at the EWCS indicator, (which) measures workers’ autonomy in terms of a composite index based on workers being able to divide up tasks and appoint a team leader (see Figure 9.4). This question, naturally, was addressed only to people who work in a team.

So how autonomous are workers in Europe in performing their tasks? And what are the consequences of more delegation for workers?

Let’s start with this second question. “Compensation for the negative effects of a heavy workload may be found in the existence of a strong degree of autonomy and/or social support”, says the Report. So a better organization that delegates can be seen as improving work satisfaction for a given wage. I seem to also recall the work of some economists (Armin Falck e Michael Kosfeld) that more autonomy and less control would lead to better productivity through satisfaction-enhancing trust of those who are delegated.

As for the first question, read the Figure below. Holland, Denmark, Germany are among the countries with the most autonomous teamworkers (a low level of the index equals high autonomy). Italy, Cyprus and Portugal the worse and least delegating.

So maybe competitiveness and productivity in Italy lags behind for lack of delegation in the workplace? Now that is an interesting thought, more relevant than the laughable one that we suffer from inflexible labor markets that need (useless) reform toward reducing protection against firing.

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La nomina del DG del Tesoro

Bene ha fatto Giavazzi a ricordare a tutti che il Presidente Monti sta ancora valutando le diverse candidature ricevute per l’importantissimo posto di Direttore Generale del Dipartimento del Tesoro del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Siamo certi che Monti sta valutando le candidature pervenute con occhio imparziale e senza riguardo alcuno per suggerimenti impropri.

Persona, il nuovo Direttore Generale, che sarà responsabile – tra le altre cose – del (in ordine non necessariamente di importanza):

a) gestire le nomine ed il controllo delle società partecipate;

b) gestire e indirizzare l’agenda internazionale, compresa la posizione verso lo stupido Patto fiscale dopo le elezioni francesi;

c) gestire e rilanciare – assieme a Ragioneria e DAG (Dipartimento dell’Amministrazione Generale, del Personale e dei Servizi del Ministero) – il controllo della spesa pubblica (anche grazie alla società Consip SpA) nonché il patrimonio pubblico;

d) gestire il debito pubblico italiano comprese le operazioni in derivati. E dunque, tra le altre cose, gettare luce su quanti derivati detiene in pancia lo Stato italiano (che caratteristiche hanno, con quali controparti sono stati effettuati, qual è il loro valore di mercato) e decidere la politica futura su di essi, compresa la svolta di trasparenza necessaria per rassicurare i mercati finanziari data l’oscurità di quanto fatto sinora e la difficoltà di capire che ruolo hanno giocato i derivati e la loro gestione nell’alzare lo spread italiano nei passati mesi ed anni.

Non poca roba. Chiedere di conoscere i curricula di chi ha intervistato il Presidente Monti pare, per questo paese, ancora troppo avanzato. Ma confidiamo, come sempre, nel nostro Presidente del Consiglio per una svolta decisiva per una istituzione, il Dipartimento del Tesoro, tra le più importanti e prestigiose del Paese.

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art. 18, senza parole.

Da La Stampa di sabato 17 marzo. Grazie George.

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Ciò che tiene dritto un uomo.

Bravo bravo Oscar Giannino. Bravo. Splendido, per impegno civile, e drammatico programma stamattina sul problema dei suicidi in questa recessione. Splendido anche per la sua enfasi su quali sono gli aspetti che contano e quali le riforme irrilevanti di cui si parla in questi giorni.

 

Tamara de Lempicka, 1925, Ritratto del Principe Eristoff

Un bravo giornalista, oggi, lo abbiamo trovato in Giannino. Ascoltatela la trasmissione e chiedetevi in che paese viviamo. Se si è capiao la drammaticità di queste recessione e se vi pare normale di parlare di reti energetiche, tassisti, licenziamenti facili come se contassero a salvare questo Paese e le vite che se ne vanno con questa recessione.

Feijun Luo, Curtis S. Florence, Myriam Quispe-Agnoli, Lijing Ouyang e Alexander E. Crosby si sono occupati di studiare il legame tra suicidi e ciclo economico negli Usa sul prestigioso American Journal of Public Health, ripreso dal New York Times. Il grafico parla chiaro. In 11 delle 13 recessioni del ventesimo secolo è aumentato.

Non è sempre la crisi il fattore causale ma è spesso quello scatenante: con la disoccupazione crescono le difficoltà in famiglia, i problemi finanziari, il ricorso all’usura, i tagli delle spese mediche, l’ingresso nel mondo dell’economia in nero e dunque dello sfuggire allo Stato, tutti fattori di enorme stress.

Qualche anno fa dei ricercatori italiani hanno studiato l’andamento in Italia dei suicidi a seconda delle condizioni del ciclo (Preti A, Miotto P. Suicide and unemployment in Italy, 1982—1994. J Epidemiol Community Health, 1999). Dai loro risultati traggo due spunti ancora terribilmente attuali o forse sempre più attuali:

a)      I più a rischio (di suicidio) in Italia sono gli individui alla ricerca di un primo lavoro.

b)      I più a rischio sono quelli nelle zone dove la perdita di lavoro è tradizionalmente meno alta,  perché minori sono le protezioni ambientali e maggiore lo stigma. Sorpresi che nel Nord-Est le cose vadano male?

Che fare?

Sì, come dicono nel programma di Giannino, sono importanti i centri di supporto locali. Ma andrebbero finanziati e chi sblocca i fondi degli enti locali di fronte all’assurdo Patto di Stabilità interno? Chi?

Sì, le piccole imprese muoiono prima, purtroppo a volte assieme ai loro padroni. E allora cosa aspettiamo a mettere su un Ministero per la Piccole Impresa come negli Stati Uniti? Che segua dalla mattina alla sera questi problemi? Che riservi gli appalti sotto soglia alle piccole? Che subito paghi i ritardati pagamenti? Cosa aspettate maledizione per darvi da fare su questo piuttosto che sull’articolo 18? Cosa?

Luca Ricolfi oggi sulla Stampa chiede il taglio delle tasse e della spesa, come Giannino. Non sono d’accordo. Taglio delle tasse sì. Nessun taglio della spesa: taglio degli sprechi e aumento drastico della spesa per acquisti di beni servizi e lavori, per rilanciare queste imprese che spariscono. Per poi tornare a spese più basse domani. Ma non oggi. Non oggi!

Ciò che tiene dritto un uomo, dice Giannino. Ciò che tiene dritto un uomo lo sa solo lui. Il nostro compito è dargli la stampella senza la quale non può alzarsi. Alla schiena dritta ci penserà lui con la sua dignità non calpestata. Come un principe.