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In the name of Love, say Financial Markets and the spread to Europe

I have a dream that one day on the red hills of Georgia, the sons of former slaves and the sons of former slave owners will be able to sit together at the table of brotherhood.

 

Oh how not to agree with Paul Krugman when he notices that explaining the euro crisis because of the differences in economic performance across states of the Union is a weak explanation at best. Greece and Portugal? Fine, what about Mississippi and Alabama? Or Otter Pradesh and Orissa in India?

Yes, Krugman is right, we the Europeans are no nation. No, Krugman is wrong, we dont need a Secession war to become one.

But what does it mean exactly? To be a nation?

I think of another couple of monetary unions, closer to home. The Italian and the German ones. The first one almost collapsed recently when the Northern League was pushing many of its supporters to say “enough with the South”. The second one never had one moment of lack of credibility given the incredible and convinced economic support the West gave to the East.

A Nation is a contract. A union among diverse communities to become more powerful and to better expand or protect one’s values. To be stable, not to be threatened within, while democratic it must: a) tolerate differences and b) provide equal treatment. The first requires politics, the second one economics. Both of them, needed politics and needed economics, share one necessity: solidarity. If one or both of these are denied, through the denial of solidarity, the Union collapses.

So it goes for the euro area. Market spreads are high not so much because Greece lacks productivity, not so much because Greek politicians are heavy spenders, but because both of these two features seem to be little tolerated by other member countries. Markets know that intolerance is at the root of the break-up of a Union.

Therefore here are your spreads, explained.

Which brings about the interesting issue of the unintended and paradoxical fact that currently in the euro area the most important supporter of tolerance, solidarity  and diversity is the Market. That’s right, financial markets. They are the ones that have most to gain from  the right shift in the name of values toward a truly United Europe. They are the ones that might push for the right solution. Unbelievable.

Therefore here is the explanation of how to save the euro, obvious.

Transfers from the rich states to the poor states are the quintessential need of a monetary union. I agree with Krugman. Forget about European banking supervision, forget about centralizing fiscal policy. Maybe ECB direct purchases of bonds and a Greek bail-out, as they both embed a certain amount of tolerance and understanding for those who have sinned and will sin again, will provide a respite. But then you will need – in addition – to annually be able to transfer from Germany to Greece large chunks of money like Massachusetts does with Mississippi. Are we ready for this? Are we ready for saying yes the Greek, the Italians, they are bad spenders and they are incapable of doing reforms as well as other do but we will trasnfer money to them nonetheless, from here to eternity for the sake of the greater Europe we want to build? Like the West Germans have promised to the Easterners?

No, Prof. Krugman, no war is needed.

I have a dream. I know, I know. But it is my dream and you can’t take that away from me.

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Nei Paesi in cui si uccide il valore dell’istruzione

Quanto sia importante insegnare bene lo possiamo immaginare tutti. Ma quanto “costa” l’insegnare male? Quanto costa alla società il non permettere e stimolare il buon insegnamento?

Sono tante le ragioni per cui si può insegnare male. Per esempio in luoghi a basso reddito e/o sviluppo, gli insegnanti locali spesso non saranno così bravi come in altre zone più ricche del Paese e questo limita i miglioramenti che possono avvenire nella performance degli allievi. Una possibile soluzione è quella del far migrare i professori di una regione più ricca verso quella più povera, ma – quando possibile – spesso con la controindicazione che questi (anche quando più bravi) sono più scontenti, più assenti, meno vicini alle famiglie dei ragazzi e dunque meno appassionati al loro lavoro.

In altri casi si insegna male perché i fondi spariscono. A volte per incompetenza, a volte per frode e per corruzione. E’ quello che scoprono i bravi economisti Ferraz Finan e Moreira studiando il caso delle scuole locali brasiliane. Trovano che là dove la corruzione è più alta, minore è la bontà dei risultati scolastici dei ragazzi (15% in meno nel punteggio) e la loro capacità di terminare gli studi (3% minore il tasso di coloro che si diplomano). Non a caso, scoprono anche che nei comuni più corrotti in media l’11% in meno dei maestri riceve formazione pedagogica. La corruzione trasforma spesa pubblica in trasferimenti pubblici a privati (spesso i sindaci e le loro famiglie): mentre la prima farebbe tanto bene, i secondi sono veleno per un Paese.

Il grafico mostra i risultati in matematica e portoghese nelle municipalità corrotte (rosso) e in quelle no (blu). Gran parte di queste scoperte sono avvenute dopo che il Governo ha deciso di porre fine a comportamenti radicati avviando una serie di ispezioni nelle scuole.

Ma ci sono altre ragioni per le quali l’insegnamento in un Paese viene effettuato sotto al suo livello potenziale. Ecco, penso all’Italia (e ad altri paesi europei, come il Regno Unito) e a questa smania che ci è presa di valutare le Università solo per la loro capacità di fare ricerca, disdegnando il fondamentale ruolo dell’insegnamento e l’enorme rendimento sociale che può avere un’ora di buon insegnamento per i nostri ragazzi. Penso ai tanti miei colleghi che non amano più insegnare a folle di studenti “perché loro sono più bravi a fare ricerca”, come se questo non fosse proprio un motivo per fare più didattica, così che i ragazzi possano godere del loro sapere.

Addirittura leggo deliri come quelli della Fondazione Giovanni Agnelli, ne “I Nuovi laureati” per la Laterza, dove si parla di separare gli atenei della didattica dagli atenei della ricerca dove in questi ultimi si preferirà “selezionare i ricercatori con un ottimo curriculum scientifico anche a costo di una didattica limitata e/o scadente”. Sì, dice proprio così.

Negli Stati Uniti le migliori università selezionano sul mercato i giovani più promettenti per la ricerca, sottoponendoli allo stress enorme di pubblicare entro 7 anni ottimi lavori scientifici se vogliono essere confermati. Ebbene sapete cosa? Quegli stessi giovani ricercatori sono obbligati ad insegnare per più di 100 ore a corsi pieni di studenti laureandi, senza sconti. Perché il valore delle università come Harvard, Yale, Stanford, si regge sui soldi che le famiglie americane pagano per i loro figli che devono avere i migliori insegnanti in aula per giustificare le enormi rette che gli vengono richieste. E le famiglie pagano perché conoscono il valore di quelle lezioni.

Ecco, spero che il Ministro Profumo non molli la sua battaglia per rimettere al centro della valutazione universitaria non solo la ricerca ma anche la didattica. Questa è un’altra di quelle riforme che, altro che la folle riforma del lavoro o dei tassisti, faranno bene al nostro Paese.

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Quel Monti come George Foreman dalla carezza micidiale che vincerà la sfida. Ecco come.

Cosa si aspetta dalla riunione dei 4 leader oggi a Roma, Prof. Piga? E dalla riunione del 28 del Consiglio di Europa? Mi guarda speranzoso l’addetto economico dell’ambasciata X in Italia. Come pensa che i Governi possano convincere i popoli quasi allo stremo? E i mercati ormai così scettici? Come vincere?

Ecco, salgo sul ring. E penso a una metafora imperfetta (ve lo dico poi perché imperfetta). Penso a che tipo di boxeur siano i mercati e i popoli, se hanno qualcosa in comune. Leggo su Wikipedia che “l’incalzatore, o “in-fighter”, in inglese, è un pugile dall’aggressione continua, per questo chiamato anche “pressure fighter”, che tenta di rimanere addosso all’avversario, aggredendolo con continue raffiche e intense combinazioni di ganci e uppercut”. Ecco, sì, i mercati sono degli infighter senza dubbio. Ma anche le popolazioni, non mollano. Mettono alle corde i governi. Votano solo nuovi partiti, quando insoddisfatti, abbandonano governi lenti.

I governi, appunto. Questi incerti e potenti attori, che tipo di boxeur sono? “Il picchiatore, in inglese “slugger”, è solitamente un pugile carente di tecnica e di gioco di gambe, che compensa queste carenze con la pura potenza dei propri pugni.” Ecco, certamente i governi sono i picchiatori del ring.

E leggo infine anche che, senza stupirmi più di tanto: “I puncher e i picchiatori tendono a vincere gli aggressori/in-fighter perché, cercando di avvicinarsi, gli aggressori/in-fighter finiranno invariabilmente dritti incontro ai più potenti colpi dei primi.” A parità di forma, naturalmente.

Immagino George Foreman, picchiatore, contro Frazier, costante pressure fighter. Guardate come parte all’attacco Frazier. A Foreman basteranno pochi colpi per chiudere la sfida. Devastante.

 

Sarà pur tempo che i Governi europei la smettano di essere messi sotto scacco dalla pressione dei popoli e del mercato ed escano dall’angolo. Sorprendendo, facendo qualcosa di nuovo, di non prevedibile, e poi sferrando il colpo micidiale.

Ecco come.

Mi aspetto che oggi si dia una risposta all’incredibile dono che ci ha fatto la Grecia con le sue elezioni. E’ la Grecia che è in credito con l’Europa.  Per non  avere fatto calare il buio su di essa, come il black-out del 2003 al confine svizzero immediatamente estesosi a tutto il nostro Paese. Incredibili elettori, quelli ellenici, specie quelli che non sono andati a votare, pur di non dare il voto a chi desideravano darlo per istinto, al partito anti-euro. Se dovessimo pretendere dalla Grecia tutto quanto gli chiedevamo prima dalle elezioni, i mercati alzeranno gli spread europei perché questi sanno che Stati forti che meritano fiducia sono gli Stati dove è forte un contratto sociale condiviso dalla popolazione.  Se oggi alla Grecia che si sacrifica non riconosciamo nulla, domani gli altri elettori sapranno che niente gli spetterà in cambio di sacrifici. Sarebbe la fine.

Siamo dunque usciti dall’angolo con questa geniale mossa a sorpresa. La Grecia? Fratelli volenterosi da aiutare.

E poi arriviamo al prossimo Consiglio di Europa. Usciti dall’angolo, con popoli e mercati speranzosi di esser in presenza di leader di un Continente finalmente meno rigidi e più attenti alla ricerca di una soluzione pragmatica, ecco l’annuncio.

No, niente eurobond, così ovviamente capaci di mandare in bestia i tedeschi per la ovvia visibilità del trasferimento verso i cittadini greci che spicca nei tassi d’interesse più alti che questi comporterebbero rispetto a quelli legati ai Bund.

No, niente eurobond ma il cambio del mandato della BCE verso la crescita economica con l’abolizione contestuale dell’obbligo di non sottoscrivere i titoli dei governi europei in asta.

Bingo. Questo sì che è il colpo vero. Che farà crollare gli spread e dare spazio fiscale per generare crescita. Che non farà imbestialire i tedeschi ma solo innervosirli un po’.

E che darà gioia a popoli e mercati.

Ecco perché la metafora è imperfetta. Mentre Frazier a questo punto è a terra, devastato dal pugno di Foreman, i mercati e gli elettori, dalla mossa azzardata ma geniale dei nostri Governanti, traggono entusiasmo e nuova vita. Una carezza micidiale, direi.

Certo la partita non finisce qui. Ma ho detto all’addetto commerciale che non sono tempi per  spingersi più in là di fine giugno.

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Il fast food europeo e lo slow food americano

Pensavo che se agli americani ci sono voluti 150 anni per fare della loro unione monetaria un progetto di unità culturale dove tassazione spesa e debito erano fortemente decise al centro mentre all’Europa ce ne vorranno solo 10 (con la stessa moneta), beh, ciò è equivalente a dire che noi siamo il Fast-food del mondo e loro lo Slow-Food del Pianeta.

Non che  a me dispiaccia Mc Donald, ma se dall’alto del cielo mi avessero detto, “scegli l’uno o l’altro”, prima di cadere sul Pianeta Terra, mi sarei detto che, anche ma non solo per la mia salute, avrei prediletto la terra dove alle cose che si cucinano si dedica la giusta cura. Dove si costruisce con cura quello che dovrà nutrire me e soprattutto i miei figli.

Ecco, la “giusta cura”. Rileggetevi le parole di Franco Battiato e chiedetevi se l’Europa non merita la giusta cura da parte dei suoi leader.

PS: noto il misterioso riferimento al Tennessee nel testo della canzone. Sarà casuale, ma per questo post ci sta perfettamente.

 

 

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Quei rettangolini all’ingiu’ di Roosevelt che tanto bene fecero agli Stati Uniti in recessione

Visto che siamo nell’ordine delle idee che siamo i nuovi Stati Uniti del mondo e che dobbiamo imitare l’esperienza degli Stati Uniti di America, meglio farlo bene come lo hanno fatto loro. Impariamo soprattutto da come sono usciti da grandi crisi economiche di portata recessiva come quella attuale in un momento in cui non erano ancora una nazione con uno stato centrale forte come lo hanno oggigiorno ma erano già una unione monetaria. Esatto, come noi europei.

Il grafico sottostante (tratto dall’economista di Nomura Koo), a seconda di come lo leggete, può essere agghiacciante nelle sue somiglianze con la crisi europea attuale o rosa e pieno di speranza.

A sinistra del 1933 vedete quei rettangolini gialli “positivi”? Sono i folli surplus di bilancio pubblico che il Presidente repubblicano Hoover imponeva alla collettività un po’ come la Commissione Europea “Idefix” (dal nome del cane di Asterix qui a sinistra) si ostina a fare con i paesi europei. Vedete anche il risultato, simile a quello europeo: la disoccupazione che sale terribilmente a causa di queste politiche.

Al contrario che con la Commissione europea, in democrazia si può cacciare chi sbaglia e arriva dunque Roosevelt nel 1933. I rettangolini gialli a destra del 1932 vanno verso il basso, da surplus si passa a deficit pubblico con aumento delle spese: crolla la disoccupazione.

PS: Roosevelt arriva nel 1933, il deficit del 1932 è dovuto al crollo delle entrate (revenues) che avviene regolarmente con ogni recessione causata da austerità. Vero Idefix?

PPS: Notate anche come Roosevelt arrestò l’espansione fiscale nel 1936 e come si arresti la decrescita della disoccupazione. Solo la Guerra e la grande spesa bellica finirà per rimediare all’errore di Roosevelt (in realtà di errori ne fece altri come quelli rafforzare i cartelli d’imprese e dare potere ai sindacati, un po’ come fece Mussolini coi consorzi).

Se facciamo gli Stati Uniti di Europa, per favore, i rettangolini, in questa crisi, all’ingiù, non all’insù.
Grazie Emanuele.

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Polillo risponde e noi gli chiediamo di combattere con noi per la crescita ORA

Dopo il pezzo di ieri ho avuto la piacevole sorpresa di ricevere via Twitter la cortese risposta del Sottosegretario Gianfranco Polillo. Capita raramente, di questi tempi frettolosi, instaurare dialoghi pacati e costruttivi sulla politica economica con esponenti governativi, quindi doppio grazie. La potete trovare anche sul web.

Anche se a me non piace molto replicare a repliche altrui perché il lettore ha a mio avviso gli strumenti per farsi una sua idea, alla fine troverete qualche mia breve considerazione.

*

Caro Gustavo @GustavoPiga

sottoscriverei volentieri il tuo appello, se non incombesse il “fiscal compact”, se il debito pubblico italiano non avesse raggiunto il livello che conosciamo, se il deficit di bilancio non avesse la propensione ad aumentare ad ogni respiro, se il livello della tassazione fosse identico a quello di altri Paesi simili a noi per struttura economico – sociale, se i servizi pubblici offerti quale contropartita del forte prelievo fiscale fossero – non dico tanto – simili a quelli francesi e via dicendo. Ma purtroppo non è così ed è con questa realtà che dobbiamo misurarsi: non con quella che vorremmo fosse.
Tutto il resto del tuo ragionamento fila. Sul piano teorico. E sul pratico che vedo qualche difficoltà. Aumento della produttività totale dei fattori e di quella industriale, quale presupposto per un aumento dei salari: assolutamente d’accordo. Se partiamo oggi, ci vorrà un po’ di tempo per avere risultati. E nel frattempo? Si sottovaluta la pervicacia di questa crisi. Negli ultimi cinque anni gli investimenti sono diminuiti (dati ISTAT) ad un ritmo medio trimestrale del 4 per cento. In valore assoluto (prezzi 2005) sono ancora del 20,2 per cento inferiori al primo trimestre del 2007. Aumentare la produttività, in queste circostanze, è per lo meno difficile.
Dove sono finiti, quindi, gli animal spirits italiani? Sono scomparsi o non reagiscono, invece, agli stimoli del mercato? Nel primo trimestre di quest’anno il MOL (margine operativo lordo) era pari 33,5 per cento del valore aggiunto (Banca d’Italia – Rapporto sulla stabilità finanziaria, pag. 18) “scendendo al livello più basso del 1995”. Proviamo a calcolarci sopra gli oneri finanziari (circa il 22 per cento). Le tasse pesano per un altro 60 per cento. Con la differenza (18 per cento) dovremmo spesare gli ammortamenti e l’efficienza marginale del capitale (Keynes). Ossia il suo rendimento. Un’equazione impossibile. Possiamo decretare l’eutanasia del rentier, come teorizzava sempre Keynes, ma non andremmo molto lontano.
Ed allora? Occorre intervenire sull’offerta, aumentando il MOL. Se cresce questa torta, gli altri elementi possono trovare una migliore sistemazione. Per farlo occorrono, in prospettiva, maggiori investimenti. Ma il loro volano iniziale non può che essere un maggiore rendimento del capitale investito. Ecco allora il “patto tra produttori”, come è avvenuto in Germania. Si lavora un po’ di più, con un sacrificio limitato, visto la scarsa dimensione del tempo di lavoro (i confronti internazionali non sono poi così attendibili) con l’intesa di partecipare ad un beneficio futuro. Sarà sufficiente?
Il discorso sulla domanda, nelle condizioni date, rischia di essere un problema irrisolvibile in un ottica keynesiana. Ciò che conta non è il basso grado di utilizzazione degli impianti. Questo indicatore è valido nel caso di un’economia competitiva. Se la crisi, invece, nasce da un deficit endogeno il discorso non vale più. Anzi diventa controproducente: se aumentiamo la domanda interna il surplus se ne va, com’è avvenuto nel caso del fotovoltaico, in importazioni. Questo è il punto cruciale da comprendere.
L’attuale domanda, in Italia, corrisponde a ciò che Marx definiva “il tempo della riproduzione necessaria” per la forza lavoro. Equivale cioè alla somma dei consumi delle famiglie e della Pubblica Amministrazione (in questa grandezza comprendiamo ovviamente anche il costo di riproduzione dell’imprenditore). Il potenziale produttivo esistente garantisce un equilibrio? La risposta, purtroppo, è negativa. Il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, negli ultimi 3 anni, è stato pari a circa il 3 per cento del PIL. Ogni anno, pertanto, per sostenere i consumi (e non gli investimenti) dobbiamo chiedere in prestito dall’estero circa 50 miliardi di euro. Stiamo, quindi, vivendo, come hanno fatto gli americani in tutti questi anni al di sopra delle nostre possibilità. Con due differenze: non possiamo stampare lire e non abbiamo la Cina che accumula riserve nella nostra moneta.
Per inciso, questo dato spiega più di altri la nostra fragilità finanziaria. Nel 1997 solo il 22 per cento del nostro debito era in mano ai non residenti. A forza di farci prestare soldi dall’estero, questa percentuale, nel 2010, è raddoppiata (44 per cento), per poi diminuire l’anno successivo a seguito delle vendite che hanno spinto verso l’alto gli spread. Possiamo continuare come se niente fosse? Per farlo dobbiamo pagare dazio, ma le risorse a nostra disposizione si sono esaurite.
Proviamo allora a rovesciare il ragionamento keynesiano. Con un piccolo sacrificio (contratti di secondo livello a vantaggio delle imprese che sono in grado di stare sul mercato,in una percentuale non trascurabile – Ignazio Visco: Economic and policy interconnections in the current crisis) è possibile rimettere in moto il processo di accumulazione. Quindi aumento dell’efficienza marginale del capitale quale condizione per una ripresa degli investimenti. Occupazione che, pertanto, riprendere a crescere e con essa la domanda interna. Mentre l’accresciuta produttività, che è il riflesso di questa inversione di tendenza, spinge verso una chiusura del gap delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. In prospettiva: si esce dalla crisi rendendo partecipe il mondo del lavoro in quest’opera di “ricostruzione”. Cito questa parola tra virgolette per richiamare alla mente quel passato storico che ha fatto grande un’Italia distrutta dalla guerra. Oggi ci vorrebbe un impegno molto minore, solo che se ne abbia piena consapevolezza.

Un saluto

Gianfranco Polillo
#polillo @polillog

*

Di nuovo grazie Sottosegretario.

Molto dipende da come si incanala il nostro pensiero all’inizio di un dibattito. Sull’appello, sono felice che ne condivida lo spirito.

Ma poi Lei inizia col debito e dice “non si può” perché non ci sono soldi. Io direi che siccome il problema non è il debito ma la crescita e che il problema del debito si risolve con la crescita, qualsiasi iniziativa che la stimoli deve trovarci entusiasti sostenitori di essa. Ecco perché rilevo una qualche contraddizione derivante da trappole mentali europee nel suo volere risolvere (con la sua proposta) il problema della crescita ma poi rinunciare a priori ad iniziative che la riattivino.

Ora, io e lei concordiamo su una cosa molto importante. Crescita SUBITO. E dunque sì alle riforme della produttività ma il problema è che queste, come lei dice necessitano di “tempo” per produrre risultati, proprio quello che non abbiamo se vogliamo salvare l’euro.

L’appello che le abbiamo chiesto di firmare genera crescita subito e crescita domani, salvando tantissimi giovani dallo spreco di risorse di cui parlava Stiglitz davanti a Monti. Fa parte di quelle mosse di politica economica che generano crescita e la generano, ripetiamo, subito. E dunque mettono subito in sicurezza i nostri conti pubblici grazie al maggiore reddito che generano. Dovrebbe battersi come un leone per questo appello proprio per i motivi che le sono cari!

Sul resto differiamo grandemente sul ruolo di offerta e domanda per uscire da questa crisi. La strategia dell’offerta, guardi la Germania di Schroder che lei cita, paga solo a distanza di 10 anni, lo sa bene Schroder che fu cacciato dagli elettori e il cui partito solo oggi comincia a riprendersi da quella batosta. Solo oggi Schroder viene inneggiato come salvatore della patria. Facciamolo pure, certo, il patto coi sindacati, e servirà eccome, ma abbiamo bisogno, di nuovo lo ripeto, di crescita, ORA!

E dunque domanda domanda domanda. Il paragone col fotovoltaico è improprio. La domanda pubblica di cui parlo io, che imbianca i muri delle scuole, che ristruttura i pronti soccorsi e i corridoi degli ospedali, che costruisce carceri, che restaura le mille Pompei, che mette in sicurezza il territorio, è domanda interna che si rivolge a imprese italiane. Ce lo dice la Commissione europea ogni giorno che il mondo degli appalti in ogni paese dell’Europa è chiuso alla concorrenza straniera, non fosse altro che perché i bandi sono in lingua nazionale! E, non scordiamocelo, come disse Obama nel 2009, è domanda che genera occupazione là dove l’istruzione dei lavoratori è più bassa. Aiuta dunque anche nella lotta contro il disagio, la povertà, la criminalità!

Venga con noi a combattere questa battaglia oggi e ora sulla domanda aggregata, noi l’aiuteremo a combattere quella di domani sull’offerta aggregata. Il suo ruolo può essere essenziale per far cambiare passo alla politica di questa Europa.

Suo,

Gustavo Piga

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Greek Elections: ΑΝΑΓΚΑ ΚΑΙ ΘΕΟΙ ΠΕΙΘΟΝΤΑΙ

I have asked my friend and colleague Aris Georgopoulos, Lecturer of European and Public Law at the Law School of the University of Nottingham and a founding member of the Greek Public Policy Forum (www.greekpublicpolicyforum.org) to write from Greece where he is right now a piece explaining the situation in his country. I thank him for that and I think you will be helped very much by his insights. By the way, the title of his post in English means, Even the Gods give in when confronted with need .

Ho chiesto al mio amico e collega  Aris Georgopoulos, Professore di Diritto pubblico europeo alla University of Nottingham e membro fondatore del Greek Public Policy Forum (www.greekpublicpolicyforum.org), di scriverci un articolo sulla situazione in Grecia, il suo paese, in cui si trova in questo momento. Credo troverete molto utili le sue considerazioni. PS: il titolo del pezzo è “Anche gli dei mollano quando confrontati con il bisogno”.

The Build-up

The Greek elections of 17 June have been considered as the most crucial since the restoration of Democracy in 1974. Many expats –myself included- shared this view and for this reason returned to Greece to cast their vote.

These elections had, inevitably perhaps, the character of a referendum for Greece’s position within the Eurozone (the European orientation of the country more generally, I would add); or to be more precise this was the general perception within Greece and abroad. In this binary logic the pro-Euro camp was championed by Nea Dimokratia (the conservative party) and the anti-austerity camp championed by SYRIZA (the radical leftist party, the surprise of the May elections).

This categorisation was in my view simplistic for the following reasons:

Firstly it should be remembered that the Greek elections had a significant contextual difference from similar democratic processes in other countries of the EU periphery (such as the Spanish elections or the recent Irish referendum) that added a substantial layer of complexity to the former when compared with the latter. This is because the June elections took place in the context of fundamental reshuffle of the Greek political landscape. The two traditional parties of Government PASOK (the socialist party) and Nea Demokratia (the conservative party) that dominated Greek politics since 1974 have been widely viewed as representing an old and corrupt establishment that carried the largest part of the blame for the on-going multifaceted crisis in Greece.

This meant that voters’ preferences were not shaped only by the message carried by each party. The identity of the messenger was also a factor. In other words a large number of voters could dislike the the identity of the messenger even though they would agreed with the message in principle.

Based on lengthy discussions with colleagues and friends from different walks of life I have the impression –which means that there is no scientific claim in the following observations- that there are three main groups of voters depending on how they reacted on the message -  messenger equilibrium:

1)      Those that focused on the message and disregarded the identity of the messenger (in the sense that they voted for a party that they would not have chosen otherwise). In my view this was the majority of voters that in the end voted for Nea Demokratia.

2)      The voters who prioritised the identity of the messenger more than the message. In my view a substantial part of those who voted SYRIZA fall under this group. They were attracted by SYRIZA’s fresh “non-insider” outlook as well as by the charismatic personality and populist rhetoric of its young leader.

3)      Those who took into account equally the message and the messenger. For example voters who agreed with the message of Nea Demokratia about the European orientation but tried to find other messengers.

Secondly the binary logic of the elections as a referendum on Greece’s position in the Eurozone (even with the added complexity of the identity of the messenger) is based on a presumption that the message be clear.

The message was anything but clear. Even the perceived anti-euro champion, SYRIZA had in a number of occasions declared that their preference was for Greece to remain in the Eurozone on the basis of a renegotiated deal that would restore the balance between austerity and growth. The position of renegotiation of some aspects was also part of the manifesto of Nea Demokratia. The main difference between the two parties was one of rhetoric. SYRIZA did not preclude the exit from Eurozone if the European partners were unwilling to renegotiate anything (reassuring the electorate however that such a thing would be unthinkable because of the immediate negative effects for the whole of Eurozone that would ensue a GRexit).

It suffices to note at this point that Nea Demokratia followed the same rhetoric up until 8 months ago when it was in the major opposition. Nea Demokratia’s rhetoric changed completely as a result of the former Prime Minister Papandreou’s threat of a referendum for the ratification of the second bail-out package. At that time Nea Demokratia was faced for the first time with a specific challenge that could potentially jeopardise Greece’s position in the Eurozone.

For this reason it had been suggested that in the case of a SYRIZA victory this party would be under a similar pressure to change its stance/rhetoric. The difference in this case was that SYRIZA’s reaction was deemed to be more unpredictable because SYRIZA is a coalition 12 smaller parties some of which have radical agendas and methods.

Going back to the issue of the message there is no doubt in my mind that the large majority of SYRIZA voters did not vote for it because they did not want Greece to remain in the Eurozone. Had they wanted really to turn the backs on the Eurozone and the EU as a whole they would have voted for other parties with clear anti-EU agenda, for example the Communist party.

 

The Demos has spoken (let’s see what he said)

According to the final count of votes:

  • Nea Demokratia (the conservative party) received 29,66% and 129 Parliamentary seats
  • SYRIZA (The radical leftist party) received 26,89% and 71 Parliamentary seats
  • PASOK (The socialist party) received 12,28% and 33 Parliamentary seats
  • Anexartitoi Ellines (right wing populist party) received 7,51% and 20 Parliamentary seats
  • Xrysi Aygi (extreme right) received 6,92% and 18 Parliamentary seats
  • DEMAR (moderate leftist party) received 6,26% and 17 Parliamentary seats
  • KKE (Greek Communist Party) received 4,50% and 12 Parliamentary seats

The Greek Parliament has 300 MPs.  A Government is deemed to command the confidence of the Parliament if it has the support of a Parliamentary majority (at least 151 MPs). According to the Greek Constitution there is also the possibility for the formation of a Government that commands the support of at least 120 MPs if at the time of the vote of confidence in Parliament only 239 MPs are present (as a minimum).

The day after

The elections results show that the formation of a coalition Government is very likely. At the time of writing this piece the leader of the Conservative party has had a preliminary round of discussions with the Leaders of the Socialists (PASOK) and the moderate leftists (DEMAR). It is clear that SYRIZA will not form part of a grand coalition.

Although it would be arithmetically possible for Nea demokratia and PASOK to form a two party coalition that would have a comfortable majority in Parliament (162 MPs) it is also clear that such development would not be optimal.

Firstly as already mentioned these two parties are viewed in the consciousness of the electorate as representatives of the corrupt past that has been rejected by the people.

Secondly these two parties were the interlocutors with the Troika in the previous memoranda. It would be more difficult –yet not impossible- for them to articulate the need for revisiting some aspects of these agreements.

For these reasons the participation of the third partner would really crucial both for the political legitimacy of the government in Greece in the application of tough measures in the immediate future but also for strengthening the negotiating position of the government abroad.

The unknown factor in all these is the stance that SYRIZA will decide to take as major opposition. To be more precise although SYRIZA cannot prevent the formation of a Government it can certainly affect whether the new Government will be able to govern (not by blocking legislation in Parliament but by making it non-implementable in the streets). SYRIZA has the Unions on its side and given the recent experience may decide after the anti-climax of the elections to take once again the streets. For me this is the most important dilemma that SYRIZA now faces:   To consolidate its position as “the other” party in Greek politics by becoming a strong, even uncompromising opposition that functions and respects the rules of Parliamentary Democracy or whether it will give in to the temptation of taking political debate to the streets (in order to increase its percentage in the next elections; after all this practice was very successful for SYRIZA this time around).

Here is where the EU partners have a crucial role to play. I believe that they should at the earliest opportunity give a tangible token of good will towards the new government in the form of relaxation of some aspect of the agreement for example the extension of the duration of repayments. This would strengthen the position of the Government in Greece and dissuade SYRIZA from further escalation. On the other hand if the EU partners do not make any concessions then the position of the new Government would be undermined. This in turn would mean that the possibility for new elections would increase and SYRIZA’s position would be strengthened.

 

Some final thoughts     

I still believe, despite the 7% that the fascist party of Xrysi Augi (Golden Dawn) received on Sunday that the large majority of its voters are not neo-Nazis or fascists by conviction – at least not yet. Golden Dawn has been perceived as an anti-systemic party and this fact helped it to capitalise on a general sense of dissatisfaction against the existing political system as a whole. As long as the economic and social problems remain it is likely that they will consolidate or even increase their power. Once again the rise of the far right is an issue that needs to be addressed at EU level (by trying to solve the socio-economic problems that nurture its rise).

The worrying thing for me is that violence (from the extreme right and extreme left) begins to become an acceptable (or to be more precise a tolerated) form of political expression.

My hope is that these new elections would constitute the beginning of change not only of the political landscape but also of political praxis in Greece. In the “Metapoliteusis” era -the time that followed the fall of the military junta in 1974- Greek politics were based on bi-partisan confrontational politics that often led to comfortable one party parliamentary majorities. The formation of coalition governments was the exception and normally viewed as undesirable and ineffective. The current developments show that there seems to be a slow albeit evident realisation of the benefits of conciliatory politics. It remains of course to be seen if this will last.

I think that the elections results demonstrate the truth encapsulated in the maxim “ΑΝΑΓΚΑ ΚΑΙ ΘΕΟΙ ΠΕΙΘΟΝΤΑΙ” hence the title. I strongly hope that the maxim does not refer only to the Greco-Roman deities but is also relevant to their Norse counterparts. This is necessary in order to deal with the systemic shortcomings of the Eurozone successfully and secure our common future.

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Polillo, firmi il nostro appello sul lavoro ai giovani

Il mio vicino di treno ride un po’ sconvolto leggendo sul giornale della proposta del Sottosegretario Polillo. “Ma siamo alla frutta!”, dice.

Eppure non mi trova d’accordo.

Polillo chiede di ridurre le vacanze per aumentare la produttività, l’offerta aggregata di lavoro e il prodotto interno lordo. A fronte delle migliaia di follie che ho sentito in questi mesi (la prima di tutti la riforma del mercato del lavoro che rende più facili i licenziamenti in recessione) devo dire che mi ha messo in difficoltà Polillo.

Per vari motivi. Il primo dei quali perché mi ha obbligato a rileggermi svariata letteratura su offerta di lavoro, reddito e tempo libero di signori economisti per capire quanto ne sappiamo di questi temi così rilevanti.

Il secondo dei quali perché almeno, almeno, ha avuto il merito di concentrarsi con forza sul denominatore e non sul numeratore dei vari rapporti numerici su cui la Commissione Europea (che mi ricorda sempre più ogni giorno che passa il cane di Asterix, dal nome di Idefix) si inviluppa . E cioè non su debito o deficit ma sul PIL. Viva la faccia.

Il terzo per un motivo ovvio. Perché non c’è dubbio che in un certo senso l’economia è dalla sua: non c’è dubbio che il PIL aumenterà se la sua proposta fosse adottata. Per definizione, lo insegniamo al primo anno, si lavora di più, si produce di più. E dunque diminuirebbe in prima battuta il rapporto debito-PIL ed il deficit-PIL, anche perché ci sarebbero più entrate fiscali derivanti dal maggiore reddito.

La palla è dunque nel campo degli anti-polilliani, a poco vale accusarlo: dobbiamo trovare dei contro-argomenti. Scusate se è poco, in mezzo al deserto di proposte che si reggono in piedi in questo periodo, è uno stimolo non male.

Ecco quelli che ho trovato io. Non li metto in ordine di importanza. Ne avrete altri voi. Io intanto butto giù i miei così vediamo di discuterne.

Primo, deboluccio. Ma va detto. La soluzione sa tanto di dirigistico (della serie “so meglio io di voi cosa ci vuole per l’Italia”). Sotto due dimensioni. La prima è che di per sé questa proposta non rimette in moto la capacità del sistema di generare sviluppo e benessere da sé, cosa di cui avremmo tanto bisogno. La seconda è che non incompatibile con un autoritarismo di stile sovietico. In un certo senso potremmo anche abolire il sonno ed il tempo libero, perché no.

E qui arrivo al secondo punto, un po’ più forte. Il tempo libero è benessere. Ci sono anche molte statistiche a comprovarlo. Per esempio questa dell’Ocse che lega soddisfazione e tempo libero.

Vi si rinuncia solo se il corrispettivo è maggiore della sua perdita. La prima ora di sonno ha un valore così grande che nessuna impresa sarebbe disposta a darci quel salario che richiediamo per privarcene. Troppo bassa la nostra produttività (anche perché saremmo proprio addormentati!) per che il gioco valga la candela. Le società di mercato tipicamente sono composte da individui che liberamente lavorano e creano istituti per non lavorare (come le vacanza obbligatorie) in tal modo di raggiungere il livello ottimale di lavoro e tempo libero.

Polillo ci sta chiedendo forse di peggiorare il nostro benessere? Forse no. Forse Polillo pensa che le nostre istituzioni (i sindacati?) non rappresentino il nostro volere e che ci siano persone che vogliano lavorare di più che non riescono a farlo. In effetti in questi casi permettere di diminuire il tempo libero per quelle persone sarebbe utile per la società. Ovviamente nel tempo le società hanno modificato le loro istituzioni, modificando anche le vacanze a disposizione dei lavoratori, mostrando appunto che i gusti sul tempo libero si evolvono.

Ho due obiezioni su questo punto. Molte delle persone che vogliono lavorare di più riescono a farlo, portandosi il lavoro in vacanza. Secondo, se c’è una cosa che sappiamo è che quando le persone diventano più ricche vogliono lavorare di meno e consumare non solo più fettuccine ma anche più tempo libero. Così non ci dobbiamo sorprendere se nel tempo le ore lavorate da parte delle persone sono scese in tutti i paesi che diventano più ricchi e se italiani, francesi e tedeschi lavorano meno dei greci.

Insomma, allo stesso tempo che la produttività e i salari reali sono cresciuti, se guardiamo alla dinamica dal 1970 ad oggi, le persone lavorano di meno. Che il numero di ore lavorate complessivamente non sia sceso è dovuto al fatto che questi maggiori salari abbiano fatto entrare nel mercato del lavoro nuovi attori (specie le donne). Quindi va rovesciata forse la catena logica: piuttosto che andare dal numero di ore lavorate alla produttività, come fa Polillo, bisognerebbe dire che la maggiore produttività (e i connessi maggiori salari che le imprese possono dare) porta più gente a decidere di lavorare (mentre coloro che già lavorano decidono di lavorare sempre meno). E dunque stimolare politiche della produttività per stimolare maggiore lavoro e non viceversa.

Forse Polillo pensa che siamo più greci che non francesi e tedeschi. Comunque notate che non siamo tanto peggio di questi ultimi due.

E che quindi (secondo Polillo?) i sindacati difendono un tenore di tempo libero che non ci meritiamo più. Che abbiamo fatto, durante la recessione, le cicale. In realtà, se guardiamo dal 90 ad oggi, e non dal 1970, i dati ci dicono che – specie in parallelo col rallentamento della nostra economia – abbiamo smesso di prendere più tempo libero e smesso di lavorare di meno. Giulio Zanella, bravo ricercatore di Bologna, ha messo in evidenza (Rivista di Politica Economica) che dai dati Istat emerge come chi lavorava nel 1989 lavora nel 2009 più di 1 ora in più a settimana e perde 2 ore a settimana in più per spostamenti rispetto al 1989. Queste 3 ore circa le ruba non tanto al tempo libero quanto … al sonno (il grafico dopo fa vedere che in effetti, i francesi dormono di più, speriamo anche nei quarti di finale).

In realtà lavorare di più, ma non per i motivi che dice Polillo, può fare bene. Per esempio perché il luogo di lavoro è diventato più piacevole di quanto non lo fosse 40 anni fa. E se lavoriamo di più in un contesto che ci piace probabilmente diventiamo più produttivi, come una squadra di calcio che si allena di più con un allenatore che rende gli allenamenti piacevoli permettendo anche di vincere più partite. Ma se così fosse non ci sarebbe bisogno di un decreto, state tranquilli ci pensano da soli i lavoratori ad allungarsi la settimana lavorativa.

In realtà, magari lo farebbero di più (lavorare) non se obbligati da Polillo ma se cambiassero le condizioni al contorno. Per esempio se diminuisse la tassazione sul lavoro. Ecco, questa è una riforma che Polillo potrebbe proporre. E’ probabile tuttavia che anche in questo caso questa maggiore offerta di lavoro non avverrebbe con la riduzione per decreto delle vacanze: sia perché molta parte del maggiore lavoro verrebbe da gente che in questo momento non lavora perché considera troppo basso il salario offerto (molte donne che restano a casa) e che quindi già fa … tante vacanze, sia perché le vacanze obbligatorie (come ebbi già modo di segnalare citando il Nobel Stiglitz) hanno un ruolo centrale nel permettere alle famiglie di stare insieme negli stessi giorni e di smettere di iper-lavorare per mantenere (troppo) alti i consumi o per incapacità di staccare dal lavoro se non per ordine.

Il maggiore salario netto, specie quando applicato a mestieri che richiedono istruzione, spingerebbe poi tanti giovani a modificare radicalmente il loro percorso scolastico, portandoli a laurearsi e modificare radicalmente anche il loro percorso di vita professionale.

C’è un altro modo per generare più lavoro domandato: riducendo il costo del lavoro per le imprese (dal lato dell’offerta) o aumentando la domanda aggregata in questa fase di ciclo economico negativo. Con maggiore spesa pubblica, come dice sempre Piga.

Il che porterebbe tantissimi nostri giovani in vacanza finalmente al lavoro come desiderano loro. E come meritano. Basta che Polillo firmi il nostro appello e poi lo porti a Monti. Ci sta?

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Quel sacrificio greco che non possiamo sottostimare

E’ questa, che vi vado a raccontare, una storia già raccontata diecimila volte. Che io copio.

La storia di un Continente, l’Europa, pronto a mille battaglie di civiltà.

Gli Europei, un esercito di 27 nazioni con 27 capi, attendevano che il loro leader desse un segnale per una crescita culturale che svelasse al mondo la potenza benefica dell’Europa.

Ma il leader pareva bloccato, incerto. Una crisi economica, una semplice crisi economica fermava la ripartenza verso ben altre conquiste.

I popoli europei si dichiarano sempre più impazienti e insoddisfatti. Minacciano di abbandonare il progetto europeo. I loro capi non riescono a tenerli calmi.

Venne chiesto ad un indovino di dire come se ne sarebbe potuti uscire. E costui disse al leader ed ai 27 capi: “Ricordate tempo addietro, quando diceste ai mercati che mai e poi mai avreste permesso ad un Paese di non onorare i suoi debiti?”.

Sì, rispose il leader.

“Ebbene per avere mentito, oggi dovete sacrificare quello che avete di più sacro e bello, la terra di Grecia, chiedendogli austerità”.

Quando sentì queste parole, il leader batté la terra con lo scettro, e non poté trattenere le lacrime. Poi parlò, con la voce piena di dolore. “Tu dici bene, o indovino, e io non posso, certo, disobbedire. Ma non posso sacrificare la Grecia, dove è nata Europa! Da qualunque parte io guardi, con l’austerità, ecco, non vedo che dolore, dolore, e dolore!”

Molti dei 27 capi si accostarono al leader, ricordandogli che era stato prescelto proprio per prendere le decisioni difficili. “E ora, davanti alla prima difficoltà, ti spaventi? Dobbiamo dunque pensare che preferisci la Grecia ed i suoi concittadini alla credibilità del nostro debito?”

Il leader si lasciò persuadere e insieme con i generali preparò la lettera ai Greci in cui chiedeva austerità e sacrifici, promettendo che ben presto la loro economia sarebbe tornata a splendere.

La Grecia ed i suoi cittadini caddero nell’inganno. Fecero l’austerità. Condannandosi ad un durissima recessione.

Ed ecco apparire un vecchio dalla barba bianca che ben presto esclamò, “Fuggì dall’Europa, o Grecia, se resti qui, nell’area dell’euro, morirai! La verità è che all’Europa non interessa la tua crescita, ma solo che tu riesca, in un modo o nell’altro, a ripagare il tuo debito”.

Ecco però che alla Grecia si rivolse un altro leader, nobile e coraggioso. “Grecia, non fuggire e non aver paura! Finché io vivo, nessuno ti toccherà! Io ti salverò, anche a costo di essere solo contro tutti!”

Ma la Grecia non ascoltava più. Aveva deciso che avrebbe, per amore dell’Europa, fatto quanto richiesto. “Dov’è l’altare? Io sono pronta per il sacrificio.” E si avviò.

Coloro che più amavano la Grecia cominciarono ad odiare il leader che questo sacrificio aveva imposto a questa bellissima nazione.

Davanti agli altri piccoli leader la Grecia si presentò, degna, per l’estremo sacrificio.

*

Il mito vuole che, proprio nel momento del sacrificio, Ifigenia sparisse dall’altare ed al suo posto comparisse “una cerva bianca, snella, bellissima, che aspettava quietamente di essere sacrificata”. L’armata greca poté ripartire alla conquista di Troia dopo essere rimasta a lungo in porto bloccata dai venti.

Fin qui il passato, fin qui Ifigenia. La Grecia ha accettato, con il suo voto, di non dire no all’euro, almeno ancora per un po’.

Mi è parso utile parlare di Ifigenia e di Agamennone per dire grazie ai Greci. Non è masochismo, quello dei greci, è veramente l’ultima occasione che ci offrono per capire che c’è qualcosa là fuori di meraviglioso, di ideale, un progetto chiamato Europa che nessuno ha ben capito tra i nostri piccoli leader.

E non è ironico che siano proprio loro, proprio i greci, a sacrificarsi per darci un’ultima occasione di ritrovare noi stessi ed abbandonare gli errori del passato. Non è ironico, ha una sua tragica bellezza, come Ifigenia appunto.

Gli errori del passato. Perché se Ifigenia venne sacrificata fu perché qualcuno, Agamennone, aveva detto di esser “più forte e potente degli Dei” e questa arroganza non era andata giù ai fautori del Destino. L’arroganza di chi non si piega intelligentemente al mutare improvviso degli eventi virando il vascello a seconda dei venti, di chi è re senza sapersi fare rispettare, di chi prende ordini pensando di darne, questo condannò la figlia di Agamennone, Ifigenia. Non sue colpe, colpe altrui.

L’occasione che ci regala la Grecia è unica. Non va persa. Ritroviamo il senso della direzione in questa tempesta, navigando stavolta gentilmente sotto costa per preservare la vita dei passeggeri, tutti i passeggeri, anche quelli più deboli e apparentemente meno … utili. Il tempo bello tornerà e ci troverà, se avremo ben navigato nel frattempo, in piena e robusta forma per attraversare qualsiasi mare ed arrivare dovunque si sia deciso di attraccare. A quel punto anche coloro che più ci saranno grati, coloro che furono salvati, i più deboli, saranno capaci di contribuire magnificamente al viaggio comune.