THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Dire Grazie Grazie Grazie (e Scusa) alle Piccole Imprese Venete

Ci risiamo. Non posso farci niente, sono io che sono allergico. Non ce la faccio più, è evidentemente più forte di me, ma ogni volta che leggo piccolo è brutto, perdo la trebisonda.

Se poi lo si fa davanti ai piccoli, lo trovo particolarmente difficile da digerire.

Se poi lo si fa davanti ai piccoli del Veneto, il grande Veneto dei piccoli imprenditori, beh, allora scusate, ma la misura è colma.

Sì, sì, parlo di piccoli imprenditori. Quelli veneti nel caso di specie. Quelli che soffrono come non mai. Quelli dei tanti suicidi, ma anche del credito che non c’è più e del debito della pubbliche amministrazioni che viene pagato in ritardo. Quelli là.

Quelli che fanno l’Italia dell’export. Quelli che, come ha detto il Direttore Generale della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni alla presentazione a Venezia del rapporto sull’economia del Veneto, garantiscono la maggiore internazionalizzazione (export di beni su PIL) all’interno del Paese.

Peccato però che Saccomani abbia detto di più.

La sfida impone scelte difficili al nostro sistema delle imprese: l’epoca del “piccolo è bello” è finita per sempre. La piccola impresa familiare, con modesto utilizzo di risorse tecnologiche e manageriali, non ha futuro nella competizione globale. Gli imprenditori devono orientarsi verso strategie ambiziose, volte a favorire la crescita dimensionale.

Se io fossi stato un piccolo imprenditore veneto mi sarei risentito. Ci ho messo poco a scoprire che avevo ragione. Basta fare qualche clic sul web ed eccoci sul sito della CGIA, l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese di Mestre dove leggo il commento pacato del Presidente della Cassa alle parole di Saccomanni:

Ma nella presentazione della situazione economica del Veneto non è mancata nemmeno una dura critica al nostro sistema economico: ‘l’epoca del “piccolo è bello” è finita per sempre’. Su questa affermazione mi permetto di sollevare qualche perplessità. Innanzitutto perché il problema del nostro territorio non è legato al fatto che ci sono troppe piccole imprese, caso mai è riconducibile all’assenza delle grandi imprese che in questi ultimi trent’anni sono sparite quasi completamente, non certo per colpa delle piccole aziende o del destino cinico e baro, ma per il fatto che il mercato ha operato una selezione durissima spingendole fuori mercato. In secondo luogo mi permetto di sottolineare che le piccole imprese, pur con tutti i limiti e le difficoltà, costituiscono uno straordinario patrimonio invidiatoci in tutta Europa. Si pensi che l’importanza del mondo delle micro e delle piccole imprese è ormai riconosciuto anche dall’Ue che ha rilevato che nel 2011 il 58% dei nuovi posti di lavoro è stato creato dalle imprese con meno di 10 addetti. Ritenere che queste piccole realtà costituiscano un limite per la tenuta e lo sviluppo del nostro territorio mi sembra un vero e proprio azzardo.

Io che non ho ruoli istituzionali ci vado giù un po’ più duro. Altro che azzardo. Ed in realtà, per correttezza, preciso che il Direttore Generale poco dopo si riprende in parte, quando dice che “le misure governative possono in primo luogo affrontare gli ostacoli di natura normativa che impediscono la crescita dimensionale delle imprese”. Ecco, dire “crescere è bello” forse è meglio di dire “piccolo è brutto”: perché aiuta a comprendere che quello di cui abbiamo bisogno è aiuto alle piccole.

Ma la frittata è fatta. Le parole uscite non tornano indietro, rimangono stampate di color nero, tradiscono un approccio. Nell’approccio di Banca d’Italia c’è – per primo – poca attenzione all’inefficacia del sistema bancario rispetto alle PMI in questa crisi, che forse avrebbe dovuto essere l’unico tema che a Saccomanni spettava approfondire: “Il sistema bancario deve fornire un contributo importante al processo di crescita dimensionale, sviluppando l’attività di assistenza alla clientela nell’accesso diretto al mercato dei capitali e accompagnando le imprese nell’attività di internazionalizzazione”.

Comunque troppo poco.

Mi è più utile leggere le parole del Presidente della CGIA: “va sottolineato che le sofferenze tra le imprese venete presentano valori molto diversi a seconda della dimensione delle imprese. Premesso che l’80% circa dei prestiti erogati alle aziende va al primo 10% dei maggiori affidati (cioè ad una cerchia molto ristretta di clientela), sempre in capo a questo 10% ricade anche l’80% circa delle sofferenze. In buona sostanza la stragrande maggioranza dei soldi va ai grandi gruppi economici che, stranamente, presentano livelli di solvibilità molto bassi. Sia chiaro: questa specificità non è riscontrabile solo nel Veneto, purtroppo è una caratteristica diffusa in tutto il Paese, a dimostrazione che in Italia le banche prediligono i rapporti con le grandi società, i potentati economici ed i grandi gruppi industriali. D’altronde, non è un caso che nei consigli di amministrazione dei grandi istituti di credito siedano manager, capitani d’industria o uomini comunque riconducibili a questi grandi gruppi.”

Se cercate sulla rete troverete anche uno studio del 2011 sullo stato delle piccole imprese venete in un momento, il 2011, in cui appaiono leggermente ottimistiche, prima che tutto peggiorasse nuovamente. E sapete cosa dicono queste imprese?

L’indagine VenetoCongiuntura ha consentito inoltre di misurare quali sono i tre problemi più sentiti dagli imprenditori per il 2011. I risultati confermano che i temi più “scottanti” per le aziende venete sono i ritardi nei tempi di pagamento, la difficoltà nell’accesso. al credito e la stagnazione della domanda. Nelle micromprese il problema principale segnalato è stato quello dei ritardi nei tempi di pagamento, dichiarato da quasi il 44 per cento delle aziende come primo problema, dal 31 per cento come secondo problema, mentre dal 13 per cento come terzo. L’accesso al credito è risultato un’altra grave difficoltà: infatti il 33 per cento degli imprenditori lo considera il primo problema, il 41 per cento il secondo e il 20 per cento il terzo. Nella classifica delle problematiche troviamo poi la stagnazione della domanda, indicato dal 32 per cento degli imprenditori come primo problema, dal 29 per cento come secondo e dal 22 per cento come terzo.

Ecco. Se nel 2011 oggi era così, pensate il 2012 a come un’esplosione esponenziale di queste tre criticità a cui per ora non è stata data soluzione: né dalla Banca d’Italia (i prestiti), né da Passera (i ritardi di pagamento), né dall’Europa (la domanda aggregata via domanda pubblica).

Certo, Saccomanni non è ignaro del fatto che “spetta, inoltre, all’azione di governo migliorare il contesto istituzionale in cui operano le aziende”. E che “tutte le misure di intervento in grado di rendere i servizi pubblici più efficienti ed efficaci migliorano la competitività”.

Ma mai, mai una volta nel suo discorso sentiamo il calore di una posizione culturale capace di comprendere che piccolo è bellissimo perché nuovo, perché potenzialmente rivoluzionario e innovativo, e che dunque va protetto come negli Stati Uniti e come si proteggono i nostri bellissimi bambini, introducendo regolazione differenziata e domanda pubblica ad esse riservata (sì appalti) per colmare il gap di pari opportunità che alle piccole viene negato.

Che “piccolo è bello perché la natura umana è bella”, come diceva Ernst Schumacher.

Fino a che ai grandissimi piccoli imprenditori veneti non diremo “grazie per quello che fate e scusate se siamo stati, noi regolatori e politici, finora inadatti e non alla vostra altezza, non lo faremo più”, non partirà mai la rivoluzione di crescita culturale ed economica italiana.

Post Format

Leader cercasi per imboccare il lungo sentiero degli Stati Uniti di Europa

Dice il Nobel Sargent che il Ministro del tesoro Alexander Hamilton e George Washington (sì, son loro) decisero nel 1790 di creare debito federale trasformando il debito statale di 13 Stati americani insolventi, ottenendone in cambio dagli Stati la possibilità di appropriarsi del gettito derivante dalle tariffe e dazi doganali, fino ad allora statale, che passò così in mano al Governo federale.

Il governo centrale ne fece … buon uso di questo potere fiscale, aumentando subito le tariffe così da ripagare il debito ai creditori che avevano finanziato il Governo americano e gli Stati durante la guerra di indipendenza.

E’ opinione di Sargent che tale mossa poté costruire d’incanto una forte reputazione del Governo federale nei mercati finanziari, essenziale – nella visione di Hamilton – nei (futuri e probabili) momenti di crisi (specie le Guerre) per ottenere finanziamenti a tassi convenienti.

La cessione di potere impositivo da parte degli Stati non sarebbe stata così semplice senza la presa in carico dei debiti dei 13 Stati. Ci fu uno scambio mutualmente vantaggioso tra Stati e Governo federale.

Nel 1840 però, di fronte ad un’altra crisi dei debiti statali, il Governo federale stavolta si rifiutò di ripagare lui i debiti. Gli Stati fecero fallimento e i creditori non furono pagati. Nel prendere questa decisione, dice Sargent, il Governo federale rinunciò ad ottenere ancor maggiore potere fiscale a scapito degli Stati, lasciando loro una sostanziale autonomia impositiva. Potere fiscale che come 50 anni prima gli Stati probabilmente  avrebbero concesso al governo centrale in cambio dell’aiuto sul debito. Che non arrivò, perché non si sentiva – come invece nel 1790 – l’esigenza di maggiore  potere impositivo centrale.

Il ruolo del Governo federale nell’economia fu (fino al 1920 circa) minimo, se non in momenti straordinari come quelli delle guerre interne ed esterne. In periodi di pace il potere impositivo fu spesso tolto al Governo federale e il debito fu lasciato, come nel 1840 appunto, in mano agli Stati per fare le loro opere infrastrutturali (e, se del caso, fallire).

La domanda chiave: perché il potere impositivo ed il debito vennero lasciati a livello locale e statale?

Il Governo federale Usa temeva chiaramente che i tempi non fossero maturi, quanto a coesione nazionale, per:

a) un debito federale lontano dal finanziamento di progetti locali;

b) una tassazione federale potenzialmente troppo iniqua rispetto agli interessi speciali (sempre locali) che non finanziasse a sufficienza

c) i progetti pubblici, sempre locali.

Uno stato, quando si sente diverso dagli altri, vuole un governo diverso dagli altri, è giusto che sia così. La forte autonomia impositiva e di spesa degli Stati svanì, come abbiamo visto nel post di ieri, solo nel XX° secolo con la riduzione delle differenze culturali tra gli Stati degli USA e con il crescere di un concetto di interesse nazionale geopolitico.

*

Veniamo ai nostri giorni a casa nostra. Partendo da una premessa: chi sostiene che bisogna passare ad un debito Federale (eurobond o altre proposte) deve evidentemente ragionare tenendo conto della conseguente necessità di un maggiore potere impositivo centrale a Bruxelles. Non può essere altrimenti.

Noi ora in Europa ci stiamo innamorando del “metodo Hamilton”. L’idea è che facendo del debito federale il nostro debito – come allora quello negli Usa – riacquisisca una sua reputazione che pare smarrita (basta guardare gli spread).

Con una … piccole differenza.

Lo vogliamo fare senza cancellare il debito greco, come invece fece Hamilton con i 13 stati, e per di più sottraendogli così tanta autonomia fiscale e di spesa che ci viene spontaneo chiederci: come possiamo pensare che i greci siano d’accordo con tutto ciò?

E penso anche agli italiani, quando gli diremo che le nostre tasse e la nostra spesa li deciderà il Governo europeo: quale miglior modo per far nascere un sentimento anti-europeo?

Sargent chiude dicendo: “Europeans today might be tempted to say “yes” to bailouts. Or they might also recall a time when Americans preserved their own federal system by saying “no”.

Mia traduzione: “Gli europei potrebbero essere tentati di dire “sì” ai salvataggi del debito dei singoli stati europei da parte dell’Europa (come con Hamilton, NdR). Oppure potrebbero rammentarsi di quando gli Americani preservarono il loro sistema federale (con connessa autonomia fiscale degli stati, NdR)  dicendo “no” a tali salvataggi (come nel 1840)”. E lasciando la … Grecia libera di fallire sul suo debito.

Ora la verità è che gli europei che stanno decidendo cosa fare dell’Europa in questi momenti così drammatici, i nostri leader, vorrebbero fare le cose “à la carte”: un po’ di questo (il debito europeo senza ripudiare quanto detenuto dai creditori), un po’ di quell’altro (la Grecia però non la salviamo cancellandole il debito…) e di quell’altro ancora (…senza preservare l’autonomia fiscale per Grecia e Co.).

Altro che scambio mutualmente vantaggioso!

Le citazioni di Hamilton prese strumentalmente sono rischiosissime: perché la Storia degli Stati Uniti, un successo indubbio a cui ci dobbiamo senz’altro ispirare, è complessa e ha avuto bisogno di tempo per maturare. Prima è nata l’unione e il sentimento pro-americano nei suoi cittadini, poi è nato il Governo federale americano. Vi pare a voi che oggi un olandese o un italiano si sentano europei e fratelli? No, si sentono più europei e più vicini di quanto non lo fossero alla fine della seconda guerra mondiale, solo 70 anni fa. Visto che gli Stati Uniti ci hanno messo 150 anni a fare uno Stato fortemente federale ma anche centralizzato, direi che solo con il lento avvicinarsi reciproco possiamo sperare di essere uniti e dunque pronti per quegli Stati Uniti di Europa che sogniamo.

Ma una cosa è certa: non basta il tempo, ci vogliono i valori. L’America è maturata sotto il segno del rispetto per la diversità (tra Stati) e la solidarietà (verso gli Stati meno abbienti).

E per che si diffondano i valori abbiamo bisogno di leader. Quella leadership e visione che non difettava ad Hamilton e Washington.

Post Format

Prima degli Stati Uniti d’Europa lavoriamo per l’Unione degli Stati europei

Quanto mi piace leggere Barbara Spinelli. Ma proprio tanto. Lo stile è dolce e aggressivo, e questo respiro che guarda lontano ed indietro, molto indietro, alla Storia, per capire come accarezzare il futuro e così sperare di spingerlo gentilmente nella direzione giusta, è bello. Ed intelligente.

E mi permette di elaborare meglio le mie posizioni, affinarle, riflettere sulle debolezze del mio ragionamento. E del suo, ovviamente.

Cita un bravo economista, Thomas Sargent, Premio Nobel (sul cui pezzo tornerò) e dice, la Spinelli:

Il discorso che Thomas Sargent ha tenuto in occasione del premio Nobel per l’economia, nel dicembre 2011, evoca quell’esperienza a uso europeo. Fu la messa in comune dei debiti a tramutare la costituzione confederale in Federazione. Fu per rassicurare i creditori che venne conferito alla Federazione il potere di riscuotere tasse, dandole un bilancio comune non più fatiscente. Solo dopo, forti di una garanzia federale, gli Stati si prefissero nei propri ambiti il pareggio di bilancio, e nacque la moneta unica, e si fece strada l’idea di una Banca centrale.”

L’errore evidente della giornalista? Il dollaro, la moneta unica, ci fu sin da subito (e in realtà anche le simil-banche centrali). E’ un errore importante nell’economia del suo e del mio ragionamento, perché può indurre a pensare che la messa in comune del debito sia una precondizione della messa in comune della moneta. Così non è. Temporalmente non lo fu negli Stati Uniti visto che tanti Stati diversi sono sopravvissuti insieme, uniti, con una moneta unica sin dall’inizio. Una moneta unica può vivere bene con stati diversi anche senza un debito in comune. Anzi, argomenterò, se mette il debito (ed altro) in comune troppo presto, muore.

Il secondo errore sta infatti nel pensare che lo Stato federale americano che nacque nei primi dell’800 grazie alla (temporanea) messa in comune dei debiti fosse dominante. Tutt’altro. Fino al 1910, ci dicono i dati, il debito dominante non era federale e, per quel che più conta qui, non lo era il bilancio dello Stato, inteso come entrate e spese.

Fino al 1910, quasi 150 anni dopo la nascita dell’Unione,  le entrate federali Usa (blu) erano infatti minoritarie e, soprattutto, rappresentavano meno del 3% del PIL. Le entrate fiscali degli Stati (rosso) e delle città (verde) erano maggiori.

Solo nel 1911 con la prima riforma della tassazione dei redditi qualcosa comincia a muoversi. Ma è solo al termine di due guerre mondiali e dell’ultimo mandato a Franklin Delano Roosevelt che si può dire con certezza che: a) la presenza dello Stato nell’economia Usa è divenuta significativa e b) il Governo federale è diventato l’attore dominante ed il bilancio pubblico è finalmente centralizzato.

Ci vogliamo chiedere come mai non fu centralizzato prima? Perché prima di costruire gli Stati Uniti d’America c’era da costruire … l’Unione degli Stati americani. E per farlo bisognava unire delle cose molto diverse tra loro, i singoli Stati, gelosi giustamente delle loro culture di partenza, della loro storia, delle proprie abitudini e, dunque, anche dei loro governi locali che tali aspetti finanziavano e sostenevano. Centralizzare il bilancio nell’800 sarebbe ammontato ad espropriare le culture di riferimento dei cittadini, e dunque a sancire la morte politica dell’Unione. Infatti non fu fatto.

Ci volle una guerra di secessione, la maggiore mobilità grazie alle ferrovie ed ai treni e due guerre mondiali che crearono il concetto di interesse nazionale ad avvicinare le culture degli Stati ed a permettere la (a quel punto giusta) centralizzazione dei bilanci e del debito.

Con una avvertenza: che le diversità rimangono. Il Mississipi è sempre il Mississipi e non è diventato il Massachusetts. E nessuno gli ha chiesto di diventarlo o ha minacciato la sua uscita in caso contrario. E siccome il Mississipi era ed è più povero, lo Stato Federale trasferisce di fatto circa il 10% di PIL a questo Stato per sostenerne standard di vita non troppo inferiori a quelli degli altri cittadini Usa, così da farli sentire rispettati e aiutati. Ecco come si è creata l’”unione”, tramite pazienza, cultura e solidarietà, e questa è poi potuta essere credibilmente formalizzata nella struttura duratura chiamata Stati Uniti di America.

La forza degli Stati Uniti è sempre stata, anche ora, la sua diversità all’interno, lo sappiamo: di razze, credi ma anche di Stati e culture. Quello che forse non sappiamo è che la parola diversità fu usata nel dopo guerra da un Padre fondatore dell’Europa, Jean Monnet, per descrivere cosa dovessero essere i nostri Stati Uniti di Europa:

La grande révolution européenne de notre époque, la révolution qui vise à remplacer les rivalités nationales par une union de peuples dans la liberté et la diversité, la révolution qui veut permettre un nouvel épanouissement de notre civilisation, et une nouvelle renaissance, cette révolution a commencé avec la Communauté européenne du charbon et de l’acier.

La grande rivoluzione europea della nostra epoca, la rivoluzione che mira a sostituire le rivalità nazionali con l’unione dei popoli nella libertà e la diversità, la rivoluzione che vuol permettere un nuovo sbocciare della nostra civiltà, e un nuovo rinascimento, questa rivoluzione è cominciata con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio”.

Che potenza. Che parole. E che fatti, allora.

Barbara Spinelli conclude chiedendo “… un piano che dia all’Unione le risorse necessarie, il diritto di tassare più in Europa e meno nelle nazioni …, e metta il bilancio federale sotto il controllo del Parlamento europeo … Oggi l’Unione dispone di risorse irrisorie (meno del 2 per cento del prodotto europeo), come l’America prima di Hamilton.

Non sono d’accordo, credo che questa soluzione volenterosa ucciderà l’Europa. Ribadisco, non è vero che dopo Hamilton il governo centrale degli Stati Uniti dispose di risorse non irrisorie. Altro che tassare di più, cosa che uccide le economie, bisogna spendere di più (per chi può farlo, in deficit) per curare il malato. Una volta rimesso su il malato e ripagati i debiti, prevedere un meccanismo di trasferimenti permanenti dai paesi più ricchi a quelli più poveri, come avviene in Italia dal Nord al Sud, negli Usa dal Massachusetts al Mississipi, sapendo bene che parte di quei fondi saranno … sprecati ma che è quello il vero prezzo da pagare per stare insieme. Pian piano questo ci permetterà di centralizzare maggiormente, perché le culture – sempre per fortuna diverse – si avvicineranno e allora gli sprechi diminuiranno. Tutto deve avere un suo giusto tempo.

Se poi non si vuole pagare questo prezzo, allora è giusto che la Storia prenda un’altra curva, un altro bivio. Ma questa è un’altra storia, che speriamo per ora di non raccontare.

Post Format

La BCE non cambia la sua posizione sui derivati Grecia Goldman Sachs

A quanto pare, Draghi mantiene la strada di Trichet sulla trasparenza sui derivati di Goldman Sachs alla Grecia. Dall’agenzia Bloomberg che ha citato in giudizio la BCE apprendiamo che:

1. La BCE non darà i file perché farlo “potrebbe ancora infiammare la crisi che minaccia il futuro della moneta unica”.

2. L’Avvocato della BCE Marta Lopez Torres all’udienza presso la Corte Generale dell’Unione europea in Lussemburgo ha affermato che oggi è come allora visto che la Spagna ha difficoltà a prendere a prestito sui mercati. “I mercati reagiscono i modo molto volatile, influenza l’economia dell’euro”.

Un’enorme occasione persa

Post Format

Draghi sarà il nuovo musicante di Brema? Via i banditi dei derivati dall’Europa

Ci siamo. Ricorderete. Del muro di gomma presso Francoforte della Banca Centrale Europea contro la piena trasparenza sul caso deri derivati del Governo greco con la banca Goldman Sachs. Ho scritto in un altro post:

M. Trichet (predecessore di Draghi alla BCE)  si è rifiutato di svelare all’agenzia di stampa Bloomberg i documenti interni in suo possesso che mostrano come la Grecia ha usato i derivati per nascondere il proprio debito (Bloomberg, 5Novembre,2010) dato che ”l’informazione contenuta nei 2 documenti disturberebbe (undermine) la fiducia pubblica sulla conduzione della politica economica”, e visto che Trichet scrisse in una lettera del 21 ottobre, in cui formalizza il rifiuto, che la trasparenza (disclosure) “ha, nell’attuale ambiente di mercato il rischio sostanziale ed acuto di aggiungere volatilità ed instabilità”, come non pensare che gli spreads europei non abbiano al loro interno anche questo dannoso oscurantismo?

Ebbene oggi la coraggiosa Bloomberg, agenzia di stampa, presenterà il suo caso davanti ad una corte europea, contro la BCE che si rifiuta di aprire l’accesso ai documenti. Pretendendo che siano pubblicati.

Strano che il caso parta pochi giorni prima delle elezioni greche. Forse se avessimo avuto la sentenza prima delle elezioni, ed i colpevoli fossero stati chiaramente identificati e condannati, la Grecia ed i greci oggi stimerebbero di più quell’Europa che si era battuta per loro e voterebbero più sicuri a favore dell’Europa.

Ma l’Europa non li ha aiutati ai greci. Il Parlamento europeo, al contrario di Bloomberg, non ha chiesto alla BCE di essere trasparente al riguardo, non ha preteso chiarezza, facendo male alla credibilità di questa istituzione che ha ormai perso potere e prestigio rispetto alla Commissione europea dei tecnocrati. Che tristezza.

Ecco la mia traduzione di alcuni passaggi della velina di agenzia (una versione più completa nel post sotto in inglese):

I files (a disposizione della BCE) potrebbero mostrare il ruolo che le autorità della Unione europea hanno avuto nel permettere alla Grecia di mascherare il suo deficit per quasi un decennio….

 Il primo documento è intitolato “L’impatto sui deficit pubblici e sul debito degli swap a tasso fuori mercato: il caso greco.” Il secondo documento analizza Titlos Plc, una cartolarizzazione che ha permesso alla  National Bank of Greece SA, il più grande creditore del paese, di scambiare swaps  su debito pubblico greco per ottenere finanziamenti dalla BCE….

Tutta la resistenza di Trichet sul dare informazioni su queste transazioni ha nuociuto all’attrattività delle nostre emissioni in euro. Tocca a Mario Draghi mostrare che la musica a Francoforte è cambiata, permettendo l’accesso a questi documenti in nome dell’Europa e della verità.

Faccia, Draghi, come i musicanti di Brema e cacci i banditi dalla città che vivono di oscurità e sopraffazione. Dia pulizia all’Europa dei trucchi contabili permettendo di individuare i responsabili e artefici di questa crisi.

Post Format

The ECB said it can’t release files showing how Greece may have used derivatives

Live feed from Bloomberg today:

The European Central Bank said it can’t release files showing how Greece may have used derivatives to hide its borrowings because disclosure could still inflame the crisis threatening the future of the single currency.

Disclosing the files when Bloomberg News first sought them in 2010 would have “fueled negative perceptions about Greece’s ability to honor its debt,” ECB lawyer Marta Lopez Torres said at a hearing of the European Union’s General Court in Luxembourg today. “It’s the same now with Spain” which “isn’t able to borrow money,” she said. “Markets are reacting in very volatile ways. It’s affecting the euro economy.”

…..  “Markets will perform better when they have transparency,” Timothy Pitt-Payne, lawyer for Bloomberg News, told the court. “The question is who knew what; and when did they know it?”

Bloomberg’s lawsuit, filed in December 2010, requested access to two internal papers drafted for the central bank’s six-member Executive Board. They show how Greece used swaps to hide its borrowings, according to a March 3, 2010, note attached to the papers and obtained by Bloomberg News.

The first document is entitled “The impact on government deficit and debt from off-market swaps: the Greek case.” The second reviews Titlos Plc, a securitization that allowed National Bank of Greece SA, the country’s biggest lender, to exchange swaps on Greek government debt for funding from the ECB, the Executive Board said in the cover note.

These documents “played a role” in shaping policy and “highlighted there were issues” when the ECB undertook a review of its eligibility criteria for collateral in its funding operations, the ECB lawyer told the court.

… Spokesmen for Goldman Sachs in London couldn’t immediately comment after the hearing.

Post Format

Breaking news: Bloomberg vs. ECB in Greek derivative case opens in Court today

Guys we are on!

It might be the case that the European Parliament is not the tough defender of institutional accountability in Europe, but at least somebody is: Bloomberg News. Yes, the press, or at least some part of it. Defying the ECB is not an easy task in todays’ Europe, but it should be when things are not normal in Frankfurt. And since the Court to which Bloomberg has filed its case against the ECB to obtain transparency on its knowledge of the Greek derivative transaction has decided to hear today the case (just a few days before Greek elections!) we also have in our hands a powerful test as to whether Mario Draghi, ECB President, will behave differently from his predecessor Claude Trichet who argued at the time against full transparency in an incredibly myopic stance that has scared away institutional investors that fear black holes in European public accounting. Here is part of Bloomberg’s story today:

A court will today hear a lawsuit seeking disclosure of European Central Bank files that may show how Greece used derivatives to hide its borrowings, helping to spark a crisis that threatens the region’s currency union.

     The European Union’s General Court in Luxembourg will hear arguments from Bloomberg News, which filed the suit under the EU’s freedom-of-information rules, as well as the ECB’s defense.

The ECB should have discretion to decide what is in the public interest, and releasing the papers could damage the ECB’s counterparties, hurt markets and undermine EU policy, the Frankfurt-based central bank has said in court filings.

     The files may help show the role EU authorities played in allowing Greece to mask its deficit for almost a decade before the nation’s troubled finances necessitated a 240 billion-euro ($300 billion) bailout and the biggest debt restructuring in history….

     “The documents may be proof that there was tacit collusion between the EU and Greece, that no action was taken,” said Georg Erber, a research associate at the DIW Berlin economic research institute. The lack of transparency has “weakened the credibility of the institutions, and the concern is that the same problem will repeat itself again and again.”

     “The public has a right to know how EU authorities may have allowed Greece to hide its deficit which helped trigger Europe’s sovereign debt crisis,” said Matthew Winkler, editor- in-chief of Bloomberg News. “Greater transparency results in more accountability, and we seek this information to understand how this debt debacle unfolded in an effort to avoid repeating it.”

     Bloomberg’s lawsuit, filed in December 2010, requested access to two internal papers drafted for the central bank’s six-member Executive Board. The notes show how Greece used swaps to hide its borrowings, according to a March 3, 2010, note attached to the papers and obtained by Bloomberg News.

     The first document is entitled “The impact on government deficit and debt from off-market swaps: the Greek case.” The second reviews Titlos Plc, a securitization that allowed National Bank of Greece SA, the country’s biggest lender, to exchange swaps on Greek government debt for funding from the ECB, the Executive Board said in the cover note.

     The Greek government didn’t originally disclose the swaps, designed to help it comply with the deficit and debt rules it agreed to meet when it joined the euro in 2001. The swaps, which Greece hadn’t disclosed as debt before the crisis began, allowed the country to increase borrowings by 5.3 billion euros, Eurostat, the EU’s statistics agency, said in November 2010.

     In April 2009 — seven months before the Greek crisis erupted — ECB officials spotted “a swap operation in unusual terms,” according to the March 2010 document.

     In the largest derivative transaction disclosed so far, Greece borrowed 2.8 billion euros from Goldman Sachs Group Inc. in 2001 through a derivative that swapped dollar and yen- denominated debt issued by the nation for euros using a historical exchange rate, a move that generated an implied reduction in total borrowings.

     “The Greek authorities had never informed Eurostat about this complex issue, and no opinion on the accounting treatment had been requested,” Eurostat, the Luxembourg-based statistics agency, said in a statement. The watchdog had only “general”

discussions with financial institutions over its debt and deficit guidelines when the swap was executed in 2001.

     “It is possible that Goldman Sachs asked us for general clarifications,” Eurostat said, declining to elaborate further.

Post Format

Of Indifferent Generosity in Europe

There is a growing movement to recognize to Germany its due share in alleviating the burden for crisis-ridden countries like Greece, Ireland, Portugal and Spain.

Indeed, Germany is the one that has set aside in guarantees the most for those 4 countries: 113 billion euro over the 377 granted so far (233 of which to Greece).

Italy only 75.

Actually, I take it back. Let me show you that I have learned my lesson well from the burocratic members of the European Commission. A debt is not a debt if not calculated as a share of GDP, the capacity to repay of a debtor. A gift is not a gift if not calculated in terms of the capacity of making presents of that generous donor, again its GDP.

So if I look at gifts as a share of GDP, I see that it is Malta and Slovakia that turn out to be the most generous countries, giving almost 6% of their GDP to crisis countries.

Germany 4.4%.

Italy 4.7%.

I found this quote, related to generosity: “la générosité n’est qu’une indifférence  qui se donne des airs“. Generosity is nothing but bloated indifference. Not always true, but fitting.

Thanks to Alejandro.

 

Post Format

Della generosità italiana in Europa

Cresce il club di coloro che dicono che la Germania sta generosamente mettendo tanto a supporto dell’Europa. Indubbiamente è la Germania che ha messo più soldi (garanzie) per Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia. 113 miliardi di euro sui 377 sinora accordati (di cui 233 circa alla Grecia).

L’Italia solo 75.

Peccato che in Europa ci hanno insegnato a valutare i debiti in funzione del PIL e dunque la stessa cosa dobbiamo fare per i crediti: rapportarli alla capacità del pagatore, al suo PIL.

Se lo facciamo, scopriamo che i più generosi tra i creditori sono state Malta e la Slovacchia, con circa il 6% di PIL ciascuna. La Germania ha dato il 4,4% del suo PIL.

L’Italia il 4,7%.

Ecco, ho letto questa citazione a riguardo delle generosità: “la générosité n’est qu’une indifférence  qui se donne des airs“. Devo tradurre?

Grazie ad Alejandro.

Post Format

That overharvested Europe. In memory of Elinor Ostrom

Elinor Ostrom passed away. She received the 2009 Nobel Prize in Economic Sciences for her “groundbreaking research on the ways that people organize themselves to manage resources”.

She recently wrote, in Insights on linking forests, trees, and people from the air, on the ground, and in the laboratory, with Harini Nagendraa:

Evidence from all (three) research methods challenges the presumption that a single governance arrangement will control overharvesting in all settings. The temptations to overharvest from natural resources are always large. If the formal rules limiting access and harvest levels are not known or considered legitimate by local resource users, substantial investment in fences and official guards to patrol boundaries are needed to prevent ‘‘illegal’’ harvesting.

Without these expensive inputs, government-owned, ‘‘protected’’ forests may not be protected in practice. On the other hand, when the users themselves have a role in making local rules, or at least consider the rules to be legitimate, they are frequently willing to engage themselves in monitoring and sanctioning of uses considered illegal, even of public property. When users are genuinely engaged in decisions regarding rules that affect their use, the likelihood of users following the rules and monitoring others is much greater than when an authority simply imposes rules on users.

These results help to open up a previously undescribed frontier of research on the most effective institutional and tenure arrangements for protecting forests, from public protected areas to private forests to community forests, under various conditions.”

You know very well where all this is leading me to. Yes, you are right, to the issue of how to protect our Europe, our most precious institutional resource, currently at risk of being overharvested and depleted.

If the formal rules limiting access and harvest levels are not known or considered legitimate by local resource users, substantial investment in fences and official guards to patrol boundaries are needed to prevent ‘‘illegal’’ harvesting.”

Isn’t this what happened? Haven’t we spent and wasted an incredible amount of resources of our best public minds in the first decade of the euro, forcing them in a useless surveillance from the Center that was felt as a cold intrusion with little value for societies? And aren’t we in the process of perversely continuing to do so in the mist of the worse fire in this dry season?

What else could we have done?

On the other hand, when the users themselves have a role in making local rules, or at least consider the rules to be legitimate, they are frequently willing to engage themselves in monitoring and sanctioning of uses considered illegal, even of public property. When users are genuinely engaged in decisions regarding rules that affect their use, the likelihood of users following the rules and monitoring others is much greater than when an authority simply imposes rules on users.”

Oh yes. Just like for a parent with a son, at a certain point you have to let go, teach by example, help when needed but refrain from imposing. Because when you impose your own rules, the vicious circle of recklessness starts. All you have to hope for is that your good example and his pride let the child grow into a man able to take his future in his own hands with responsibility.

This is true for Greece, for Italy, for Spain, Portugal, Ireland.

The time for external rules is over. Forget about endless negotiations in Brussels that humiliate countries and alienate their people from the European project. Paradoxically, better is to let each country decide its own fate with no EU-based imposition and with help when needed. Allowing this  might turn out to be the only good thing that a true leader of Europe will have done in these past 10 years of wasted opportunities.