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I conflitti d’interesse. Rendere visibile l’invisibile

Ho chiesto al mio bravissimo collega Emiliano Di Carlo, docente, di raccontarci della sua bellissima esperienza, che va avanti da alcuni anni, di discutere assieme al personale della Pubblica Amministrazione - in sessioni che prevedono anche questionari – del rilevantissimo tema del conflitto d’interessi. E’ questione in cui, come al solito, tramite professionalizzazione e coinvolgimento si fanno passi da gigante verso una Pubblica Amministrazione al servizio di imprese e cittadini. Lo ringrazio per l’entusiasmo e l’attenzione che sa suscitare in aula: il suo contributo al PIL non va sottostimato ed ecco perché uso tutti questi superlativi.

Nei giorni scorsi ho tenuto alcuni interventi di docenza sul tema “conflitto di interessi” (CdI). Prima di iniziare le lezioni ho somministrato un questionario sui rimedi di gestione del CdI. In particolare, ho chiesto ai discenti di immedesimarsi in alcune situazioni di CdI e di scegliere i rimedi più opportuni per affrontare il fenomeno. L’obiettivo del questionario era di comprendere le motivazioni che portano gli individui, posti di fronte a situazioni concrete di conflitto, a scegliere taluni rimedi e ad escluderne altri.

Tra le situazioni di CdI previste nel questionario, indubbiamente la più interessante è la seguente:

Cerca di immedesimarti nella seguente situazione:

Sono proprietario di un’impresa farmaceutica multinazionale, in cui sono anche amministratore delegato. Un giorno, l’incaricato di formare il nuovo governo, dopo la fine del mandato del precedente, mi propone la carica di Ministro della salute, in virtù delle mie comprovate competenze nel settore sanitario (che quindi posso mettere a servizio del Paese) e della mia integrità morale. Quali tra i seguenti rimedi ritengo adeguati per gestire l’interferenza che potrebbe presentarsi in futuro, vista la presenza di un interesse finanziario rilevante nella mia impresa farmaceutica? Posso scegliere anche più rimedi (segnare con una X il rimedio scelto):

1) Nessuna regola scritta, in quanto sono in grado di autodisciplinare il mio comportamento grazie alla mia professionalità e integrità morale;

2) Prima della mia nomina devo comunicare ad un’Autorità di vigilanza la presenza dell’interesse finanziario nella mia società farmaceutica, sarà poi tale Autorità a decidere il rimedio più opportuno da applicare (cioè i rimedi 1 e da 3 a 7);

3) Posso mantenere il mio incarico da amministratore delegato (ipotizzando che non sottragga tempo all’incarico di Ministro) e la proprietà della mia impresa, ma devo astenermi dalle decisioni che possono avere effetti sulla stessa, anche nelle situazioni in cui le mie competenze sono preziose;

4) Se decido di accettare l’incarico, devo dimettermi da amministratore delegato, perdendo quindi la possibilità di gestire la mia impresa, ma posso mantenerne la proprietà;

5) Se decido di accettare l’incarico, devo dimettermi da amministratore delegato e devo cedere la proprietà, se voglio anche ai miei figli;

6) Se decido di accettare l’incarico, devo dimettermi da amministratore delegato e devo cedere la proprietà a soggetti esterni alla mia famiglia o comunque a me non correlati;

7) Deve essere proibita la possibilità che io possa essere nominato Ministro della Salute.

Premesso che la legge Italiana sul CdI (L. 215/2004) consentirebbe, come noto, all’imprenditore di mantenere la proprietà dell’azienda, ma non la carica di amministratore delegato, la tabella seguente evidenzia i rimedi scelti dai 53 rispondenti.

Rimedio 1

Rimedio 2

Rimedio 3

Rimedio 4

Rimedio 5

Rimedio 6

Rimedio 7

0,0%

39,6%

5,7%

11,3%

1,9%

34,0%

13,2%

Il rimedio 2 (comunicazione all’autorità di vigilanza dell’interesse privato) è quello che ha trovato maggior consenso da parte del campione, seguito dai rimedi 6 (vendita della proprietà), 7 (proibire all’imprenditore di essere nominato ministro) e 4 (dimissioni da amministratore delegato). Nessuno, almeno in prima battuta, ritiene adeguato il rimedio 1 (autogestione del conflitto).

Ai soggetti che hanno scelto il rimedio 2 è stato poi chiesto di immedesimarsi nell’autorità di vigilanza e di scegliere uno tra gli altri rimedi previsti (cioè i rimedi 1 e dal 3 al 7). Di seguito le risposte:

Rimedio 1

Rimedio 3

Rimedio 4

Rimedio 5

Rimedio 6

Rimedio 7

3,8%

7,5%

15,1%

1,9%

7,5%

3,8%

È interessante notare che in questo caso il rimedio più utilizzato è il 4, seguito dal 6 e dal 3. Possiamo quindi affermare che circa metà del campione utilizzerebbe rimedi preventivi molto forti (rimedi 6 e 7), mentre l’altra metà, tollerando maggiormente il CdI, rimedi ben più leggeri.

I risultati evidenziati nelle tabelle e, soprattutto, il commento in aula del questionario hanno fatto emergere una serie di considerazioni:

1) gli individui valutano il CdI dell’imprenditore/potenziale ministro in modo diverso, in quanto diversi sono i rimedi che applicherebbero;

2) Alcuni ritengono ingiusto che un imprenditore debba vendere la proprietà nella sua impresa farmaceutica per poter diventare ministro della salute (sono quindi allineati con la nostra legge sul conflitto di interessi). Insomma, sembra che la correttezza nei confronti del singolo pesi più del rischio che la collettività si assume accettando un palese conflitto di interessi;

3) Una percentuale molto bassa del campione proibirebbe all’imprenditore di essere nominato ministro (rimedio 7). Dalla discussione in aula è emerso che chi ha scelto tale rimedio pensa che il ministro non possa non essere influenzato dal suo forte interesse privato, anche quando egli dichiari di essere obiettivo e indipendente nelle proprie scelte. Inoltre, alcuni sottolineano che l’interesse della collettività impone che il ministro non solo sia indipendente ma appaia indipendente; in altri termini, considerano rilevante non solo il conflitto di interessi reale, ma anche quello apparente;

4) Tra chi non ha scelto il rimedio 7, c’è chi afferma che proibire all’imprenditore di diventare ministro potrebbe essere un danno per la collettività, visto che nel questionario veniva sottolineato che l’imprenditore ha competenze rilevanti che possono essere messe a servizio del paese. Tuttavia, è opportuno considerare che è pressoché impossibile stabilire se e quando il ministro riceverà interferenze dal suo interesse privato (il conflitto di interessi offusca la competenza!), inoltre non può non essere richiamata la necessità di avere un ministro affidabile e credibile agli occhi di osservatori esterni. In altri termini, si dovrebbero minimizzare le condizioni che generano sospetto in coloro cui le decisioni sono indirizzate, a prescindere dall’influenza che l’interesse privato può aver avuto;

5) Alcuni ritengono che il CdI possa essere risolto con le dimissioni dalla carica di amministratore delegato, non considerando che il mantenimento della proprietà non fa cessare l’interesse privato agli utili che l’impresa è in grado di generare. E se un giorno il Ministro si trovasse nella situazione di dover decidere sulla necessità di acquistare un vaccino dall’impresa di cui è proprietario, trovandosi quindi da entrambi i lati della transazione come venditore e acquirente? È possibile pensare che tale scelta non determinerà alcun condizionamento?

6) chi sceglie il rimedio (5) dell’astensione dalle decisioni in CdI non considera che il tipo di interesse privato dell’imprenditore (la scelta dell’impresa farmaceutica per il potenziale ministro della salute non è casuale) amplifica la portata del conflitto (nel senso che si presenterà più volte nel suo processo decisionale, e quindi dovrà astenersi un numero eccessivo di volte) e quindi la portata delle conseguenze per la collettività. L’elevata portata del conflitto rende quindi inapplicabile il rimedio dell’astensione;

7) Coloro che hanno scelto il rimedio 6, ritengono che la vendita del patrimonio elimini definitivamente il CdI, senza considerare che l’interesse economico potrebbe essere la punta di un iceberg di altri interessi economici e non economici (soprattutto interessi relazionali) invisibili agli occhi degli osservatori esterni. Pertanto, anche la vendita del patrimonio non consente al ministro di apparire indipendente; non eliminando il conflitto apparente.

8) In generale, il campione non si considera che la credibilità del ministro si estende alle istituzioni che egli rappresenta.

In conclusione, non voglio arrivare a proporre una risposta su quale possa essere il rimedio da applicare alla situazione prospettata nel questionario. Non è però possibile negare l’elevata gravità del CdI dell’imprenditore e la necessità di utilizzare rimedi non leggeri per affrontarlo.

Emiliano Di Carlo 

I risultati del questionario e le discussioni avute in aula evidenziano un problema culturale: c’è ancora molta strada da fare per rendere visibile l’invisibile

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Chi ha scritto a chi?

Carissimi, pensavo utile solleticarvi a pensare entro domani mattina chi è l’autore di questa lettera e a chi è stata indirizzata. Domani mattina prima di partire per la Turchia vi aggiungerò i nomi del mittente e del destinatario. Cari saluti. GP

Caro Signor Presidente,

… Lei si è lanciato in un duplice compito, ripresa e riforma: ripresa dalla recessione ed il passaggio di quelle riforme sociali e di mercato che sono ormai da tempo necessarie. Per quanto riguarda il primo compito, velocità e risultati rapidi sono essenziali. Il secondo può essere anch’esso urgente: ma troppa fretta potrebbe essere nefasta e ci vuole in questo caso la saggezza del lungo periodo, qui più necessaria del risultato immediato. Sarà grazie al prestigio derivante per il suo Governo dal conseguire la ripresa nel breve periodo che avrà la forza per compiere le riforme di lungo periodo. Affrontare ora una riforma, anche se questa è saggia e necessaria, può per certi versi stravolgere la fiducia del mondo imprenditoriale …

In generale, un incremento della produzione non può che avvenire con uno di questi 3 modi:

1) le famiglie devono essere indotte a spendere di più,

2) le imprese devono essere indotte, o tramite maggiore fiducia sulle prospettive future o tramite minori tassi d’interesse, a generare più reddito nelle mani della propria forza lavoro o …

3) le autorità pubbliche devono essere invocate in supporto della creazione di maggiore reddito tramite la spesa di denaro preso a prestito o stampato.

In tempi cattivi il primo fattore non può funzionare su larga scala. Il secondo fattore entrerà in gioco solo dopo, come successivo attacco alla recessione, una volta che la marea sia stata respinta dalla spesa pubblica, da cui ci possiamo aspettare il maggiore impulso.

Gli insuccessi di questi primi sei mesi del suo mandato sono da addebitare all’ovvia conseguenza del fallimento da parte del suo Governo di apportare incrementi sostanziali alla spesa pubblica via deficit. La situazione tra 6 mesi dunque dipenderà interamente dal fatto che abbiate costruito o meno le fondamenta per un programma più ampio di spesa per il futuro.

Se mi chiedesse cosa fare per il futuro immediato Le direi quanto segue:

Nel campo della politica economica, prima di tutto è necessario un ampio programma di spesa. … Non rientra nelle mie funzioni indicare in quali campi della spesa pubblica. Ma darei preferenza a quei progetti che possono maturare rapidamente così da raggiungere una dimensione notevole …Secondo poi, si dovrà mantenere ampio ed abbondante credito, curando in particolare la riduzione dei tassi a lungo termine.

Con questi adattamenti o ampliamenti delle vostre attuali politiche, mi attenderei un esito di successo con grande sicurezza. Quanto ciò sarebbe significativo non solo per la nostra prosperità materiale e del mondo intero, ma anche conforto ai crucci delle persone tramite un ritorno della loro fiducia nella saggezza e nel potere del Governo!

Con grande rispetto. Suo,

???

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The European disease

A carrier is a person or other organism that has contracted an infectious disease, but who displays no symptoms. Although unaffected by the disease themselves, carriers can transmit it to others. A number of animal species can act as a vector of human disease. Wikipedia.

 

Yes, benign European institutions are the carriers across Europe of the disease of recession. With it they infect nations and individuals.

How far is the virus traveling? Far, as exports of one country collapse when the growth of another country collapses. One nation getting sick makes the neighboring country more likely to be infected.

How vastly is the virus spreading? Vastly indeed, if it is starting to bite even the most vaccinated types, like Germany, as preliminary data seem to confirm.

How terrible is the disease? Terrible indeed, as we are witnessing the strength of extreme, close to xenophobic, parties rise, like in France Mme Le Pen or like in the Netherlands, where the Dutch government falls because of far-right politician Geert Wilderspulled pulling out of budget talks.

Recessions bring political extremism, not only economic drama, disrupting the fabric of society, as we had already said once.

They most of all increase distance between people living close to one another, raising social and racial tensions. Europe is about closing distances between people living close to one another. A grandiose project of shared brotherhood. So far internet and Ryan Air have helped. It is time that European politics gives its contribution too. Stop the disease, fight the recession, NOW, with fiscal expansions, before it becomes too late.

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La follia di una politica fiscale centralizzata e l’irrilevanza degli eurobond

Buongiorno a voi. Mi hanno segnalato di prima mattina che ho perso il dibattito a distanza tra il Nobel Krugman (Repubblica) e l’Avv. Guido Rossi (Sole 24 ore).

Strana combinazione. Distanza tra continenti, distanza tra giornali, distanza tra preparazione, distanza tra passaporti.

Mi unisce a loro la stanchezza infinita per queste politiche di austerità che condannanno l’Europa.

Mi distingue da Krugman la tesi sulla bontà di una uscita dall’euro ma non per un ragionamento economico come fa Rossi, “l’abbandono dell’euro provocherebbe una sorta di disastro finale nelle economie occidentali e nella finanza mondiale”. Per favore, ogni cosa che si fa, si disfa, perdenti e vincenti ci saranno sempre e dopo un bel po’ di caos il  mondo continuerebbe ad andare avanti come è sempre andato, producendo e scambiando e con una Grecia, va detto, che avrebbe un vantaggio dalla svalutazione della dracma ben più abbondante del pazzesco costo che sta subendo per restare nell’euro.

Ma per un ragionamento politico: l’Europa politica che stiamo costruendo subirebbe un arresto per decenni e questo sì che in un mondo globale sarebbe un danno terribile. Ma non si può chiedere a Krugman di fare il tifo per l’Europa: questione di passaporto.

Anche Rossi fa un argomento politico, e qui forse è in terreno a lui più congeniale, di cui condivido il fine ultimo: una Europa “seriamente concorrenziale con gli Stati Uniti d’America, soprattutto nell’eliminazione delle disuguaglianze sociali e nella qualità della vita, finalità contrarie alle logiche del capitalismo finanziario”. Ecco forse anche i greci dovrebbero valutare questo vantaggio del rimanere nell’euro malgrado i costi economici. Ma tutto sta a capire come raggiungere questo obiettivo in maniera convincente.

Per raggiungerlo, di nuovo, Rossi porta ricette economiche su cui sono in serio disaccordo. E siccome non vogliamo altri 10 anni di ricette economiche sbagliate per l’Europa, sarebbe bene parlarne. Cito Rossi nuovamente:

È invece la moneta unica di un’Europa che si salva solo se continua nel suo processo di unificazione, affiancando all’euro una politica fiscale e monetaria unitaria e una forte spinta verso una vera Europa federale. Si potrà allora dotare la Banca centrale europea di veri poteri di una banca centrale, favorire l’emissione degli eurobond, il cui progetto ha molti sostenitori ed è già stato ampiamente illustrato nei particolari e fors’anche stimolare la domanda con meno riguardo a pur controllati processi inflazionistici”.

Se pensiamo che l’Europa si salvi dal suo declino strutturale come area con gli Eurobond, pezzi di carta con piccoli trasferimenti tra Germania e Grecia, dal valore più che altro simbolico, scordiamoci di uscire da questa crisi.

Peggio ancora, se pensiamo che una politica fiscale centralizzata ci salvi, addio Europa. Centralizzando anche la politica fiscale la si allontana dai cittadini e dai loro bisogni che sono in questo momento altamente asimmetrici. Una politica fiscale centralizzata a Bruxelles, per l’italiano o il greco, sarà più vicina al cittadino medio, il francese, di quanto non lo sia oggi. E dunque più lontana dal supporto alla sua sofferenza, più lontana dal supporto necessario per il rilancio economico locale.

Se la crisi è negli shock asimmetrici (vedi Germania ed Italia) e nella nostra incapacità di gestirli, sarebbe criminoso privarci, dopo avere rinunciato al cambio e alla moneta, dell’unica gamba di politica economica che ancora abbiamo per gestire tali shock nazionali, la politica fiscale.

Una politica fiscale centralizzata deve essere la conseguenza e non la causa dell’Europa unita. Quando tutti saremo più simili, perché avremo imparato a conoscerci meglio, commerciando e viaggiando sempre più, quando le nostre economie strutturalmente si avvicineranno sempre più, allora saremo pronti a delegare la politica fiscale al centro.

Non c’è fretta, l’Europa va costruita lentamente: abbiamo visto quanto ci è già costato accelerare senza pensare bene alle conseguenze di quello che facevamo. Gli Stati Uniti di America, come notavo indirettamente nel post su Roosevelt ed il New Deal di ieri, nel loro primo secolo erano molto decentralizzati nel loro processo fiscale, e solo nell’ultimo secolo hanno aumentato il loro grado di centralizzazione, e comunque con ampi limiti, lasciando potere agli stati: e questo è avvenuto perché il Paese si è unito sempre più culturalmente dopo la Guerra di secessione.

Di cosa abbiamo dunque bisogno? Di due cose: di un’Europa che investa sempre più risorse nella cultura, nell’istruzione europea dei giovani, in una difesa comune. Questo sì che aiuta ad unirci. Lento? Certo, e allora? Chi va piano….

Secondo, della politica giusta per uscire da questa crisi prima che qualcuno si decida a seguire i consigli (o lugubri presagi) di Krugman.

E qui per l’ultima volta mi allontano da Rossi quando dice che l’America degli anni trenta fu salvata dall’abbandono di politiche monetarie restrittive che destabilizzavano l’economia (vero) e che “si creò così finalmente stabilità dei prezzi, bassi interessi, e largo credito alle imprese, stimolando la crescita attraverso la creazione di nuova domanda”.

Forse Rossi dimentica che la politica di Roosevelt non fu di stabilità dei prezzi: egli si legò le mani (vedi grafico tratto da Eggertson dove la linea verticale mostra l’arrivo di FDR) ad una politica inflazionistica a tassi nominali a zero (grafico a sinistra) grazie a grandi deficit pubblici (9% di PIL!) e debito nominale, così che la deflazione divenne inflazione (dal -26% al +13%) e i tassi reali a breve (a destra) si abbassarono permettendo la ripresa della domanda!

Se citiamo Keynes e pensiamo a Roosevelt, per favore facciamolo correttamente e portiamo i nostri ragionamenti fino in fondo. Se quello è il modello (e io sono per esso) allora diciamo chiaramente che: malgrado non si abbia bisogno di una ripresa dell’inflazione così ampia (per fortuna) come allora perché non siamo in deflazione, abbiamo certamente bisogno come allora di chi pompi la domanda nel sistema e, lo ripeto da mesi, c’è un solo attore che lo può fare, allora come ieri: la spesa pubblica, quella fatta bene. Il deficit? Lo faccia la Germania con i paesi del Nord, l’Italia con i paesi del Sud faccia spesa finanziata da quelle tasse che abbiamo già alzato, ma per favore non ci ripaghiamo il debito con le tasse, facciamoci spesa, così riparte il PIL e crolla il rapporto debito-PIL e gli spread crollano.

In una frase: per favore non perdiamo tempo con eurobond e politica fiscale centralizzata per salvare l’euro e l’Europa. Così l’Europa si condanna piuttosto a quella lenta agonia che non si meritano le future generazioni, a cui dovremmo poi dare l’arduo compito di ricostruire dalle ceneri della nostra miopia.

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Non lasciare solo Giarda

Ovviamente non credo una parola di quanto riportano i giornali oggi sui piani dei tagli di spesa. Sarebbe folle che la questione fosse posta così come raccontata. Tipo: ”Tagli ai Ministeri: questi si rifiutano.”

Se così fosse, fanno bene i Ministeri a rifiutarsi.

La parola “spending review” ha insito dentro di essa il concetto di “rassegna”, “controllo”, “verifica”. Altrimenti l’avrebbero chiamata “spending reduction plan”.

Nessun Governo di qualità affronterebbe ora la questione spesa tagliando i capitoli di bilancio dei Ministeri.

Primo perché tagliare ora e non piuttosto riqualificare farebbe crollare ulteriormente il PIL: meno imprese vendono alla P.A., meno occupazione, più licenziamenti.

Secondo, perché non sappiamo cosa tagliare. Va scoperto prima dove si compra male: lo stesso computer ad un prezzo più alto, troppi computer, un computer di eccessiva qualità.

Terzo, perché la ciccia degli sprechi è nella Sanità e nelle spese delle regioni, che si controllano dal centro usando sapientemente i trasferimenti statali (tanti ai migliori, pochi ai peggiori, ma una volta che questi sono stati identificati).

Nessun Governo di qualità affronterebbe ora la questione spesa accentrando gli appalti (presso Consip? chissà, ma non importa), come qualche giornale menziona.

Primo, perché l’accentramento uccide le PMI e non garantisce qualità della commessa. Lo so bene io, che ero Presidente Consip (stazione appaltante dello Stato che accentrava gli acquisti) nel triennio 2002-2005. Dobbiamo, spero, aver imparato dai nostri (compresi i miei) errori.

Secondo, perché quella che va accentrata è la raccolta in tempo reale delle informazioni su chi compra quando, cosa, quanto. Così che si possa poi procedere ad autorizzare l’acquisto una volta valutata la bontà dell’acquisto.

Per ultimo, vi allego un passo tratto dalla spending review inglese 2010, di cui non dobbiamo solo copiare le parole ad effetto ma anche la sostanza:

The Spending Review makes choices. Particular focus has been given to reducing welfare costs and wasteful spending. This has enabled the Coalition Government to prioritise the NHS, schools, early years provision and the capital investments that support long term economic growth, setting the country on a new path towards long term prosperity and fairness.

“La Spending Review effettua scelte. Un focus particolare è stato dato (quest’anno, NdR) alla riduzione dei costi del welfare e degli sprechi. Ciò ha permesso al Governo di dare priorità alla sanità, le scuole, infanzia e infrastrutture che sostengano la crescita di lungo periodo, portando il paese su un nuovo sentiero di prosperità di lungo termine e di giustizia.”

Così difficile fare scelte? Così difficile ottenere i dati e dire no a coloro che comprano male?

Certo se Giarda lavora da solo come qualche pettegolezzo sembrerebbe far capire, sì. Ci vorrebbe uno squadrone di esperti che lo supportino, con il contributo on-line di tutti quei pezzi di società che sanno, possono e vogliono contribuire, per il bene del Paese. Se Monti non lo aiuterà, la responsabilità sarà ovviamente solo sua.

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Prof. Monti, vorrei che i miei figli si ricordassero di lei.

Tra il 1933 ed il 1940, i governi centrali, statali e locali assieme spesero 2 miliardi di dollari l’anno per fornire aiuto ad almeno 2 milioni di famiglie al mese. Nel 1933, con la disoccupazione al 25%, il governo centrale introdusse un piano di aiuti che ridistribuiva il 4% del PNL ad un quarto delle famiglie del paese. La possibilità di fornire così tanto denaro ad un quarto delle famiglie costituiva una opportunità unica, nella storia della nazione, per la corruzione.”

Stati Uniti, New Deal, Franklin Delano Roosevelt (FDR).

Ho riletto con interesse un articolo di qualche anno fa che spiegava come e perché Roosevelt riuscì a trasformare l’amministrazione centrale (statale) americana – America che fino ad allora aveva utilizzato, per aiutare i più poveri ed indigenti, schemi di beneficenza e assistenza dei privati assieme a trasferimenti locali delle municipalità – in una macchina alquanto burocratica ma anche efficiente che soppiantò in larga parte (ma non completamente) Governatori e sindaci in tale missione.

Spetta a Roosevelt il merito di avere creato in nuce la prima Agenzia Anti Corruzione che monitorava l’uso di questi fondi, una divisione della Works Progress Administration (WPA), creata nel 1935, di investigazione che assicurasse “l’esecuzione onesta dei programmi di aiuto.”

La questione chiave era anche quella di farlo rapidamente. Roosevelt era conscio che il Paese soffriva e c’era bisogno di supporto subito, senza perdite di tempo ma anche con la sicurezza che questo intervento fosse efficace e non solo di facciata. Per questo il primo passo fu l’allocazione del potere decisionale amministrativo sulla gestione dei fondi. E creò nel 1933 la Federal Emergency Relief Administration, FERA, scegliendo Harry Hopkins come suo Presidente.

Hopkins (nella foto con FDR) a giudizio della storia portò a termine il suo mandato con successo: lo Stato riuscì a fissare nuovi standard e nuove regole per la spesa pubblica. Più standardizzati, più organizzati, e meno corrotti.

Che interesse aveva FDR a fare tutto ciò? La risposta è semplice: il Presidente, Franklin Roosevelt, aveva poco o nulla da guadagnare direttamente da tali programmi di aiuto. Ma aveva tantissimo da perdere quanto a reputazione del suo Governo se il progetto di finanziamento spinto dal Governo fosse stato caratterizzato da tanta corruzione: ne andava del suo futuro politico. Erano i senatori, gli onorevoli, i governatori, i sindaci ad avere un interesse specifico nel singolo finanziamento ed era lì che si annidava la corruzione. Non a caso la parola “politico”, allora, veniva usata in senso spregiativo quando si riferiva ai politici locali, dicono gli autori.

E malgrado le tante concessioni fatte a costoro, Roosevelt riuscì a controllare una quota sostanziosa di queste somme nonché di bloccare i trasferimenti ai locali quando le cose parevano sospette o non ci si adeguava ai processi ed alle regole fissate a livello centrale. Già perché l’America di allora non era proprio un esempio di rettitudine amministrativa: morti che ricevevano l’assegno per l’assistenza, impiegati del Programma di assistenza che ricevevano contributi politici,eccetera eccetera eccetera .

*

Penso che Monti si trovi più o meno nella stessa situazione. Ha un interesse diverso dai politici, una reputazione personale in gioco di fronte ad un Paese in enorme difficoltà. Come allora c’è bisogno di più Stato, ma di Stato di qualità. Come allora, gli sprechi si annidano nel locale (pensate alla Sanità). Uno Stato centrale forte che sappia dare gli standard giusti e blocchi i trasferimenti statali alle Amministrazioni non virtuose è possibile.

Un’Agenzia Anti Corruzione dotata di poteri effettivi è lo strumento migliore per far funzionare una spending review che funzioni.

Per fare questo. La smetta di farsi portare in giro sulla questione irrilevante delle pene anti-corruzione e faccia approvare la legge così come è (tanto pene più lunghe o meno, tutto finirà in prescrizione), portando però a casa la creazione di un’Agenzia Anti Corruzione indipendente, con struttura (non come quella fatta in passato, con poche decine di dipendenti senza potere, e non come oggi la CIVIT o il Dipartimento SAET della Presidenza del Consiglio che non hanno quasi dipendenti) che abbia il potere di esprimersi su ogni appalto che viene fatto in Italia prima che si firmi il contratto.

E a quel punto usi quel 2-3% di PIL che risparmierà con gli sprechi evitati per darci il nostro New Deal: scuole, ospedali, carceri, informatica, che diano servizi e felicità al Paese e produttività alle imprese.

Prof. Monti, nessun bambino negli Stati Uniti oggi si ricorda chi erano i politici del 1933. Tutti sanno invece chi era Franklin Delano Roosevelt. I miei figli hanno bisogno di crescere con dei modelli positivi, che sappiano ricordare chi fosse stato il grande capo di quella cosa così importante chiamata Pubblica Amministrazione. Spero per il loro bene che quando saranno grandi si ricordino di lei.

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Oggi andiamo al cinema, a vedere la vera arte dell’economista

Oggi vi porto al cinema. Godetevi questo breve spettacolo dell’economia e di cosa sia un vero economista.

Attore principale: Andrés Velasco. Oggi è un Professore a contratto alla Columbia University, dove ha studiato, come il sottoscritto. Ma fare il Professore non è l’unica cosa che sa fare. E’ stato Ministro delle Finanze del Cile, tornato nel suo Paese dopo che l’aveva lasciato per scegliere con la sua famiglia l’esilio negli Stati Uniti durante la dittatura di Pinochet. Non fu amato all’inizio come Ministro, perché durante il boom del prezzo del rame decise di mettere da parte i grandi ricavi da export e non usarli, malgrado le pressioni delle lobby e dei sindacati, per aiutare una economia che già tirava da sola. Ma finì per essere adorato  per averli poi usati sapientemente nella recessione che seguì al calo dei prezzi.

Andrés Velasco sa parlare. Quando scorrerete il breve video lo vedrete grande oratore, quasi attore di Hollywood. Ma la bellezza di una persona, come sempre, è nei contenuti e non nell’apparenza, nella credibilità e nella forza dell’argomentare. E sì che ce n’è di concretezza nel suo splendido discorso.

Partendo dal fatto che nessuno si è chiesto, in questa crisi, né di interpellare i maestri del (recente) passato che avevano ampiamente analizzato crisi simili, né studiare quei Paesi che di crisi identiche avevano sofferto. Non parla di Keynes, né del 1929, ma di economie più vicine a noi, come quelle sudamericane, alle quali per snobberia – sembra dire – i commentatori dei paesi dominanti, facendo orecchie di mercante, non prestano attenzione.

No, crisi come questa – dice Velasco – le abbiamo conosciute bene noi sudamericani, piantatela di dire che la vostra recessione è la più grave ed è l’unica, come se foste l’ombelico del mondo (che tra l’altro si diceva nell’antichità che fosse a Cuzco, in Perù). E soprattutto, ora vi dico quello che vi avremmo consigliato, se voi europei aveste avuto l’umiltà di chiederci un consiglio, e che se solo ci aveste ascoltato, non avreste finito per sbagliare tutto.

In effetti avrebbero fatto bene, Merkel e Monti ad assumerlo come consulente. Per non parlar di Draghi.

7 dati di fatto. E’il titolo del film.

Primo dato di fatto. Moneta unica? Si sapeva che il progetto si teneva politicamente sul seguente assunto: si sa che questi Paesi del Sud d’Europa hanno delle economie stanche che non intendono riformarsi, la moneta unica è l’occasione per obbligarle a farlo, obbligandole a rinunciare al tasso di cambio come strumento di breve periodo di competizione globale ed affrontando decisamente una volta per tutte i loro problemi strutturali.

Beh, si da il caso che un altro gruppo di paesi caldi, cattolici, spendaccioni, del Sudamerica – dice Velasco – provarono a fare esercizio di cambi fissi e/o di rinuncia alla sovranità monetaria: fallimenti totali nel giro di un decennio. E perché? Perché non fecero le riforme necessarie. E perché non le fecero? Per un semplice motivo. Perché quando fai un accordo di cambio, che appare all’inizio sempre stabile e duraturo, i mercati si precipitano da te, ti riempiono di capitali, gli spread crollano, il credito è abbondante, l’economia tira, e … addio alle riforme, di cui nessuno sente più il bisogno.

Commento di Piga: assolutamente così, anche se magari l’euro l’abbiamo fatto anche mirando ad una unità politica con ambizioni geopolitiche e valoriali, e non solo per riforme interne. La droga del credito ci ha addormentato tutti, tutti noi che dovevamo migliorarci in questo decennio. E si sono addormentati anche alla BCE, alla Commissione Europea, in Germania, istituzioni e leader che dovevano guidare il cambiamento e perlomeno non permettere una crescita drogata e distratta. Drogata da trucchi con derivati e distratta guardando solo e soltanto a se il deficit pubblico sul PIL di un Paese era del 3,1 o del 3%, fermando la 500 che sull’autostrada va a 90 con un faro rotto mentre non si arrestava il TIR con le gomme lisce a 180 all’ora.

Secondo. Dice Velasco: non è una gran crisi la vostra. In una grande crisi si finisce in una grande recessione a causa della sparizione dei capitali, che scappano, e della conseguente necessità di riportare in equilibrio la spesa ed i conti con l’estero tagliando le importazioni ed i tenori di vita. Non mi pare, dice Velasco, che voi abbiate ridotto drasticamente la vostra spesa, e ciò – tra parentesi – è anche il segno che la Germania e la BCE hanno fatto parte del loro dovere, continuando a prestare al Sud dell’Europa.

Commento di Piga: è vero, Germania e BCE hanno prestato, ritardando in parte l’aggiustamento drastico. Ma attenzione: non in Grecia. E se il modello è quello greco, stia tranquillo Velasco: la crisi seria può ancora arrivare negli altri Paesi. E quanto al fatto che siano stati Germania e BCE a salvarci, i dati dicono una storia leggermente diversa. Per esempio che il contributo italiano alla Grecia ed alla protezione da questa crisi non è stato da meno, anzi. La Tabella 1 qui sotto, tratta dal Punto Macro del Servizio Studi di Federcasse, mostra come l’Italia, che aveva una esposizione bancaria bassa verso la Grecia, ha contribuito in termini relativi decisamente maggiori di Francia  e Germania al “salvataggio greco”, se così si può chiamare. E così idem per quanto riguarda il contributo al Fondo Salvataggio europeo.

Terzo. Ma per favore fate attenzione al tasso di cambio reale, dice Velasco! Se un’economia ha un tasso di disoccupazione alto, la sua crescita da anni è bassa o negativa, e continua ad avere problemi di partite correnti ed export, quell’economia è ovvio che ha un problema di competitività dovuta al fatto che il suo cambio reale è sopravvalutato. Il Sudamerica è strapieno di queste storie. E che cosa insegna il Sudamerica? Che è durissimo aggiustare senza svalutare. Nemmeno Pinochet ce la fece, ad aggiustare riducendo gli stipendi, pubblici e privati: svalutò. Sì, i Paesi baltici ce l’hanno fatta, ma perché hanno accanto il mostro dormiente russo, che li getta terrorizzati nelle braccia dell’Occidente a costo di qualsiasi sacrificio. Quindi il triste messaggio che vi do: o la Grecia (ed altri) escono dall’euro con una svalutazione, o preparatevi per una lunghissima recessione.

Commento di Piga: E’ così. Non fa una grinza. Ne parlavamo pochi giorni fa, con la moderazione salariale non se ne esce rapidamente. Se vogliamo evitare la recessione prolungata senza uscire dall’euro si deve guadagnare tempo mentre si riformano le nostre carenze strutturali. Si guadagna tempo con la crescita europea spinta dalla domanda, del Nord in deficit, del Sud con tagli agli sprechi e senza riduzioni del debito (ma solo del rapporto debito-PIL via PIL).

Quarto. Non se ne esce quasi mai da una crisi come queste senza aumento del credito all’economia, specie senza far ricorso alla svalutazione. E in Europa non c’è credito perché le banche stanno sedute sui loro soldi senza prestare. Per portarle a prestare? Quinto dato di fatto, fare l’opposto di quello che fa l’Europa. Smettere di far comprare titoli di Stato alle banche, come sta facendo invece la BCE. E, per farle prestare all’economia, smettetela di ricapitalizzare le banche in questo momento recessivo, altrimenti non prestano, anzi riducono i loro prestiti. Come è avvenuto in Argentina, abbraccio mortale tra banche e governi tramite stupida regolazione.

Commento di Piga: I dati del Bollettino Economico della Banca d’Italia parlano chiaro, la crisi del credito in Italia è drammatica. E gli spread non calano strutturalmente chiedendo alle banche di prestare ai governi. Ma è difficile uscirne. A meno che non si chieda alle banche di prestare, con garanzia dello Stato, alle piccole imprese. Mi direte che è rischioso. Ma abbiamo dato – nel quasi silenzio dei commentatori - questa garanzia alle banche quando prendono a prestito, cosa molto più rischiosa. Perché allora non farlo?

Sesto: non esiste una politica fiscale di austerità che genera una espansione del PIL. Breve interludio: ilarità generale e applausi da parte del pubblico. Piga applaude guardando il video. Velasco fa riferimento esplicito ai lavori di Alesina e Giavazzi? Credo proprio di sì, ma fa sorridere il riferimento al capo economista del Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, che ha cercato invano di far trovare ai suoi dipendenti evidenza empirica che tagliare la spesa pubblica fa bene all’economia ed al PIL. Non ce l’hanno fatta (ma va?). “Insane”, follia, dice Velasco. Cosa fare? Austerità sì, ma non adesso, nel futuro, per ripagare l’espansione odierna.

Commenti di Piga: nessuno, silenziosa soddisfazione.

Settimo: come si fa a rendere credibile una espansione fiscale ora, garantendo che tra 5 anni i debiti torneranno indietro con una austerità che a quel punto non farà male? Io ne so qualcosa, dice Velasco, ho avuto lo stesso problema in Cile con i proventi del rame. Bisogna darsi una regola flessibile ma che non sia violata. La regola datasi dall’Europa con il Fiscal compact? Non commento, il diavolo sta nei dettagli.

Commento di Piga: già, nei dettagli. E’ inutile pensare di avere una aggiustamento ciclico del deficit e dire che abbiamo la regola giusta se a questa si associa il … piccolo dettaglio della riduzione del rapporto debito PIL in venti anni al 60%, un suicidio che nessun economista che si rispetti e che abbia a cuore la sopravvivenza dell’euro avrebbe mai ideato.

Dedico questo video a coloro che credono ancora che esista qualcosa chiamata economia, che non è scienza, ma arte, l’arte sofisticata del possibile, applicata con buon senso per contribuire ad alleviare i problemi economici delle persone. Buona visione.

Post Format

Of puppets, gray suits, spreads. Beaten by a United Growing Europe.

Nobody knows why spreads go up. Everyone has his/her opinion. Me too. At the risk of being proven wrong, as I have been before.

I think markets are asking to be paid for the added uncertainty of the soon to come elections and consultations: France, Greece, Ireland. And for the (uncertain) alliances and new policies that will arise.

So, not a deep thought, I am sure you are thinking. I agree with you. Where things become more interesting is what comes next after all these rounds of voting. Will spreads go down? Up?

We all agree it depends on who wins, right? Some are already ready to go short on France and the likes when Hollande, the French socialist leader, will be declared the winner and will announce taxes on the rich and more public spending. According to them, markets will collapse at that point. Others might say that if and when Hollande and/or the Irish referendum will reopen the space for national growth through fiscal expansions, local national markets are going to surge because debts will be deemed credibly reimbursable.

I personally think otherwise. I think markets’ strategy on what to reward will be based on a two-stage sequence.

First, they will gauge the extent to which this new political team that will lead Europe will be united or divided. Because markets know that disagreement and bickering will only make recovery more distant and unlikely. If Hollande, Monti and Merkel will fight among themselves, spreads will rise. If a country goes on its own, it will lose, whether it makes the right choice or not (it may have happened before, with Spain and Rajoy saying no to more austerity against EC wishes: he might have been right, but he played his cards  alone).

What if they agree, unite and show common intent? Spreads will go down, for sure. But how much? Not enough. Because unity is not enough, the right policies are also needed.

My hunch? If Merkel and Hollande (and Monti!) agree to shift to a pro-growth paradigm based on fiscal expansion meant to ensure credibly medium-term stability of public accounts, and they are in addition adamant in pursuing and communicating it, spreads will rapidly collapse to zero. At that point even Rajoy will be rewarded for the same policy for which he is punished today.

If Hollande will back down from his heroic stance of changing the Fiscal Pact and become rapidly a European “gray suit” run like a puppet by the European Commission, we might as well bet on austerity and at that point only luck (a pick-up in world growth?) will save the euro. At least for a bit, before the people will find a better tool than a unique cold currency to warm their hearts and enjoy a future full of hope for their European children.

Post Format

L’Europa

“Wir riefen Arbeitskrafte, es kamen Menschen”, Max Frisch.

“Abbiamo chiesto della forza lavoro, sono arrivate delle persone”

Che bello Almanya, Willkommen in Deutschland, il film sull’immigrazione turca in Germania. Che bella la sua chiusura. Che mi ricorda di cosa sia questa Europa dei popoli che vogliamo così tanto costruire. Finisce infatti così:

Una volta un saggio, alla domanda chi o che cosa siamo noi, rispose così: siamo la somma di tutto quello che è successo prima di noi, di tutto quello che è accaduto davanti ai nostri occhi, di tutto quello che ci è stato fatto. Siamo ogni persona, ogni cosa la cui esistenza ci abbia influenzato,  o che la nostra esistenza abbia influenzato. Siamo tutto ciò che accade dopo che non esistiamo più e ciò che non sarebbe accaduto se non fossimo mai esistiti.

Ecco, quello che accade perché siamo esistiti è la nostra responsabilità. E questo è il nostro tempo per fare bello ciò che accadrà dopo che non esistiamo più.

Post Format

Appello inviato al Presidente Monti e, p.c, al Presidente Napolitano

Ecco la scansione della lettera fatta pervenire ieri al Presidente del Consiglio Mario Monti e, per conoscenza, al Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, allegando testo e firme dell’appello per il Rinascimento italiano. Mi scuso per la qualità poco leggibile. Vi aggiornerò su eventuali evoluzioni e reazioni. Ma, soprattutto, ringrazio tutti i firmatari e coloro che, pur non condividendo, hanno contribuito al dibattito, per avere voluto dare fiducia al nostro bellissimo Paese. La merita.