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A volte tornano. Meglio di no. Combattere le recessioni combatte i fascismi.

Cosa fanno le recessioni? Rendono più probabile la crescita di partiti violenti, secessionisti o non democratici. E’ quanto causarono ad esempio tra le due guerre mondiali, come documentano con un nuovo articolo Alan de Bromhead, Barry Eichengreen, Kevin H. O’Rourke usando anche l’ampio lavoro del noto politologo italiano Giovanni Capoccia.

Da 24 democrazie nel 1929 tra quelle considerate, nel 1939 ne erano rimaste solo 11. Dopo il 1929 le elezioni in questi paesi videro crescere il peso medio dei partiti estremistici dal 4 all’11% (con variazioni all’interno: da 13 a 60% in Germania, ma da 28 a 19% in Finlandia, per esempio).

The Depression was good for fascists” dicono gli autori, e non c’è bisogno di tradurre. Le recessioni che contano per far crescere i partiti violenti sono quelle che: 1) si protraggono e che non vengono curate, 2) capitano a paesi che vengono da una umiliazione nazionale (una sconfitta in una guerra o chissà, oggi, pensando alla Grecia, se le trattative con la Troika sono state così percepite), 3) capitano ai paesi con basi civiche/democratiche scarse o con partiti estremistici già presenti e forti o con sistemi politici che hanno barriere all’ingresso per partiti minori troppo basse.

La recessione tedesca, con il loro modello, spiega un incremento del 13% dei voti di Hitler. Non poco.

Come prendere questi risultati per noi italiani ed europei? Con le pinze, ovviamente. Tra i fattori positivi, le nostre democrazie sono più solide e quindi capaci di sopportare periodi più lunghi di recessione. Ma sono anche cresciute in molti paesi le divisioni lungo linee secessioniste o xenofobe. Inoltre l’Europa in questo momento potrebbe essere percepita a bassa tradizione democratica se valutiamo il ruolo più scarso del Parlamento europeo rispetto a quello dominante della Commissione Europea. E paesi europei meno rilevanti politicamente potrebbero avere elettori particolarmente insofferenti ad una guida politica esterna che non hanno votato (sì, penso di nuovo come esempio estremo a Grecia vs. Germania).

Il punto rimane uno solo. Non si scherza col fuoco. Una recessione prolungata è il male supremo e che oggi sia stato approvato lo Stupido Patto Fiscale non può rappresentare fonte di gioia, ma, a mio avviso, di grande preoccupazione.

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Roosevelt in Bejing.

So today I went to the Jeu de Paumes in Paris to see the exhibit of Chinese artist Ai Weiwei, jailed first and now spending his time in house arrest for his protests against the Chinese government on many matters, most notably the accusation of not having come swiftly to the rescue of the many victims of the 2008 earthquake in Wenchuan.

Little did I know that linked to that exhibition at the lower floor was another equally fascinating one of American photographer Berenice Abbott (1898-1991). She was famous for her many beautiful shots, but what attracted me was her going back from France to the US in the Depression to shoot the “Changing America” of the time before it was too late to fix it on camera.

A project of large proportions and quality that needed funding. And funding she looked for. In the exhibition you read the letter of Hardinge Scholle, Head of the Museum of the City of New York, wishing that “we could take advantage of your talents here, as work of this kind would be of inestimable value to our collection”. But funding for her talent that time did not come. Funding was not available in the recession led by President Hoover and an opportunity was forever lost.

Then, magically, came the New Deal of FDR. Resources were found. And with those the 1935 Federal Art Project within the Work Progress Administration, WPA. A fantastically effective cultural program which funded the likes of Pollock, Rothko, Rivera, Bellow … and Berenice Abbott with her project “Changing New York” through which the photographer was able to document forever the Wild city of the time with her incredible selectivity (what a beautiful word that is) and sense of meaningfulness. “Art is taking an interest for what is worthy of it”. And New York City then, oh yes, was certainly worthy of interest. Its tremendous dynamism was that of its people, because a city is its people and photographing its people is photographing their city. Her wonderful pictures: what would have happened of them hadn’t Roosevelt agreed to fund them?

What would I know today of New York yesterday and America today?

Yes, today. Because that apparently innocuous thing called artistic photography was not that irrelevant after all. Abbott understood that by fixing, with the power of the camera, the present slipping into the past, the city before it was changed, it would help Americans to know themselves better and better build their future. She was not angry at change. She was furious when, building the new, the connection with the past was lost. When, for example, the gorgeous Pennsylvania Station was torn down in all its beauty.

And here is the twist. The magic connection with  Ai We Wei’s thousand of pictures of Changing China. Contrary to Abbott he was not funded, but put in jail. Like Abbott he despises horrific cancellations of the past to build new structures with no link to it:

“Using taxpayers’ money to erase the entire city (of Bejing being prepared for Olympics), with no regard to green or red, black or white, they’ve tried to accomplish several goals in one blow . Their intentions are laughable, their methods crude, their attitude despicable; it’s almost impossible to believe… The whole city is like a poorly assembled and cheap stage where all people passing through it – men, women, the young, and the old – were nothing more than props, all part of an unsightly performance on culture, history, and political achievements. Once again, the rights of the common people, humanity, their emotions and sense of self-determination have been taken from them, after a thousand such brutalities… China has never created authentic cities or authentic urban citizens – urban citizens are free, they possess various interests that they pursue and protect by appropriate means. In authentic cities, all layers of society find their own means of stability and self-sufficiency. Conversely, Bejing is a society administered by concentrated powers”.  (Ai Weiwei’s Blog,The MIT Press. Picture from Jeu de Paume museum).

Spending, public spending, is thus a necessary but not sufficient condition for beauty. To Abbott it allowed beauty that would have never risen without it. But to Ai Weiwi it meant destruction and ugliness.

I loved the line in the movie interviewing Abbott when she recounts of a US bureaucrat supervising her for the WPA funding telling her that a lady should not take pictures of Downtown New York. “I am not a lady, I am an artist”, she replied and went on. The most striking part was left unsaid: the bureaucrat did not challenge her freedom to paint the city in the colors she saw fit. It is an essential part of a democracy that those who monitor are monitored, a precondition for beauty to emerge from public choice.

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La moneta non fa la felicità. Senza spesa pubblica.

Bene, ora che la politica monetaria c’è avremo la crescita?

Non ricordo quando un’area che non avesse a disposizione il cannone del tasso di cambio abbia saputo uscire da una recessione senza l’aiuto di più spesa pubblica. Il mio amico Riccardo Fiorito potrà forse dirmelo lui che si intende di queste cose.

L’importante è che anche i mercati cominciano a dirlo esplicitamente; ecco un market-maker che dice alla Reuters:

Gli spread italiani e spagnoli a 10 anni potrebbero perdere 20-25 punti base nelle prossime settimane …. ma con difficoltà i tassi a lunga scenderanno sotto quella soglia del 5% che prevaleva prima che questi paesi fossero succhiati dentro questa crisi: “per far scendere i tassi sotto questo livello cruciale del 5% …. dovremmo vedere un miglioramento strutturale che per ora, se guardiamo al lato del debito, non pare all’orizzonte” dice Michael Leister, una strategista di tassi a la DZ Bank. “Tutti questi fattori negativi che il mercato ha di fatto ignorato dall’inizio dell’anno cominceranno a rientrare in gioco e l’impatto della liquidità a svanire”

Ed ecco un altro market-maker che di mercati se ne intende che, finalmente, scomincia a chiederesi se non sia venuto il tempo di ricorrere a più spesa pubblica, citando anche qualcun altro che, anche se timidamente parla di espansione con bilancio in pareggio via aumento delle tasse e senza deficit pubblico. Cose di cui parliamo da mesi ma che poco hanno finora raccolto in termini di consenso politico.

E’ un primo passo, ma quanto tempo dobbiamo ancora aspettare fino a quando saranno tutti convinti che va fatto per salvare l’euro? La stampa di carta moneta in fondo, non ci può salvare, è solo carta che non può creare felicità, morfina. La maggiore spesa crea lavoro, impresa, domanda, PIL, è la medicina che permette di fare le riforme, la terapia. Tutte cose essenziali per rimettere in moto il progetto culturale dell’Europa dell’euro, la bellezza della vita.

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Avanti Europa, avanti. Ma per dove?

Avanti avanti, vada avanti l’Europa. Ma avanti dove?

Da Jacques et son Maitre, questa sera al piccolo teatro parigino della Pépinière vicino all’Opéra, opera dell’europeo Milan Kundera quando da soli 3 anni era cessato il rumore dei cingolati occupanti sui selciati della sua Praga ed il sogno si era spento ma il ridere, anche amaro, no.

Nicolas Briançon e Yves Pignot

« JACQUES : Bon. Je veux donc que vous me conduisiez… en avant…

LE MAÎTRE, regarde autour de lui, très embarrassé : Je veux bien, mais en avant, c’est où ?

JACQUES : Je vais vous révéler un grand secret. Une astuce immémoriale de l’humanité. En avant, c’est n’importe où. »

Ovunque è avanti. Certo, è così. Basti rispettare la gioia della diversità. E’ inutile che continuiamo a parlarne, ma è ovvio che è solo l’arte che farà l’Europa, altro che debito pubblico.

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Siamo 1000 e un po’ di piu’! Ora prepariamo la lettera al Governo.

Ce l’avete (e ce l’abbiamo) fatta. Abbiamo superato le 1000 firme (siamo a 1005 mentre scrivo) e altre sono in arrivo per il Rinascimento italiano, il nostro appello per un nuovo servizio civile a difesa del Patrimonio pubblico. Siamo dunque pronti ad inviare le firme al Presidente del Consiglio e al Presidente della Repubblica.

Siamo come la foto: piccoli, appena nati, determinati e comunque vincitori.

Teniamo aperte le sottoscrizioni ancora per una settimana e poi basta. Grazie di cuore, è stata una bellissima avventura in cui ognuno di noi, a volte con distinguo utili, ha voluto comunque mettere la firma sotto un progetto di speranza ed ottimismo.Grazie. Grazie, 1000 volte grazie, grande felicità.

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No, Money Can’t Buy Everything, Markets Say.

So now we have this big monetary policy package. When has money ever bought the way out from a recession in a large fixed exchange rate area without the help of fiscal policy?

I fail to remember. There might be cases, but I sure doubt euro countries will prove me wrong. Or, for that matter, this market-maker wrong (yesterday on Reuters’ blog):

Italian and Spanish 10-year bond yields could shed a further 20-25 basis points in coming weeks, strategists and traders said, but would struggle to stay below the 5 percent level that prevailed before they were sucked into the crisis last year. “To push yields through this crucial 5 percent level…we would need a fundamental improvement which for now, if we look at the growth side of the debt equation, still looks unlikely,” said Michael Leister, a rate strategist at DZ Bank. “All these negative factors the market has been more or less ignoring since the beginning of the year will begin to regain a more prominent role and this liquidity impact will gradually fade.”

Finally, somebody (which I highly trust for his pragmatism) in the markets is starting to side with us that we need expansionary fiscal policies, even if in a balanced budget matter.

Money can’t buy happiness, after all it is just little printed pieces of paper. But expansive fiscal policy can, it boosts jobs, cuts unemployment, prevents firms from closing down. How much time do we have to wait to come to that conclusion? Time is money, they say. I sometimes disagree with that, but in this case, oh yes.

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Aiutiamo la Merkel, è debole. Dalla Germania 2 grida di allarme.

Da un’intervista oggi con Helmut Kohl, cancelliere tedesco e tra i padri fondatori dell’Europa, che  si esprime così  sul Vecchio Continente:  “La Storia ci insegna chiaramente che gli spiriti maligni del passato non sono mai definitivamente cancellati, possono tornare e ritornare ancora. Ciò significa che l’Europa continua ad essere una questione di guerra e pace e che l’idea della pace deve essere ciò che muove l’integrazione europea”. (mia traduzione con Google dal tedesco).

Sono parole pesanti come mai sinora mi era stato dato di sentirne da decenni da un politico di tale rilevanza, per di più tedesco. Non possono essere aggirate, dimenticate, sottovalutate.

In un’altra rilevante intervista odierna, Nikolaus Schneider, presidente della Chiesa Evangelica tedesca ha avuto modo di sottolineare l’importanza della fratellanza con il popolo greco. Anche lui parla di guerra, ricordando quando la Germania era in condizioni peggiori della Grecia di oggi: “come Chiesa nel senso classico della tradizione Protestante, è nostro profondo desiderio vedere l’Europa rimanere in piedi e lavorare unita. Non solo come comunità economica  ma anche come comunità solidale, supportandoci nei momenti difficili. Alla Germania, in un momento persino più difficile di questo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu accordato un Piano Marshall” (mia traduzione dall’inglese) di ricostruzione. Sottolinea come riforme ed austerità hanno fallito e come ci sia bisogno di un pacchetto di aiuti alla economia greca.

C’è preoccupazione in Germania tra chi ha il polso del battito profondo del Paese. E’ bene che l’Europa tutta si muova per aiutare il leader tedesco a fare le scelte giuste. Perché la Merkel, paradossalmente, è debole e va aiutata, con tutte le nostre forze e subito, a capire come cambiare passo e divenire leader di pace e solidarietà.

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Hollande tassa i ricchi come Roosevelt. Ma è Roosevelt?

Scendo fuori per strada a Parigi e mi trovo una troupe televisiva che intervista un cittadino francese che gesticola forsennatamente e si lamenta del Governo e della poca attenzione che dà ai poveri. Entro al bar, e le prime pagine dei giornali sono tutte piene della proposta Hollande, candidato socialista alla Presidenza (sì è lui l’uomo che nel 2007 – nella campagna elettorale per le primarie che poi perse contro Segolène Royal – disse “non amo i ricchi”), di alzare l’aliquota marginale sui redditi superiori al milione di euro dal 41% al 75%. Fa seguito alla proposta meno appariscente ma più impattante di aumentare l’aliquota dal 41 al 45% per i redditi sopra i 150000 euro l’anno (i Governi di destra dal 2002 le hanno abbassate dal 52,5% al 41 appunto).

Sono apparentemente 5800 i cittadini che guadagnano più di 1 milione di euro, circa lo 0,01% dei francesi. Hanno un reddito medio mensile di 82000 euro contro i 1580 del cittadini mediano. Al 90% sono uomini, 49 anni in media, per 2/3 abitanti nel parigino ovest abbiente. Se oggi un cittadino  francese che guadagna 1,5 milioni di euro l’anno paga 601642 euro di tasse (il 40% circa) con la proposta Hollande finirebbe per pagarne 805641, duecentomila euro in più per una aliquota media del 54%.

I comunisti radicali propongono l’aumento al 100% e mi viene da (sor)ridere. Dal dibattito sul salario minimo a quello sul salario massimo. Ma la proposta Hollande è invece importante e va discussa. Se moltiplichiamo un po’ a spanne l’aumento di tasse di 200.000 euro per i 5800 cittadini parliamo di poco più di 1 miliardo di euro, insomma robetta ai fini delle casse dello stato. Ma dall’alto valore simbolico, apparentemente rivolto a comunicare il passaggio ad una politica che vuole creare un contratto sociale diverso. Simile, a quanto si dice, in questi giorni, a quello prevalente negli Stati Uniti per lunghissimi decenni del XX° secolo, da Roosevelt a Reagan, dove l’aliquota massima si fermava attorno all’80% e toccò anche il 90% per cento (per segmenti di reddito dei più ricchi, corretti per l’inflazione, solo leggermente diversi). E dove la presenza dello Stato era considerata fondamentale e non un peso, come lo è oggi secondo molti osservatori ed economisti (non il sottoscritto).

Il grande timore, ovviamente, è quello gridato dai conservatori, di deprimere la voglia dei ricchi di lavorare e con questo di deprimere l’economia. Non è un timore da sottovalutare. Ma a cui rispondere con i dati.

Cosa ci racconta la storia americana? Si dà il caso che la solita Christina Romer (ex consigliere economica di Obama) ha appena inserito sul suo sito un lavoro (non ancora accettato per la pubblicazione) con suo marito David sugli effetti derivanti dalle (tante) variazioni delle aliquote marginali avvenute tra le due guerre mondiali. L’aliquota massima alla fine della Prima Guerra era del 77 percento; nel 1929  era scesa al 24 percento, nel 1936 di nuovo al 79 percento e nel 1940 era allo 86.9 percento (vedi grafico). Alcune riforme toccarono solo l’aliquota massima, altre tutte le aliquote. Cambiamenti ampi che avvengono raramente che dunque rappresentano per un economista quello che è l’Arca per l’archeologo Indiana Jones, un tesoro inestimabile e raro su cui ricercare.

La differenza con oggi è che allora solo lo 0,02% più ricco pagava circa il 95% delle tasse! La maggior parte delle famiglie non pagava imposte.  Ecco perché si concentrano dunque ad analizzare i comportamenti dello 0,05% più ricco della popolazione Usa in quegli anni.

I risultati che trovano mostrano che sì, il reddito individuale dei più ricchi dichiarato cala al crescere dell’aliquota, ma poco. Un aumento dell’1% dell’aliquota (per esempio un aumento dal 50 al 50,5%) genera un calo dello 0,2% del reddito dichiarato, e questo indipendentemente dalla fonte del reddito (da lavoro, capitale, profitti). Con questi numeri l’aliquota sui ricchissimi che massimizza il gettito per lo Stato è quella dell’84%: aumentare le tasse infatti deprime poco il reddito tassato di questi super ricchi!

E gli effetti di lungo periodo? Quello che Christina e David Romer trovano è non tanto un effetto sugli investimenti delle imprese quanto un (piccolo) effetto sulla creazione d’impresa, leggermente depressa dall’aumento delle aliquote marginali sui più ricchi.

Oggi il mondo è diverso. I contribuenti ricchi sono più sofisticati e la globalizzazione permette una più facile evasione. Le foresta delle detrazioni è oggi tale da rendere anche l’elusione più semplice. Tuttavia è chiaro da questo studio che gli impatti non sono così drammatici come li dipingono i conservatori. Faccio fatica a pensare un francese molto ricco, che debba in gran parte la sua ricchezza al fatto di risiedere nel suo paese, che abbandona questo per andare altrove a causa della proposta Hollande. Forse alcuni giovani abbandoneranno la Francia, è vero, per fare più reddito altrove. Ma non penso che molti di quei giovani sarebbero rimasti comunque in Francia.

No, la questione chiave che va posta ad Hollande ed a tutti quei governanti  che vorranno riformare il fisco in questa direzione è la seguente. Voi aumentate le tasse sui più ricchi adesso, nel peggiore momento economico degli ultimi 50 anni, come lo fece Roosevelt a seguito della crisi degli anni Trenta. Bene. Roosevelt lanciò con questo cambiamento un segnale di equità, simbolico, a cui fece però seguire molti passi concreti che rianimarono l’economia. E voi cosa intendete fare ora? Hollande ha già parlato di aumentare la spesa pubblica. Bene. Vorremmo saperne di più e vorremmo anche sapere se una volta usciti da questa crisi grazie alla spesa pubblica si intenda poi, come ha fatto Obama, riportare questa spesa ai livelli di partenza per rilanciare il volano dell’economia privata , concentrandosi piuttosto esclusivamente sul miglioramento della qualità della spesa pubblica. Solo così crescerà la fiducia nelle vostre scelte da parte dei cittadini e dei mercati.

Dati sulla Francia su fonte Libération di oggi.

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Una casa molto carina in Via dei Matti numero zero, UK.

Incredibile e geniale.

Eccole le riforme che servono al Paese, maledettamente e subito.

Bravi i nostri pragmatici amici britannici che alla piccola impresa pensano in maniera concreta e fattiva.

Dare gratuitamente gli spazi immobliliari in eccesso presso la Pubblica Amministrazione a disposizione delle piccole imprese (PMI)? Si può fare.

Il Ministro dello Sviluppo Economico di lì sta lavorando con le associazioni delle piccole e con i proprietari degli immobili per assegnare spazi nei 300 e più edifici – di proprietà della P.A. statale o in affitto – alle PMI per permettere una riduzione dei loro costi e una loro maggiore competitività.

Non pensatelo come un sussidio e la grande impresa non deve fiatare o protestare: sono così tanti gli oneri amministrativi dovuti alla regolazione che costano ben di più alla piccola che alla grande che questa è solo una restituzione in minima parte di competività sottratta, che non azzera tutti gli impliciti sussidi che lo Stato fa alle grandi imprese quando regola senza rendersi conto che l’impatto sarà sempre sproporzionatamente più ampio a danno delle PMI.

Che bello vedere delle riforme liberali e non liberiste che non richiedono sacrifici ma attivismo, flessibilità, intelligenza pratica. Che bella la fantasia al potere. Che bello vedere che in Via dei Matti numero zero si possa fare di spazi vuoti e polverosi  un luogo di felicità, colori, sviluppo per i piccoli.
 

Se solo anche da noi…. la crisi sarebbe un lontano ricordo.
Grazie Nicola.