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Quando in (e)uropa si chiudono pian piano le frontiere

Diceva Paul Valery: ”Qui veut faire de grandes choses doit penser profondément aux détails“, chi vuole fare cose grandi deve pensare profondamente ai dettagli.

Da tempo nessuno ascolta più Valery in Europa. Di profondo, a forza di dettagli non curati, c’è solo la sempre più aperta ferita inferta alla fratellanza europea dalla maledetta recessione curata dalla stupida austerità.

Eccolo l’ultimo dettaglio, annunciato oggi dal portavoce del Ministro del lavoro tedesco. Fino a ieri gli stranieri provenienti da 14 paesi dell’unione originaria (più Norvegia, Islanda e Turchia) avevano diritto – a seguito di una sentenza del Tribunale sociale federale nell’ottobre del 2010 - di usufruire del meccanismo di protezione sociale tedesco, compresi i sussidi di disoccupazione, già nei primi 3 mesi dal loro ingresso in Germania come disoccupati in cerca di lavoro. Ora non più.

Fino a ieri un disoccupato italiano arrivato in Germania poteva chiedere, cercandovi e non trovandovi lavoro, il sussidio di disoccupazione previsto dalla legislazione tedesca. Non più ora. Solo, lo potrò avere, nel momento in cui dovesse trovare e poi perdere il lavoro, come d’altro canto era già previsto per i lavoratori di tutti gli altri paesi non inclusi nella lista europea dei 17 che era stata adottata nel 2010.

La portavoce insiste che la Germania ha comunque bisogno di immigrati qualificati, e che gli immigranti possono trovare nei loro paesi informazioni sui posti di lavoro disponibili. Ovvero: venite, ma venite solo con un lavoro. Quest’ultimo accenno ovviamente fa pensare a un tentativo di evitare l’immigrazione di massa in Germania dei senza lavoro, anche se poi questi fossero persone che si metterebbero subito a cercarne attivamente uno.

*

E dunque? I lavoratori si spostano poco in Europa? Non i disoccupati a quanto pare, attirati da compensi più alti in Germania, sia per la disoccupazione (sussidi, pari a zero in Italia) che per l’occupazione (salari reali più alti che in Italia) dovessero trovarla; ma pare sia più facile oggidì trovarla, l’occupazione, in Germania che non in Italia e Co. Eh già, se ne sono accorti anche i tedeschi che cresce la disoccupazione fuori dai loro confini. Dai loro confini.

Un fenomeno che ha preoccupato le autorità tedesche: “Alarmed by the rising unemployment rates in south-European countries, the German labour ministry instructed to stop Hartz-IV social  transfers for EU immigrants” si legge sui giornali tedeschi. Allarmati dai crescenti tassi di disoccupazione nei paesi dell’Europa del Sud (saremmo noi, NdR).

E’ ovvio cosa si sia voluto evitare: la maggiore spesa pubblica tedesca per i sussidi e la maggiore tassazione per finanziarla, nonché la maggiore pressione sui salari tedeschi verso il basso derivanti da un maggiore afflusso di lavoratori. Devono essere stati un problema per una buona fetta dell’elettorato tedesco, non c’è dubbio.

Facciamo un passo indietro e vediamo cosa succede nell’altra unione monetaria, quella statunitense.

Negli Stati Uniti d’America intanto i sussidi alla disoccupazione sono maggiormente centralizzati (simili tra Stati) e dunque l’incentivo a fare “shopping” di sussidi alla disoccupazione spostandosi tra stati è minore. Sono anche in buona parte finanziati a livello centrale. Ma ciò non è un caso: riflette anche una visione più partecipata alle difficoltà dei singoli stati da parte degli altri stati più fortunati: il contribuente dello stato dell’Oregon in cui l’economia tira paga le tasse federali anche per i sussidi per i lavoratori disoccupati del Maine.

L’incentivo a cercare lavoro altrove è stato poi in parte ridotto dall’Amministrazione Obama anche con la mossa di differenziare i sussidi a seconda della gravità con cui la crisi abbia colpito un determinato stato: 13 settimane in più per quegli individui disoccupati negli stati ad alta disoccupazione rispetto a quelli con bassa disoccupazione. Anche sotto questo aspetto va notata una maggiore solidarietà tra stati negli Usa che nella Unione europea: e questo anche se in parte questi sussidi allungati nella durata – secondo alcuni critici – hanno ridotto la mobilità del lavoro e dunque anche la capacità del tasso di disoccupazione di rientrare più rapidamente, visto che la gente ha avuto meno ansia di cercare rapidamente lavoro.

E ora, armati della lezione americana, torniamo in Europa. Dove i singoli stati che sono stati più colpiti dalla disoccupazione (come quelli a cui la legislazione tedesca impedisce di utilizzare il sistema sociale germanico, chiamati dalla stampa tedesca dell’”Europa del Sud”, già … l’Europa del Sud) non hanno modo di aumentare la copertura di bilancio per i disoccupati (quand’anche fosse auspicabile) perché … la Germania si oppone ad aumenti di spesa pubblica da parte loro.

Tuttavia c’è un problema in più. La Germania attrezzatasi nell’ultimo decennio con le giuste riforme e divenuta più competitiva chiede a tutti politiche fiscali restrittive che peggiorano il ciclo economico dei paesi euro-Med come il nostro. La cui disoccupazione è dunque solo in parte dovuta a mancate riforme: essa è in parte causata da politiche della domanda stupide come quelle previste dal Patto Fiscale sospinto dalla Germania.

Chiaro? La recessione causata da quella scarsa domanda aggregata voluta dalla Germania in primis (ma a cui non ci opponiamo) nuoce solo in parte alla Germania ed al suo export verso i paesi dell’Europa del Sud come l’Italia. Infatti, non dobbiamo dimenticare che questa recessione rende meno probabile l’adozione da parte di noi europei del Sud di riforme interne per recuperare competitività (difficile fare riforme in recessione!): ciò rafforza il differenziale tedesco di competitività, a nostro sfavore, e rafforza l’export extra-UE tedesco (Cina, India, Usa ecc.), cosa di cui ovviamente una Germania (miope) non può non dirsi felice.

Insomma negli Stati Uniti il ricco Oregon aiuta il povero Maine nel sollevare i cittadini di quest’ultimo dall’ansia della disoccupazione, anche se non ha colpe per quanto lì vi succede, mentre da noi la Germania blocca l’aiuto all’Italia (ai disoccupati italiani che vanno in Germania) anche se è responsabile, in parte, per quanto vi avviene.

Certo, mi direte, come non comprendere il cittadino tedesco che non aiuta il disoccupato italiano? Il pigro italiano che … Alt: si potrebbe far notare che chi attraversa un confine raramente è un pigro ma che ha valige, legate da spaghi, piene di sogni, speranze e forza. Ma il punto è ancora altrove.

Il punto è quello del dettaglio. Il dettaglio che in questo momento un gesto simile da parte delle autorità tedesche è di portata profonda, che ha il senso di una chiusura di frontiere, e di un sipario che cala pian piano sul termine Unione con la U maiuscola di quella costruzione chiamata unione Europea.

Grazie a Lorenzo ed Ale.

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PS: Lo stupido patto fiscale non passò negli Usa. Grazie ai Premi Nobel.

P.S.: ecco cosa dicevano nel 2011 5 Premi Nobel e tanti grandi economisti targati USA sull’inserire in Costituzione regole di bilancio in pareggio.

Cari presidente Obama, presidente Boehner, capogruppo della minoranza Pelosi, capogruppo della maggioranza Reid, capogruppo della minoranza al Senato McConnell,

 

noi sottoscritti economisti sollecitiamo che venga respinta qualunque proposta volta ad emendare la Costituzione degli Stati Uniti inserendo un vincolo in materia di pareggio del bilancio. Vero è che il Paese è alle prese con gravi problemi sul fronte dei conti pubblici, problemi che vanno affrontati con misure che comincino a dispiegare i loro effetti una volta che l’economia sia forte abbastanza da poterle assorbire, ma inserire nella Costituzione il vincolo di pareggio del bilancio rappresenterebbe una scelta politica estremamente improvvida. Aggiungere ulteriori restrizioni, cosa che avverrebbe nel caso fosse approvato un emendamento sul pareggio del bilancio, quale un tetto rigido della spesa pubblica, non farebbe che peggiorare le cose.

 1. Un emendamento sul pareggio di bilancio avrebbe effetti perversi in caso di recessione. Nei momenti di difficoltà economica diminuisce il gettito fiscale e aumentano alcune spese tra cui i sussidi di disoccupazione. Questi ammortizzatori sociali fanno aumentare il deficit, ma limitano la contrazione del reddito disponibile e del potere di acquisto. Chiudere ogni anno il bilancio in pareggio aggraverebbe le eventuali recessioni.

 2. A differenza delle costituzioni di molti stati che consentono di ricorrere al credito per finanziare la spesa in conto capitale, il bilancio federale non prevede alcuna differenza tra investimenti e spesa corrente. Le aziende private e le famiglie ricorrono continuamente al credito per finanziare le loro spese. Un emendamento che introducesse il vincolo del pareggio di bilancio impedirebbe al governo federale di ricorrere al credito per finanziare il costo delle infrastrutture, dell’istruzione, della ricerca e sviluppo, della tutela dell’ambiente e di altri investimenti vitali per il futuro benessere della nazione.

 3. Un emendamento che introducesse il vincolo del pareggio di bilancio incoraggerebbe il Congresso ad approvare provvedimenti privi di copertura finanziaria delegando gli stati, gli enti locali e le aziende private trovare le risorse finanziarie al posto del governo federale. Inoltre favorirebbe dubbie manovre finanziarie (quali la vendita di terreni demaniali e di altri beni pubblici contabilizzando i ricavi come introiti destinati alla riduzione del deficit) e altri espedienti contabili. Le controversie derivanti dall’interpretazione del concetto di pareggio di bilancio finirebbero probabilmente dinanzi ai tribunali con il risultato di affidare alla magistratura il compito di decidere la politica economica. E altrettanto si verificherebbe in caso di controversie riguardanti il modo in cui rimettere in equilibrio un bilancio dissestato nei casi in cui il Congresso non disponesse dei voti necessari per approvare tagli dolorosi.

 4. Quasi sempre le proposte di introduzione per via costituzionale del vincolo di pareggio di bilancio prevedono delle scappatoie, ma in tempo di pace sono necessarie in entrambi i rami del Congresso maggioranze molto ampie per approvare un bilancio non in ordine o per innalzare il tetto del debito. Sono disposizioni che tendono a paralizzare l’attività dell’esecutivo.

 5. Un tetto di spesa, previsto da alcune delle proposte di emendamento, limiterebbe ulteriormente la capacita’ del Congresso di contrastare eventuali recessioni vuoi con gli ammortizzatori gia’ previsti vuoi con apposite modifiche della politica in materia di bilancio. Anche nei periodi di espansione dell’economia, un tetto rigido di spesa potrebbe danneggiare la crescita economica perche’ gli incrementi degli investimenti ad elevata remunerazione – anche quelli interamente finanziati dall’aumento del gettito – sarebbero ritenuti incostituzionali se non controbilanciati da riduzioni della spesa di pari importo. Un tetto vincolante di spesa comporterebbe la necessita’, in caso di spese di emergenza (per esempio in caso di disastri naturali), di tagliare altri capitoli del bilancio mettendo in pericolo il finanziamento dei programmi non di emergenza.

 6. Per pareggiare il bilancio non è necessario un emendamento costituzionale. Il bilancio non solo si chiuse in pareggio, ma fece registrare un avanzo e una riduzione del debito per quattro anni consecutivi dopo l’approvazione da parte del Congresso negli anni ’90 di alcuni provvedimenti che riducevano la crescita della spesa pubblica e incrementavano le entrate. Lo si fece con l’attuale Costituzione e senza modificarla e lo si può fare ancora. Nessun altro Paese importante ostacola la propria economia con il vincolo di pareggio di bilancio. Non c’e’ alcuna necessità di mettere al Paese una camicia di forza economica. Lasciamo che presidente e Congresso adottino le politiche monetarie, economiche e di bilancio idonee a far fronte ai bisogni e alle priorità, così come saggiamente previsto dai nostri padri costituenti.

 7. Nell’attuale fase dell’economia è pericoloso tentare di riportare il bilancio in pareggio troppo rapidamente. I grossi tagli di spesa e/o gli incrementi della pressione fiscale necessari per raggiungere questo scopo, danneggerebbero una ripresa già di per sé debole.

Firmato, tra gli altri da: KENNETH ARROW, premio Nobel per l’economia 1972 PETER DIAMONDpremio Nobel per l’economia 2010 WILLIAM SHARPE, premio Nobel per l’economia 1990 CHARLES SCHULTZE, consigliere economico di J.F. Kennedy e Lindon Johnson, animatore della Great Society Agenda ALAN BLINDER, direttore del Centro per le ricerche economiche della Princeton University ERIC MASKIN, premio Nobel per l’economia 2007 ROBERT SOLOW, premio Nobel per l’economia 1087 LAURA TYSON, ex direttrice del Natonal Economic Council

Una sola domanda: gli Usa ne sono usciti, dallo stupido patto per il pareggio di bilancio, non adottandolo. E la crescita è ripartita. Ma dove è l’Europa? E gli economisti europei? Dobbiamo sperare che li illumini il vincere un Premio Nobel? Ma il Premio Nobel si vince solo con idee intelligenti, quindi prima contestate lo stupido Patto e poi vincerete il Nobel (smile).

Grazie a George ed  a http://infoaltra.blogspot.com/2012/03/lettera-dei-premi-nobel-per-lecnomia.html

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Spariscono i Michelangeli.

Quando nel 1547 Michelangelo Buonarroti venne nominato da Paolo III sovraintendente alla Fabbrica della basilica di S. Pietro, succedendo ad Antonio da Sangallo, non poteva certo immaginare che, di lì a poco, sarebbe rimasto senza il suo potentissimo committente e protettore. Papa Farnese moriva infatti il 10 novembre 1549. Nell’attesa del nuovo pontefice, il 22 novembre di quell’anno, con decreto dei responsabili della Fabbrica, vennero interrotti i lavori in S. Pietro ed il cantiere e i materiali di lavoro confiscati e chiusi a chiave.

La nuova situazione determinò, come ovvio, la sospensione dei salari per tutti gli artigiani, carpentieri e muratori che a quella impresa stavano lavorando. Il Buonarroti dunque si trovò in gravi difficoltà economiche e, preoccupato anche della sorte dei suoi collaboratori, fu costretto a ricorrere all’aiuto dei suoi mecenati ed amici. Tra questi, scelse di rivolgersi anche a Cristoforo Spiriti, allora vescovo di Cesena e futuro patriarca di Gerusalemme, al quale, in una breve lettera, espose le circostanze che avevano portato ad una situazione per lui tanto umiliante e difficile.

Da Lux in Arcana, L’Archivio Vaticano si rivela, nel IV° centenario dalla fondazione dell’Archivio Segreto Vaticano, Musei Capitolini, Roma.

Continua, il volume della mostra: “Non potendo egli stesso provvedere alla paga, temeva che dalla situazione ne potessero derivare un “danno di parechi migliaia di scudi” e un probabile “scandolo“. La lettera di Michelangelo è lì, ogni lettera appare come incisa da uno scalpello leggero che lavora il foglio con tratti precisi e forti.

Ecco, penso. La ditta Michelangelo & Co. con un problema di liquidità a causa di ritardato pagamento. Un imprenditore, lui, che si dà da fare per porre rimedio con finanziamenti per non generare disoccupazione tra i suoi operai e per non nuocere alla reputazione della sua azienda.

Come oggi.

La differenza? 1 mese dopo, eletto Giulio III “la vicenda trovò soluzione”. Il bello per la città fu salvato, gli operai non rientrarono a far parte dei numeri che gonfiano il tasso di disoccupazione, Michelangelo poté continuare senza danno per la sua reputazione con quella ed altre commesse.

No allora, non come oggi. Oggi non ci sono committenti pubblici disposti a pagare per il Bello, e dunque abbiamo sempre più disoccupati e sempre meno Michelangeli. Quei Michelangeli che rimangono a galla, comunque, si battono ogni giorno per i loro operai e per loro stessi e continuano a gridare allo scandalo, con voci sempre più flebili. Gridano “pagateci per il bello fatto” e “fateci lavorare per il bello”.

Ma non ci sono né Paolo III né Giulio III. E il bello svanisce. E con esso un nuovo Rinascimento.

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Fuga per la vittoria. Mancano 4 giorni alla chiusura dell’appello. 1058 firme.

Clicca qui per leggere l’appello e se sei d’accordo manda mail a gustavo.piga@uniroma2.it  oppure lascia un commento.

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E’ la democrazia bellezza, e l’indipendenza delle agenzie dalla politica è dipendenza da interessi privati

Strana giornata quella di ieri al Parlamento. Si dibatteva della questione più importante di tutte, quella dell’introduzione del vincolo sui deficit nella Costituzione italiana e dal Corriere della Sera leggo a pagina 13 un minuscolo trafiletto che erano 5 i deputati in aula ad ascoltare il dibattito. Cinque.

Eccovi serviti quando parliamo di velleità europea e di mancanze nazionali. Non mi piace usare la parola scandaloso ma in questo caso mi sento in colpa, io e la mia classe di economisti,quando capisco che non siamo riusciti per niente a far capire ai nostri politici l’importanza della questione per il Paese.

Giro la pagina del Corriere e mi ritrovo a pagina 15 con una lettera del Presidente della Commissione Bilancio Giorgetti che replica a A&G (indovinate chi sono) sulla questione del deficit, appunto , in Costituzione. Dove Alesina & Giavazzi , giustamente, fanno notare che nell’usare la parola “equilibrio di bilancio” invece di “pareggio” nel disegno di legge si crea ambiguità e lo spazio per evitare di fare le cose alla tedesca.

Credo proprio che A&G abbiano ragione e che, al contrario di quello che pensano loro, la furbizia italica dei nostri assenteisti parlamentari ci salverà. Abbiamo bisogno di ossigeno vitale per creare spazi in momenti di crisi per i deficit, essenziali durante le recessioni come insegniamo dalla mattina alla sera all’università, e mettere giacchette strette come quelle desiderate dai tedeschi e da A&G vuol dire solo una cosa: trucchi contabili a manetta. Meglio una legge più flessibile che dice più verità che una rigida piena di menzogne, questo ormai lo dovremmo avere capito da cosa è successo in questi ultimi 10 anni di fallimenti di regole di bilancio in pareggio.

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Ma la cosa non finisce qui. Mi stupisce poi immensamente che Alberto e Francesco si schierino contro Giorgetti quando quest’ultimo orgogliosamente rivendica il fatto che nel ddl costituzionale di prossima approvazione è prevista la nascita di una Commissione fiscale indipendente presso le Camere che aiuti a certificare i conti pubblici e le stime e le assunzioni governative in essi contenute.

E’ una innovazione questa sì rivoluzionaria visto che siamo tra i pochi paesi al mondo a vedere certificati i nostri conti pubblici dalla stessa entità che li redige, i conti pubblici: la Ragioneria Generale dello Stato.

“Istituire una Commissione fiscale indipendente dentro la Camera è pericoloso, come dimostra l’esperienza del Congressional Budget Office negli Stati Uniti”, dicono A&G. Oh my God. L’esperienza del Congressional Budget Office americano pericolosa? Il CBO? Una delle più importanti istituzioni americane, che gli stessi Lars Calmfors e Simon Wren-Lewis (da A&G citati) definiscono come buon esempio (….councils generally produce some assessment of the impact of alternative policies. A good example is the Congressional Budget Office’s 2010 report on the long-term budget outlook, which looks at the impact of alternative paths for debt stabilization) pericolosa? Ma scherziamo? Magari avessimo un CBO qui.

E poi, se la situazione con una Commissione di controllo della trasparenza dei conti pubblici presso la Camera fosse “pericolosa” come definirebbero A&G la situazione odierna in cui è tutto in mano alla Ragioneria? Esplosiva? Anti-democratica?

La verità è che se volessimo fare come ci chiedono A&G, una “commissione esterna sia al governo che al Parlamento … dotata di totale indipendenza” non avremmo non solo nessuna certezza della sua indipendenza ma, peggio, rischieremmo di avere la dipendenza della politica fiscale da interessi  poco chiari e non necessariamente legati all’interesse pubblico. Oggi è uscito un articolo di Bloomberg News sulle mancanze che l’agenzia indipendente Eurostat ha commesso nell’affaire dei derivati tra Grecia e Goldman Sachs: e vogliamo ancora credere che l’indipendenza delle agenzie dalla politica non è dipendenza da interessi privati?

Ci mancherebbe pure che oltre alla politica monetaria, oltre alla politica di vigilanza bancaria, oltre alla politica dei saldi di bilancio, cedessimo pure ad una entità indipendente la politica fiscale su quanto spendere e quanto tassare.

E’ la democrazia bellezza, potrà non piacere, l’unica cosa che funziona.  

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Krugman, Lucas, Keynes, Woodstock and those grey-suit economists

Things happen in my head when I read Paul Krugman about the Great Divide that Emerged in Macroeconomics in the 1970s , 40 years and more ago, and all the sorry crazy mistakes that we economists are doing right this minute, not helping politicians to do the right choice.

He is right. He is definitely right when he sees all these wise, sober, moralizing men and women at center stage of policy-making and policy-advising:

But the question you should ask is how economists are doing compared with those who use other ways to understand the world, and in particular how they are doing compared with sober, serious, experienced men in suits. And it is precisely in disturbed times that economists can and sometimes do offer dramatically better predictions and policy judgments than what we normally consider wise men. What happened, in fact, was that to a large extent policy makers ended up going for economic doctrines that made them feel comfortable, that corresponded to the prejudices of men not versed in economics.

Thus, it’s normal to think of the economy as a whole as being like a family, which must tighten its belt in hard times; it’s also completely wrong. But lacking any clear message from the economists about how and why this is wrong, it became the common standard of discussion in America, where both Republicans and, alas, President Obama became very fond of the statement that the government should tighten its belt because families were tightening theirs.

It’s also normal to think of economics as a morality play, a tale of sin and redemption, in which countries must suffer for their past excesses. Again, this normal reaction is wrong, or at least mostly wrong – mass unemployment does nothing to help pay off debt. But absent clear guidance from the people who are supposed to explain that economics is not, in fact, a morality play, moralizing became the core of economic policy thinking in Germany, and hence played a huge role in European policy more generally.

Things happen in my head when I read this. I wonder what happened to the beauty of social sciences, of Economics. Krugman is wrong to criticize Bob Lucas, super neoclassical Nobel Prize (one thing in common with Krugman!). Bob Lucas’ models in the 80s were revolutionary and beautiful, clean and majestic. They even forced Keynesians to change the way they thought: even keynesian Krugman owes debt to Lucas.

But just like after Keynes the keynesians after him wore the dark and boring suits of day-to-day economics – incapable of dealing with great crises like the 70s one - the neo-classicals after Lucas were nothing like him. They have become austere like austerity itself, no surprise they today (wearing boring grey or brown suits) ask endlessly for austerity and reforms. As if Lucas was about austerity and not about the beauty of man and his capacity to be better than grey-suit policy-makers, when he claimed against all dominating conventions that you could not fool people with predictable policies.

And the inadequacy of policy is something that should bother economists greatly – indeed, it should make them ashamed of their profession, which is certainly how I feel. For times of crisis are when economists are most needed. If they cannot get their advice accepted in the clinch – or, worse yet, if they have no useful advice to offer – the whole enterprise of economic scholarship has failed in its most essential duty. And that is, of course, what has just happened.

Krugman is right again. But.

But a revolution is probably brooding somewhere. Crises are times when young unknown economists working in small university offices, away from power and consensus, draft the papers that will change the profession forever again. Somewhere, I know this, I know it for sure, some true descendant of Keynes, 25 or 28 years old, is working right now at his dissertation that will make Macroeconomics the science of colors and powerful ideas. Grey suits will disappear and a new Woodstock, 40 years and more after, will come.

Thank you Mauro.

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Università: ci sono cose che non si possono monetizzare.

Oggi ho ricominciato a insegnare dopo un po’ di tempo. 300 persone in aula, primo anno, belle facce, attente. Io felice. Ma soprattutto dovrebbe essere felici loro, e non perché sono il loro professore ma perché studiare all’università porta ad una vita di felicità. E non solo per i maggiori salari che gli spetteranno.

Il grafico qui accanto riporta la felicità dichiarata da persone tra i 25 e 40 anni (Stati Uniti), anzi la percentuale di persone che si dichiarano felici o molto felici una volta che abbiamo tenuto conto di tutti i fattori possibili meno reddito familiare e titolo di studio.

 

L’istogramma mostra, in nero ed in bianco, la percentuale di individui felici della loro vita a seconda del titolo di studio (da sinistra a destra: senza diploma di scuola superiore, con il solo diploma, con frequenza università ma senza laurea, almeno con laurea). Il nero non tiene conto del reddito familiare, il bianco sì. Se guardate solo alle barre bianche, a parità di tutto – compreso il reddito – tra i diplomati troviamo il 4% in più di individui felici che tra quelli non diplomati e tra i laureati il 2% in più dei diplomati. Insomma una felicità non dovuta a nient’altro che al mero fatto di essere stati all’università, anche se non se ne ricava nulla in più in termini di euro.

E’ felicità che deriva dal vivere in un ambiente di lavoro più stimolante, più sicuro, più prestigioso? Sì, ma non solo. Come riassumono bene Philip Oreopoulos e Kjell G. Salvanes, economisti di Toronto e Bergen nel loro saggio Priceless: The Nonpecuniary Benefi ts of Schooling. Affina, l’andare all’università, il pensiero critico e le abilità sociali, compresa quella di fare un matrimonio non sbagliato (meno divorzi), essere un genitore meno violento, adottare scelte oculate come curarsi meglio, essere meno impazienti. E fidarsi più del prossimo. Tutti fattori di felicità. L’istruzione ci insegna a goderci nuovi piaceri di cui non avremmo saputo nulla se non avessimo frequentato l’università.

Rinunciare all’università significa rinunciare a vivere in un ambiente unico dove imparare a discutere, a condividere, a conoscere, a apprendere. A apprendere che esiste un mondo incredibilmente diverso da quello in cui siamo sempre vissuti, da apprezzare. A apprezzare la diversità.

Ecco cosa dovrebbe spingere i nostri Governi a far nascere 1000 fiori di università in tutta la penisola, fiori di serra e fiori di campo, dove ospitare i tantissimi giovani appena usciti dalla scuola, incerti e un po’ persi.

Così da far sì che si instauri anche un nuovo patto intergenerazionale tra padri e figli. E’ noto infatti che molti genitori non dirigono i loro figli verso l’università ma verso il lavoro perché loro stessi non l’hanno frequentata.

E allora penso a quel ragazzo che ha preso un 80 su 110 all’università, rinunciando a lavorare per 3 anni. Non lo farà guadagnare molto di più, questo 80 su 110, di quanto non avrebbe guadagnato senza andare all’università, è probabile. Ma … Ma….

Ma rinunciare all’università significa rinunciare a una maggiore probabilità che tuo figlio tra 30 anni ti guardi dall’alto del suo 110 e lode e tu che fiero benedici – dalle lacrime di gioia che ti scorrono dentro come padre – quell’80 che hai preso quel giorno di tanti anni prima, che ti ha permesso di capire quanto sarebbe stato importante non ostacolare il suo talento chiedendogli di lavorare. Di capire la diversità.

Come dicono Oreopoulos e Salvanes prendendo a prestito da una famosa pubblicità di carte di credito, “Priceless”.

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Contro la disoccupazione giovanile. Che c’è, eccome.

Una versione più breve di questo post appare oggi sul Corrriere della Sera a pagina 39.

Cresce la sensibilità degli organi di stampa sulle condizioni difficili dei giovani nel mercato del lavoro nel contesto della attuale grave recessione.

I tassi di disoccupazione giovanile rilevati sono in crescita e questo di per sé deve costituire fattore di preoccupazione. Vero è, come è stato fatto rilevare anche sul Corriere della Sera da Della Zuanna, che questi numeri non sono pienamente rappresentativi dell’universo giovanile perché fanno riferimento soltanto a quella quota di giovani che attivamente cerca lavoro. I rimanenti – che non cercano attivamente lavoro – sono tanti e secondo alcuni ciò sminuirebbe il problema visto che “molti di questi studiano”.

Ebbene, andiamoli a vedere questi dati sugli inattivi italiani. E’ una galassia poco nota su cui l’Istat guidata da Enrico Giovannini ha di recente fatto luce in maniera inequivocabile, illustrando la situazione drammatica in cui versa, nel suo complesso e rispetto ai giovani. I dati fanno riferimento al 2010 ma si può dare per certo che nel 2011 saranno ancora più gravi.

Primo fatto. La dimensione. Vi erano, all’interno dell’ampia categoria di inattivi, nel 2010, 2 milioni 764 mila disponibili a lavorare ma che non cercano lavoro, un aggregato più ampio dei disoccupati (2 milioni 102 mila)! E’ il livello più alto dal 2004.

Secondo fatto, la dinamica. Il fenomeno va rapidamente aggravandosi. La percentuale degli inattivi sulla forza lavoro che non cercano lavoro ma sono disponibili a lavorare è passata dall’8,9% del 2004 all’11,1% del 2010. Dai 2,2 milioni di unità del 2004 si è passati ai 2,8 milioni del 2010.

Terzo fatto, la motivazione. Il 42% (circa 1,2 milioni di unità) degli individui classificati tra gli inattivi che non cercano lavoro ma sono disponibili è convinto di non potere trovare un impiego perché scoraggiato. L’incidenza degli scoraggiati è passata dunque nel biennio della crisi dal 38,1% del 2008 al 42,5% del 2010 e sale fino al 47% nelle regioni meridionali.

Quarto fatto, siamo in questo  l’anomalia europea. Basterà citare le parole dell’Istat, chiarissime. “In Italia si trovano un terzo dei circa 8,2 milioni degli individui che nei paesi dell’Unione europea dichiarano di non cercare lavoro ma di essere disponibili a lavorare. In rapporto alle forze di lavoro, in Italia questo gruppo di inattivi è superiore di oltre tre volte quello Ue: l’11,1% in confronto al 3,5%. Si tratta di una peculiarità dell’Italia, dovuta soprattutto ai fenomeni di “scoraggiamento” “.

Quinto fatto, la composizione. Sono le donne a dominare nel gruppo degli inattivi, 16,6% delle forze di lavoro femminili, a fronte del 7,2% degli uomini. Ma, eccoci al punto, a tale fenomeno si associa la crescita dei 15-24enni che non cercano lavoro ma sono in ogni caso disponibili a lavorare in rapporto alle forze di lavoro giovanili (dal 21,6% del 2004 al 30,9% del 2010). Nel Mezzogiorno sono circa un quarto delle forze di lavoro, un risultato di oltre sei volte superiore a quello del Nord. Chiude l’Istat: “nel complesso, il 42% (circa 1,2 milioni di unità) degli individui classificati tra gli inattivi che non cercano lavoro ma sono disponibili è convinto di non potere trovare un impiego perché troppo giovane o troppo vecchio, di non avere le professionalità richieste o più semplicemente perché ritiene non esistano occasioni di impiego nel mercato del lavoro locale.”

Altro che giovani che studiano. Nell’attesa che si ponga rimedio credibile al nostro sistema di istruzione (specie ma non solo a livello di formazione tecnica) e concordando con Della Zuanna che non saranno certo i “contratti d’ingresso assai favorevoli per le imprese” a rappresentare la svolta, è evidente che il nodo è duplice e si rafforza in un abbraccio perverso: crisi e mercato nero.  Combattere la crisi oggi significa mettere fine ad una emorragia che se non arrestata significa uscita definitiva dal mercato del lavoro e che, specie per i giovani, sarebbe un crimine.

Politiche economiche più espansive e supporto ad un servizio civile per i giovani ben finanziato, temporaneo e ben amministrato (come richiesto nel nostro appello che si chiude domenica prossima, firmate mandando mail se volete) possono non solo essere la miglior cura contro il mercato informale e nero, ma anche la svolta per ridare la speranza ai tanti scoraggiati, un aggettivo che possiamo e dobbiamo cancellare dal lessico nazionale.

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A Roman Recommends an Indian Woman as Next President of the World Bank

Here we go. Campaign primaries for the next President of the World Bank have started. Jeffrey Sachs, a world-reknown economist, has unusually launched his candidature. An expert indeed of world development issues and a brilliant economist.

We should be aware however that there might be little correlation between the past CV of President-elect to the post and their performance at the World Bank. Nor with their expertise in world economic development.

Before being named the fifth World Bank president, Robert McNamara served as US Secretary of Defense during the Vietnam War. By many accounts his tenure as Secretary was terrible. He has been accused to have remained silent after realizing that US policy was wrong and that the U.S. could never win the war and silent when he left the cabinet in 1968. In the fascinating movie Fog of War, he acknowledges his mistakes in a dramatic way.

But he was by many accounts one of the best presidents the World Bank has had. Together with James Wolfensohn, a banker but hardly an economist by training who introduced the fight against corruption as a key factor to enhance capacity building across emerging countries.

Because the World Bank is an important institution for relieving world poverty, because the institution still needs to fight for improving its governance (being often accused of either excessive bureaucracy or excessive lack of delegation to poor countries), because of geopolitical issues - like the increasing strategic role that China is playing through lending at very convenient conditions to developing countries – the next (wo)man for the job will be an important one.

Traditionally the US maintains a strong hold on the final name of the person who will be elected. It is an important decision.

As a Roman, I have one modest suggestion. Mr. Obama, stay hungry, stay foolish. Like those Italian cardinals who in Rome, on October 1978, gave up on the 2 front-runners, both Italian. To elect, incredibly, a Polish man. A Polish man that left a trace in a world that was in a state of crisis and needed a strong spiritual leader.

Well, the economic world is NOT in a state of crisis. The Western world is. There is another world that is expanding vigorously or that tries to, and whose incredible performance and whose values need to be recognized by the international community.

Imagine the faces of all these Westerners, President Obama, when you will name an Indian woman to lead the next World Bank. An Indian woman. Coming from one of the great civilizations of the world, a nation that has always given recognition to women in society, you will have an embarassment of riches to find the right name among Indian women, born and living in India right now, with no link to any American multinational.

And by this gesture you will have made the countries of the world scream in joy and delight, like I did when I was 14 and watched on TV a Polish man telling me from a balcony, “If I will make mistakes, you will correct me”. That day I knew something beautiful had occurred and I knew something even more important was going to happen. I was 14, but I was right.

Mr. Obama, marvel the world. Give us a World Bank President that will change the perception of international relations forever. Give us a sense that a strong alliance across the globe can be forged among all those democracies that are rich in history, tradition, culture. It will be, I am sure, one the most lasting legacies of your Presidency.

Post Format

Combattiamo la recessione

Essere a Parigi ha il vantaggio di vivere nelle nuvole e lo svantaggio di perdersi la partita di calcio. Leggo poco e so meno sull’Italia in questi giorni, ma aprendo oggi il Corriere (di ieri!) a parte la gentile citazione di Guido Roberto Vitale sulla lotta agli sprechi via informatizzazione dei dati (e speriamo che qualcosa si sblocchi a livello governativo), vedo che si infiamma la questione del tasso di disoccupazione giovanile, alto ma irrilevante secondo alcuni perché “i giovani studiano”.

Temps de pluie. G. Caillebotte

A parte che alcuni studiano al rallentatore anche per evitare di uscire nel deserto, la questione è ben più grave. E che si dica che sono pochi i giovani disoccupati (ed è vero se facciamo riferimento alla definizione di disoccupato ed ai numeri ben + drammatici di 20 anni fa) è grave perché come spesso accade di questi tempi si finisce per dire che non c’è bisogno di risolvere il problema dei giovani. Che è problema invece enorme se usciamo dai disoccupati e guardiamo anche agli inattivi. Ma su questo a breve un pezzo grazie alla magnifica Istat di Giovannini.

Ora invece vi allego un breve post ricevuto stamattina (poi parto, torno sul campo di calcio questo pomeriggio) che mi ha rattristato ma soprattutto risvegliato. Ovviamente non è “vero”, ma è “reale”: potremo sempre smentirlo con dati a supporto, ma a mio avviso mantiene un suo monito e rappresenta un grido di allarme che non va sottostimato:

Gustave Caillebotte, Les raboteurs de parquets

Professore, io, da giovane meridionale, più che secessioni e fascismi (in senso stretto), vedo espandersi a macchia d’olio una criminalità organizzata sempre più capace di sostituire lo Stato. C’è disordine (rapine, blocchi stradali, manifestazioni) e c’è un attore terzo che da un lato assicura ordine pubblico e dall’altro fa da ammortizzatore sociale, attraverso i proventi delle attività illecite. Mi sembra di vivere in un film ambientato nell’America degli anni ’20. Da un lato della strada ci sono gli operai di aziende fallite (le poche che trainavano la debole economia del sud) che fanno la fila alla Caritas e dall’altro lato sono parcheggiate auto di lusso che non si vedono nemmeno a Beverly Hills.

Ecco. Tutto qui. Grazie al lettore per questo suo messaggio. Combattiamo la recessione. Combattiamo la recessione. Combattiamo la recessione.