THIS SITE HAS BEEN ARCHIVED, AND IS NO LONGER UPDATED. CLICK HERE TO RETURN TO THE CURRENT SITE
Post Format

Prof. Monti ora acceleri verso la protezione dei giovani. Subito.

Ieri mentre guardavo tanti giovani studenti e futuri laureandi dignitosamente alzarsi per applaudire Mario Draghi al suo ingresso in Aula Magna per la Lezione in onore dell’economista scomparso Federico Caffè (bravissimi i miei colleghi della Sapienza a organizzare perfettamente il tutto), mi sentivo orgoglioso di loro. Molti di questi, ne sono certo, non condividevano in toto la posizione della BCE né tutto quello che diceva Draghi. Ma erano lì, per ascoltare, capire, e anche rendere omaggio ad una istituzione che comunque rappresenta una parte importante della nostra costruzione di pace, l’Europa, e della lotta all’inflazione. E ad un uomo, italiano, che molti ammirano nel mondo e che ci onora con i suoi successi.

Nel contempo udivo fuori le voci. Urlanti, vocianti, protestanti. Erano gli altri giovani, studenti e non, che protestavano, non violenti, contro Draghi e contro la BCE. Mi sentivo orgoglioso di loro. Per il loro coraggio, la loro voglia di dire la loro. Erano lì per parlare, spiegare, ed anche per criticare un’organizzazione chiusa e a volte poco trasparente, che rende difficile l’avanzamento di politiche più attente all’occupazione. E criticare un uomo, Mario Draghi, che, come ha detto lui stesso ieri, iniziò il suo percorso come loro, criticando la marcia verso la moneta unica europea, nella sua tesi di laurea con Caffè. E poi è cambiato.

Ma più di tutto ero orgoglioso del fatto che coesistessero, questi due gruppi, uno accanto all’altro, sfiorandosi e mai toccandosi, ma mai odiandosi, rispettandosi. Che bel futuro, il nostro futuro se messo in mano a loro.

Ma lo sarà?

10% della disoccupazione giovanile europea. 534000 giovani.

10% dei fondi europei destinati non ancora allocati. 8 miliardi di euro.

Italia. Uno degli 8 paesi con tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30% a cui la Commissione europea assieme ai governi interessati ha dedicato una attenzione specifica: siamo in compagnia di Grecia, Irlanda, Latvia, Lituania, Portogallo, Slovacchia e Spagna.

3,6 miliardi degli 8 sono stati già riallocati a combattere la disoccupazione giovanile. Dovrebbero aiutare 128.000 giovani e 28.000 piccole imprese.

Un bravo dunque al Governo e in particolare, credo, al Ministro Fabrizio Barca che si deve essere impegnato per questo risultato.

Ora facciamo di più.

E soprattutto facciamo presto. Per salvare l’euro, sì, ma anche per evitare fenomeni di scoraggiamento che portano ad una rapida uscita, spesso permanente, dalla forza lavoro. Per salvare i giovani.

Come?

L’assenza di politiche macroeconomiche della domanda, ossia di politiche che combattono la disoccupazione, fa più male ai giovani che ai non-giovani. Nella recessione 2008-2010, stima l’ILO, per un aumento mondiale dello 0,5% della disoccupazione adulta, quella giovanile è aumentata dello 0,9%. Peggiore è questa dinamica in Europa. Ecco le parole del rapporto ILO: “dal punto di vista della crisi dell’occupazione giovanile, una forte ed immediata riduzione nella spesa pubblica non può che, probabilmente, aggravare il problema”.

Il modo migliore di combattere la disoccupazione giovanile è ovviamente quello di riavviare immediatamente il motore dell’economia tramite appalti pubblici. Che hanno un vantaggio aggiuntivo: come ebbe modo di dire Obama quando presentò il suo progetto di politica fiscale espansiva per combattere la crisi, l’occupazione che si genera con appalti di beni e servizi si rivolge ai giovani meno abbienti, quelli più a rischio di emarginazione e di finire nel settore informale o criminale.

L’ILO raccomanda anche quelle politiche di occupazione pubblica che abbiamo raccomandato col nostro appello a Monti e che forse potrebbero rappresentare meglio di qualsiasi altro strumento, ora come ora, una soluzione immediata ed efficace all’occupazione giovanile. Forse usi alternativi dei fondi europei daranno occupazione giovanile troppo tardi? Allora assumiamoli direttamente, per 2 anni, questi giovani.

Ma la piaga vera italiana giovanile va ben al di là dei numeri della disoccupazione. Che il nostro tasso di disoccupazione giovanile sia del 35,9% contro il 21,9% del Regno Unito ma che i nostri disoccupati siano circa la metà di quelli giovani britannici (534.000 vs. 994.000 unità) ci ricorda che i giovani che cercano lavoro in Italia sono molti meno di quelli di altri paesi europei.

Cosa fanno gli altri giovani italiani? Sono “scoraggiati”, dice l’Istat, una caratteristica solo italiana. Eccoli là, eccoci qua, secondi solo alla Bulgaria. Secondi.

Chi sono? Non lo so. Posso dirvi però chi è che ha più probabilità di esserlo, uno scoraggiato (o NEET):

a) coloro che riportano di avere una qualche disabilità;

b) i giovani immigrati;

c) coloro con livelli di istruzione minore;

d) coloro che vivono in aree geografiche impervie ed isolate;

e) coloro che hanno una famiglia con basso reddito;

f) coloro che hanno genitori che sono stati disoccupati;

g) coloro con genitori con bassa istruzione;

h)  coloro con genitori divorziati;

Esatto. I meno protetti, quelli che da politiche che premiano il merito non sono aiutati. Hanno bisogno di politiche volte invece alle pari opportunità e dunque ad essere maggiormente aiutati.

Prof. Monti, lei può fare molto per sopperire a quanto non è stato fatto sinora. E’ questa la vera urgenza del Paese, la vera pena, la vera sconfitta che ci umilia. La combatta con tutte le sue forze, senza pentirsi di ogni euro che spenderà per essa, i 4,2 miliardi che le darà subito Bondi, i miliardi che otterrà da eventuali aumenti IVA o dagli aumenti già effettuati.

Anche perché, se proprio ci teniamo a fare i contabili, si sappia che questi scoraggiati costano. Eccome se costano. Dei paesi UE a chi costano di più? Indoviniamo. All’Italia: 1,7% di PIL, 26 miliardi di euro. Tutte perdite perché non lavorano. Senza considerare i costi sociali eventuali di maggiore criminalità, salute ecc. Val la pena spenderci sopra che ne dite?

Ma le perdite sono ancora maggiori.E si insinuano nei gangli più profondi della società italiana.

Più si è scoraggiati, più si ha sfiducia. Sfiducia nelle istituzioni, nella fabbrica sociale che ci disdegna.

Fiducia nelle istituzioni? 5/10 coloro che studiano, 4/10 gli scoraggiati.

Voterai alle prossime elezioni? 76% si per coloro non scoraggiati, 65% gli altri.

Sei interessato alla politica? 40% contro 29%.

Già. Scoraggiati da tante cose.

Ci spetta di provarci, prof. Monti. Sennò che ci stiamo a fare in questo bellissimo mondo? Come disse François Mitterand: “se è vero che la gioventù non ha sempre ragione, quella società che gli va contro ha sempre torto”.

Post Format

Ricordando Federico Caffè e sperando nell’Europa dei giovani

Post Format

Europa come gli Stati Uniti o Stati Uniti d’Europa?

Oggi alla Lezione Federico Caffè alla Sapienza ho avuto l’onore di parlare, grande emozione di tornare nella mia Alma Mater.

Nel pomeriggio Lezione Federico Caffè di Mario Draghi. Che argomenta con forza: “l’unione monetaria deve evolversi verso modelli con minore sovranità nazionale su politica economica, verso politiche comunitarie”. Eccoci. Bisognava ascoltarla questa frase chiave. Si dirà un giorno: “io c’ero, quel giorno”?

Speriamo di no.

Ho sostenuto che una delle più importanti novità che ci aspetta di dibattere nei prossimi mesi è il futuro di una area monetaria comune.

E i partiti di opinione già si sono schierati: da un lato una parte della stampa anglosassone e del suo sistema, che celebra già la fine del progetto. Speriamo abbiano torto. Dall’altro, gli istituzionalisti spinti, che chiedono un rilancio con la creazione degli Stati Uniti d’Europa, con la quale forse intendono una politica fiscale centralizzata a Bruxelles. Speriamo non passino: richiederebbe anni di distrazioni che porterebbero via l’attenzione dai problemi pressanti dell’oggi. Tutto deve avere un suo tempo, ci sarà anche quello essenziale per un’Europa unita ma la gatta presciolosa…

E’ possibile salvare il progetto geopolitico di area monetaria comune senza finire tra le forche caudine di una di queste 2 alternative?

Ci sono importanti aree monetarie che hanno, al loro interno, parti con bassa produttività ed altre ad altissima produttività. Parlo di Tennesse ed Alabama da una parte e Massachusetts e California dall’altra.

Certo, gli Stati Uniti sono un’area a lingua comune e alta mobilità del lavoro. E certo, è vero che hanno un bilancio federale ampio, con grandi trasferimenti impliciti in caso di recessione di un’area. Che noi non abbiamo.

Ma è un bilancio, quello federale Usa, che si è ampliato fortemente solo dopo 150 anni di vita in comune, con le politiche del New Deal di Roosevelt.

Prima, quando gli Stati negli Usa erano forti, cosa avveniva? Tra il 1820 ed il 1830 gli stati Usa cominciano ad effettuare, indebitandosi, ampi investimenti pubblici in canali, ferrovie, infrastrutture. Nei primi anni Quaranta del XIX° secolo nove stati fecero default sui loro debiti, e tre entrarono in rinegoziazioni sostanziali.

Gli Stati Uniti sopravvissero ma il messaggio dovette essere chiaro: i mercati non venivano salvati se sbagliavano a prestare agli stati. Pian piano nel corso dei decenni, anche a costo di guerre drammatiche, gli Stati Usa si avvicinarono (culturalmente più che economicamente) ed in ultima analisi finirono come detto per centralizzare largamente la loro politica fiscale.

Dico questo solo per ricordare che l’aver prima aiutato il crescere drogato del debito privato e pubblico greco, e il non avere poi consentito il default greco, se l’area dell’euro si dovesse sfaldare, si rivelerà il più grave errore nella gestione di questa nostra crisi. Ma lo dico anche per sostenere fortemente la possibilità di restare uniti senza cedere ulteriore sovranità di politica economica, un rischio che pagheremmo caro, credo.

Una volta che la Grecia sarà uscita o (speriamo!) con una Grecia miracolosamente dentro ancora, come possiamo pensare di guadagnare il tempo necessario per superare questa crisi?

Riavviando la crescita con politiche fiscali espansive, sapete la mia opinione. Ma per far sì che in uno stato di così profonda crisi si ristabilisca il clima giusto per la sopravvivenza dell’euro è necessario calmierare i mercati finanziari dandogli certezze.

Certezze che sono svanite da tempo. Svanirono quando si decise – con gli aiuti alla Grecia – di dire addio al disposto del Trattato dell’Unione europea che vietava salvataggi degli Stati in default, contrariamente a quello che si fece nell’800 nei nascenti Usa.

La Grecia è stata salvata a metà, con ambiguità, per poi forse verdersi lasciata sola con le sue dracme. Ma i mercati continuano a non capire quale sarà la politica della banca centrale europea. Sarà il caso dunque di muoverci, come richiede formalmente il Ministro delle Finanze polacco, verso un mondo dove la BCE sottoscriva i titoli dei paesi euro in difficoltà. A quel punto i tassi d’interesse, con una BCE che assomiglia molto di più alla Fed americana, scenderanno perché crollerà il sospetto della fine dell’area dell’euro. Il circolo virtuoso si innescherà. La crescita ripartità, ed assieme ad essa lo spazio per le riforme. Quelle giuste.

Se poi non si farà tuttoi questo, è possibile che la Storia giudicherà non favorevolmente chi fece arrestare il progetto europeo con l’alibi di rilanciarlo verso mete superiori.

Post Format

Basta ferrovie, basta accentramento dei poteri bancari

Oggi devo scappare a lezione presto ma mi è andato giù male il cappuccino a leggere Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera che ritengono per il bene dell’Europa di avere identificato 2 condizioni necessarie ed una sufficiente per la salvezza dell’euro.

La prima necessaria è quella di un Fondo garanzia sui depositi bancari. Certo avranno parlato con dei banchieri e si saranno fatti dire quello che ci dicono i banchieri in questi giorni: che la fuga di depositi verso perlomeno conti non in euro è cominciata, anche da noi. Possiamo pure aderire alla loro richiesta. Anche se ha il sapore della disperazione e dell’ennesima idea dei tecnici dell’ultimo minuto. Ma è un’idea.

La seconda condizione, quello del passaggio dei poteri di supervisione bancaria alla BCE è francamente “risibile” per usare un loro termine su altre questioni. Ma proprio tanto risibile. La crisi della Spagna mostra che le banche non sono state vigilate? Allora come soluzione diamo tutti i poteri della sorveglianza bancaria alla BCE?

Come se la BCE non avesse fallito miseramente anch’essa, contribuendo alla crisi finanziaria del 2008, mai segnalando degli abusi del credito verso la Grecia e dell’uso improprio di derivati (stiamo ancora attendendo ormai da più di un anno che la BCE informi l’agenzia di stampa Bloomberg che ha chiesto che vengano rese note le condizioni degli swap truccati greci, mentre la BCE si rifiuta di dirlo).

Come se non abbiamo da circa un anno approvato il passaggio di consegne dei poteri di vigilanza a 3 autorità finanziarie europee nel cui board siede la Banca Centrale Europea assieme alle banche centrali nazionali e dove non è stato ammesso il Parlamento Europeo.

Come ho avuto modo dire durante (20 gennaiobis) la mia audizione al Senato più di 2 anni fa:

L’indipendenza garantita a tali nuovi istituzioni è ampia. Contrariamente al Presidente della BCE, eletto appunto dai Governi, i Presidenti delle tre Autorità saranno prescelti dal Consiglio delle Autorità rispettive e sono soggetti solo a conferma da parte del solo Parlamento Europeo. Egli, dice il testo del disegno di regolamento, non chiederà né prenderà istruzioni da istituzioni comunitarie né da governi membri dell’Unione Europea. Il Consiglio delle Autorità, dice sempre il regolamento, dovrà agire con indipendenza e oggettivamente in favore degli interessi comunitari senza chiedere né  ricevere istruzioni, così come il Presidente, dalle istituzioni comunitarie o dai Governi. Insomma gli “interessi comunitari” per quanto riguarda la finanza saranno lasciati alla libera interpretazione per lo più di un ristretto gruppo di banchieri e esperti di materie finanziarie.

Tali Autorità avranno infine il diritto di ricevere qualsiasi informazione riterranno necessaria dai Governi nazionali, mentre dovranno fornire informazioni ai Governi ed al Parlamento Europeo sugli sviluppi di mercato solo quando lo riterranno necessario. Addirittura, ma certamente deve esserci un errore di scrittura nel testo in inglese del regolamento, in caso di richiesta da parte del Consiglio o del Parlamento di fornire opinioni sui suoi obiettivi, “potrà” e non “dovrà” adeguarsi a tale richiesta. Ovviamente i membri di tali Autorità saranno soggetti all’obbligo di segretezza professionale e come tali protetti da intrusioni eccessive di chi volesse giudicare il loro operato.

Ecco, queste 3 autorità così onnipotenti, composte al loro interno solo dei rappresentanti delle banche centrali e della BCE, le stesse autorità che non seppero prevedere e prevenire la crisi bancaria del 2008 e che probabilmente contribuirono a  causarla, dovrebbero cedere ulteriormente, a fronte dell’ennesimo fallimento del credito di quest’ultimo anno – in cui hanno potuto svolgere i loro compiti - potere ad una unica autorità chiamata BCE? Invece di renderle responsabili dei loro errori e carenze, gli diamo ancora più potere accentrando tutto a Francoforte dove le garanzie di trasparenza sono ancora minori di quelle con l’attuale struttura tripartita?

Ma di cosa parliamo?

Si rendono conto A&G che il credito manca, e manca anche per la disastrosa politica sui coefficienti patrimoniali delle banche voluta dalla European Banking Authority, approvata da BCE e da tutte le banche centrali che nel board dell’EBA siedono?

Un grande luminare, lui sì vero esperto di banche e che da decenni urla al vento le sue critiche alle tendenze pro cicliche (in recessione meno credito, criteri che massacrano soprattutto le piccole imprese) della regolazione di Basilea senza essere ascoltato, il Prof. Giorgio Szego, mi ha scritto questa mail 2 giorni fa:

La BCE ha recentemente pubblicato i risultati relativi ai  criteri per la concessione del credito. I fattori considerati sono: la capacità della banca di finanziarsi, la prospettive macroeconomiche, le prospettive delle singola impresa ed i costi connessi ai requisiti patrimoniali (Basilea). La grande iniezione di liquidità effettuata dalla BCE ha de-facto eliminato il primo fattore. Le prospettive macroeconomiche quelle delle singole imprese sono fortemente influenzate dal livello di concessione del credito in una spece di circuito vizioso. L’imporre requisiti patrimoniali  fa  aumentare il costo del credito e oggi ne limita fortemente l’erogazione. I vari Stati hanno adottato un comportamento diversificato su questo vincolo: negli USA le banche non sono tenute e seguire queste prescrizioni ed il livello del credito è ben maggiore che in Eurolandia e le imprese meno penalizzate. Dal 2008 ad oggi in Eurolandia il livello totale dei prestiti bancari alle imprese è aumentato di un misero 5,34% nello stesso intervallo di tempo negli USA il credito alle imprese di produzione è aumentato dal 18,2! Ma anche all’interno dei  paesi aderenti all’Euro esistono forti differenze: le attività di “bankassurance”, molto sviluppate in Francia, hanno un trattamento di favore, come pure le landesbank tedesche. Come sempre l’Italia è un vaso di coccio.

Allora invece di accentrare potere senza alcuna responsabilità, pretendiamo che queste Autorità già così poco trasparenti facciano sul serio il loro lavoro e permettano, come negli Usa, di non ascoltare le sirene di Basilea durante, almeno questa crisi.

Concludo con la richiesta di condizione sufficiente di A&G: un modello sociale diverso, basato su meno spesa e soprattutto niente risibili infrastrutture.

Credo che un modello sociale diverso dove lo Stato spenda meglio e di più ma solo per coloro che necessitano veramente aiuti sia necessario.  Credo che non ci sia bisogno di infrastrutture fisiche perché non ne abbiamo bisogno e perché non scatenano che lentamente il reddito.

Credo tuttavia che, detto questo, A&G non abbiano capito qual è l’unica condizione sufficiente per non far chiudere le nostre imprese e aumentare la disoccupazione: riavviare la domanda interna in condizioni tali da generare stabilità dei conti pubblici che ci scappano di mano giorno dopo giorno. Usare i soldi delle tasse che sono già state approvate e quelli che verranno dai tagli agli sprechi per dare lavoro subito.

Io non credo che A&G parlino con i piccoli imprenditori e credo che non sappiano in che situazione di disperazione si trovi una parte del tessuto produttivo italiano (un’altra parte per bravura si lega fortemente alle fortune attuali del ciclo mondiale, oggi comunque in bilico a causa dell’euro e della mancanza di leadership dei suoi governanti). Ci si trova, quella parte, per colpe non sue e certamente non per colpa dell’”attuale modello sociale” ma per ragioni meramente cicliche e di scellerata gestione bancaria negli Usa (ma anche qui da noi nell’euro) dell’ultimo decennio.

No, leader europei, non fate ferrovie e autostrade, ma rifate carceri, ospedali, scuole, università, territorio, cultura. Altrimenti faremo fatica a chiamarvi leader.

Post Format

Basta Tolomeo, evviva Copernico

Da Mario Baldassarri, economista e Presidente Commissione Finanze e Tesoro al Senato, ricevo e volentieri pubblico:

Due mesi fa la Corte dei Conti ha detto: “dentro” gli 800 miliardi di euro di spesa pubblica ci sono 60 miliardi di “corruzione”, “dentro”  i 740 miliardi di euro di tasse “mancano” 120 miliardi di “evasione”. Totale, tra corruzione ed evasione, 180 miliardi di euro, cioè l’11,4% rispetto ai 1.580 miliardi di Pil del 2011.

Meno di un mese fa, quattro economisti (Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati) hanno pubblicato per la serie Temi di Discussione, n.864, della Banca d’Italia, uno studio nel quale stimano le dimensioni dell’economia sommersa (quella cioè fatta per evitare di pagare tasse e contributi) e dell’economia illegale (quella cioè che oltre a non pagare tasse e contributi è totalmente fuori legge, prostituzione e droga incluse). Nella media degli anni 2005-2008, l’economia sommersa risulta pari al 16,5%, quella illegale pari ad un aggiuntivo 11%. Sempre rispetto al Pil del 2011, si tratterebbe di 260 miliardi di euro per la prima e di 174 miliardi perla seconda. Totale 434 miliardi, poco meno del 30% del Pil.

Questi “numeri” sono asettiche analisi di un Organo Costituzionale delle Repubblica Italiana e contributi scientifici di coraggiosi studiosi e pertanto vanno relegati ad un dibattito tra “tecnici ed esperti”? O al contrario toccano la carne viva della società italiana, ancor di più di fronte alla recessione in atto, a ventuno milionidi famigliein difficoltà, a circa sei milioni di senza lavoro, in gran parte giovani e donne, a circa cinquantamila piccole e medie imprese che rischiano di chiudere bottega entro sei mesi?

Qui sta il paradosso dell’economia, della società e della politica italiane.

Da un lato abbiamo i bisogni della gente (famiglie, imprese in testa), dall’altro lato abbiamo le risorse per produrre e crescere e quindi per soddisfare al meglio quei bisogni, che non sono solo economico-sociali ma anche  e sopratutto bisogni di avere “un progetto di vita” per milioni e milioni di cittadini.

Il cuneo profondo che impedisce di usare al meglio le risorse che abbiamo sostenendo una crescita della produzione e dell’occupazione che consentirebbe di soddisfare al meglio i bisogni di tutti è rappresentato da “quei numeri”! E a difendere strenuamente e con mille subdole scuse quel cuneo profondo sono impegnate le tante cosche mafiose e non, le tante aree grigie tra economia e politica, le tante connivenze trasversali e diffuse  che fanno “sguazzare” oltre mezzo milionedi italiani,che godono di quei numeri a danno degli altri 56 milioni di cittadini, con oltre 20 milioni di contribuenti onesti.

Ecco perché “quesi numeri” non possono essere silenziati e relegati a questioni da dibattere tra tecnici o da limitare ad estroverse esternazioni di un organo costituzionale dello Stato.

La politica e l’intera classe dirigente è chiamata a rispondere a quei numeri. Non con slogan buonisti pieni di pie intenzioni, non con le trafile dei quant’altristi, non con troppi si…ma, né tantomeno negando la realtà di quei numeri o nascondendo la drammaticità delle condizioni economiche e sociali della gente, come fatto fin qui per troppi anni.

L’economia, la società, l’equilibrio tra le generazioni e tra i territori si reggono solo e contestualmente su tre gambe: Rigore finanziario, Crescita economica, Equità sociale. O queste tre gambe stanno contestualmente insieme, oppure nessuna delle tre può stare in piedi.

Qui si pone la “madre”di tutte le questioni.

Partiamo dal sacrosanto obiettivo del rigore finanziario che deve mirare ad azzerare il deficit ed a piegare versoil bassoil debito pubblico il più rapidamente possibile.

Nel 2011 abbiamo avuto 800 miliardi di spesa pubblica, 740 miliardi di entrate e quindi 60 miliardi di deficit che si sono aggiunti al debito esistente a fine 2010. Rispetto al Pil rappresentano rispettivamente quasi il 51% la spesa totale, quasi il 47% le entrate totali e circa il 4% il deficit.

Come direbbe anche il vecchio Catalano, per azzerare il deficit possiamo o aumentare le tasse a 800 miliardi, oppure tagliare la spesa a 740 miliardi, oppure ancora qualunque combinazione tra le due azioni.

Ebbene, nel Documento di Economia e Finanza del 18 aprile scorso, sta scritto che tra il 2011 ed il 2014 (anno in cui faremo sul serio il deficit zero secondo i dati del Def) le tasse aumentano di circa 90 miliardi, dei quali 60 serviranno ad azzerare il deficit e 30 serviranno a finanziare ulteriori aumenti di spesa pubblica, con + 31 miliardi di spesa corrente e -1 miliardo di investimenti pubblici.

Questo significa due cose precise.

La prima è che l’effetto freno sulla crescita economica rischia di ripetere la scena degli scorsi anni del cane che si morde la coda e cioè che la minore crescita allontani e non avvicini l’obiettivo del pareggio di bilancio, introducendo per di più crescenti iniquità sociali. Ma detto così sembrerebbe solo un errore di politica economica.

La seconda e più grave cosa precisa è che si tratterebbe di perseguire apparentemente il rigore finanziario lasciando che “quei numeri” rimangano nel bilancio pubblico, nell’economia e nella società italiane da qui all’eternità. Cioè senza “toccare”  i 60 miliardi di corruzione che stanno ogni anno dentro la spesa pubblica ed i 120 miliardi di evasione che mancano ogni anno dentro le entrate.

E questo sarebbe economicamente impraticabile, socialmente insostenibile e politicamente irresponsabile.

Sono anni, forse decenni, che voci isolate tentano di ragionare e far capire quei numeri.

La necessità di una severa lotta all’evasione poggiata su rigorosi incroci di banche dati e conflitto di interessi con deduzioni da dare alle famiglie ed ai cittadini era alla base del Programma di Riforma della Amministrazione Finanziaria,  atto presentato in Parlamento nel 1978 dall’allora ministro delle FinanzeFranco Maria Malfatti, trentaquattro anni fa.

La Spending Reviewla cominciò il prof. Nino Andreatta, quando fu ministro del Tesoro nel 1981, trentuno anni fa.

L’Italia è in recessione, le difficoltà delle famiglie e delle imprese crescono di giorno in giorno, le tensioni sociali aumentano. Non c’è più tempo per i giri di valzer mascherati da “approndimenti di analisi”, in attesa di chissà che cosa di salvifico possa accadere fuori dall’Italia. Al contrario qualcosa di nuvoloso si prospetta in Europa ed anche i segnali di rallentamento della crescita mondiale guidato dalla frenata cinese non lasciano presagire molto di buono.

Ecco perché occorre smetterla con i troppi Tolomeo degli ultimi anni e finalmente navigare con le carte di Copernico. Occorre cioè una rivoluzione copernicana della politica e della società italiane.

E non è forse questo che la gente si aspetterebbe dalla politica, forse anche per tornare a capire e “sentire” che senza la Polis non c’è democrazia? Occorre capire bene che la gente è sempre più tentata di rifugiarsi nella protesta perché quella protesta propone radici vere e profonde. Il problema è che la protesta non prospetta soluzioni, salvo quello del dissolvimento e del disfacimento putrido dell’intero quadro politico, economico e sociale del paese. E’ capitato con la Lega tanti anni fa, sembrava capitasse con IDV e SEL fino a poche settimane fa, ora capita con Grillo ed il Movimento Cinque Stelle.

Senza risposte forti, sagge, tempestive i risultati delle ultime amministrative non sarebbero però che un piccolo campanello d’allarme

Senza citare i fantasmi neonazisti in Grecia o le snasate all’aria che tira di neo BR a Genova, non è difficile pensare quale situazione di potrebbe prospettare entro la fine dell’anno con un’economia che va giù del -2%, con 400.000 disoccupati in più rispetto e con 50.000 imprese in meno rispetto ad oggi.

Quasi per paradosso, avremmo invece motivi veri per essere ottimisti perché tutto, o quasi, è nelle nostre mani, nelle nostre decisioni. I numeri citati all’inizio che bloccano la crescita e soffocano i bisogni della gente (corruzione ed evasione), noi italiani li abbiamo più degli altri….quindi se li aggrediamo abbiamo più risorse degli altri paesi per uscire dalla nostra crisi, per fare cioè sia rigore, sia crescita, sia equità e dare un contributo solido per costruire gli Stati Uniti d’Europa e la nuova Governance Mondiale.

L’unica risorsa scarsa e limitata che abbiamo è il “tempo per decidere”.

Post Format

23 maggio 1992-23 maggio 2012. Per che i giovani “non cambino mai mestiere”

Ritengo che certe cose richiedono un certo tipo di impegno. Certe altre un impegno maggiore. Certe altre un impegno massimo.

E’ inutile affrontare certi problemi senza essere preparato a spendere tutte quelle energie che i problemi richiedono. Allora è meglio nemmeno metterci mano. Se sono stato, non dico costretto, ma se mi è stato richiesto di fare una determinata attività, non posso che attrezzarmi in quella determinata maniera.

Altrimenti è inutile, altrimenti è meglio che si cambi mestiere.

Giovanni Falcone, intervista TV a Marcelle Padovani.

 

Post Format

Cacciatori di taglie per Bondi

Il Commissario presenta entro 15 giorni dalla nomina un programma di lavoro al Comitato interministeriale di cui all’articolo 1, che ne verifica l’attuazione sulla base di relazioni mensili del Commissario.”

Ci siamo quasi quanto a date: aspettiamo con ansia che il Commissario Bondi renda note le direttrici del suo lavoro sulla spending review.

Nel frattempo rifletto sulle migliaia di lettere che arrivano quotidianamente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri segnalando potenziali sprechi. E’ una idea buona, questa delle lettere di denuncia? A naso no. Ma non perché trattasi (come si è detto) di gogna, anche perché le lettere sono mantenute (per fortuna) riservate.

C’è tuttavia il rischio di:
a) Far perdere tempo a chi deve controllare;
b) Basarci sulle scelte di chi queste lettere deve leggere senza che ne abbia la necessaria competenza;
c) Segnalare come sprechi alte spese dell’amministrazione A rispetto a quelle dell’amministrazione B senza tenere conto della possibile migliore qualità dell’acquisto di A, e scoraggiandone la bravura negli acquisti.

Per esempio, ecco l’andamento semplice semplice della spesa sanitaria pro-capite (grazie Ric) regionale per acquisto di beni. Come vedete chi spende tanto sono anche le regioni che hanno una migliore reputazione come acquirenti e forse ciò può avere un legame con la (migliore) qualità degli acquisti. Attenti a dire che chi paga di più spreca di più.


 

 

 

 

 

Ma il punto non è questo, potrei sbagliare anche io: il punto è che bisogna avere piena competenza per sapere individuare gli sprechi. Non usando però il metodo delle letterine via web ma in realtà raffinandolo. Come? Creando una squadra di “agenti all’Havana” disponibili sul territorio per individuare gli sprechi, cosa che non riusciremmo a fare con i soli, bravissimi, dipendenti Consip e gli ispettori della Ragioneria Generale dello Stato.

Sono tante le competenze a disposizione sul territorio di consulenti esperti che vanno messe a servizio di Bondi. Conosco molti di questi consulenti. Sono tanti, sono veramente bravi e tutti mi dicono: ah se Bondi ci chiamasse, ah se Bondi ci pagasse, quanti soldi gli faremmo risparmiare agli italiani. E io gli credo, a questi consulenti. Conosco il loro valore, quanto potrebbero fare per Bondi. E Dio sa quanti non ne conosco, che sanno meglio di qualunque dipendente al Tesoro o di qualsiasi letterato che scrive a Monti come fare per ridurre gli sprechi, che potremmo mettere al servizio della causa della razionalizzazione della spesa pubblica!

Ma come mobilitare il territorio in maniera credibile per la lotta agli sprechi?

Leggevo di questo nuovo istituto, i social impact bond, le obbligazioni a impatto sociale. Stanno piano piano decollando nel mondo anglosassone. Secondo questi bond, il governo effettua un accordo con una società privata di intermediazione finanziaria (SIF, chiamiamola) al fine di ottenere servizi di rilevanza sociale. Questa società è pagata solo al raggiungimento di un determinato obiettivo, per esempio nel nostro caso del risparmio di costi o della migliore qualità della spesa. I fondi per operare, quest’azienda, li ottiene dal mercato, garantendo agli investitori una parte del pagamento statale in caso di successo. Con questi fondi la società d’intermediazione paga varie aziende (consulenti, nel nostro caso?) per fornire i servizi che dovrebbero permettere il raggiungimento della performance.

Eccoli, i nostri consulenti. Pagati dalla SIF per scovare sul territorio gli sprechi. La SIF (e i detentori dei titoli) avrà tutto l’interesse ad assoldare buoni consulenti. Ed il rischio di spendere male i soldi pubblici dei contribuenti sarà trasferito al mercato. Il contribuente pagherà (tramite lo Stato) solo nel caso in cui gli sprechi siano stati identificati e dunque risparmiando in ultimo dei soldi o ottenendo spesa pubblica di maggiore qualità.

Nel Regno Unito sono già stati utilizzati, questi bond, in alcuni progetti pilota, il più noto dei quali è stato avviato dal Ministero della Giustizia per remunerare servizi di successo che riducano il tasso di ripetizione del crimine da parte di individui scarcerati in una prigione, quella di Peterborough. Il governo pagherà solo se il tasso di ripetizione del crimine scenderà del 7,5% rispetto a quello di altre prigioni similari.

Ci devono essere condizioni particolari per che questi progetti funzionino: i benefici netti devono essere particolarmente alti (per remunerare il capitale degli investitori), la performance deve essere misurata in maniera oggettiva, le unità amministrative di cui si misura le performance devono essere chiaramente identificabili, la valutazione deve tenere conto dei risultati che si sarebbero ottenuti in assenza del programma, c’è bisogno di un’autorità neutra e affidabile che sappia certificare la performance dei consulenti in modo obiettivo. E altre sfide, ben riassunte dal documento allegato.

Lo so, lo so. Non ci credete, vi sembra difficile da fare. Sono d’accordo con voi. Ma quello che conta, come sempre, è il messaggio. Senza necessariamente ricorrere ai social impact bond, ci sono tantissime squadre di ottimi consulenti che potrebbero lavorare per una success fee (commissione pagata solo a successo) per identificare sprechi e suggerire miglioramenti, fossero essi nel come gestire gli affitti degli immobili pubblici, il riscaldamento, l’energia, oppure quante stampanti avere per l’ufficio o che contratto di telefonia per gli uffici di una Regione. Un rischio piccolo quello di non essere pagati subito, vista l’enormità degli sprechi.

Una taglia, per chi becca gli sprechi? Assolutamente sì. Ecco perché studiando cosa si deve fare affinché lo schema abbia successo, guardando anche all’esperienza dei bond a impatto sociale e alle caratteristiche che devono essere assicurate per il loro successo, possiamo chiedere a Bondi di spendere un po’ di più (in caso di successo) per ottenere …. maggiore successo. Assuma consulenti a successo Dott. Bondi. Altro che letterine via web.

Post Format

La laurea Honoris Causa in Economia a Jean Tirole dalla Università Tor Vergata

Post Format

Quando (ri)nascono i fiori

Interessante studio di 2 studiosi italiani ed una statunitense basato su quasi 17000 interviste a scienziati di 16 paesi nel campo della biologia, chimica, ingegneria dei materiali e infine delle scienze ambientali, volto a conoscere le ragioni delle loro eventuali “fughe” quali cervelli ambiti nel mondo e la loro eventuale voglia di tornare.

Sono dati che paiono smentire alcuni stereotipi, specie sui nostri ricercatori.

Ma non sempre. Per esempio tra i 16 paesi siamo quello, dopo l’India, con la minore percentuale di ricercatori presenti in Italia nel 2011 che a 18 anni vivevano fuori dall’Italia: solo il 3% contro il 56,7% della Svizzera (prima classificata), il 38,4% degli Usa, il 32,9% del Regno Unito e il 23,2% della Germania. Ci torneremo su questo risultato così triste, ma non siamo evidentemente capaci di rendere attraente l’Italia ai cervelli stranieri.

Dove vanno gli italiani (o meglio coloro che a 18 anni risiedevano in Italia)? Il 13% dei ricercatori belgi è “italiano”, il 13,8 in Francia, il 10,4 nel Regno Unito. Ma ovviamente vanno anche altrove. Come negli Stati Uniti, dove tanti sono i ricercatori stranieri, quasi il 30% cinesi ed indiani. Negli Usa vanno il 25% dei ricercatori italiani, il 20% va nel Regno Unito, il 15% va in Francia, il 10% va in Germania.

Il 16% di quelli in Italia a 18 anni fanno oggi ricerca all’estero. Meno dei tedeschi (23,3), poco più dei francesi, meno dei britannici (più del 25%): insomma fuga di cervelli sì, ma non enorme in termini quantitativi. Quando gli si chiede a questi migranti (tutti, non solo gli italiani) il perché sono andati a “ricercare” all’estero, la risposta dominante è per migliorare le proprie prospettive di carriera e di lavorare con team di ricerca di grande qualità.

Ma per noi italiani è importante leggere la risposta, a seconda del paese di provenienza, alla domanda “è possibile che tu ritorni un giorno nel tuo paese”?

Italiani e britannici sono coloro che rispondono meno di tutti “sì”: circa solo il 15% contro il quasi 40% dei ricercatori svedesi. Ma la notizia interessante è che gli italiani sono anche in minoranza a rispondere “no”: il 10%, secondi a nessuno (contro il 35% dei britannici). Quindi? Cosa risponde il restante 75% dei ricercatori italiani? Il 35% dice “forse part-time o a fine carriera”, ma, attenzione, ben 40% rispondono “dipende dalle opportunità di lavoro”. Un risultato che dà speranza e che dovrebbe mobilitarci come Paese per creare le condizioni giuste per la ricerca, non trovate?

Anche perché a quelli che sono tornati è stato chiesto perché lo hanno fatto. In generale per quasi tutti i paesi la ragione numero 1 è il motivo familiare. Così anche in Italia. Ma tra le altre motivazioni possibili l’Italia spicca per l’irrilevanza nello spiegare la scelta di risposte come: migliori condizioni di lavoro, migliori salari, maggiore prestigio, migliore qualità delle infrastrutture di ricerca. Irrilevanti per noi, rilevantissime per tanti ricercatori di altri Paesi che sono tornati a casa loro. Solo il 5% degli italiani menziona come motivo per essere tornati i salari, le infrastrutture, la disponibilità di fondi di ricerca (l’82% i motivi familiari) contro il 50% dei ricercatori svizzeri e statunitensi.

Si chiama politica industriale: creare il tessuto unico e vincente per far crescere la pianta del sapere, farla attecchire, sbocciare, impollinare tutto attorno. Dando opportunità a tanti giovani che poi resteranno e, che, a loro volta, più avanti nel tempo, faranno prima restare o andar via, ma poi certamente tornare e crescere, tanti altri giovanissimi.

Post Format

L’ombra del dubbio di quel G-8

In uno dei primi film di Alfred Hitchcock, “L’ombra del dubbio”, una giovane ragazza di provincia, sveglia ed annoiata, aspetta con ansia l’arrivo dello zio di città, confidando pienamente in lui per essere risvegliata dall’apatia della provincia.

Lo zio, lo spettatore lo capirà per certo solamente nella scena finale, è in realtà un serial killer in fuga dalla polizia.

Rassicurante per tutti, anche per due poliziotti che certamente come tecnici fanno diligentemente il loro lavoro, vivrebbe tranquillo e sicuro di non essere più ricercato se tutt’ad un tratto la giovinetta – a causa di qualche segnale ambiguo che merita un qualche tipo di ricerca empirica investigativa – non intuisce la verità, malgrado la polizia si sia convinta a quel punto del contrario e la sua stessa famiglia ed i vicini adorano quest’uomo sofisticato dalle buone maniere.

Da quel punto in poi nulla potrà convincere la giovane del contrario: lo zio è chiaramente un cattivo e qualsiasi cosa possa fare, buona o cattiva che sia, radicherà sempre maggiormente in essa l’ombra del dubbio.

Lui cercherà nell’ultima scena di strangolarla e lei riuscirà a sopravvivere perché aveva capito chi aveva di fronte.

Vi lascio ritrovare in cineteca questo pezzo di bravura del grande registra, segnalandovi l’ampia presenza del numero 2 e dell’idea del doppio.

 *

Ecco, l’ombra del dubbio mi pervade, come deve pervadere i mercati. Come i poliziotti, il G-8 sta continuando a generare con i suoi comunicati stampa una serie di pervicaci segnali della sua non capacità di risolvere questa crisi. Di capire cosa è questa crisi e come la si combatte.

Anche Obama, che più ha da perdere da una crisi europea pochi giorni prima delle elezioni Usa, che è più filosoficamente vicino a politiche fiscali espansive, che più di qualsiasi altro leader presente al G8 è votato da un elettorato “greco” locale, al termine del G-8 non ha fatto altro che ribadire che:

“Oggi abbiamo convenuto di dover prendere delle misure per stimolare la fiducia e promuovere la crescita e la domanda, al contempo mettendo i nostri conti fiscali a posto. Abbiamo convenuto dell’importanza di un’eurozona coesa e forte, e affermato il nostro interesse affinché la Grecia rimanga nell’eurozona qualora rispettasse i suoi impegni”.

Ecco, stimolare la fiducia non funziona più, come per lo zio del film di Hitchcock con la nipote. Troppo abbiamo visto di queste frasi incerte, indecisioni, ripensamenti, per potervi credere sulla parola. Ci vogliono i fatti. Bisogna promuovere la “domanda” sembra la frase giusta, ma mettendo i nostri conti fiscali a posto sembra un atto dovuto verso la Merkel (il comunicato recita che ogni Paese deve agire secondo la propria situazione particolare) ma che limita la portata di qualsiasi azione, che a questo punto non può che essere collettiva.

Dire alla Grecia che la vogliamo nell’eurozona ma anche che rispetti i suoi impegni è come dire a quel bambino che vogliamo che guarisca mentre gli neghiamo la medicina.

La soluzione proposta, dagli eurobond di Hollande, lo dico da tempo, e sono felice che anche Francesco Giavazzi concordi quando lo scrive , “non servono a nulla”. Ma se secondo Francesco quello che serve è un “Fondo europeo di garanzia dei depositi bancari”, come ha ricordato Jean Tirole nella sua lezione per la laurea Honoris Causa a Tor Vergata il giorno prima, stiamo freschi. La novità del Fondo di Garanzia è solo una mossa difensiva, l’ennesimo ritardo degli economisti, di fronte ad una crisi che viaggia a velocità decisamente superiore alle loro idee.

Giavazzi chiama lente anche le infrastrutture: “davvero pensiamo che qualche chilometro in più possa riaccendere la crescita”? E propone subito dopo qualche chilometro di “banda larga” oppure la finanza creativa del ricorso alla “Cassa Depositi e Prestiti” per i finanziamenti.

L’ombra del dubbio mi assale.

Certo che qualche chilometro in più di autostrada, di banda larga, magari tutti finanziati dalla Cassa non servono a nulla per salvare l’Europa.

Ma una spesa del 2-3% di PIL su manutenzione dei “ponti invisibili” che uniscono il Paese (carceri, ospedali, scuole, turismo, manutenzione strade) danno vita all’economia, alle piccole imprese, all’occupazione, al reddito, danno l’ossigeno giusto per fare col tempo le riforme che servono (non quelle dell’art. 18 o dei tassisti) ovvero quelle che riformano la nostra Pubblica Amministrazione. E mette in sicurezza  conti pubblici al contrario delle attuali politiche che fanno aumentare il debito pubblico su PIL.

E non pensiamo che questo lo possa fare l’Italia da sola, verrebbe assalita dai mercati. Dice Giavazzi: “L’Europa deve avere uno scatto. Ma la spinta deve arrivare da ogni Paese. Altrimenti l’Europa diventa un alibi per stare fermi”. Io invece la scriverei così: “L’Italia deve avere uno scatto. Ma la spinta deve arrivare dall’Europa. Altrimenti l’Europa diventa un alibi per stare fermi”.

Che l’Europa dia il segnale, visto che Obama ha fallito a convincerci, ad una spinta vera alla domanda pubblica, l’unica che ci può tirare fuori da questa crisi da domanda. Che Monti si adoperi incessantemente per questo visto che ora ha menzionato la magica parola “domanda” al G-8.

Altrimenti c’è una sola soluzione per salvare l’euro: la Germania ne esca apprezzandosi, con l’accordo implicito che vi rientrerà tra 2 o 3 anni con un cambio realistico se gli altri Paesi avranno fatto le riforme che li mettono al pari con i bravi tedeschi. Solo così riusciremo a non strangolare definitivamente il più importante progetto politico che abbiamo saputo costruire nel XX secolo e rimandare al mittente la terribile ombra del dubbio che ci paralizza nell’esprimere fiducia a questa politica economica.