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Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi …

Questa è l’economia. Mai scienza esatta. Così gli stessi dati (quelli contenuti nel DEF aggiornato e da noi già commentati)  possono essere interpretati in un modo da chi li scrive, il Ministero dell’Economia delle Finanze, e da chi li commenta, la Corte dei Conti, così come ha fatto nella sua audizione il Presidente della stessa, Luigi Giampaolino.

Che ha un grande merito, quello di avere portato aria fresca nel dibattito di politica economica evidenziando come i dati disastrosi contenuti nel DEF sono frutto … dello stesso DEF e del suo impatto recessivo sulla domanda interna e non di qualche incredibile congiuntura astrale. Leggete qualche passaggio in corsivo della relazione:

Nel caso dell’Italia, si sommano due fattori negativi: al rallentamento della domanda internazionale, frenata dai problemi di gestione dei debiti sovrani, si accompagna la caduta del prodotto imputabile proprio alle misure di consolidamento fiscale. E ciò a causa di una manovra di bilancio che, nel breve periodo, trasmette impulsi restrittivi su una domanda interna già avvitata in una spirale depressiva. Secondo gli stessi parametri offerti dai documenti governativi, le correzioni attuate a partire dal luglio 2011 determinerebbero una riduzione cumulata del Pil pari a due punti e mezzo nel triennio 2012-14. Anche a motivo di questo effetto, la Nota di aggiornamento valuta che, nel biennio 2012-13, il tasso di crescita del Pil potenziale sia divenuto negativo, per collocarsi sul modesto valore dello 0,2 per cento nel 2015. L’incremento che, nel corso dei prossimi anni, dovrebbe derivare dalle riforme strutturali non sarebbe pertanto sufficiente neanche a riportare all’uno per cento le variazioni del prodotto potenziale.

Solo una quota ridotta del deterioramento delle prospettive di crescita può essere fatta risalire al meno favorevole ciclo internazionale. Secondo gli stessi parametri offerti dal documento governativo, quasi due terzi della riduzione del Pil nel 2013 devono essere imputati alle dimensioni e alla composizione della manovra complessiva di finanza pubblica attuata a partire dall’estate 2011.

Secondo calcoli meritoriamente esplicitati dal DEF, l’effetto recessivo attribuibile direttamente alle misure di riduzione del disavanzo avrebbe dissolto circa la metà dei 75 miliardi della correzione prevista per il 2013.

La revisione del quadro macroeconomico riguarda esclusivamente le componenti della domanda interna. Per quest’anno, la crescita delle esportazioni continua a essere quantificata all’1,2 per cento, come già nel DEF. Una flessione delle importazioni (-6.9 per cento) molto superiore alle precedenti valutazioni  determina, al contempo, un contributo positivo delle esportazioni nette di ben 2,3 punti, a fronte dei valori di 0,2 e 1 punto assunti, rispettivamente, nella Relazione al Parlamento e nel DEF. Il contributo negativo della domanda interna sale di contro a 3,6 punti, il doppio di quanto preventivato lo scorso aprile, quello delle scorte a 0,9 punti, peggiorando di tre volte la quantificazione del DEF. Il deterioramento è ancora più pronunciato se il confronto viene esteso alla Relazione al Parlamento, che per le componenti della domanda interna indicava un contributo complessivo di -0,7 punti. Nel complesso, la caduta della domanda interna ha ormai superato quanto registrato nel 2009.

Da vari passaggi della relazione parrebbe chiaro, secondo la Corte, il ruolo negativo giocato dall’austerità fiscale nello spiegare questo crollo della domanda interna:

Nell’ultimo biennio … l’efficacia delle misure rilevanti di contenimento della spesa pubblica si è tradotta in una riduzione in valore assoluto delle uscite totali al netto degli interessi. Ma in un contesto di riduzione del Pil in termini reali, la quota della spesa sul prodotto è rimasta al di sopra dei livelli pre-crisi. L’urgenza di corrispondere alle richieste dell’Europa ha, dunque, indotto a ricorrere pesantemente al prelievo fiscale, forzando una pressione già fuori linea nel confronto europeo e generando le condizioni per un ulteriore effetto recessivo.

In altri termini, ancorché obbligato, il pareggio di bilancio conseguito con queste modalità appariva alla Corte un equilibrio precario. Con un alto livello di entrate e di spese pubbliche – oltre che con un’inflazione in rapida risalita – la compressione del reddito disponibile di famiglie e imprese non può, infatti, non generare una caduta dei consumi e degli investimenti.

Si è, insomma, di fronte ad evoluzioni contraddittorie: si realizzano risultati importanti nel controllo della finanza pubblica, ma i mercati li riconoscono solo in parte; si continuano ad inasprire le manovre correttive, ma l’economia reale non riesce più a sopportarne il peso. La somministrazione di dosi crescenti di austerità e rigore al singolo paese, in assenza di una rete protettiva di coordinamento e di solidarietà, e soprattutto se incentrata sull’aumento del prelievo fiscale, si rivela, alla prova dei fatti, una terapia molto costosa e, in parte, inefficace. E che, neppure, offre certezze circa il definitivo allentamento delle tensioni finanziarie.

Lo stesso orientamento dei “mercati” appare sempre più influenzato dalla percezione negativa delle prospettive di crescita di paesi come l’Italia o la Spagna ed anche dall’impressione che l’alto livello della pressione fiscale sia destinato a perdurare, in ragione della difficoltà di andare oltre l’attuale compressione della spesa pubblica, se non ripensando radicalmente il perimetro entro il quale dovrebbero svilupparsi gli interventi dell’operatore pubblico.

Questa spirale negativa è ben evidenziata dall’esame della situazione italiana. Ma, più in generale, essa appare proprio la conseguenza di una visione distorta e incompleta delle ragioni della crisi che l’Europa sta attraversando. Mercati, da un lato, e autorità europee, dall’altro, leggono la crisi e le prospettive dell’euro in modo divergente: le autorità europee, ponendo al centro della strategia economico-finanziaria il rigido controllo delle finanze pubbliche dei paesi in difficoltà e considerando debito e deficit pubblici la causa principale della crisi dell’euro. I mercati, invece, attribuendo un peso sempre maggiore ai fattori di vulnerabilità di un insieme di paesi privi di una reale convergenza economica e di una vera unione politica.

Di qui, le decisioni in materia di pareggio di bilancio (elevato al rango di prescrizione costituzionale) e di abbattimento del debito pubblico entro sentieri molto raccorciati. E, parallelamente, la messa a punto dei nuovi strumenti di intervento (scudo anti-spread e meccanismo europeo di stabilità) che dovrebbero spuntare le armi della speculazione finanziaria attraverso l’impiego di risorse di dimensioni adeguate.

Ma, dall’altro lato, l’evidenza degli insufficienti risultati di questa strategia. Il caso dell’Italia è, da questo punto di vista, esemplare, perché consente di verificare come il rigore di bilancio, da solo, non basta, se manca una crescita dell’economia su cui appoggiare la sostenibilità di lungo periodo della finanza pubblica.

Quindi, cosa suggerisce la Corte di fronte a questo crollo della domanda interna dovuto all’austerità? La fine di questa? La reflazione via maggiore domanda pubblica  e minore tassazione? Sembrerebbe ovvio visto che la stessa Corte dubita che le riforme ci salveranno:

Secondo recenti valutazioni dell’Ocse, le riforme finora implementate potrebbero elevare di mezzo punto il saggio di crescita potenziale dell’economia italiana in un arco di tempo di dieci anni. L’azione di governo apre, dunque, fondamentali prospettive di recupero per l’economia italiana. Cionondimeno, non si può non rilevare come i risultati attribuiti al programma di riforme abbiano una dimensione insufficiente per colmare il vuoto di domanda apertosi a partire dal 2007. Oltre ai dati già richiamati, è necessario a tal riguardo sottolineare che siamo in presenza di un ridimensionamento della domanda aggregata che a metà 2012 aveva raggiunto queste cifre: -19 per cento per gli investimenti in macchinari, -23 per cento per le costruzioni, -4 per cento per i consumi delle famiglie, – 6,7 per cento per le esportazioni. Sono valori fortemente negativi e presumibilmente destinati a peggiorare nella seconda parte dell’anno e nei primi mesi del 2013. Necessario è dunque rafforzare la strategia per la crescita, affidando ad essa obiettivi più ambiziosi di quelli finora adottati. Gli interventi per la crescita sono solo in parte riforme senza spesa. E sicuramente richiedono che si apra una prospettiva di riduzione della pressione fiscale.

Bene, dunque? Espansione fiscale? No, un attimo:

Per quanto risulti non semplice in una fase di allarme sopito ma non cessato, vi è, dunque, da auspicare che l’impostazione della politica economica (soprattutto della politica di bilancio), non più costretta dalla sola spinta dell’emergenza, riacquisti gradualmente un segno di maggiore equilibrio, recuperando le condizioni per la crescita economica, secondo le linee efficacemente tracciate dal Governo stesso (ma non è quello stesso Governo che vuole l’austerità?).

…  ciò non può avvenire attraverso un allentamento – che non ci è consentito – del percorso di riequilibrio dei conti pubblici avviato.

E quindi? E quindi, altro che politiche espansive, eccole qui le politiche che la Corte raccomanda:

Vi è semmai la necessità di muovere con ancora maggiore determinazione in direzione di una attenta selezione della spesa, accelerando sul fronte della semplificazione del quadro amministrativo (unioni di comuni, province regioni….) incidendo sulle strutture di rappresentanza ma anche sulle sovrapposizioni di competenze ancora esistenti; portando a termine un processo volto ad individuare le aree di spesa che è opportuno dismettere superando logiche meramente difensive; garantendo il coordinamento delle strutture destinate alla tutela dei diritti fondamentali, per destinare le risorse oggi disperse in incomprensibili duplicazioni ad un miglioramento della qualità del servizio. Una revisione dei confini dell’intervento pubblico richiede una attenta riconsiderazione delle modalità di gestione dei servizi pubblici e dei meccanismi per la selezione degli accessi agli stessi. Solo in tal modo sarà possibile attenuare gli effetti negativi di un inevitabile restringimento delle tutele garantite dal settore pubblico. E’ determinante pertanto l’opera di revisione dei sistemi di valutazione delle condizioni economiche a cui sta lavorando il Governo. Un processo che tuttavia richiede l’approntamento di un adeguato sistema di controlli e di sanzioni.

Spero che voi abbiate capito. Io no. Parrebbe un misto di riforme (ma non bisognava colmare un vuoto di domanda?) e una non meglio precisata serie di provvedimenti amministrativi volti a ridurre il ruolo e l’invasività dello Stato. Per carità, utilissimi. Ma che c’entrano con il vuoto di domanda che causa la crisi?

*

Ma io non me la prendo con la Corte dei Conti, che è stata ventimila volte più coraggiosa di qualsiasi altra istituzione italiana sinora nel far capire le cause dei problemi italiani. Non me la prendo che alla fine si sciolga come neve al sole di fronte all’idea di menzionare l’unica logica conclusione dell’ottimo ragionamento di partenza.

E cioè: la congiuntura pessima e l’alto debito-PIL sono causati dalla forte tassazione e scarsa domanda pubblica? Sì? Sicuri? E allora c’è solo una cosa che si può fare: si diminuisca la prima e aumenti la seconda, ovvio!

“No, non si può fare più spesa pubblica e meno tasse, aumenta il debito su PIL!” Ma come aumenta? Mi avete appena dimostrato che, al contrario, aumenta a causa della scarsa spesa e alte tasse!

Mi capita spesso, ai convegni sulla crisi. Di vedere tante persone che sanno cosa devono dire ma non ce la fanno a dirlo. Li vedi, stravolti, i loro volti si arrampicano sulle loro rughe, l’occhio si spegne, l’eccitazione termina: sanno dove è la verità ma sanno anche che non possono dirlo, o che non devono dirlo, anche se vogliono dirlo. Poi vengono da me e mi dicono “bravo, bravo, diglielo tu” e ci abbracciamo. Magari andiamo pure a bere un bicchiere insieme: a quel punto mi spiegheranno pure quanto odiano non poterlo dire, perché sono d’accordo con me.  Gli voglio bene e poi parliamo d’altro.

Ma la goccia scava la pietra. Mai mi sarei aspettato la Corte dei Conti dire quasi la verità con tanto coraggio istituzionale. Piano piano. Piano piano finirà questa commedia e ci sentiremo liberi di fare e dire “la cosa giusta” fino in fondo.

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Eating from the menu in beautiful Chania, Crete, Greece

After a hard day of work ( ;-) ), and before a wonderful dinner with friends in the beautiful (and formerly Venetian) harbor of Chania, Crete, Greece, I shortly repeated what I said at the Greek Public Policy Forum that morning.

 

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Il corto circuito

Con riferimento all’orizzonte temporale di riferimento del DEF, la Corte sottolineava il pericolo di un corto circuito rigore/crescita, favorito dalla composizione delle manovre correttive delineate nel Documento: per quasi il 70 per cento affidate, nel 2013, ad aumenti di imposte e tasse, con la pressione fiscale prevista oltre il 45 per cento nell’intero triennio 2012-2014….

Gli effetti perversi di un corto circuito tra inasprimenti fiscali e crescita economica indotto dall’urgenza delle misure di correzione (e dal rinvio di interventi strutturali) emergono più chiaramente ove si confrontino i valori di spese ed entrate indicati nella Nota con i valori a cui si sarebbe dovuti giungere a seguito degli interventi correttivi adottati nel corso dell’ultimo anno. Il confronto evidenzia la presenza di minori entrate per circa 33 miliardi nel 2012, per oltre 41 miliardi nel 2013 e per quasi 44 miliardi nel 2014, in corrispondenza di livelli di prodotto nominale più bassi, rispettivamente, di 58, 83 e 85 miliardi. E’ evidente che l’approfondimento della recessione ha impedito di conseguire gli obiettivi di entrata, nonostante gli aumenti discrezionali di imposte con cui il Governo ha cercato di compensare la ciclicità del gettito fiscale.

Audizione del Presidente della Corte dei Conti sulla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza 2012 (Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato) 2 ottobre.

Da wikipedia, su cortocircuito:

In alcuni casi il cortocircuito è voluto, per esempio si usa cortocircuitare i due terminali di un resistore per permettere di escludere temporaneamente il componente dal circuito e consentire il passaggio diretto della corrente per effettuare prove di laboratorio.

Sarà per questo mi dico? Il cortocircuito è voluto per effettuare prove di laboratorio? Bene, prove finite: l’austerità ha fallito.

A riprova che il cortocircuito sia fallito, ancora wikipedia:

Quando si effettua la manutenzione di un elettrodotto si usa, dopo avere tolto la tensione, mettere in cortocircuito e a terra i conduttori per assicurare agli operai l’assenza di tensioni pericolose.

Non si è tolta la tensione, il cortocircuito è fallito, agli operai non è stato assicurato un ben nulla, nessuna manutenzione è stata effettuata.

Non c’è niente da ridere: sono parole, hanno un significato. Al contrario della politica economica, assurda, di questa Europa, di questa Italia.

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La casa europea brucia e noi progettiamo costruzioni di cartapesta

Istat comunica oggi che gli inattivi, che comprendono le persone tra i 15 e i 64 anni che non fanno parte delle forze di lavoro, ovvero quelle non classificate come occupate o disoccupate, aumentano dello 0,6% (92 mila unità) rispetto al mese precedente. Il tasso di inattività si attesta al 36,3%, con un aumento di 0,2 punti percentuali in termini congiunturali e una diminuzione di 1,3 punti percentuali su base annua.

In realtà siccome gli inattivi comprendono anche studenti ecc., quello che a noi interessano sono le statistiche sui NEET (not in employment, education, training): le persone cioè che non lavorano, non studiano, non si stanno formando, dove una larga quota è giovanile e dove si trova lo strato più a rischio di emarginazione della popolazione, quello su cui questa maledetta recessione ha gioco facile a mietere vittime, perché meno tutelate e più prone alla disillusione. L’Istat non fornisce in questo bollettino i dati sui NEET.

Ma non ce n’è bisogno, li fornisce il contestuale rapporto trimestrale della Commissione Europea sulla situazione occupazionale all’interno dell’Unione europea. Non è un rapporto che rinfranca, ovviamente. Ma una cosa colpisce come un pugno in faccia: ce la stiamo per fare.

Sì, a raggiungere la Bulgaria. Al comando della classifica. Dei NEET.

Incredibile ma vero. In tutta l’Unione europea, spicchiamo ora come secondi, ad un passo dalla Bulgaria, che migliora mentre noi peggioriamo.

Sì, siamo quelli, i secondi dalla destra. Negli ultimi 4 anni il tasso dei NEET è cresciuto in tutti gli Stati membri meno che in Germania, ma la crescita è stata, dopo Grecia e Irlanda la più alta proprio da noi, in Italia (+5,7%). Grecia e Irlanda però partivano da valori più bassi.

Ribadiamo: quando la casa brucia non si lavora alla ricostruzione, si spegne l’incendio per salvare il salvabile, specie le vittime ancora incastrate dentro. Spento l’incendio, la casa sarà ricostruita su fondamenta più sicure. Parlare di austerità e mere riforme all’interno di questa recessione è mettere benzina sul fuoco ed accelerare la sofferenza e l’emarginazione delle persone più deboli. Non si può costruire l’Europa in questo modo, senza valori fondati sulla dignità umana e la solidarietà. Se questo è l’intento stiamo (ri)costruendo una casa di cartapesta.

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La tenaglia che non vogliono far funzionare

…Un disegno perseguito con costanza nel tempo, sul quale non ci siano le penose divisioni partigiane di oggi, un disegno che vada oltre le reazioni, comprensibili ma estemporanee, che da noi accompagnano la scoperta di ogni singolo caso di corruzione politica. Il caso scoperto riguarda una Regione? Aboliamo le Regioni! Riguarda il finanziamento pubblico dei partiti? Aboliamo il finanziamento pubblico! Da qui all’”aboliamo i partiti” il passo non è poi così lungo… Non è aggredendo singolarmente … i luoghi in cui la corruzione si manifesta che si sradica un fenomeno così profondo e ramificato… per combattere la corruzione una singola legge non basta, … occorre un indirizzo prioritario, che permei per un lungo tempo, al di là del ricambio dei governi, tutte le leggi e gli atti amministrativi. Un indirizzo fatto proprio da una élite politica degna di questo nome.

Michele Salvati, oggi sul Corriere della Sera.

Già Michele. E’ così. Lo scriviamo da tempo. Nessuno di noi crede in questa legge anti corruzione, nemmeno come simbolo Michele.

Perché ha cancellato prima addirittura di portarla in aula la possibilità, proposta della Commissione nominata da Patroni Griffi, di proteggere credibilmente i testimoni di corruzione remunerandoli col 20% della mazzetta, come avviene per altri paesi che la lotta la fanno credibilmente, come gli Stati Uniti. Perché crea una Autorità anti corruzione con 3 dipendenti, senza poteri specifici, facendo il verso a quella già fallimentare che caratterizzò lo scorso decennio.

Perché non fa nulla per fare entrare nei gangli delle amministrazioni pubbliche quella competenza negli appalti pubblici e quella remunerazione del risultato che è l’unico modo di lentamente debellare, al di là delle inutili pene spuntate, il fenomeno. Perché non richiede l’obbligo di depositare tutta l’informazione sugli appalti pubblici su una piattaforma (ancora oggi fantasma, cosa aspetta Bondi a pretenderla?) prima di potere avviare il contratto, così da poter verificare con altri contratti la non anomalia del prezzo rispetto a quello di altre amministrazioni.

Perché nulla è stato avviato di quella parte della legge chiamata Statuto delle imprese (approvata 1 anno fa) che chiede che ogni regolazione e permesso amministrativo (che permette l’intermediazione pubblica e dunque la corruzione) sia prima valutato nei suoi costi per le imprese. Tra parentesi, cosa è avvenuto, Ministro Patroni Griffi, alla relazione sulla riduzione e trasparenza degli adempimenti amministrativi a carico di cittadini e imprese prevista per il 31 marzo di ogni anno dallo Statuto delle Imprese e che recita “Il Dipartimento della funzione pubblica predispone, entro il 31 marzo di ciascun anno, una relazione annuale sullo stato di attuazione delle disposizioni di cui ai commi 1 e 2, valuta il loro impatto in termini di semplificazione e riduzione degli adempimenti amministrativi per i cittadini e le imprese, anche utilizzando strumenti di consultazione delle categorie e dei soggetti interessati, e la trasmette al Parlamento.”?

E, già che ci siamo, Ministro Passera a quando la legge prevista dallo Statuto delle imprese uscire “entro il 30 giugno di ogni anno il Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, presenta alle Camere un disegno di legge annuale per la tutela e lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese volto a definire gli interventi in materia per l’anno successivo” ? Lo sappiamo tutti che sono le PMI a soffrire ben di più le barriere della regolazione inutile costruite per corrompere.

La battaglia contro la P.A. che non funziona non si vince con gli annunci, né con l’abbandono della funzione pubblica e la minimizzazione del suo ruolo.

Così come non si abbandona l’economia italiana alla tempesta nell’attesa che spunti il sole, tragicamente mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’equipaggio, come stiamo facendo con questa politica fiscale austera così stupida.

Un esempio per tutti basterà a sintetizzare come abbiamo abbandonato la dura battaglia di breve e lungo periodo per il dovere dell’azione pubblica, questa feconda azione a tenaglia che rilancia l’economia e la società italiana.

Le carceri.

“Ecco il pacchetto svuota carceri a costo zero”, titola oggi il Corriere. Costo zero? E’ costo zero far fallire il ruolo deterrente e rieducativo della pena detentiva? Rinunciare a trattare dignitosamente le centinaia di persone ammassate in squallide e puzzolenti stanze, mandandole a casa col messaggio che lo Stato non ha tempo da perdere con loro e aumentando dunque il tasso di criminalità nella società?

E’ costo zero rinunciare a dedicare le caserme in disuso a carceri di bassa sicurezza, una volta appropriatemente rese decorose per i condannati? O rinunciare a costruire nuovi carceri? Con 10-15 miliardi di euro per le carceri potremmo rilanciare PIL ed occupazione nel settore delle costruzioni, settore che (en passant) da lavoro a tanta gente particolarmente in difficoltà in questa fase del ciclo. 10-15 miliardi dunque di costo che generano valori ben più ampi di benessere materiale e sociale (e stabilità dei conti pubblici).

La tenaglia virtuosa della pubblica amministrazione che uccide nel breve la recessione e che nel lungo si mette a disposizione del settore privato per facilitarne le fatiche e le sfide, per abbattere oneri e corruzione e per fornire competenze, è questo a cui rinunciamo ogni giorno ascoltando frasi fatte e programmi basati su annunci demagogici che “meno Stato è bello”.

E’ questa tenaglia che vogliamo costruire con i Viaggiatori in Movimento? Certo.

Perché nel rinunciare a ricostruire il nostro Paese mettendo assieme pubblico e privato, nell’insistere a demolire il settore pubblico e basta, pensando che questo sia il modello vincente (mai adottato da nessun Paese a cui ambiamo paragonarci) sta il declino del nostro Sogno.

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Sono passati piu’ di 30 anni, noi eravamo lì in Curva, sotto la pioggia

e quando arrivammo alla Stazione di Roma Termini, la mattina dopo, ci dissero che il gol di Turone era valido. Ragazzi, che tempi erano quelli. Noi c’eravamo. C’era Agostino, Bruno, Roberto, Paulo, Niels. Ma soprattutto c’eravamo noi, in Curva Maratona (Nord). C’eravamo noi, dovunque.

 

 

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Per fortuna gli imprenditori in una maledetta recessione non leggono il CV

Nel secondo trimestre 2012 il tasso di disoccupazione (dati grezzi) è pari al 10,5%, con un aumento di 2,7 punti percentuali rispetto a un anno prima. L’incidenza della disoccupazione di lunga durata (dodici mesi o più) sale dal 52,9% del secondo trimestre 2011 all’attuale 53,1%.

Istat, flash statistiche 31 agosto 2012

Visto che viviamo in un contesto in cui la disoccupazione peggiora sempre più e, al suo interno, sempre più importante diventa quella di lunga durata, sarebbe importante capire quanto quest’ultima rischi di divenire permanente con un effetto di “isteresi” che rende la momentanea perdita di lavoro uno shock invece permanente, in ultima analisi capace di aumentare disagio, depressione, uscita dalla forza lavoro di coloro che cercano lavoro, emarginazione, suicidio.

Se sono disoccupato per un periodo più lungo ho meno possibilità di ritrovare lavoro? E ancora: da cosa dipende cio? E’ perché sono meno formato e bravo mano a mano che passa il tempo e non lavoro? O che le imprese lo prendono come un segnale della mia non bravura e stimano stereotipicamente che vi siano state valutazioni precedenti negative da parte di altre imprese?

Un lavoro di 3 ricercatori americani aiuta notevolmente nel dare una risposta e nel comprendere quanto sia rilevante una recessione nell’influenzare queste dinamiche.

Hanno inviato, a 3000 posti di lavoro aperti via Web da imprese in cerca di lavoratori, 12000 curriculum vitae falsi. Già, falsi.

Li chiamiamo, noi economisti,  esperimenti (e, per chi fosse curioso, per poterli fare hanno avuto bisogno di essere autorizzati dalla University of Chicago, che ha posto limitazioni “etiche” a quanto potevano chiedere e a cosa fare con le risposte ricevute).

Ogni curriculum vitae (CV) falso differiva per caratteristiche della persona. In particolare, il 25% di questi faceva riferimento a candidati in quel momento occupati in altra azienda, mentre il 75% di questi era disoccupato. Tra questi ultimi, i ricercatori hanno differenziato il curriculum a seconda della durata della disoccupazione (da 1 a 36 mesi). E si sono messi ad aspettare.

Aspettare che le imprese richiamassero per intervistare il (finto) candidato.

Alla fine il 5% delle imprese ha richiamato il suo candidato. E … indovinate? La probabilità di essere richiamato se disoccupato diminuisce al crescere del periodo di disoccupazione, fino a stabilizzarsi quando raggiunge gli 8 mesi e si stabilizza.

Notate che il fatto che dopo 8 mesi di disoccupazione la probabilità di essere chiamati è indipendente dal periodo di disoccupazione sembra dire che non tutto si spiega con una teoria dove le imprese non richiamano per l’intervista perché temono di trovare un candidato che ha perso abilità stando fermo.

E rafforza invece l’idea che le imprese giudicano i candidati sulla sola base del CV, in un certo senso supponendo senza prove che il candidato sia stato bocciato da altre imprese.

Questa teoria è confermata dal fatto che gli autori possono verificare come variano i risultati a seconda della situazione economica in termini di disoccupazione locale dove è situata la coppia impresa/candidato: là dove la disoccupazione è maggiore, e dunque è più difficile trovare lavoro, le imprese sembrano dare peso minore (linea rossa) al fatto che il candidato sia stato per un certo periodo disoccupato, rispetto ad un mercato locale che “tiri” (linea blu).

Quindi, sebbene “un tasso di disoccupazione più alto abbia un effetto diretto nel rendere più difficile per i lavoratori trovare un’azienda – e ciò causa periodi più lunghi di disoccupazione - ha anche un effetto indiretto di portare le imprese a fare meno valutazioni sulla base del mero periodo di disoccupazione quando in cerca di lavoro”.

Le imprese cioè capiscono, probabilmente anche in una recessione come quella nostra odierna, che valutare i giovani che fanno domanda per un lavoro sulla base del loro periodo di disoccupazione non ha un vero valore informativo. Bene.

Purtroppo, e sempre più, le imprese che cercano di coprire posti di lavoro decresce. E noi non abbiamo ancora fornito la risposta giusta per combattere questo dramma.

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La BCE lavora troppo?

Di questi tempi mi occupo un po’ troppo della BCE per i miei gusti. Nel senso che penso vi siano cose più rilevanti per il futuro del mio Paese e dell’Europa. Ma tant’è, le notizie continuano ad arrivare e ve ne devo parlare.

Anche perché se le notizie sulla BCE continuano ad arrivare significa che questa istituzione sta diventando sempre più centrale nella vita quotidiana del nostro Continente. E ovviamente questa non è una buona notizia, che l’Unione cominci a delegare sempre più funzioni, oltre a quelle stabilite dal Trattato sulla politica monetaria, ad un organo tecnocratico. E’ un sintomo di disfunzionalità ma anche di sempre minore democraticità del processo decisionale in Europa.

Non che la colpa sia solo della BCE: come giustamente mi fa notare un lettore sul blog di ieri, è colpa anche dei Governi e dei Parlamenti (anche quelli europei) che non prendono in mano il pallino della politica economica.

Ieri dunque era la politica fiscale. Cosa è successo oggi?

L’agenzia di stampa Bloomberg riporta una importante notizia. L’Ufficio legale della BCE, alle prese con una causa intentatagli da 200 piccoli investitori italiani a causa del trattamento differenziale riservato alla BCE (che non ha subito perdite al contrario dei 200) sul ripudio dei titoli di stato da parte del Governo greco, alza le mani in aria e si dichiara incapace di rispondere al giudice e chiede tempo, 4 mesi.

Perché? La BCE risponde di essere sottoposta in questo periodo a “un severo test come risultato del drammatico peggioramento della crisi del debito sovrano e delle tensioni sui mercati internazionali, con implicazioni dirette per le funzioni ordinarie della BCE“. Insomma, il personale è impegnato altrove, non sa più dove dare i resti direbbe qualcuno.

Dove è impegnato?

La nota di Bloomberg pare chiara al riguardo: la BCE è impegnata, per ammissione dello stesso capo della funzione legale della BCE, nel sostenere e consigliare con proprie risorse umane il Presidente UE Van Rompuy nel processo di rafforzamento dell’Unione. E poi ci sono tutti gli avvocati dedicati a immaginare come sarà la futura supervisione bancaria (nelle mani della stessa BCE, un conflitto d’interessi straordinario di cui abbiamo più volte parlato) e quelli dedicati al piano anti-spread.

Nell’articolo di Bloomberg viene intervistato un Professore in Germania, Charlotte Gaitanides: “se non ce la fanno ora, che succederà quando la BCE verrà incaricata dell’Unione bancaria”?

Già.

Che succederà?

Forse la domanda da porsi però è un’altra: “che succederà all’Europa quando avrà man mano incaricato la BCE di gestire tutte le decisioni chiave che riguardano l’Unione?”.

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It’s not enough to speak, but to speak true (Shakespeare)

According to the latest ECB Working Paper, the ECB is the central bank that dedicates the greatest amount of external communication to fiscal policies. Not only that, it does it in a normative way, trying to persuade governments on how to use fiscal policy.

You tell me. The independent ECB tries to make governments dependent when they manage fiscal policy. This makes fiscal policy a function of ECB’s goals, price stability only, if governments were to listen to the ECB, that is, which they actually do.

It is mad world out there.

I now found a new good reason to ask for a reform of the ECB mandate toward price stability and employment: to obtain not only monetary but also fiscal expansion, materializing so as to deal with unemployment and recessions.

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La BCE parla troppo?

Non basta parlare; bisogna anche saper cosa dire. Lisandro, Atto quinto, scena 1, Sogno di una note di mezza estate, Shakespeare

It’s not enough to speak, but to speak true.” William Shakespeare, Midsummer Night’s Dream – Act 5, Scene 1

E’ uscito un nuovo saggio nella collana dei lavori scientifici della BCE la Banca Centrale Europea. Scritto da 4 ricercatori della BCE. Molto interessante. Si occupa di contare la percentuale di parole, nei discorsi pubblici dei massimi rappresentanti di 5 grandi Banche centrali – la Fed americana, la BCE, la Banca d’Inghilterra, la Banca centrale svedese, la Banca centrale giapponese – che riguardano la politica fiscale.

Avete capito bene: politica fiscale, non monetaria. Ora la politica monetaria è quello di cui le banche centrali si occupano. La politica fiscale è dominio dei governi. Quindi questi ricercatori misurano di fatto quanto si impiccia una banca centrale di affari strettamente non suoi.

In realtà la banca centrale, che cura spesso la stabilità dei prezzi, una motivazione per impicciarsi ce l’ha: se sale l’IVA salgono i prezzi, se scende la spesa pubblica cala il PIL e anche i prezzi, e così via. La politica fiscale certamente ha un impatto sulla politica monetaria e dunque è naturale che un Governatore di una banca centrale vi dedichi parte dei suoi discorsi. Anche se, notiamo en passant, anche la politica monetaria, con i suoi effetti su PIL, interessi e prezzi, influenza il bilancio dello Stato: ma in questo caso se un politico provasse a impicciarsi troppo della politica monetaria gli verrebbe subito rinfacciato di mettere a repentaglio l’indipendenza della Banca.

Ma andiamo oltre. Cosa scoprono i ricercatori della BCE?

Che c’è una sola banca che si impiccia tantissimo di politica fiscale: già, proprio la BCE. E non è finita qui: mentre quando le altre banche parlano di politica fiscale lo fanno in maniera descrittiva (“positive”), la BCE lo fa in maniera prescrittiva (“normative”), ovvero dicendo ai governi cosa va fatto. Il grafico sottostante è eloquente al riguardo.

Ora parlo io. Il pericolo che emerge da questo stato delle cose è triplice: a) se il modello che usa la BCE per capire come funzionano i sistemi economici è sbagliato, i suoi consigli sono dannosi anche per la politica fiscale e non solo per la politica monetaria, nei limiti in cui questi consigli sono ascoltati; b) dato che la BCE ha per mandato solo la lotta contro l’inflazione, essa raccomanderà di usare la leva delle politica fiscale solo per non generare inflazione e non anche, come è normale che sia, per combattere le avversità del ciclo economico; c) la democrazia partecipativa, sempre nei limiti in cui questi consigli della BCE sono ascoltati, è mutilata in un campo in cui è sovrana: la politica fiscale.

Il resto del mondo ci insegna dunque che altre strade sono possibili per la condotta della politica monetaria senza che ciò metta a repentaglio l’economia mondiale e il benessere della nazione. La prima cosa che va dunque fatta, è accontentare la BCE che pare voglia parlare così tanto di cose di cui per mandato non si può impicciare: si cominci con il cambiare il mandato di questa e di, come per la Fed, incaricarla di gestire anche il ciclo economico, smussandone le asperità, non occupandosi più soltanto dei prezzi.

Certo non risolverà a) ma un minimo b) e c) sì.

Sarà stato un piccolo passo per Draghi, ma un enorme salto per l’Europa.