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Trieste, Italia

Trieste, Italia. L’autista alle ore 23 s’infila nel Vecchio Porto. Vuole che io veda. Ora non più zona doganale, o quasi, si può entrare.

Il mare è nascosto dalle costruzioni, ma la sua presenza è innegabile.  Un effetto stranissimo, in questa città così bella. Una città  nella città, un fantasma del passato, con i suoi spettri di gloria andata, di commercio fiorente, di scambi marittimi che furono. Di magazzini enormi, pieni di merci destinate verso chissà quale Oceano. Assicuratori, uomini di mare, operai, che come formiche si incrociano in un ritmo incessante per le vie interne lunghissime del Porto che fu, brulicante di attività, con i suoi rumori, i suoi odori, le risate e le urla di chi lavora e di chi torna a casa e di chi dà il cambio per il turno di notte.

Sono tutti lì, mi guardano da chissà quale anfratto, da dietro chissà quale vetro di una finestra sfondata di una delle tante enormi costruzioni abbandonate e fatiscenti. Dietro il cancello che costeggia la strada principale quando si arriva nel centro cittadino, ci sono questi prigionieri del passato. Invisibili a chi non entra nel vecchio Porto.

Credo chiedano di essere liberati, chiedono che queste chilometriche costruzioni, ad un passo da Piazza dell’Unità d’Italia, a un tiro dal Palazzo Generali, siano abbattute per sempre, si permetta a questa città di vivere pienamente il futuro ed a loro di divenire ricordo e non rimorso.

“I giovani scappano, i vecchi restano”, mi dice l’autista. A preservare il loro passato, certo, ma “quante cose potremmo fare di questo Porto vecchio? A radere tutto al suolo, mantenendo e abbellendo quello che si deve, a farne un lungomare che accolga nuovi progetti imprenditoriali e turistici, costruzioni fatte per rilanciare Trieste ci vuole niente, a parte tanti soldi e tanta voglia di fare, ma qui nessun politico se la sente, troppi ostacolo burocratici.”

E non finisce qui, mi dice il mio Cicerone: “mentre Capodistria ed il suo porto piccino picciò si espandono, mentre vi si draga per accogliere navi sempre più grandi, il porto nuovo di Trieste arretra, piano piano, impercettibilmente.” La Slovenia non si ferma, vogliosa di vivere.

Trieste. L’Italia. Bellissima, e triste, nella sua costante attesa.

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La ricerca sulla corruzione e la battaglia contro la corruzione

Ogni tanto mi tolgo ancora soddisfazioni e mi vengono a dire che hanno accettato per la pubblicazione un nostro lavoro su una buona rivista internazionale. Questo lavoro mi è particolarmente caro perché scritto con Mauro Costantini e con Raffaella Coppier, una valente ricercatrice di Macerata con la quale ho condiviso anni di insegnamento indimenticabili nel mio quinquennio (ormai sono passati quasi 10 anni) nella meravigliosa terra marchigiana.

Cosa diciamo in questo lavoro? Partendo dall’osservazione che durante Mani Pulite si videro contemporaneamente un oggettivo aumento delle variabili che indicavano una più intensa lotta alla corruzione in Italia e un crollo degli investimenti, cercammo di creare un modello che generasse questi 2 risultati. Scoprimmo che erano possibili tre equilibri: uno in cui la lotta alla corruzione era radicale, le imprese investivano perché non dovevano pagare tangenti e l’economia cresceva vigorosamente, un altro in cui la corruzione era abbondantemente tollerata e ciò riduceva ma non scoraggiava completamente gli investimenti fatti dalle imprese (che pagavano mazzette) e riduceva, ma non annullava, la crescita economica.

Infine vi era un terzo equilibrio, meno evidente, che scoprimmo, dove “l’intensità del monitoraggio anti-corruzione non è ridotto a tal punto da giustificare l’investimento assieme al pagamento della tangente ma non è nemmeno alto a sufficienza dallo scoraggiare il burocrate dal richiedere la tangente per potere fare l’investimento.” In questo mondo non ci sono investimenti né crescita malgrado vi sia una lotta (tenue) alla corruzione.

Insomma, la lotta alla corruzione paga se determinata ed inflessibile, ma genera ritardi e decrescita (rispetto ad un mondo dove domina la corruzione e gli imprenditori sono certi di non essere scoperti) se fatta in maniera fiacca e tale da generare incertezza sulle conseguenze dell’infrazione. Un po’ come durante Mani Pulite quando l’attività economica crollò anche perché non era chiaro se la lotta dei giudici sarebbe andata avanti nel tempo o no o sarebbe stata arrestata.

Questa relazione non lineare tra crescita di un Paese e lotta alla corruzione l’abbiamo ritrovata nei dati, ed è un bene, ma assieme ad un altro risultato interessante, differenziato, una volta che analizziamo le 3 aree del Paese: centro, nord, meridione.

In particolare scopriamo che nel periodo tra 1980 e 2003, il Meridione si ritrova nell’equilibrio dove ad un aumento della lotta alla corruzione fa seguito una minore e non maggiore crescita; mentre nel Nord d’Italia è l’opposto. Ovvero: nel meridione la lotta alla corruzione prende la forma di un aumento delle attività antifrode ma non della sua efficacia e certezza. E l’unico impatto paradossale è quello di aumentare l’incertezza nel sistema economico e dunque di ridurre la voglia di investire da parte delle imprese.

Una seria lotta alla corruzione deve cambiare per sempre le aspettative degli operatori sulle norme che regolano lo scambio tra servizio pubblico ed impresa. Se e quando impresa e burocrati sapranno che non ci sarà tolleranza nel perseguire chi commette reati e pagare mazzette,  allora la maggiore certezza spingerà gli operatori a scommettere sul futuro, sfruttare la riduzione dei costi e investire, generando crescita. Mere dichiarazioni d’intenti, passi lenti ed ambigui, leggi anti-corruzione approvate sì, ma senza entusiasmo, potrebbero creare addirittura maggiore danno rispetto ad un mondo dove è chiaro che la corruzione non verrà mai perseguita.

E allora la si pianti di tentennare e si dia al Paese quella immagine di forza e volontà di combattere seriamente la corruzione che tutti ci aspettiamo.

Presidente Monti, approfitti del caso della Regione Lazio, e spinga a mille, senza esitazioni, il momento è propizio come non mai. Una legge anti corruzione con massimi poteri all’Autorità Anti Corruzione e via.

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Notte Europa

Perché siamo giunti a questo punto così nero del ciclo economico europeo che minaccia l’euro e i conti pubblici? Basta prendere un grafico qualsiasi (grazie Ale).

E rendersi conto che quel nero (il crollo del PIL) tra 2008 e 2012 è dovuto ad una crisi di domanda interna, paralizzata dalla paura e dal timore del settore privato (rosso investimenti, verde consumi) di scommettere sul futuro, sostenuta dal braccino dei governi europei che avrebbero potuto tirarci fuori dalle secche della crisi per qualche euro in più (blu spesa per consumi pubblici) invece di affossarci con la stupida austerità.

E invece no, eccoci qui, a ricasco del settore estero (viola), che non è bastato e che va via via anch’esso incartandosi anche a causa della nostra scarsa domanda.

Notte Europa.

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Much ado about nothing

So Spain is expected to ask for a bail-out, and official requests to do so are increasing at the (anonymous) European level.

Sure. And after that, after Spain will have accepted, Italy will be asked to ask too. Indeed, Mr. Monti’s discourse has slowly shifted over the past few months to get the country ready for this: it was “absolutely impossible” first, then “unlikely”, then “with no additional austerity”. Just wait for Spain and the narrative will accelerate in the peninsula too.

What matters to be said here is that it matters little if Italy were or not to join in the bailout plan.

Why?

Let’s think about what are the main impacts to be expected from the Italian bail-out. I see four main issues.

a) spreads will go down and so Italian interest expense. What will be done with the savings?

b) how much additional austerity should we expect imposed on Italy?

c) how many additional reforms should we expect imposed on Italy?
d) what impact on credit markets and the real economy will lower yields generate?
Here are my four answers:

a) Lower spreads will generate 5 billion savings in 2013. Peanuts. Even more peanuts if these are used to reimburse more debt, and only slightly expansionary if used to lower taxes or increase public spending.

b) Additional austerity will have to be pushed forward, even if by so little, to quell German anxieties. It is likely to more than compensate any positive effect due to a).

c) Additional reforms imposed from above may target the wrong needs for the competitiveness of the Italian economy. Or turn out to be irrelevant. Even if they were to be appropriate reforms they are likely not to have an impact for the next 4-5 years. They might have additional negative (recessionary) internal demand effects in the short-run (like re-orienting pay-roll taxation away from firms to workers, as Portugal was recently forced to do by the Troika).

d)  If you believe we are right now in an aggregate demand crisis with a liquidity and confidence trap, well it is likely that any lower interest rate will not be able to stimulate that much more  borrowing by consumers or by firms wanting to invest.

Much ado about nothing. If we do not launch a parallel fight on the aggregate demand front through expansive fiscal policy we are likely to watch the usual comedy. Which distracts us for a short time and makes us forget pain. But once the show is over, reality will knock at our door with its harsh truth.

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Guerra, pace, Europa

Nella mitologia greca Europa era la figlia di Agenore re di Tiro, antica città fenicia colonia greca e in area mediterraneo-mediorientale. Zeus, innamoratosi di questa, decise di rapirla e si trasformò in uno splendido toro bianco. Mentre coglieva i fiori in riva al mare Europa vide il toro che le si avvicinava. Era un po’ spaventata ma il toro si sdraiò ai suoi piedi ed Europa si tranquillizzò. Vedendo che si lasciava accarezzare Europa salì sulla groppa del toro che si gettò in mare e la condusse fino a Creta. Zeus si ritrasformò in dio e le rivelò il suo amore. Ebbero tre figli: Minosse, Sarpedonte e Radamanto. Minosse divenne re di Creta e diede vita alla civiltà cretese, culla della civiltà europea. Il nome Europa, da quel momento, indicò le terre poste a nord del Mar Mediterraneo.

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L’aereo si stacca da Chania, Creta. Percorrendo a ritroso il viaggio di Zeus mi rendo conto di cosa lascio dietro. La bellezza greca commuove e non c’è dubbio che alla fine i tedeschi capiranno che è qui che deve rinascere il nostro Continente.

Lascio il convegno del Greek Public Policy Forum, dove ci siamo incontrati – un gruppo di europei – per parlarci. Quando prendo la parola e sostengo che questo incontro non ci sarebbe mai stato senza l’euro, che l’euro ci spinge a conoscerci come mai fino ad ora, tutti annuiscono, siano essi di destra o sinistra, catalani o irlandesi, britannici o greci. Quando racconto quante volte mi sono sbagliato in quest’ultimo anno nel ritenere che ad ogni elezione i movimenti violenti l’avrebbero spuntata, che il referendum contro l’euro sarebbe stato vinto – Irlanda, Olanda, Francia, Grecia – quando esprimo la mia genuina sorpresa nel vedere gente che soffre eppure non molla questo strano ideale fatto di futuro e passato, di speranza e paura, di storia e di confini, tutti sorridono e concordano con me.

Quando chiedo che si lavori instancabilmente affinché sia possibile sedersi al tavolo con Cina e Stati Uniti per dire  la nostra perché c’è qualcosa da dire, tutti insieme, che gli altri due non saprebbero promettere al mondo dei nostri figli e che questo qualcosa passa per forza per questo stretto passaggio chiamato euro che ci chiede di parlarci, di litigare, di opprimere anche, di tornare indietro sugli errori commessi, il mio collega catalano mi interrompe e dichiara a voce alta: “se non sei seduto al tavolo sei nel menù” e tutti ridono e annuiscono.

Che Draghi non basti lo sanno tutti, che Draghi fosse stato necessario anche. Tutti sentiamo che l’austerità è sfinita, che sta allentando la presa sulla politica, che il tempo degli errori sta per finire. Con una lentezza insopportabile, certo.

Dice Ugo Panizza, il mio collega di Ginevra anche lui a Creta, che è colpa del Generale Pfuhl, 1757-1826, prussiano, comandante dell’armata di Federico III nella disastrosa battaglia di Jena. Pfuhl credeva nella teoria dei movimenti obliqui e credeva anche che l’evidenza storica della precedenti battaglie non serviva a nulla, anche perché non era basata sulla sua teoria. Fu lui che ideò nel 1806 il piano per Jena e nella disfatta da lui causata non vide la fallibilità della sua teoria. Come Tolstòj racconta in Guerra e Pace (da me tradotto dal francese): “Pfuhl era uno di questi teorici così innamorati della loro teoria che ne dimenticano il fine, la sua applicazione pratica; per amore della teoria, odiava qualsiasi pratica e se ne faceva beffe. Godeva addirittura dei fallimenti perché un fallimento dovuto a una violazione della teoria nella pratica gli dimostrava semplicemente la correttezza della sua teoria”. Guerra e pace, Terzo libro, prima parte, capitolo X

Lo so, Tolstòj ce l’aveva soprattutto – riferendosi a Pfuhl – con i tedeschi, ma, per chi segue questo blog, dovrebbe risultare apparente che in Italia abbiamo una buona dose di nostri Pfuhl, attivamente coinvolti nel dibattito economico a fianco dell’austerità, la cui asserita bontà non trova conferme nella pratica, nessuna pratica. Basta che il nostro Monti non li ascolti ed eviterà la sua (e la nostra) Jena.

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Aggiorniamo ma non innoviamo e così perdiamo

Tempo di bilanci sulla finanza pubblica di questo Governo. Sono passati 5 mesi circa da quando il Governo Monti presentò il suo Documento di Economia e Finanza e come è ormai consuetudine, a settembre esce la nota di aggiornamento. Grazie al buon lavoro degli Uffici del Tesoro ed alla trasparenza dei dati forniti possiamo fare delle considerazioni utili sullo stato della nostra politica economica. E non sono considerazioni esaltanti, di certo no.

Guardiamo ovviamente solo a 2012 e 2013, tutto il resto è poco credibile (PIL a 1,3% nel 2015? Chissà e forse … magari)! Accomodatevi, ma reggetevi forte:

Tutto viene spiegato dai pessimi dati sul PIL, rivisti al ribasso. Guardateveli bene: debito pubblico su PIL, spesa per interessi sul PIL, deficit su PIL, saldo primario strutturale su PIL. Sale il peso delle entrate fiscali, sale il peso della spesa pubblica malgrado i tagli. Non ce n’è uno che ne esce salvo, un massacro.

La spesa per interessi sale? Guardatevi bene dal dire che è tutta colpa degli spread, anche qui il PIL gioca il suo ruolo. Ecco come. IL PIL va male? Diminuiscono le entrate, aumenta il deficit, aumenta il debito, aumenta la spesa per interessi. Quasi la metà dell’aumento della spesa per interessi nel 2012 è dovuta all’aumento di debito, anche se gli spread fossero rimasti costanti. Un altro modo di vederla è considerare che la spesa per interessi in percentuale del PIL per il 2014, stimata al 6% del PIL contro il 5,5% di quanto stimavano nel 2011, sarebbe stata al 5,75% se solo il PIL avesse avuto la dinamica (non certo eccezionale) che speravamo avesse nel 2011. Ma le cose non sono andate per il verso giusto.

Nulla va nel verso giusto se si fanno le politiche sbagliate.

Perché il PIL va male lo sappiamo. Al di là dell’impatto del terremoto, la domanda interna crolla e crolla anche perché non viene sostenuta dalla domanda pubblica. Ciò genera instabilità nei conti pubblici. Cornuti e mazziati si dice a Roma: non solo non abbiamo la crescita, ma nemmeno la stabilità dei conti.

Rovesciando il paradigma, un credibile sostegno, approvato a livello europeo, della domanda pubblica all’economia lancerebbe il circolo virtuoso della crescita, occupazione, riduzione del peso del debito. Senza fare più deficit, ovviamente.

Purtroppo c’è ancora chi pensa che fare spesa pubblica significhi vestirsi di toghe romane e girare in SUV: noi dei Viaggiatori crediamo che questo Governo possa fare ben meglio, per le nostre scuole, università, carceri, musei, ospedali, tribunali, infrastrutture idriche, portuali, logistiche, per i parchi, per il turismo, per le nostre forze dell’ordine. Senza peggiorare e anzi migliorando i conti pubblici.

PS: sui musei, leggo oggi di una frase di Carlo  De Benedetti sul Sole 24 Ore significativa: “A proposito di statue e di Firenze, Bill Gates mi diceva: se avessi avuto l’archivio degli Uffizi ci avrei fatto più utile che con Windows. Era forse un paradosso, ma ricordiamocelo quando parliamo del futuro dell’occupazione in Italia: il territorio e la cultura sono una forza straordinaria per la nostra capacità di produrre e creare ricchezza.”. Ricordiamocelo come Dott. De Benedetti?

Mi rimangono  due dubbi ulteriori sulla manovra così come aggiornata: da privatizzazioni e vendita patrimonio dovremmo ottenere 1, 2 e addirittura 3% di PIL tra il 2013 ed il 2015. Se ciò non fosse vero, il rapporto debito PIL peggiorebbe ancora di più (ecco perché ho messo la stella sul rapporto debito PIL in tabella).

Secondo poi, il governo fa meritoriamente emergere l’impatto della spending review: di fatto nullo sul PIL malgrado esso vada (in parte meritoriamente) a finanziare il non aumento dell’IVA.

Stiamo parlando di circa 0,7% di PIL annuo per 4 anni che non dovrebbe avere effetti recessivi quanto a tagli di spesa e dovrebbe averne di positivi via IVA. Come mai l’impatto netto è nullo? Noto che mentre l’IVA ha un minuscolo (0,2%) impatto positivo, questo è compensato dall’andamento dei consumi pubblici che calano in termini reali, e di molto.

Strano. Se taglio gli sprechi, compro la stessa cosa a prezzi più bassi, il PIL reale, il prodotto, non dovrebbe calare. Cala, il PIL, se non taglio gli sprechi ma la spesa, quella che serve. Come dicevano Fassina e Giavazzi l’altro giorno, per favore sveliamo se dunque è vero che la spending review non è fatta per tagliare gli sprechi ma per tagliare e basta. Sarebbe l’ennesima assurdità di una politica economica (anche europea) che non capisce come si gestisce una fase negativa del ciclo e, così facendo, rinvia e aggrava il problema piuttosto che risolverlo.

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Dalla Svezia un segnale importante

Il mio nome me lo sono beccato a causa di mio bisnonno, svedese, Gustav Kollestrom.

Ho visitato la Svezia quando scrissi il libro sui derivati dei governi, lavorando presso l’Agenzia del Debito svedese, dove i derivati venivano usati eccome, in maniera pulita e trasparente per il benessere dei cittadini, non per farci trucchi contabili.

Mi piace, molto, quel Paese. Forse è da tutto ciò che mi sono fissato che lo Stato “alla svedese” si può fare anche da noi. Assolutamente. Vedevo quello che facevano nell’ufficio di gestione del debito, lo ammiravo, ma non lo trovavo troppo complicato né troppo difficile: ci voleva competenza, organizzazione, regole. Ma era fattibile. E’ fattibile.

Perché però vi parlo della Svezia è presto detto: è uscita la finanziaria del Governo svedese. Ed è una bellissima finanziaria. Tutta focalizzata sul futuro e sui giovani. Che annuncia per i prossimi 4 anni 4 manovre fiscali espansive (in deficit) di circa 0,6% di PIL ogni anno; come se l’Italia facesse aumento di spesa o riduzione di tasse per 10 miliardi di euro ogni anno per 4 anni.

Ovviamente sul sito del Ministero si trovano tutte le informazioni in inglese su ragioni e contenuto di questo piano di espansione pubblica all’interno dell’Europa, che ha l’addizionale novità di costituire una prima speranza che la stupida austerità europea cominci a vacillare.

Ecco cosa vi voglio dire di questa manovra:

1)    L’impatto.

Il Governo stima un aumento del PIL di 0,4% nel 2013 e 17000 lavoratori in più nel 2014. E questo alla faccia di chi dice che quando un Governo, come è il caso per esempio di quello svedese, ha una spesa maggiore del 50% del PIL non si può aumentare la spesa pubblica ed aumentare il PIL. Il moltiplicatore esiste: la spesa pubblica è espansiva. Anche in Svezia. Si rassegnino coloro che credono altrimenti senza mai aver fornito uno straccio di prova.

2)    La composizione.

Parte riduzione di tasse (l’aliquota sulle imprese scende dal 26% al 22%) finanziata dalla chiusura di varie esenzioni, ma di fatto tutto il programma è di aumento della spesa pubblica, 40% circa in infrastrutture (specie ferroviarie), 25% a supporto del lavoro, specie quello giovanile.

3)    La motivazione

Non farà piacere a Monti: “la crisi del debito europeo andrà avanti a lungo, il nostro export ne soffre”, dobbiamo ravvivare la nostra domanda interna rafforzando al contempo la nostra competitività.  Altro che 2013 anno di uscita dal tunnel, anche gli svedesi lo sanno che non sarà così e si mettono in sicurezza investendo col pubblico in un momento in cui i privati hanno il braccino del tennista. Bravi.

E bravi a insistere su ricerca e sviluppo ed università. Ma anche aumentando in maniera concreta, finanziandoli, l’apprendistato e le scuole tecniche per i giovani.

4)    Il contesto

La Svezia dal 1995 al 2012 ha avuto un debito pubblico su PIL che si è costantemente ridotto, dal 70% di allora al 38% di oggi. E con questa manovra di spesa pubblica, che rafforza il PIL, scenderà ulteriormente, così stimano, al 27% nel 2016. Già perché se aumenta la spesa pubblica, aumentando il PIL, scende il rapporto debito-PIL, ribadiamo nuovamente.

Mi direte: ecco, noi non lo possiamo fare, perché abbiamo il debito più alto. In realtà lo dice anche il Ministro delle Finanze svedese, che il livello basso del rapporto debito PIL permette queste politiche in deficit.

La mia risposta a ciò è duplice: a) perché non facciamo fare queste politiche anche a quegli Stati euro che sono “virtuosi”? farebbe bene pure a noi perché aiuterebbe il nostro export verso quei paesi e b) e chi dice che noi non si possa fare la stessa cosa finanziando questi investimenti e questo supporto ai giovani non con il deficit ma con i soldi dei contribuenti che stiamo sperperando ripagandoci il debito, sopprimendo domanda e spesa, e vedendo il rapporto debito PIL aumentare?

Il debito-PIL in Svezia è crollato per lo stesso motivo che in Italia è salito: per merito (colpa, in Italia) del PIL, cresciuto dal 1995 10 volte sopra il 3% (in Italia 1 volta sola). E lo Stato è ben presente in Svezia: la spesa pubblica come vedete non c’entra nulla, non causa necessariamente aumenti del debito, anzi, con la sua qualità il PIL è cresciuto maggiormente.

Il Programma dei Viaggiatori è basato su questa semplice evidenza: si può fare, con più Stato competente e meno Stato corrotto e sprecone, senza alzare la tassazione. Si può fare cosa? Ridurre il debito su PIL? No, quella è solo la conseguenza della nostra proposta. Lo scopo è quello di creare prosperità (altro che fermare il declino), opportunità, protezione e valorizzazione dei talenti e dei deboli che vogliono emergere (comprese le PMI).

E cioè, sì, si può fare, di riuscire a vivere in un Paese migliore, molto migliore - una missione che la maggior parte di noi sa essere alla nostra portata - radicato nei valori della bellezza, della solidarietà e dell’ingegno.

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La terza via

La questione dunque che le varie Regioni Lazio d’Italia pongono drammaticamente è quello della spesa pubblica. Poco importa se la corruzione, i conflitti d’interesse, le frodi, la poca integrità si annidano nella politica o nella burocrazia: è evidente che le due si sostengono a vicenda. Un burocrate che opera sotto un politico corrotto troverà più conveniente corrompersi a sua volta, ed un politico che opera con un burocrate corrotto sotto di lui troverà più semplice mandare avanti i suoi progetti corrotti.

La questione della spesa pubblica, dunque, o meglio dell’incapacità di politici e burocrati di gestirla per la cittadinanza. E quindi, secondo alcuni, dell’inevitabile esigenza di ridurla. Attenzione non di riqualificarla: di ridurla. Non di individuare gli sprechi e usare le risorse così ottenute per sostenere l’economia nel breve e lungo periodo. No, una vera e propria ritirata dello Stato dall’economia.

E’ stato utile a questo riguardo ascoltare il responsabile economico del PD, Stefano Fassina e il mio collega Francesco Giavazzi sfidarsi elegantemente ma anche intensamente davanti a Lilli Gruber ad 8 e mezzo su La 7. Se l’avete perso, vi consiglio di vederlo.

La posizione di Fassina è semplice: non bisogna tagliare, bisogna riqualificare. E ricorda correttamente che la presenza della spesa pubblica nell’economia italiana, se non si considerano i trasferimenti – interessi e pensioni - che spesa pubblica e PIL non sono perché non generano beni o servizi - è minimale quando paragonata a quella degli altri paesi dell’Unione europea.

La posizione di Giavazzi è altrettanto semplice: Svezia e Danimarca spendono più di noi, ma efficientemente, così che l’economia cresce (lo riconosce) ma non crede che noi italiani lo si sappia fare e, dunque, questa spesa pubblica va ridotta. Visto che come gli scandinavi non saremo mai, meglio abbatterla e goderci perlomeno la riduzione delle tasse che ne otteniamo.

E’ contestabile sotto due punti di vista la posizione di Giavazzi. Primo, esprime una totale mancanza di fiducia verso questo Governo e nella sua capacità di riformare la qualità della spesa pubblica, che lui stesso vede come fattore di crescita. Ne prendiamo atto, anche perché ciò significa che la spending review italiana (come alla fine ammettono sia Fassina che Giavazzi) non è fatta per individuare gli sprechi ma per tagliare la spesa e basta: e cioè esaltando la componente recessiva dei tagli (ricordo per la decima volta o forse più che tagliare gli sprechi non è recessivo, tagliare la spesa buona, pari allo 80% di essa, sì).

Su questo blog e su quello dei viaggiatori sapete quante volte abbiamo chiesto al Governo di dare prova che veramente si faceva sul serio nel tagliare non la spesa ma gli sprechi: risposte mai ricevute, ma rimaniamo ottimisti.

Secondo, Giavazzi pare sottolineare come i Governi non si possano modificare dal di dentro, auto- riformarsi. Non è così. Non fu così quando il Regno Unito, prima con Thatcher e con Blair, riformarono una burocrazia incancrenita. “Ma no, noi non saremo mai come il Regno Unito” direbbero i giavazziani anti-declinisti.

Non ce n’è bisogno. Basta essere come l’India. La cui polizia è nota per corruzione, sprechi ed incompetenza ma che, mostrano cinque economisti di grande valore, di cui due del MIT di Boston, ha mostrato di sapersi migliorare con riforme opportune venute dall’alto.

Vediamoli i dati indiani, analizzati dagli autori. Dove prima delle riforme solo il 29% delle vittime di crimini se la sente di denunciare il reato subìto e, tra quelle che denunciano, ben il 17% viene scoraggiato dal depositare la denuncia. Dove il 62% delle vittime si è dichiarato molto o abbastanza insoddisfatto di come il caso è stato trattato dalla polizia, con la percezione (82% di loro) che la polizia non ha fatto nulla di speciale non interessandosi al loro caso. Solo il 9% degli intervistati ha mai avuto un’interazione con la polizia in tutta la propria vita (3% le donne), a parziale conferma della sfiducia della cittadinanza.

Con un esperimento assai capillare lo Stato del Rajasthan ha (su di una popolazione uguale a quella della Danimarca) provato ad effettuare 5 riforme per migliorare l’impatto dell’azione di polizia sulla vita quotidiana dei cittadini: 1) la sospensione dei (frequenti) spostamenti amministrativi dei poliziotti da un commissariato ad un altro (che spesso avvenivano per motivi legati a richieste politiche, o di rimuovere i Serpico o di promuovere i poliziotti “mansueti”); 2) i controlli a campione sulla ricettività dei poliziotti rispetto a “denunce civetta”; 3) controlli affidati ai cittadini sulla ricettività delle denunce; 4) permessi di riposo maggiore per i poliziotti; 5) maggiore training su tecniche investigative o tecniche di comunicazione e servizio ai cittadini.

Quando queste riforme sono state lasciate all’organizzazione interne dei commissariati o dei cittadini (riforme 3 e 4), queste hanno miseramente fallito. Ma altre riforme, obbligatorie o imposte dall’alto, hanno decisamente migliorato la qualità dei servizi di polizia:
a) Il blocco degli spostamento d’ufficio ha ridotto decisamente il “timore della polizia” dichiarato dai cittadini, abituatisi a convivere con lo stesso poliziotto;
b) l’addestramento dei poliziotti, specie quando capillare, ha modificato drasticamente la soddisfazione delle vittime che hanno subito un reato: l’andare dallo zero al 100% nel numero di poliziotti addestrati aumenta la probabilità di soddisfazione delle vittime per l’attenzione ricevuta dalla polizia di quasi 21 punti percentuali (un aumento del 50% della probabilità!).

Così concludono gli autori: “questo saggio dimostra che è possibile influenzare il comportamento e l’immagine pubblica della polizia in un tempo relativamente breve utilizzando riforme semplici e non costose…. Questi risultati suggeriscono che il sistema di polizia, malgrado il suo antico codice, è ben lungi dall’essere resistente al cambiamento e che l’opinione pubblica può essere influenzata nel breve termine e dunque che le riforme con impatto pratico sono possibili in India. Il fatto che siano state realizzate dall’interno delle istituzioni e su larga scala suggeriscono che questi sforzi possono essere aumentati su scala ancora maggiore, replicandoli.”

Ecco, certo che si può fare. Certo che si può.

Se seguiamo chi, volendo arrestare il declino, chiede meno Stato e meno tasse, acceleriamo il nostro declino rispetto ad un mondo dove le tasse dei cittadini sono usate per fare spesa pubblica di buona qualità, come negli altri Paesi di cui inutilmente cerchiamo da mesi di emulare la competitività con altre riforme, inutili o dannose.

Quando vedo sulle pagine dei giornali foto di feste dell’Antica Roma organizzate da pubblici cittadini, ho due tristezze. La prima è perché ho la conferma che persone di quel tipo non potranno mai far partire la rivoluzione della qualità della spesa che questo paese merita e abbisogna. La seconda è che queste persone contribuiscono a far crescere il partito di coloro che credono che lo Stato non sia riformabile e va dismesso e di coloro che, sulla base di ciò, fanno la spending review senza preoccuparsi di distinguere il bambino dall’acqua sporca.

Dobbiamo far crescere il partito di quelli che credono che una terza via sia possibile.

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1 Wedding and no Funeral. Un matrimonio, senza funerale.

Domani si parte per Creta: al Greek Public Policy Forum a parlare di Europa, crisi, soluzioni con tanti colleghi, economisti e non, cercherò di scrivervene come in un diario. Ecco il programma:

Tomorrow we head to Crete for the Greek Public Policy Forum to talk about Europe, crisis and solutions with colleagues, not only economists (thank God). I hope to keep a diary on this blog. Here is the program:

Greece, Germany, Spain the UK: what is this European crisis? Watch the movie below to understand better this marital affair. (thank you Ale). See you at the end of it, enjoy the show.

E poi per capire meglio la crisi europea basta pensare ad un matrimonio e farne una giusta rappresentazione: godetevi il film (grazie Ale!), ci vediamo alla fine della programmazione.


 

Visto? Ora è il tempo di discutere il film, come si faceva negli anni settanta. A me pare ovvia la conclusione: l’euro, così bistrattato per colpe non sue, ci sta facendo fare quello che mai prima d’ora eravamo riusciti a fare e che certamente nessuna illusoria svalutazione riuscirà a farci fare, obbligarci a parlare tra noi, duramente, ma senza fucili. Con posizioni di partenza ampiamente asimmetriche, certo, come è sempre stato anche durante le guerre, ma senza fucili. E nel farlo, questo dialogo ci spinge a conoscere per la prima volta meglio l’avversario e farlo diventare pian piano più amico. Senza una valuta comune, questo dialogo non sarebbe mai avvenuto, non ne avremmo avuto bisogno. In fondo ci si sposa per rendere più difficile l’abbandono nelle difficoltà: così è per l’euro, tenendo conto che qui tra divorzio e funerale differenza non c’è.

OK, now one last final thought. The euro is often unfairly accused of all sorts of misdeeds, among which the one of forcing Europe in state of crisis. Obviously the euro does not do that: wrong economic policies do. I tend to think that the euro is forcing Europe to take a close look at the mirror so as to understand its true identity. The euro is managing to force countries to do what they have never done with this intensity: talk to each other. They do it using stereotypes, they do it somewhat aggressively, they do it from positions of strength and positions of weakness: just like in a war. But there is a key difference here: there are no weapons used. In the process, each country learns a bit more about the other. In the process, positions are smoothed. In the process, albeit at irritatingly slow rhythms and with many (temporary) retreats, we move one inch forward.

It is not my favored dance, but I prefer dancing this way than celebrating a divorce, that is, in this case, a funeral: the one of Europe.

Post Format

Disclosure generates instability: what the (old) ECB believed in

From a previous post on this blog: Mr Trichet’s 2010 declaration as to why he will not release details of derivative transactions of Greece. “The European Central Bank refused to disclose internal documents showing how Greece used derivatives to hide its government debt because of the “acute” risk of roiling (sic) markets, President Jean-Claude Trichet said.”(Bloomberg, November 5, 2010). “The information contained in the two documents would undermine the public confidence as regards the effective conduct of economic policy,” Trichet wrote in an Oct. 21 letter in which he rejected the appeal. Disclosure “bears, in the current very vulnerable market environment, the substantial and acute risk of adding to volatility and instability.”

That’s right, instability, these were his exact words when speaking about disclosure.

Now for the new stuff. For the new stuff we need to go back in time. Up to 2004. March 4th, to be precise. At the time M. Trichet was already President of the ECB. On March 4th the ECB issued DECISION ECB/2004/3 on public access to European Central Bank documents.

In its article 4.1.a. of ECB/2004/3 one read:

“1. The ECB shall refuse access to a document where disclosure would undermine the protection of:

(a) the public interest as regards:

— the confidentiality of the proceedings of the ECB’s decision-making bodies,

— the financial, monetary or economic policy of the Community or a Member State,

— the internal finances of the ECB or of the NCBs,

— protecting the integrity of euro banknotes,

— public security,

— international financial, monetary or economic relations;

Now quickly move forward in time. Spring 2011, Mr. Trichet is still President of the ECB. Greece and its derivative scandals are memories of the past, except for the Greek citizens, that ask for transparency and disclosure, just like Bloomberg, to obtain justice. Both are denied by the ECB, which has internal knowledge about the infamous transaction.

May 9, 2011. A new decision by the ECB, this time ECB/2011/6. Which, it turns out, modifies ECB/2004/3. In just a small passage. Let us read it:

“Decision ECB/2004/3 is amended as follows: … Article 4(1) is amended as follows: (a) in point (a) the following indent is added: ‘— the stability of the financial system in the Union or in a Member State;’;

To make a long story short, to the six reasons the ECB could invoke to deny disclosure a seventh one is added: stability. That’s right, yes, that same (in)stability quoted by M. Trichet a few months before so as to deny information to Bloomberg on the Greek transaction. A mere coincidence?

Bloomberg at the time had already taken to court the ECB and it is therefore likely that such an amendment done later will not bear on the Court decision on the matter of the Greek derivative. However, starting in May 2011, were any other journalist to follow up Bloomberg’s example and dare bravely to ask for ECB documents on derivatives to be made public, the ECB would have an additional legal tool in its own hands to fight against transparency and thereby to indirectly make those shadowy transactions less costly to be repeated through shady deals.

Now back to the present. Because we still have time to make amends. We do have a new leadership at the ECB. One that pledged, in the recent September 6 press conference on the new monetary policy, to fight the spreads in risky euro countries also through “much greater transparency”. We thus can only hope that  ECB/2011/6 will be repealed.

It would be the best way to inaugurate a new course where European citizens could trust their institutions to leave behind the dark side.

Thank you X.