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I derivati di Trichet non sono proprietà privata

Ricordate quanto affermato da M. Trichet (predecessore di Draghi alla BCE)  quando si rifiutò di svelare all’agenzia di stampa Bloomberg i documenti interni in suo possesso che mostrano come la Grecia ha usato i derivati per nascondere il proprio debito (Bloomberg, 5 Novembre,2010) dato che ”l’informazione contenuta nei 2 documenti disturberebbe (undermine) la fiducia pubblica sulla conduzione della politica economica”? Trichet scrisse in una lettera del 21 ottobre, in cui formalizza il rifiuto, che la trasparenza (disclosure) “ha, nell’attuale ambiente di mercato il rischio sostanziale ed acuto di aggiungere volatilità ed instabilità”. Instabilità, disse proprio così.

Cose note, per i lettori di questo blog. Quanto segue lo è meno, perlomeno per me. Per capirlo, dobbiamo fare un piccolo passo indietro nel tempo, al 2004. Al 4 marzo per la precisione (Trichet era già presidente). Quando la BCE assume la decisione n. 3 di quell’anno, sull’accesso pubblico ai documenti, appunto, della BCE. Restringendo tale accesso per le materie più delicate. Vediamo il testo di allora, art. 4.1.a (mia traduzione):

La BCE rifiuterà l’accesso per documenti la cui diffusione (disclosure) minerebbe la protezione dell’interesse pubblico a riguardo de:

-          La confidenzialità delle operazioni delle decisioni degli organi della BCE;

-          Le politiche finanziarie, monetarie o economiche dell’Unione o di uno stato membro;

-          Le finanze interne della BCE o delle banche centrali nazionali;

-          La protezione dell’integrità delle banconote euro;

-          La sicurezza pubblica;

-          Le relazioni Internazionali finanziarie, monetarie o economiche.

Ora facciamo un passo avanti nel tempo. Primavera 2011, sempre Trichet ancora Governatore. Ma la Grecia ed i suoi scandali sono già acqua passata. O meglio, acqua da lasciarsi dietro. Il 9 maggio 2011, pochi mesi dopo la denuncia di Bloomberg, la BCE emana la sua decisione numero 6, che modifica la n.3/2004. Poche, semplici criptiche parole: “La decisione 3/2004 della BCE è modificata come segue: nell’art 4.1.a si aggiunge la seguente frase:

-          La stabilità del sistema finanziario dell’Unione o di uno stato membro”.

Insomma, alle 6 fattispecie che possono giustificare il rifiuto della trasparenza da parte della BCE ne viene aggiunta una settima, la stabilità. Toh. Sì, proprio quella stabilità che Trichet invocava per giustificare il rifiuto della concessione della trasparenza sui derivati greci.

La causa Bloomberg alla BCE credo fosse già stata avviata e dunque questo emendamento della BCE non incide su quel processo. Certo però che, da allora, le cause come quelle di Bloomberg sui derivati diventano più difficili da portare a termine perché la BCE potrà sempre opporre il nuovo art. 4.1.a ed in nome della … stabilità, negare informazioni al pubblico ed alla stampa.

Coindicenze, certo. Che non toglie che siano coincidenze inopportune. Ora però abbiamo il tempo di rimediare. C’è un nuovo Governatore alla BCE. Che, nella sua ultima conferenza stampa il 6 settembre scorso ha annunciato che il piano anti-spread sarebbe stato caratterizzato da “much greater transparency”, molta più trasparenza. Possiamo certamente dunque ben sperare che la decisione 6/2011 sarà nuovamente emendata, anzi abrogata. In nome della disclosure, della trasparenza, che, in fondo, è la migliore politica per evitare il ripetersi di crisi come quella che attraversiamo che sta devastando la vita di così tante persone.

Grazie a X.

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(100) parole in libertà del Premio Nobel Stiglitz

Il Premio Nobel statunitense Joe Stiglitz sul Nouvel Observateur (anche il resto dell’intervista è interessante), da me tradotto dal francese:

limitare il deficit strutturale, come lo impongono i trattati europei, funziona quando si è in piena occupazione, ma non quando si è in recessione. E’ da irresponsabili cercare di avere un bilancio in equilibrio o anche un bilancio strutturale in equilibrio col deficit al 3% in una economia indebolita.

Io penso che la decisione di François Hollande (di fare austerità NdR) avrà conseguenze molto negative. L’austerità porta alla recessione. L’austerità ha portato la Spagna alla depressione.

I responsabili europei continuano malgrado ciò a dire che ci vuole la crescita. E’ quello che ripetono da anni, ma non hanno proposto nulla di concreto in questo senso. C’è stato sì un qualche avanzamento, ma così lento e comunque insufficiente.

Per esempio avete rafforzato le capacità della BEI, della Banca europea degli investimenti per che essa possa fare più investimenti. Ma la dimensione proposta è troppo minimale. Non sarà sufficiente a compensare i disastri causati dall’austerità.

Grazie a Silvia.

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Grandi imprese, se lo Stato gli è vicino

Bella mattinata (ma che alzataccia) a Omnibus su la 7 a parlare di Meridione con persone interessanti. Alcuni spunti che non voglio lasciar cadere e che ribadisco qui sotto.

*

Il gruppo Fiat nel 2010 aveva un fatturato di circa 56 miliardi di euro. L’equivalente di 28000 piccole aziende italiane con 2 milioni di fatturato.

Ci sta.

Ci sta, che ambedue, la Fiat e l’esercito di PMI, soffrano di questa austerità e che non investano. Io non lo trovo sorprendente. Che ambedue non trovino sbocchi nella domanda interna, così importanti per loro, e dunque non investano, non lo trovo sorprendente. Credo che c’entri poco in questo caso la “qualità del modello Fiat” e credo che per una volta possiamo fare a meno di dire che “piccolo” è diverso da “grande”.

Alla fine, le grandi austerità mettono a repentaglio anche le dimore più sicure, come uno tsunami.

E allora ascrivere anche certe scelte Fiat all’austerità che ci siamo auto-imposti masochisticamente non è così folle. Discutibile, forse. Ma non folle.

*

Sono rimasto piacevolmente sorpreso dall’insistita enfasi in trasmissione, specie ma non solo da parte del Sottosegretario Rossi Doria (bella persona!), sul proteggere con politiche pubbliche le piccole imprese. Specie quelle che affogano o non affiorano a causa di contesti sociali debolissimi e suscettibili di perire a causa di una tra le mille possibili discriminazioni. Come a Scampia, Napoli.

Mi sovviene, e l’ho detto in trasmissione, del contesto in cui operavano alla fine degli anni sessanta negli Stati Uniti le cosidette MBE, Minority Owned Businesses, piccolissime aziende detenute da minoranze etniche, specie da individui afroamericani o asiatici. Tim Bates è un economista americano che ne ha ripercorso la loro storia, a partire da quando “nei primi anni settanta, esse erano composte di fatto da piccole imprese concentrate nei servizi alla persona e nel commercio al dettaglio. Questi imprenditori di una data minoranza etnica tipicamente cercavano di sopravvivere gestendo imprese marginali: era una comunità di aziende vincolate da limiti di accesso al credito, da limitate opportunità di istruzione e di conoscenza basilari, e dagli stereotipi dei bianchi su quale fosse il giusto spazio per queste MBE nella società del tempo.”

Per esempio, per gli americani di etnia cinese, prima degli anni settanta l’occupazione era fortemente concentrata su due sole linee di business: ristoranti e tintorie. Ma non perché i cinesi sapessero fare solo quello, dice Bates: ma piuttosto perché tintorie e ristoranti erano settori in cui veniva tollerata la loro presenza da parte della società dominante, i cui “nativi” bianchi tipicamente non sceglievano di aprirvi aziende.

A questa situazione negli anni settanta, con la crescita del movimento dei diritti civili e l’arrivo dei primi sindaci di etnia afro-americana specie nelle città industriali del Nord degli Stati Uniti, si cercò di porre rimedio riservando a queste aziende parte degli appalti pubblici, trovando tra l’altro nella maggioranza di imprese “bianche” grandissima resistenza ed opposizione.

Questa struttura forzosa degli appalti creò un ulteriore problema: la cattiva qualità dei servizi svolti dalle imprese protette, detenute da minoranze etniche i cui imprenditori erano ancora poco competenti ed efficienti, per le pubbliche amministrazioni locali. Molte di queste, però, nel tempo, grazie a questa domanda pubblica “protetta”, crebbero, impararono a produrre e servire e divennero imprese “vere”, capaci di svincolarsi dalla protezione pubblica e di competere naturalmente nel Paese e a volte nel mondo.

Sin qui Bates. Torno su Scampia, le nostre 100 Scampia.

Abbiamo lì un contesto durissimo, dove non fiorisce, se non in condizioni di enorme disagio, la pianta sana dell’imprenditoria. Sono queste le imprese minuscole che dovremmo far crescere con piccoli appalti riservati. In tutta Italia, certo, ma specie nelle zone ad alta densità mafiosa o criminale. Certo, facendo attenzione al loro “pedigree” e certo, prendendosi dei rischi e, certo, controllando con attenzione lo sviluppo di queste imprese: ma non c’è dubbio che questi lavori pubblici “riservati” potrebbero far nascere un tessuto vitale di giovani imprenditori.

Un giorno, da Scampia, lanceranno la sfida al mondo e, soprattutto, alla mafia, su un terreno sul quale questa non può competere: la legalità e la bellezza.

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Sì l’Europa è come un Usain Bolt. Infortunato.

La crisi finanziaria avrebbe dovuto colpire nella stessa misura gli Stati Uniti e la zona euro, considerando che si tratta di due economie di dimensioni simili, con un analogo livello di diversità al loro interno e un analogo incremento medio dei prezzi delle case negli anni che hanno preceduto lo scoppio della bolla …  In effetti l’andamento dell’economia statunitense è stato molto simile a quello dell’Eurozona dall’inizio della crisi: il Pil pro capite oggi è ancora circa il 2% sotto Il livello del 2007 su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti e nella zona euro è cresciuto nella stessa misura (3 punti percentuali).  Sì, in Europa ci sono alcuni Paesi impantanati nella recessione, ma anche gli Stati Uniti hanno le loro aree depresse: Irlanda e Spagna corrispondono a Nevada e California (e la Grecia corrisponde a Portorico). Il confronto corretto va fatto sulla media delle due economie-continente, entrambe caratterizzate da una forte diversità interna. Queste similitudini di performance economica sono sorprendenti, considerando la diversità di approccio adottata da Stati Uniti e zona euro per quanto riguarda le politiche economiche.

Utile quest’articolo di Gros, sul Sole 24 Ore, perché alza l’asticella del mio modo di comprendere la crisi e richiede qualche riflessione in più, e anche di rinfrescare il cervello, andandosi a cercare nuovi dati (fonte Eurostat, PIL pro-capite e prezzi costanti in parità di potere d’acquisto).

Primo fatto. E’ vero, l’area degli Stati Uniti e l’area dell’euro sono all’incirca 2% sotto rispetto a dove dove erano nel 2007 al picco dell’espansione, prima della crisi. L’Unione europea a 27 è un po’ meno giù, ma di poco.

Secondo fatto. La dispersione all’interno dell’area dell’euro è impressionante. La Germania è a un +3,5% rispetto al 2007, il Portogallo a -3,5, la Spagna a -5, l’Italia a -6,6 e la Grecia a -14%.

Terzo fatto. E’ vero che negli Stati Uniti le variazioni tra stati ci sono e sono a volte ancora più ampie: si va dal -11% della Florida al +23% del North Dakota, sempre 2011 rispetto al 2007.

E ora interpretiamo.

Gli Stati Uniti hanno una variabilità del reddito pro-capite così accentuata non perché, come l’area europea, adottano politiche economiche diverse tra Stati, ma perché sono caratterizzati da maggiore mobilità della popolazione e maggiore concentrazione geografica delle industrie (l’effetto Silicon Valley) che, se colpite da uno shock specifico a quel settore, tendono ad amplificare l’impatto sul singolo Stato. Per dirla in un altro modo, Obama da Washington non detta politiche fiscali diverse (austere) ad alcuni Stati e non ad altri, anzi il bilancio di Washington è fatto in maniera tale da attenuare immediatamente le differenze tra Stati, appena sorgono, con appropriati trasferimenti.

L’impatto della politica moderatamente espansiva obamiana – secondo alcuni, come Krugman, decisamente troppo poco espansiva e troppo poco basata su aumenti di acquisti di beni e servizi e piuttosto su trasferimenti 1) agli Stati che hanno ripagato il loro debito invece di spendere i finanziamenti ricevuti e 2) alle banche per ricapitalizzarsi – è dunque un mediocre -2%, che non mette però a repentaglio l’Unione Usa perché non è stata basata su politiche diverse per alcuni stati rispetto agli altri.

L’impatto della politica moderatamente restrittiva europea, è invece stato volontariamente e drammaticamente restrittivo in alcuni paesi e molto meno in altri.

Mentre si può dunque discutere se negli Usa la politica economica federale sia stata o no sufficientemente espansiva, in Europa sappiamo per certo che la politica economica imposta ad alcuni Paesi è stata molto restrittiva, e questo è quello che mette a repentaglio la costruzione europea, un legame diretto tra politica economica e recessione (che non esiste nella percezione di nessun cittadino di qualsiasi stato degli Stati Uniti) che si tramuta in insoddisfazione civica e politica sull’appartenenza all’Unione Europea.

Resta ovviamente il puzzle del perché, a parità di shock 2007 tra area euro e area Usa, e con una domanda aggregata leggermente più vibrante negli Usa, questi stiano crescendo quanto l’area dell’euro nel suo complesso. La mia spiegazione è semplice: l’Europa in questo momento ha una crescita di lungo periodo maggiore di quella statunitense ma la sua stupida politica ciclica nasconde questo vantaggio.

E’ come se lasciassimo Usain Bolt correre con un infortunio e arrivare a pari merito con Blake. Sappiamo che in condizioni normali Bolt è superiore, ma in queste condizioni non si vede. L’analogia finisce qui, perché Usain Bolt non sarebbe così masochista da infortunarsi da solo, l’Europa sì. Anzi, a spingerla ancora un po’ l’analogia, sarebbe come se Bolt decidesse, invece di curarsi, di correre malgrado l’infortunio, rischiando di farsi ancora più male e magari di perdere per sempre l’abilità di correre. E qui il paragone con l’euro si fa così ovvio che non mi va nemmeno di spiegarvelo.

Grazie a Carlo Clericetti

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L’Europa delle nazioni viene prima della nazione Europa, o questa muore

Sono tornato da Praga, scusate il ritardo. Convegno. Ho conosciuto una bella persona, un alto dirigente della Pubblica Amministrazione portoghese. Siamo andati a pranzo insieme. “E’ triste, mi dice, molto triste. La situazione è gravissima. La disoccupazione cresce, il Pil crolla e adesso addirittura, questo venerdì, hanno finanziato l’abbassamento dei contributi delle imprese con un aumento della quota a carico dei lavoratori. Sono pazzi, non si rendono conto, la gente è esausta, stavolta è stato superato il limite dalla Troika, nessuno vede l’uscita dal tunnel.” Già, un alto dirigente del settore pubblico.

L’Europa è stanca. Come gli occhi del mio commensale. Stanchissima.

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La Repubblica ceca non ha l’euro, e forse ora aspetterà ancora un po’. Apprendo con gioia che tra pochi mesi l’aeroporto sarà intitolato a Vaclav Havel.

Sono passati 20 anni dalla separazione con la Repubblica Slovacca, che ha l’euro.

Leggo su Eurostat che il reddito pro-capite ceco, in termini di potere d’acquisto, fatto 100 quello dell’Unione europea a 27, è pari a 80. Quello slovacco a 70. Valori stabili negli ultimi anni. Qualcuno dice che gli slovacchi ci hanno rimesso, dalla separazione dai cechi, altri dicono che ci abbia guadagnato. Sta di fatto che assieme alla nostalgia si percepisce anche una pragmatica accettazione dei fatti, un’amicizia che tiene tra i due popoli, una sensazione che all’interno di un’Europa federata importi poco se si sta insieme o separati. Se questa Europa verrà.

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Conosco Andreu Mas Colell da molti anni. Un grandissimo economista che ha lasciato una traccia nei libri di testo di economia avanzata, che, tornato dagli Stati Uniti nella sua terra, la Spagna, o meglio la Catalogna, ha fatto dell’Università di Barcellona, venti anni fa, il primo modello di ateneo per gli studi economici che potesse rivaleggiare con quelli d’oltre Atlantico, da tutti allora considerati irraggiungibili.

Fatto ciò, sempre vulcanico, Andreu si lanciò in politica, Ministro della Catalogna per l’Innovazione e oggi per l’Economia.

Sarà pure vulcanico. Ma è un uomo, ho sempre pensato, saggio, costruttivo, posato. I suoi articoli nel 2010 sul suo sito, in catalano, vedono bene l’avvicinarsi della crisi dell’euro, ma sono classici nelle loro conclusioni: la Spagna e la Catalogna devono adattarsi all’austerità. Sembrano gli articoli di oggi di Alesina e Giavazzi.

Alla BBC, a luglio di quest’anno, confessava - mentre al contempo chiedeva i soldi al governo centrale spagnolo per salvare la regione della Catalogna alle prese essa stessa con una crisi del debito – come l’austerità stesse “uccidendo il paziente”. Un giorno ci arriveranno anche A e G. Ci arrivano tutti.

Ma. A pagina 2 del Figaro di ieri è uscita l’intervista del quotidiano francese ad Andreu. Sono rimasto basito. Abbandonando i suoi toni moderati (ho letto solo i testi su siti spagnoli), ha sostenuto come “la Catalogna non ci tiene ad avere posto in una Spagna “unica ed uniforme” ” e, chiedendo un patto fiscale con Madrid, ha anche minacciato: se Madrid si rifiuta di negoziare, la via del referendum (secessionista) non può mai essere esclusa.

E così la Catalogna, come la Slovacchia con la repubblica Ceca, lascerebbe la Spagna. Ma non per entrare in un progetto europeo: per accelerare la fine dello stesso. Perché nessuno, nessuno, tiene a vivere in un progetto unico ed uniforme, ma vive là dove la sua diversità arricchisce il tutto.

*

Guardatelo il buon europarlamentare federalista Cohn Bendit, nel video, argomentare contro il monarchico ed euroscettico Conte di Dartmouth che il futuro di un mondo globalizzato tra 30 anni non vedrà nessun paese europeo all’interno del G-8. Ha ragione, certo.

 

Ma non deve parlare al Conte, Cohn Bendit, deve parlare ai popoli. Perché il conte ha una qualche ragione, una qualche terribile ragione, quando afferma che il progetto europeo non è la cura ma la causa della malattia europea.

E ha ragione perché alla faccia di Cohn Bendit, e dei suoi sani argomenti teorici, il popolo, quando viene dominato da idee senza cuore e senza solidarietà, quando non vede l’ideale messo al servizio della gente, si rifugia lì dove è certo di ritrovare i suoi valori, nel locale. E fa bene.

La soluzione? Una sola. Che il visionario Cohn Bendit, che giustamente capisce l’importanza potenziale dell’Europa Unita si unisca al Conte di Darthmouth, che giustamente capisce l’importanza pragmatica che le istituzioni siano al servizio delle gente e non dei modelli teorici e burocratici. E se nemmeno il Conte lo capisse, che si unisca comunque a tutti quelli come noi che vogliono l’Europa dal basso, non dall’alto, che vogliono la solidarietà nei momenti difficili e che sanno che questo debito di solidarietà verrà restituito nei momenti, che sempre poi vengono, di buon raccolto. Purché il grano non sia stato allettato dall’egoismo miope dei popoli, soffiato per i campi da leader che non sanno condurre.
Da questo ideale pragmatico, e solo da questo, da questa solidarietà reale e non meramente dichiarata, dal cessare delle ipocrisie possiamo sperare che la Catalogna spagnola, la Repubblica ceca e slovacca, il Portogallo e la Finlandia siano le regioni felici di una grande Europa.

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The State of the Less than Perfect Union

One should read with keen attention the word pronounced by Mr. Barroso, the European Commission (EC) President, yesterday for the (EU) State of the Union. They contain many interesting suggestions for the way ahead.

Being far away from the Bruxelles’ day to day activity, not discussing and reading every single memo that circulates in each EC office, my words that follow might sound those of a naive observer detached from the evolution of European matters. But since Mr. Barroso himself launches “an appeal also to European thinkers. To men and women of culture, to join this debate on the future of Europe“, let me humbly say what strikes me as wrong or detached from reality in his speech.

1. I find it striking that such an important evolution of the European framework, and the related Treaty changes, so well described by Mr. Barroso, are to be presented and proposed by the European Commission and not by an elected group of representatives, were they to be from the European Parliament, the national ones or the European Council. I do not think this as an irrelevant matter. Technocrats do not make proposals for changes of Constitutions. People and their representative do. If Europe today lacks the necessary amount of European democracy, as Mr. Barroso correctly underscores, stances of this type reinforce the perception and the problem. I say this also to underscore the slow capacity of the European Parliament to strike rapidly and cohesively for change in Europe, leaving the agenda too much in the hands of the EC.

2. I find it quite striking that we are entering again in a new debate of changes in the Treaties, with all the huge distraction that comes with it in terms of the inevitable efforts of the national governments and bureacracies to participate in it. Especially in a moment when momentous decisions are awaited by the people, like relieving many of them from the suffering and from the fears that come with instability. We have not shown yet the capacity to create a genuine European sentiment by providing immediate solutions to those problems and we are willing to embark in a new legal adventure? Isn’t there again a huge disconnect between European reality and European institutions that needs to be erased before proceeding further ahead?

3. Mr. Barroso, you say: “Allow me to say a word on Greece. I truly believe that we have a chance this autumn to come to the turning point. If Greece banishes all doubts about its commitment to reform. But also if all other countries banish all doubts about their determination to keep Greece in the Euro area, we can do it. I believe that if Greece stands by its commitments it should stay in the Euro area, as a member of the European family.” I find this statement self-defeating and depressing. Selfdefeating because, by mentioning the word ”if” you are putting into doubt the irreversibility of Greek permanence within the euro (contrary  the words of Mr. Draghi which I understand to mean, when he says the euro is irreversible, that it is for each single euro country) . Depressing, because, Mr. Barroso, in a Union there should be no “if”. In a Union, you belong, like in a family, whether you are a black or white sheep (and let me tell you right now thaI can hardly see one black sheep ion Europe). “If” Alabama was told that it could be be let go because of its less than perfect record on racial issues compared to say, Massachusetts, do you think the United States would become a stronger or a weaker Union? I truly think a weaker one, and Alabama, left alone, would lose its drive to slowly and voluntarily improve its institutions and its racial tolerance.

PS: one final detail. There is quite a symbolism in the State of the Union being pronounced in Europe by the Head of a non democratically elected body, while in the United States it is read by the President himself. In that sense, one must appreciate the proposal of Barroso to have in the next European Parliament elections in which each European party proposes the name of their candidate for the EC Presidency. It should be a positive evolution.

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Presidente Monti ascolti Spike Lee

Il governo ha contribuito ad aggravare la congiuntura economica già difficile con i suoi provvedimenti, che però serviranno ad un risanamento e ad una crescita duratura. Si dice che con le nostre decisioni abbiamo contribuito ad aggravare la congiuntura. Certo – ammette Monti – solo uno stolto può pensare che sia possibile incidere in elementi strutturali che pesano da decenni senza provocare nel breve periodo un rallentamento dovuto al calo della domanda. Solo in questo modo si può avere la speranza di avere più in là un risanamento» per una crescita duratura.

Mario Monti oggi

Apprezzo molto la sincerità del nostro Presidente del Consiglio. Già riconoscere che la stretta fiscale alla domanda aggregata da parte del Governo incide, e fortemente, sul PIL, significa riconoscere che c’è qualcosa chiamata domanda aggregata che in questo momento gioca un ruolo, drammatico, sulla disoccupazione e sul reddito.

E importante anche è il lessico: la sua distinzione tra congiuntura e crescita, lanciata quest’estate dal Ministro Grilli, è ottima per capire che le 2 sono 2 cose diverse, che meritano soluzioni diverse.

Certo averlo riconosciuto prima forse avrebbe portato il Ministero dell’Economia a riconoscere che i suoi modelli per costruire le stime di andamento del PIL fanno un po’ acqua da tutte le parti e che prevedere un +1% di PIL solo qualche mese fa e chiudere l’anno forse addirittura al -3% è un errore di previsione quasi senza pari.

Certo se avessimo previsto correttamente l’andamento del ciclo economico avrebbe voluto dire un deficit pubblico “vero” così drammaticamente alto che forse la Commissione europea ci avrebbe chiesto ulteriori sacrifici assurdi: non tutte le disgrazie vengono quindi per nuocere e questi errori sono, paradossalmente, errori apprezzabili, e, se voluti, encomiabili.

Altri meno.

Quello che non mi torna proprio nelle parole del Presidente è l’implicita assunzione che non ci saremmo potuti garantire lo stesso un futuro “brillante” con un presente decisamente migliore. Presente migliore, cosa essenziale, che avrebbe avuto l’addizionale “qualità” di ridurre gli spread grazie al minore timore di uscita dall’euro che avrebbero avuto i mercati di fronte ad una economia che cresce di più.

Analizziamo bene le sue parole, come alla moviola. Io capisco che Monti creda che le riforme effettuate portino a crescita duratura. E’ legittimo. Io credo altrimenti. Credo che le riforme essenziali per il Paese (tutte rintracciabili nel nostro programma dei viaggiatori, http://www.iviaggiatorinmovimento.it) università, PMI, ritardati pagamenti, anti-corruzione vera, lavoro giovanile, cultura, semplificazione fisco, lotta nuova e concreta alle Mafie, non siano state minimamente effettuate e certamente quelle che lo sono state si sono arenate in Parlamento, non per colpa di Monti. Credo che la madre di tutte le riforme, la spending review, l’abbia fatta e gliene va reso merito, ma aspettiamo concretamente di vedere i risultati (che non possono certo materializzarsi in un secondo).

Ma supponiamo che abbia ragione e che queste riforme portino effettivamente a crescita duratura di lungo periodo ed a qualche difficoltà di breve. Perché avremmo dovuto aggiungere, a queste riforme economiche, anche il peso della minore domanda aggregata, ulteriormente recessiva? Perché non avere invece svolto politiche della domanda espansive (visto che Monti ammette che il Governo ha ridotto la domanda e con questo il PIL sta ammettendo che il Governo avrebbe potuto aumentare domanda e PIL) e evitato questa crisi addizionale?

Lo so, lo so. Monti direbbe, no Piga, lei non calcola come la maggiore spesa pubblica che lei vorrebbe fare ci farebbe saltare il debito sul PIL verso l’alto.

E io risponderei. Presidente, assolutamente no. Il PIL sarebbe cresciuto (lo dice lei stesso), e con esso le entrate fiscali. C’è di più. Quella maggiore spesa pubblica non avrebbe dovuto finanziarla in deficit, ma con il taglio agli sprechi (che spesa non è ma mero trasferimento di denaro dagli onesti ai corrotti). E anche se un po’ degli aumenti di tasse che lei ha passato li avesse, invece che trasformarli in riduzione di debito, dedicati a investimenti come Pompei e ai nostri ospedali e scuole non a norma, stia tranquillo, l’effetto sul PIL sarebbe stato maggiore che quello sul debito, ed il rapporto debito-PIL sarebbe sceso.

Lo dimostrano i suoi stessi dati: il debito-PIL con le sue manovre restrittive è salito, non sceso.

E sappia che un uccellino a Washington mi ha confessato stanotte che quanto scrivevo sul blog ieri sul lavoro del FMI - che cioè fare oggi più spesa pubblica e, appena si esce dalla crisi, la si diminuisce, fa bene all’economia ed al rapporto debito PIL - è vera: “l’asimmetria dei moltiplicatori farebbe sì che un programma di stimolo aiuti di più durante la recessione, mentre il programma di aggiustamento durante la ripresa crei meno problemi“.

Insomma Presidente, lei sta facendo pazientemente tante cose in Europa ed è ingiusto e da professorucoli dirle di fare di più e come ma, mi creda, la soluzione è una sola. Sì, quella di Spike Lee: “do the right thing“. Altrimenti, quella gente che soffre e fa sacrifici e fa tante cose in più ogni giorno, ma proprio tante, farà lei la cosa giusta.

E, come nel film, non sarà un bel vedere.

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The Future of Panama, of the West and of our Workers

Economist and Professor Robert Gordon has a bleak view of the future. It happens, in recessions, that we get bleaker. Here are his words from his recent work:

Since (Nobel Prize) Solow’s seminal work in the 1950s, economic growth has been regarded as a continuous process that will persist forever. But there was virtually no economic growth before 1750, suggesting that the rapid progress made over the past 250 years could well be a unique episode in human history rather than a guarantee of endless future advance at the same rate….

… The audacious idea that economic growth was a one-time-only event has no better illustration than transport speed. Until 1830 the speed of passenger and freight traffic was limited by that of “the hoof and the sail” and increased steadily until the introduction of the Boeing 707 in 1958. Since then there has been no change in speed at all and in fact airplanes fly slower now than in 1958 because of the need to conserve fuel…..

This is the one that I like the most (quoted also by Krugman):

…. A thought experiment helps to illustrate the fundamental importance of the inventions of IR #2 compared to the subset of IR #3 inventions that have occurred since 2002. You are required to make a choice between option A and option B. With option A you are allowed to keep 2002 electronic technology, including your Windows 98 laptop accessing Amazon, and you can keep running water and indoor toilets; but you can’t use anything invented since 2002.

Option B is that you get everything invented in the past decade right up to Facebook, Twitter, and the iPad, but you have to give up running water and indoor toilets. You have to haul the water into your dwelling and carry out the waste. Even at 3am on a rainy night, your only toilet option is a wet and perhaps muddy walk to the outhouse. Which option do you choose?

I have posed this imaginary choice to several audiences in speeches, and the usual reaction is a guffaw, a chuckle, because the preference for Option A is so obvious. The audience realizes that it has been trapped into recognition that just one of the many late 19th century inventions is more important than the portable electronic devices of the past decade on which they have become so dependent.

*

I leave beautiful Panama tonight after 3 days of stay. While watching the 1914 Canal I am imagining, on the other side, behind the trees, the workers deeply intent in the construction of the new channels, technologically advanced and to be delivered by 2014, that will almost double the capacity of trade compared to today’s. I am sure Robert Gordon would list this era as a new industrial revolution. For this country.

I also imagine the workers that built the first channel, with the essential contribution of amazingly daring engineers and of the latest available equipment and machinery. It is as if these predecessors were watching them from above, listening to them sweating and laughing, I think out loud. They must understand their momentous and risky daily effort. Less risky than in the early XXth century, when conditions were so difficult that the lives of thousands were taken during the construction. They must be proud of their granchildren, now working on the new channels, working, as they did, to leave a trace of Man’s presence, pride, ingenuity, bravery. A trace of their passage on this earth.

Robert Gordon, again, would claim that both the United States and Europe do not have a canal to double so as to generate another industrial revolution. I don’t know if he is right, recessions are a bad time to think optimistically, only Keynes had the strength to do it in his essay written in the midst of the Depression, Economic Possibilities for our Granchildren. Let us just say that Gordon has chosen the safe path.

But one thing is sure. Whether we will grow for ever at 0.5% or 3% per year for the next century, our duty remains one of making sure that the short-term oscillations around that trend are minimized and recessions avoided. Recessions destroy the dignity of those workers that will never find a job again and of small entrepreneurs that are likely to give up forever on innovating after foreclosure and failure.

We know how to do that, we have instruments of economic policy for the job, and to ignore it, if not surprising (we have forgotten so many times the lessons of the past), would certainly be inexcusable.

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We all (would like to) live in a Yellow Submarine

No matter how many cunning politicians in Germany or Finland decry the fiscal irresponsibility of over-indebted euro countries, that fact is that much of the money that was misspent in Portugal, Spain, Italy or Greece has directly benefited big industries in the so-called “responsible” nations. The fiscal crimes of indebtedness and corruption had their accomplices in the countries that now claim to be shocked at their neighbours bad calls. In the euro crisis, there are no innocents.

Per quanto siano gli astuti politici tedeschi o finlandesi che condanno l’irresponsabilità fiscale dei paesi euro sovraindebitati, il fatto è che gran parte dei soldi buttati via in Portogallo, Spagna, Italia o Grecia ha direttamente beneficiato la grande industria nelle c.d. nazioni “responsabili”. I crimini fiscali di corruzione e sovraindebitamento ha avuto i suoi complici in quei paesi che ora si dichiarano sotto shock per gli errori dei loro vicini. Nella crisi dell’euro non vi sono innocenti.

Dal sito di Transparency International.

Transparency International è quella agenzia i cui risultati usiamo sempre per ricordarci quanto poco fa l’Italia nella lotta contro la corruzione. Ed è sul suo sito che leggiamo questo importante articolo sui sottomarini portoghesi.

Greci, i sottomarini greci, mi direte.

No, ci sono anche quelli portoghesi.

Come i greci, sono stati venduti al governo portoghese (per 1 miliardo di euro) nei primi anni di questo secolo dal consorzio tedesco GSC, German Submarine Consortium, composto dalle aziende tedesche HDW, Ferrostaal e Thyssen. I giudici portoghesi si trovano in difficoltà, non riuscendo a chiudere l’inchiesta da 6 anni:

e questo malgrado il fatto che due manager Ferrostaal si siano già dichiarati colpevoli e siano stati condannati da un tribunale tedesco nel dicembre 2011 per avere corrotto pubblici ufficiali greci e portoghesi per la vendita di sottomarini a questi Paesi. In Grecia si è proceduto all’arresto di un ex ministro della Difesa in conessione con questo caso. Ma in Portogallo, nulla pare avvenire. In un rapporto sullo stato delle indagini di questo giugno, ma solo ora rivelato dalla stampa, l’ufficio del pubblico ministero portoghese afferma che semplicemente non ritrova più alcuni incartamenti chiave legati alla transazione che erano vitali per l’inchiesta, ma che ora sembrano essere spariti dal Ministero della Difesa.”

Il Ministro della Difesa portoghese di allora è oggi Ministro degli Esteri.

Ecco, a noi piacerebbe molto che l’Europa (Germania in primis, che non ha ancora firmato la Convenzione ONU contro la corruzione), invece di tormentarsi con il richiedere riforme irrilevanti a Paesi in gravissima crisi recessiva pena la mancanza di aiuti, invece di regalare la vigilanza bancaria alla BCE, decidesse una volta per tutti di creare una fortissima Autorità Anti Corruzione europea, dotata di poteri ispettivi e di accesso ai dati, anche con poteri sanzionatori (così chiediamo nel programma dei Viaggiatori in Movimento).

Vorremmo insomma che, come nel film dei Beatles, i sottomarini (gialli) servissero a sconfiggere i Biechi Blu e non a permettergli di farci vivere in un Continente grigio, silenzioso e triste.

Solo con una autorità sovranazionale possiamo sperare che nei singoli paesi i politici locali, portoghesi, italiani, tedeschi, non riusciranno a farsi proteggere politicamente. Solo con questa Autorità i cittadini europei forse toccheranno con mano i vantaggi di una Unione europea che oggi stenta a dimostrare il suo valore aggiunto. E su un tema, quello dei protezione dei più deboli e oppressi, su cui più degli Stati Uniti e della Cina dovremmo essere capaci di definirci a livello geopolitico.

Grazie a Marta

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Fate la cosa giusta

C’è chi studia se è meglio morire con la ghigliottina o con la forca per attenuare il dolore del criminale condannato a morte. E c’è chi invece studia il miglior modo di prevenire il crimine così da evitare condanne e morte.

Sono ambedue tipi di ricercatori utili, che ci tengono a ridurre la sofferenza nel mondo, ma a me francamente interessano più i secondi, forse per il fatto che i benefici di una loro corretta analisi sono molto maggiori dei benefici delle analisi dei primi.

E’ quello che mi viene in mente leggendo e confrontando, grazie alla ottima intuizione di un bravo economista italiano, Giulio Zanella, due lavori scientifici di qualità, sull’impatto delle politiche fiscali sul PIL (e dunque anche sull’occupazione).

Un lavoro, di Alesina, Favero e Giavazzi, studia l’impatto di manovre restrittive da parte di Governi che con tale azione non desiderano tuttavia reagire a variazioni del ciclo economico ma alla volontà (politica) di ridurre il deficit pubblico. E mostra che per questi Governi la riduzione delle spese è meno recessiva che l’aumento delle tasse. Insomma, se volete morire, fatelo riducendo la spesa, sarà meno doloroso.

Perché dico questo? Zanella spiega che la loro analisi è importante perché: È di ovvio interesse capire cosa sia meno dannoso per l’economia, nel senso di meno recessivo: se il consolidamento fiscale è necessario per evitare il collasso delle finanze pubbliche (e se a causa di miopia politica siamo costretti a farlo nel mezzo di una recessione anziché, come sarebbe saggio, durante un boom) dobbiamo scegliere un modo di realizzarlo che non aggravi ulteriormente la crisi produttiva e occupazionale in atto. A molti piace chiedersi se è quindi meglio tagliare la spesa o aumentare le tasse.

E se potessimo fare meglio? E se potessimo invece non fare cose “meno dannose”, ma “cose utili e giuste”? E se il consolidamento fiscale non fosse necessario per evitare il collasso delle finanze pubbliche? E se potessimo prevenire il crimine piuttosto che uccidere gentilmente (killing softly) il criminale?

Ma come, direte voi. Zanella afferma, sulla base dei risultati di Alesina, Favero e  Giavazzi (AFG) che “L’Italia si trova in una fase recessiva ed è costretta a un importante aggiustamento fiscale. Secondo AFG questo dovrebbe consistere prevalentemente di tagli alla spesa pubblica”. Ecco, questo non è vero, non lo dicono.

Non lo dicono perché 1) AFG non considerano se una economia è in recessione o meno ma se la manovra di finanza pubblica causa più o meno recessione e 2) AFG non considerano governi “costretti a un importante aggiustamento fiscale”, ma governi che scelgono di fare “importanti aggiustamenti fiscali”.

Mi si lasci far apprezzare la seconda sottile distinzione. Sono cioè paesi che hanno un governo che, no, non reagisce a condizioni del ciclo economico, ma che ha un suo desiderio di stabilizzazione fiscale, probabilmente per motivi ideologici. Probabilmente è stato eletto sulla base di queste sue convinzioni ed ha dalla sua parte una buona parte dell’elettorato, che ha dunque grazie a questo Governo aspettative positive sul futuro ed è disposto ad accettare con ottimismo e senza stormir di fronde le decisioni governative.

Nulla a che vedere con la situazione italiana, dunque, dove 1) ci troviamo già nel mezzo di una recessione, e dove 2) l’aggiustamento fiscale ci verrebbe imposto dall’Europa contro il volere della maggior parte della popolazione, sfiancata e pessimista e pronta a protestare contro le misure governative. Quindi, a causa delle sue stesse assunzioni, c’è poco di questo studio da utilizzare per applicarlo al caso italiano: cosa che AFG tra l’altro evitano accuratamente di fare.

Zanella acutamente nota come lo studio di AFG ha un’altra “peculiarità”, che rende (non secondo Zanella ma certamente secondo me) i risultati poco rilevanti nell’attuale dibattito italiano: include nella minore spesa pubblica i minori trasferimenti che, come è noto, spesa (domanda) non sono ma mera redistribuzione da alcuni cittadini ad altri e che non generano minore o maggiore domanda alle imprese – se non per effetti minuscoli dovuti alla propensione diversa a consumare di chi riceve i soldi trasferiti rispetto a chi li versa. E gran parte di questi Governi considerati nel lavoro di AFG, nota Zanella, fanno, per ridurre il deficit, tagli dei trasferimenti. Con il che abbiamo un motivo in più per non calare questo interessante lavoro sull’Italia, perché Monti si sta concentrando, assieme a Bondi, sul tagliare la spesa vera, quella che genera domanda di beni, quella per beni e servizi. Ed è dunque di questa che vogliamo conoscere l’impatto sul PIL, che comunque è ben più ampio di quello dei trasferimenti!

Insomma, Piga, ma cosa vuoi?

Oh semplice.

Vorrei uno studio che mi facesse vedere, in quei periodi così drammatici chiamati recessioni, cosa succede al PIL ed all’occupazione, ma anche al rapporto debito-PIL, se:

a)    Aumento le tasse o

b)    Diminuisco le spese pubbliche o

c)     Aumento le spese pubbliche o

d)    Diminuisco le tasse.

Dove con spesa pubblica intendo ovviamente quella che genera domanda al sistema economico, acquisti di beni e servizi o investimenti pubblici, non i trasferimenti. Quella che sto raccomandando di aumentare, solo durante questo ciclo economico brutale, per salvare l’Europa (e lo faccio da quando è nato questo blog!).

Senza ovviamente nessuna distinzione tra politiche dovute ad una reazione al ciclo economico o a volontà politica di ridurre o aumentare il deficit: le voglio tutte, senza distinzione, per capire come prevenire il crimine e non uccidere nessuno, e cioè portare a casa crescita economica e stabilità di finanze pubbliche.

Beh si dà il caso, appunto, che grazie all’intuito da esploratore di Zanella e di Tonia Mastrobuoni giornalista della Stampa, questo studio esiste e non è niente male, una leccornia direi. Non solo perché è scritto da tre italiani (qui non c’è differenza con AFG) ma specie perché è appena uscito stampato dal Fondo Monetario Internazionale nella sua prestigiosa collana di Working Papers. Già, quello stesso Fondo Monetario Internazionale che deve ora consigliare Draghi e Monti su come si fanno le condizionalità di politica economica a fronte di tetti anti-spread della BCE.

Ebbene, siete pronti a sentire come si fanno?

Analizziamo bene i risultati di questo signor lavoro empirico di Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni Melina, freschi di stampa, luglio 2012:

a)    Indipendentemente dalle condizioni del ciclo economico, le manovre fiscali restrittive via minore spesa pubblica riducono nel breve periodo il PIL. Se sono iniziate in una recessione lo riducono su tutto l’orizzonte temporale della simulazione.

b)    Attuare politiche di consolidamento fiscale in periodi di crescita economica negativa è decisamente peggiore che in periodi di crescita economica positiva (anche in questi casi la politica fiscale di più tasse o meno spesa fa comunque scendere il PIL, ma meno);

c)     Nelle recessioni, i tagli di spesa fanno più male (al PIL) che gli aumenti delle tasse. Gli aumenti di spesa fanno invece “più bene” che le diminuzioni delle tasse.

d)    Se nelle recessioni si taglia la spesa (e il PIL comunque cala, come detto sopra) è meglio farlo gradualmente che non bruscamente. Ovvero, se nelle recessioni si aumenta la spesa pubblica (ed il PIL comunque aumenta) è meglio farlo bruscamente che non gradualmente.

e)    Addirittura leggiamo che “”nel contesto europeo, un credibile impegno per una attuazione responsabile del Fiscal Compact potrebbe essere necessaria.” Dove per “responsabile” si intende manovre restrittive più graduali.

f)      Le riduzioni di spesa pubblica durante le recessioni tendono nell’area euro a far aumentare i tassi d’interesse reali via deflazione non compensata da politiche monetarie sufficientemente espansive.

g)    Le riduzioni della spesa pubblica, specie se ampie, in media, ritardano la transizione verso la ripresa economica, perché rendono la recessione nel periodo successivo più probabile. Nel primo trimestre dopo la riduzione di spesa pubblica la probabilità di entrare in un regime recessivo aumenta di 15 punti percentuali, nell’area euro.

h)    In Italia, con una diminuzione brusca della spesa pubblica il livello del debito pubblico sul PIL comincerebbe a scendere solo dopo 14 trimestri contro i 12 di un approccio più graduale alla riduzione della spesa (purtroppo non mostrano cosa succederebbe al debito sul PIL in caso di aumento di spesa pubblica finanziato da aumento di tasse oppure con un aumento di spesa in recessione seguito da taglio di spesa in espansione).

Particolarmente importante per me e per quel che sostiene il blog da tempo è il punto c): gli effetti della spesa pubblica essendo più potenti delle tasse, la mia proposta (p.s.: di Stiglitz, l’ho solo rubata) in recessione di aumentare la spesa pubblica con pari aumento delle tasse (senza deficit) è decisamente espansiva. Peccato che gli autori non ne esaminino l’impatto sul rapporto debito-PIL: che sarebbe ovviamente quello di farlo calare, con PIL che cresce. Spesa pubblica espansiva oggi, senza deficit, maggiore PIL, minore debito-PIL, minori tassi d’interesse e parte il circolo virtuoso che permette a quel punto di rafforzare l’Europa come Unione da applaudire ed amare perché genera crescita e non sofferenza, finendo poi, nella ripresa, per riabbassare i livelli di spesa pubblica, l’unica cosa che i governi europei non hanno mai sorvegliato e preteso, e Dio sa se dovevano farlo allora, altro che austerità oggi.

Ora, dato a Cesare quel che è di Cesare, non resta che aspettare. Aspettare che il Fondo Monetario Internazionale non consigli a Draghi e Monti ed a tutti i Fondi Europei che ci siamo inventati in questi mesi di fare quello che Spike Lee ha sempre sostenuto: the Right Thing. Prima, ovviamente, che la faccia qualcun altro.

Grazie a Carlo Clericetti.