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Basta

Come fare a dare torto a Patte Lourde quando guarda con scetticismo a tutto questo normare e contabilizzare senza alcuna passione per fare politica economica vera? Il gioco delle tre carte dell’Irpef minimale scambiata con l’Iva minimale è sufficientemente deprimente e ridicolo e non avrebbe avuto bisogno di essere condito dal fallimento comunicativo di chiamare un piano di risparmi sulla luce “cieli bui”. In questo periodo, “cieli bui” equivale alla giacca verde della Merkel in Grecia, la stessa usata quando esultava scompostamente per i gol della sua squadra contro la Grecia: una completa mancanza di connessione con il reale, con le difficoltà delle persone.

E intanto giro per le strade della bella Bangor, in Galles e mi domando perché questa città in 10 anni si è rilanciata attraendo studenti stranieri che sono diventati l’export più importante di quest’area del Galles, mentre le nostre università non fanno nulla e non ricevono dal MIUR alcun input, premio, incoraggiamento, ammonimento, penalità per lo sviluppo o il mancato sviluppo a favore di una libera e piena immigrazione di studenti stranieri, che sono immensamente desiderosi di pagare tasse universitarie alte per formarsi in Italia.

Tutti i miei colleghi universitari o quasi sono impegnati da mesi a parlare di astruse ed idiotiche mediane per il loro reclutamento concorsuale, perché delle regole idiote sono passate e dunque sono diventate il vangelo, mentre l’interesse dei nostri giovani a essere Educati e dei giovani stranieri a venire in Italia è lasciato cadere come irrilevante. Potremmo essere, coi nostri Atenei, una potenza della cultura e dell’istruzione mondiale, siamo una nocciolina marcita dentro il suo guscio nelle mani della globalizzazione. Per l’incompetenza della politica economica che ci guida (e ovviamente, di quella che ci ha guidato prima, ancora peggiore in certe versioni).

Così come devo venire in Galles per vedere le università firmare convenzioni durissime e stringenti con autorità locali che dopo scandali di corruttela hanno deciso di ripartire non facendo leggi anti corruzione inutili ma formando i loro dipendenti sugli appalti pubblici e riorganizzando la funzione acquisti in modo da premiare il merito e la competenza. Tutta roba di cui Bondi non si occupa, perché non sono numeri da mostrare a a Bruxelles, e dunque, come dice oggi Enrico Marro sul Corriere “tagliare un altro miliardo e mezzo alla Sanità può avere un senso solo se si tratta di sprechi, ma chi ce lo garantisce con queste Regioni”? E chi ce lo garantisce, caro Marro, con questo Governo che, come mi ha detto un amico, è un ottimo Governo politico e un pessimo Governo tecnico? Per l’incompetenza della politica economica che ci guida, siamo nella palude di una recessione assurda del quasi 3% e con cifre per il 2013 che continuano a peggiorare (adesso si parla del 2014 come speranza di ripresa!!) che potevamo evitare anche con i nostri mezzi, per esempio pagando in 2 minuti i debiti con le imprese della P.A. emettendo più debito sul mercato.

Per chi non ci crede, si guardino gli esiti delle gare di Pompei, che doveva secondo questo Governo essere il punto di “rinascita” degli appalti in Italia, che il Sole 24 ore (grazie Riccardo) purtroppo omaggia Sole 24 Ore 08 10 2012_01 ma che in realtà sono state svolte senza la minima trasparenza per i cittadini. Tante belle parole, tanti disegni di legge, nessuna azione concreta per cambiare, nessuna presenza vera e permanente nel territorio di Pompei dopo il taglio dei nastri. Per l’incompetenza della politica economica che ci guida.

E intanto nelle carceri italiane, oggi come ieri, la gente dorme e vive in maniera indecente, perché nessuno si sforza di costruire nuove carceri o trasformare le caserme in disuso in carceri di bassa sicurezza. Nessuno alza un dito. Perché mancano i soldi. Pfui. Mediocrità allo stato puro.

Questo governo è vecchio, vecchio, vecchio ed il Paese non può accontentarsi di un leader più onesto e più probo solo perché ha paura che ne torni uno meno onesto e meno probo. Questo Paese ha bisogno di rinascere, non di sopravvivere. Questo Paese si merita molto di più, si merita un Governo che sappia essere all’altezza del desiderio di gioventù e rinnovamento che viene da tantissime persone di buona volontà. Se siamo rientrati nel consesso internazionale della politica, ciò non basta più. Per i nostri giovani, a loro lo dobbiamo, dobbiamo rientrare nel consesso della partecipazione aperta, piena di opportunità e occasioni per i cittadini e le imprese, dove ci si apre con volontà feroce e passione piena al bello, e dove i più deboli hanno più porte aperte dei più forti.

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A cosa serve disegnare un intervento di politica economica se non si è in grado di gestirlo?

Dal grande Direttore Patte Lourde riceviamo e volentieri pubblichiamo.

Le imprese efficienti non durano a lungo in un sistema economico inefficiente. Se concordiamo con questa affermazione, viene spontaneo domandarsi: se il nostro sistema economico è così inefficiente come hanno potuto le imprese italiane crescere ed affermarsi a livello globale, portando il nostro Paese nel G7?

Forse il sistema non era così inefficiente o meglio le inefficienze erano  riassorbite da meccanismi (svalutazioni) che pur qualche costo dovevano avere e su cui non ci siamo interrogati abbastanza.

Ora che questo meccanismo non c’è più e non è sostituibile da altri meccanismi di mimetizzazione, perché una svalutazione interna avrebbe effetti devastanti sui già deboli consumi e sugli investimenti, emerge prepotentemente la necessità di capire cosa non andava, cosa ci impedisce di competere con le economie più aggressive, e soprattutto se stiamo risolvendo il problema.

Credo che la nostra attenzione debba concentrarsi di più sulla qualità della pubblica amministrazione che – come un fattore della produzione non efficiente – oggi annulla parte del valore aggiunto nel Paese. Le troppe leggi, fatte soprattutto di eccezioni alla regola, tanto che non è più chiaro quale essa sia, imbrigliano l’azione amministrativa e la costringe in ambiti discrezionali ristretti.

Forse è stata la stessa Amministrazione che, per ridurre le responsabilità individuali, ha fatto sì che fosse imbrigliata tra regole ed eccezioni. Ma così facendo non ha aiutato il Paese e nemmeno se stessa.

La discrezionalità amministrativa va recuperata, cosa che richiede una pubblica amministrazione qualificata e cosciente del suo ruolo. Dove l’azione di controllo non sia punitiva del singolo (salvo il caso di dolo), ma sia a favore della buona amministrazione della cosa pubblica.

A cosa serve disegnare un intervento di politica economica se non si è in grado di gestirlo? Anzi c’è da chiedersi come si fa a concepirlo l’intervento senza il supporto analitico dell’Amministrazione preposta alla cura dell’obiettivo politico!

Oggi che si inizia a discutere di competenze delle amministrazioni locali sarebbe bene avviare un ragionamento su limiti della nostra architettura amministrativa e ridare fiducia ed efficienza all’intero apparato amministrativo.  Non dimentichiamo l’articolo 97 della Costituzione

« I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. »

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Il (vero) trilemma europeo

Ecco dove morde il mio trilemma politico: non si possono avere simultaneamente globalizzazione, democrazia e sovranità nazionale. Dobbiamo scegliere due dei tre.

Se i leader europei vogliono mantenere un regime democratico, devono effettuare una scelta tra unione politica e disintegrazione economica. O rinunciano esplicitamente alla sovranità economica o si adoperano per metterla attivamente al servizio dei cittadini. La prima cosa comporterebbe essere sinceri con i propri elettori e costruire uno spazio democratico al di sopra dello stato-nazione. La seconda cosa significherebbe rinunciare all’unione monetaria al fine di poter dispiegare politiche monetarie e fiscali al Servizio della ripresa di lungo termine.

Dani Rodrik, ieri.

Dani Rodrik è un valente economista. E ha scritto un leggermente confuso ma quanto mai importante articolo, stimolante, di cui sopra vedete un paio di citazioni chiave da me tradotte. Per facilitarvi la comprensione, vi dico che Rodrik intende per globalizzazione, in questo caso, la mancanza di volatilità del tasso di cambio, ovvero la moneta unica, l’euro. La sovranità nazionale di cui parla la oppone alla (maggiore) rappresentatività e al potere decisionale delle istituzioni politiche europee.

Non potrei essere più radicalmente in disaccordo con la sua analisi.

Il suo trilemma fa acqua perché implica la seguente (erronea) conclusione: non si può avere democrazia con un insieme di stati sovrani che esercitano le prerogative in termini di politica economica con una valuta unica; non si può avere una valuta comune  se si ha democrazia e stati sovrani; non si possono avere stati sovrani se si ha una valuta unica in un regime democratico.

Invece sì, si può. E lo dico perché abbiamo un caso che lo dimostra, un caso alquanto rilevante visto che è quello che ci ispira: gli Stati Uniti, che non hanno avuto un governo federale centrale fino al secondo decennio del secolo scorso, una democrazia con moneta unica in cui ogni stato gelosamente manteneva prerogative di politica economica senza cederle al centro.

Ma possiamo riportare l’analisi ai giorni nostri, guardando all’area dell’euro. Il tema portante di Rodrik? Se vogliamo mantenere la democrazia, dobbiamo scegliere tra euro con potere a istituzioni europee sovranazionali oppure politiche nazionali sovrane fuori dall’euro.

Sbagliato, di nuovo. Potremmo tranquillamente vivere ancora qualche decennio, fino a quando non maturiamo un’identità culturale collettiva europea, all’interno dell’area dell’euro e di un accordo economico complessivo in cui i Paesi in avanzo nei conti esteri si impegnano a effettuare politiche economiche espansive e (leggermente più) inflazionistiche per ridurre le tensioni politiche dei paesi in difficoltà che, alle prese con un disavanzo estero, al contempo si impegnano a effettuare riforme significative e appropriate  (senza austerità, perché altrimenti esse rischiano di vedere rovesciate le loro democrazie).

In realtà un trilemma però c’è. Eccolo il vero trilemma, lo chiameremo il trilemma di Piga:

non si possono avere simultaneamente austerità, democrazia e una valuta comune. Dobbiamo scegliere due dei tre.

Con austerità e valuta unica non si ha democrazia. Le troike di Fondo Monetario Internazionale e Commissione europea comandano.

Con austerità e democrazia non si può avere l’euro: se ne esce a voto di maggioranza delle popolazioni sofferenti.

Con democrazia e una valuta unica non si può avere austerità, ma una politica fiscale espansiva per tutelare l’occupazione, curare la recessione e assicurare la solidarietà – e dunque l’unione – nell’Unione.

La sfida è tutta qui.

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L’Europa oggi è in Galles

Wales, dice Wikipedia, ovvero il Galles, in germanico era tutto quello che era straniero alla terra teutonica. E così i britannici, se ben capisco, finirono per orgogliosamente rivendicarne il nome.

E dunque mi stupisco poco quando leggo della proposta della parlamentare leader del Partito gallese indipendentista, Leanne Wood, certamente più giovane dei leader circolanti in Italia,  che richiede di adottare una politica di appalti publici riservati alle imprese locali per “rilanciare l’economia” gallese.

48000  posti di lavoro potrebbero essere creati, sostiene.

Bellissima la sua frase, che varrebbe per i nostri noiosi politici europei in grigio: “c’è così tanto di più che potremmo raggiungere con una politica degli appalti pubblici creativa e moderna”

E poi l’affermazione vincente: “cambiare la composizione della spesa pubblica potrebbe essere un volano potente per la crescita, in assenza di poteri sostanziali in mano al Governo gallese: siamo vincolati dai nostri poteri limitati, ma ciò significa semplicemente che dobbiamo avere più fantasia”. Con una forzatura retorica si sbilancia: “la Germania acquista il 98,9% dei suoi acquisti pubblici da aziende tedesche, e poi ci chiediamo come ha superato questa tempesta”. E la Francia fa quasi lo stesso al 98,5, il Regno Unito è al 97. “Eppure tanto valore dei nostri acquisti pubblici gallesi si perde all’esterno.” Si sbilancia non sui numeri, probabilmente veri, ma sul fatto che solo tramite ciò i tedeschi stanno vicendo la sfida competitiva; comunque non c’è dubbio che quanto a interesse nazionale i tedeschi non sono secondi a nessuno.

Rilancia: perché non mirare ad un 90% per la fine del decennio per il Galles tramite politiche mirate alle imprese locali?

Perfetta economista: “in un’era di obbligo di austerità gli economisti (quali, chiede Piga?) hanno cominciato a parlare di politiche fiscali non convenzionali: non tagliare le tasse o alzare la spesa, ma cambiare la composizione della spesa, visto che non  possiamo indebitarci maggiormente o tassare meno.”

In realtà al Galles verrà negata questa possibilità dall’ipocrita Commissione Europea che taccerà la proposta di protezionismo mentre i numeri da lei citati mostrano come nella sostanza ogni paese ovviamente già riserva i suoi appalti alle sue imprese.

Ma ecco per voi la soluzione magica per il Galles, proposta da Piga: lasciate perdere le imprese locali, basta che proteggete le PMI, riservandogli gli appalti a tutte le PMI europee.

Lo si può fare sul sotto soglia, la Direttiva europea è muta su tutto ciò. E far vincere solo le piccole in gare gallesi vuol dire far vincere solo imprese gallesi. Ve l’immaginate voi una PMI italiana che va a fare una gara in Galles?

Ecco, viva il Galles nazionale e indipendentista: che proteggendo la sua identità protegge l’Europa e la sua futura competitività, come da 60 anni fa l’altra grande unione monetaria a cui aspiriamo paragonarci: gli Stati Uniti di America.

Grazie a Marta

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Rodrik’s trilemma is false. The euro trilemma is another one

That is where my political trilemma begins to bite: We cannot have globalization, democracy, and national sovereignty simultaneously. We must choose two among the three.

If European leaders want to maintain democracy, they must make a choice between political union and economic disintegration. They must either explicitly renounce economic sovereignty or actively put it to use for the benefit of their citizens. The first would entail coming clean with their own electorates and building democratic space above the level of the nation-state. The second would mean giving up on monetary union in order to be able to deploy national monetary and fiscal policies in the service of longer-term recovery.

Dani Rodrik, today.

To be sure: Dani Rodrik calls globalization in this case lack of exchange rate risk, i.e. a single currency, that is, among euro countries. To national sovereignty he opposes EU politically representative institutions.

I disagree fundamentally on his political trilemma, which has the following (wrong) implication: You can’t have democracy if you have a set of countries (states) with a common currency that exercise national sovereignty on their policies. You can’t have a common currency if you have democracy and national sovereign states. You can’t have sovereign states if you have a common currency and democracy.

You can, actually. When the United States did not have a Federal government, i.e. until basically the XXth century, it was a dollar democracy where states ruled.

But now let us look at the euro area.

Rodrik’s basic argument: if we want a democracy, we have to choose between the euro and European supranational institutions or national sovereign policies out of the euro. Wrong again: we could live very well for a while, until we mature a common European identity, under a euro area with a common agreement that current account surplus countries engage in expansive and inflationary fiscal policies to reduce tensions while current account deficit countries engage in reforms (without austerity, because with austerity you might lose democracy).

The true trilemma thus stands rephrased (we will call it the Piga trilemma, just to feel cool):

We cannot have austerity, democracy and a common currency simultaneously. We must choose two among the three.

If you have austerity and a common currency, you can’t have democracy. You have troikas.

If you have austerity and democracy, you can’t have the euro, you exit it, by majority voting.

If you have democracy and a common currency, you can’t have austerity, but fiscal expansion to save employment and cure the recession.

That easy.

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I numeri che dispiacciono alla politica

Feindre de croire un mensonge est un mensonge exquis – Fingere di credere ad una bugia è una bugia squisita.

Maurice Chapelan

Fallacia alia aliam trudit - Un inganno tira l’altro.

 Publio Terenzio Afro

 You don’t monkey with the numbers – Meravigliosamente intraducibile

Joe Stiglitz

E così (grazie a Keynesblog per la segnalazione) Obama è stato accusato (anche da persone di una qualche rilevanza nei salotti buoni Usa, come Jack Welch, ex “mitico” Presidente di General Electrics)  di avere “artatamente” influenzato le statistiche sulla disoccupazione americana, finalmente scesa sotto la soglia comunicativamente critica dell’8%, accompagnata da una “ripresina” del tasso di partecipazione, drammaticamente calante in questi ultimi cinque anni.

Il Nobel Joe Stiglitz in un fantastico scambio televisivo su MSNBC smentisce la possibile cospirazione.

Lo fa però in maniera paradossale e cioè raccontando di quando il Presidente Bill Clinton – che aveva nominato Stiglitz a capo della struttura tecnica di consulenza economica del Presidente, il Council of Economic Advisors -  anche lui alle prese con la rielezione, furioso per un cambiamento nel calcolare il PIL nelle statistiche che avrebbe ridotto il suo valore, chiese (“Can’t you stop this? Can’t you wait until after the elections?”) se non “vi fosse un modo per fermare ciò o rinviarne la comunicazione” da parte dell’ISTAT a stelle e strisce, il prestigioso Bureau of Labor Statistics.

Stiglitz, secondo il suo stesso racconto, apparentemente rispose “no, sono un’agenzia indipendente, non li possiamo toccare”. E soprattutto, aggiunge, “quello che possiamo fare è spiegare cosa siano questi (nuovi) numeri” ed il loro calcolo, cosa che apparentemente Clinton fece in campagna elettorale.

Sarà, ma il fatto sta che Clinton ci provò. Come fanno spesso i politici per fini elettorali.

E, come dice il Premio Nobel, è roba rischiosa, molto rischiosa.  “You don’t monkey with the numbers, because that destroys your credibility and the one thing we still have is credibility with the numbers”, afferma Stiglitz. Espressione splendida e difficilmente traducibile, “monkey with” significa qualcosa come non “pasticciare”, “non pasticci coi numeri, perché ciò distruggerebbe la tua credibilità”, come Governo, “perché se c’è una cosa che ancora abbiamo è la credibilità di questi numeri”.

*

Ci sono poi altri tipi di bugie sui tassi di crescita dell’economia che meritano la nostra attenzione. Sono quelle che da sempre caratterizzano i documenti di finanza pubblica europea, specie da quando abbiamo scritto delle regole di limiti “costituzionali” legate al valore del PIL; come quelle di deficit e debito su prodotto interno lordo.

Ovviamente i governi europei hanno un incentivo in più sovrastimare questa statistica così importante: non solo per far bella figura sulla loro capacità di generare benessere, ma anche per evitare di mostrare conti pubblici che non obbediscono alle regole  fissate a Bruxelles.

Quando poi arriva una recessione grave questi incentivi a “negare l’evidenza” diventano ancora più ovvi. E non è detto che siano cattive bugie, anzi.

Voi sapete che l’Italia nel 2012 era prevista crescere dell’1,2% secondo i documenti ufficiali del 2011. Ora sappiamo che (de)crescerà del circa 2,4%. Un errore di previsione del 3,6% non è nemmeno pensabile possa avvenire in così breve tempo. C’è del politico dietro di esso. Così come le stime attuali per il 2013, seppur negative, sono probabilmente rosee. Basta guardare al riassunto fatto dal centro studi di Confindustria dove vedete che Citigroup stima per l’anno prossimo una decrescita ben più ampia, attorno al 2,2%, dello 0,2% governativo.

Che la Commissione Europea non dica nulla al Governo Monti su questi scenari di PIL improbabilmente rosei significa solo che l’accordo è europeo e che in realtà tutti sanno benissimo che cosa significherebbe correggerle al ribasso: meno entrate, più deficit e più pressione politica (per esempio da parte della popolazione tedesca) per maggiore rigore e dunque maggiore austerità e decrescita nei paesi in crisi, aggravando la crisi. Già perché la follia è nota tutti che l’austerità è recessiva, ma non si può dire perché se lo dicessimo dovremmo anche ammettere che il contrario dell’austerità, l’espansione fiscale, è benefica per l’economia.

Quindi meno male che si menta: così non siamo obbligati a fare più austerità a causa delle idiotiche regole di politica economica che ci siamo dati.

E meno male che si menta anche per un altro motivo: ve lo immaginate cosa succederebbe se Monti andasse oggi in televisione e dicesse alle imprese italiane che la crescita 2013 non sarà del -0,2% ma, per esempio, del meno 1,5%? Quei pochi che vorrebbero ancora investire in Italia non lo farebbero più (“con questa economia? perché dovrei scommettere sul futuro?”), lanciando una nuova, l’ennesima, spirale perversa di dati pessimi, mancanza di fiducia, dati ancora peggiori ecc.

Sorge però a questo punto una innocente domanda: ma siamo sicuri che mentire sia sempre la strategia giusta? Non è che forse non sentendosi dire la verità la società rischia di non cercare mai la giusta soluzione? E non sarebbe meglio fare come fece Clinton, spiegare questi numeri alla popolazione? E non ne guadagneremmo il recupero di quello che in Europa ormai non abbiamo più, la credibilità dei numeri e dunque, in fondo, dei nostri Governi?

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Hall of Fame

Guardavo oggi tutti quei bellissimi atleti che si presentavano in borghese nello stadio Olimpico, chi attempato, chi senza più capelli, chi claudicante, chi smemorato, chi nello spirito, il cui ricordo era rappresentato dai figli, addirittura dai nipoti. Cosa li unisce?

Tutti hanno corso, calpestato e mangiato la terra dei campi da gioco. Tutti, come sempre, hanno perso più volte che vinto, addirittura c’era chi non c’è più perché ha deciso di rinunciare per sempre alla corsa della vita. Come tutti gli altri insomma. Ma loro hanno qualcosa in più.

Ci hanno provato. Ad eccellere e cadere davanti a tutti, a sfidare, a raccogliere il loro talento, quello che ognuno di noi ha dentro, che poteva essere buttato, e a gettarsi nella mischia. Tutti hanno lavorato duro, durissimo, per sopravvivere anche solo dignitosamente sul campo.

Penso ai giovani di oggi e spero che vogliano fare altrettanto, uniti quando possono per affrontare le sfide più grandi di ognuno di loro preso singolarmente, o da soli, quando necessario. Ascoltino anche loro la voce di chi non c’è più e capiscano che questo è il loro tempo di giocare, contro tutte le avversità. Ascoltino la voce che gli dice “carpe diem” che deve significare solo una cosa: “lascia una traccia”, una traccia di bello in questo mondo. Sacrificatevi, e spendetevi, ma per il bello. Non siete macchine, siete uomini e donne, donne e uomini che possono lasciare una traccia diversa e piena di bello.

Malgrado tutto, tutto è nelle vostre mani.

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I professionisti dell’anti corruzione

Ieri all’incontro di Transparency International per la presentazione presso la sede delle ACLI dei rapporti sui sistemi di integrità in Europa ed Italia ho erroneamente perso la pazienza.

O forse ho deciso di attraversare il guado senza sapere bene se facessi la cosa giusta.

Ma quando ormai veniamo chiamati, sempre gli stessi, a parlare di corruzione, siamo tutti lì o quasi a dire che questa legge è meglio che niente ed è essenziale che passi come simbolo che ci siamo, che la lotta è cominciata. Ma cosa?

Ho parlato di noi come di professionisti dell’anticorruzione. Le stesse facce, che non hanno mai visto un poliziotto o un sindaco che si confronta con la vera problematica del vivere giorno dopo giorno in un ambiente in cui è impossibile non fare compromessi perché manca il supporto del contesto, e questo è forse ovvio, ma anche quello dello Stato.

Parliamo in maniera entusiasta dei whistleblowers, dei testimoni di corruzione, come se questi non dovessero, per funzionare, avere una protezione ed una remunerazione economica tali da sin da subito incoraggiarli a esporsi al micidiale rituale di accusa - di essere un “infame”, un “delatore”  – con un appropriato compenso per il dramma di susseguente isolamento sociale e a volte fisico che dovranno soffrire. Protezione e remunerazione assolumente assenti in questa legge.

Parliamo felici di Autorità anti corruzione sapendo bene che alla fine avrà 10, 20 impiegati e che nulla è stato fatto per dargli poteri significativi.

E poi abbiamo una montagna di carte che dovranno essere compilate da ogni amministrazione pubblica (e chi le controllerà?), destinate – al più – a essere oggetto di altri convegni a cui verrò invitato, oppure a diventare carta straccia su internet, il luogo mitologico della trasparenza che non morde se non c’è dietro la volontà e la capacità delle istituzioni di combattere seriamente la corruzione. Mi immagino queste amministrazioni quanto meno tempo avranno per aiutare cittadini ed imprese.

E nulla è stato fatto per corrompere seriamente la corruzione dando gli appropriati incentivi alla professionalizzazione dei dipendenti pubblici, nulla sarà stato fatto per fornire dati che sì abbiamo in pancia ma che nascondiamo a tutti su appalti pubblici svolti e su corruzione commessa e condannata, dati che permetterebbero ai controlli di funzionare perché meglio mirati. Ma poi quali controlli, se non investiamo ora e subito dei soldi sugli ispettori? Perché continuiamo a fare convegni teorici e articoli della stampa supina su indici e classifiche mostrando che l’Italia non è ben classificata ma non osiamo spendere quei tre quattro soldi in più per tirar fuori i dati e le correlazioni per aiutare polizia, magistrati, territorio in una seria battaglia per identificare e corrompere la corruzione?

Ero scorato, ieri sera. E mi scuso con i miei compagni di serata, gli altri professionisti dell’anti corruzione. Perché in fondo ha ragione Don Ciotti a sostenere questa battaglia per l’approvazione della legge, perché meglio un nulla o quasi che passi che una ennesima sconfitta e umiliazione che sarebbe la sua non approvazione.

A questo siamo ridotti. A elemosinare attenzione dal legislatore quando dovremmo costruire istituzioni decorose in cui ai tanti uomini e donne di buona volontà sia riconosciuto il rispetto che si meritano e siano dati gli strumenti per lavorare con onestà, qualità e rigore nella Pubblica Amministrazione.

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Lo spread è stanco, vuole riposare con la crescita della domanda

L’Institute for International Finance (IIF) non è in realtà un sindacato volto alla tutela dei diritti dei lavoratori. Riunisce da 30 anni le più importanti istituzioni finanziarie del mondo (qui leggete la sua missione e qui leggete i suoi consiglieri, è presente anche l’AD di Unicredit Ghizzoni).

Eppure, di fatto, è tra le prime organizzazioni a chiedere in maniera intelligente, seppur timorosa, la fine della stupida austerità. Se i banchieri lo chiedono, lo chiedono i mercati, lo chiede lo spread, stravolto di stanchezza di rimanere sempre così in alto. E’ tempo che la crescita economica abbassi lo spread, come da ormai 1 anno sosteniamo. E ora che lo chiedono anche i banchieri, forse qualcuno ascolterà, che dite?

Leggiamo bene il passaggio chiave della lettera inviata dal Presidente dell’IIF ai due Presidenti dei Comitati rilevanti del Fondo Monetario Internazionale:

… fondamentalmente, condividiamo l’opinione che vi sia un urgente bisogno di ri-orientare l’attuale decisa direzione dei programmi di aggiustamento nei paesi periferici dell’area euro da un aggiustamento fiscale profondo e dal raggiungimento di obiettivi di rapporto debito-PIL verso un orientamento alla crescita di medio termine … Un rilancio della crescita, in breve, deve ricevere maggiore priorità, non solo tramite una intensificazione delle riforme strutturali per migliorare la competitività ed espandere l’offerta, ma anche tramite sforzi per evitare che la domanda si contragga eccessivamente. Misure che sostengano l’espansione di investimenti pubblici meritano di essere rafforzate in alcuni paesi come la Grecia, perché possono fare molto per sostenere sia l’offerta che la domanda. Approviamo, in tale contesto, l’ammorbidimento degli obiettivi fiscali per Portogallo e Spagna, malgrado tali aggiustamenti siano più utili se  concessi ex-ante che non ex-post. E’ urgente completare la verifica del programma greco, con una dilazione nel raggiungimento degli obiettivi di deficit  pubblico. Quest’ultimo può e potrebbe essere ottenuto senza nuovi finanziamenti semplicemente diminuendo i costi dei tassi d’interesse sui crediti ufficiali, coerenetemente col minore costo del debito di mercato.

Se ciò è concesso a Portogallo, Spagna e Grecia, non vediamo perché non debba essere concesso all’Italia, paese la cui congiuntura è stata stupidamente distrutta dall’Europa di chi non sa cosa sia la politica economica.

Insomma, la goccia scava la pietra. La goccia scava la pietra. La goccia scava la pietra. Non molliamo.

Grazie Ale.

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L’orgoglio delle PMI, il pregiudizio dell’Europa

Per la prima volta nella mia vita a Cagliari. E dire che veniamo da lì o quasi, Villacidro.

Un sole stupendo, una luce incredibile che sbatte sulla pietra bianca del centro storico e illumina di giorno il mare che abbraccia la città. Bellissimo.

Come bellissimo è stato parlare agli uomini ed alle donne che lavorano nelle stazioni appaltanti sarde ed ai proprietari di piccole imprese sarde. Avviamo con loro (Tor Vergata con Promo PA ed altre imprese) un percorso di networking, formazione, informazione a imprese e stazioni appaltanti della Sardegna per usare gli appalti pubblici come volano di sviluppo per il territorio.

E’ dura per le PMI. E’ dura per tutte le imprese. Come dice Gavino Sini all’incontro: “2 individui scappano, inseguiti da una tigre, a piedi nudi. Uno si ferma per mettersi le scarpe da ginnastica. L’altro rallenta, lo guarda stupito e gli dice “ma che fai, corri, che anche con le scarpe da ginnastica la tigre ti raggiunge”. E l’altro: lo so, ma io devo correre più veloce di te, mica della tigre”.

E’ così. Gli imprenditori, i piccoli imprenditori che sanno cosa vuole dire correre, senza mai fermarsi, sanno che la tigre della globalizzazione gli è dietro, e sanno anche che ogni giorno devono infilarsi le scarpe da ginnastica per sopravvivere, non per salvarsi. Ma le scarpe da ginnastica costano, e a volte gli tocca correre a piedi nudi. E cadere più spesso preda della tigre. A meno che.

La domanda pubblica è quella palestra per affinare i muscoli delle gambe e correre più veloce, con o senza scarpe. Dove si impara a correre meglio.

Quando gli dico che in questa crisi gli appalti pubblici sono il volano per la crescita delle PMI li vedo che sono d’accordo, stra d’accordo, anche se rimangono stupiti di apprendere che il 3/4 del mondo riserva quote di appalti alle PMI mentre in Europa no. Leggetevi cosa dice il Viaggiatore imprenditore Pino Gori, e capirete di cosa parliamo, del pregiudizio europeo.

Quando racconto che i raggruppamenti temporanei d’impresa devono essere vietati per le grandi imprese che possono partecipare da sole alle gare di grande dimensione e autorizzati solo per le piccole, così che possano partecipare a gare a cui altrimenti non avrebbero la dimensione per essere ammesse, così come previsto dall’Autorità antitrust da anni, mi guardano interessati.

Quando il Direttore del Centro Regionale di Programmazione della Sardegna, Cadeddu, propone di abbassare grandemente i fatturati per poter partecipare alle gare in cambio tuttavia di maggiore rigore e competenza nei controlli sulla qualità e sulle penali, sono tutti d’accordo.

Ma soprattutto, quello che noto e mi commuove quasi è che sono grandemente orgogliosi del lavoro che fanno. Come Alessandro Mura, che è conscio che la sua azienda di pulizie di 80 persone, in costante crescita, deve ancora migliorarsi per poter raggiungere la qualità che lo porterà ad esportare i servizi in Continente e chissà dove un giorno. “Sono emozionato, non mi piace parlare, sono abituato a lavorare”, eppure parla meravigliosamente con i suoi occhi fieri, “e c’è tanto da fare”.

Quando si parla di crisi, alzano il capo con orgoglio e ripetono la storia “del contadino che aveva 1 cavallo, il cavallo che scappò, e ai conterranei che lo consolavano dicendo “che sfortuna”, lui rispondeva “fortuna, sfortuna, chi sa”. Già. Fortuna, sfortuna, chissà.

C’è un’Italia alla fine del tunnel buio, un’Italia bellissima che si rifonderà con i valori di questa gente, facendo dimenticare tutto questo schifo che leggiamo. Un raggio di sole bellissimo in fondo al tunnel.