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M. Hollande, Don’t Settle for Anything less than the Death of Austerity

Will M. Hollande make it? Will he change Europe and save the euro?

To be on the safe side, the President of the German Bundesbank launches the attack before M. Hollande has had time to have the first breath as President de La Repubblique. And quite an attack it is: “Monetary policy in the eurozone is geared towards monetary union as a whole; a very expansionary stance for Germany therefore has to be dealt with by other, national instruments.” As Krugman explains: “I’m pretty sure that this is code for saying that Germany will try to prevent any inflationary impact of low ECB rates with fiscal contraction. Austerity for all!”.

But this is fair game. We should expect the Germans to be nipping at the French’s ankles. The key issue is how will M. Hollande react to this. Somebody’s already saying there will be no true reaction. No true battle. Surrender to austerity.

I worry about this. I like Hollande. But his first statement on victory night was: “l’austerité n’est pas une fatalité”. Austerity is not mandatory. OK, although it could have been stronger, something like: “l’austerité est intolerable” and I don’t need to translate. It would have set the right tone for the battle. In the necessary confrontational mode.

Because no greater risk than settling for the lowest common denominator, the mantra that one can read ad nauseam these days in Europe: “austerity is necessary but not sufficient” to generate growth. Wrong. In this recession, austerity is neither sufficient (obviously) nor necessary to generate growth.

Because growth is a pre-condition for rigor, for stability of public accounts. With no growth, no stability. With austerity, so long growth, so long stability.

Thank God we have the International Monetary Fund (IMF) to remind us of that. The April IMF Fiscal Monitor is out. Its title is “Balancing Fiscal Risks” but the true star of the report is the word … “multiplier”, cited 117 times. The multiplier: how much output changes when public spending changes.

And the results are quite clear: “Fiscal tightening can generally be expected to reduce short-term growth, but the negative impact of tightening may be amplified by some features of the current economic landscape…”

Yes. Let’s see what lanscape we are talking about here. What matters for M. Hollande is the following graph.

It shows that “… when multipliers are large and/or the initial level of public debt is high, fiscal adjustment may affect debt ratios only with a lag and may even appear counterproductive in the short run. Figure 7 shows the hypothetical change in the public debt ratio with respect to the baseline after a government introduces a package of discretionary fiscal measures of 1 percentage point of GDP. Assuming an average first-year fiscal multiplier of 1.0, in countries where government debt is above 60 percent of GDP, the direct effect of fiscal consolidation on the debt ratio is likely to be more than totally off set in the first year by the indirect effect of a lower GDP.

In less technical terms: take Italy for example, let it raise (and not cut) public spending by 1% of GDP. Not only will employment and GDP rise, but so will stability: the debt-GDP ratio would decline by 1%.

Growth, and not austerity, ensures stability.

M. Hollande, first moves are critical. Your strength will be judged in these critical first few weeks. Go forward for the future of our euro. Attack. Put austerity under attack. Under trial. Relentlessly. Bargain relentlessly. Do not flinch. Not even one inch.

What is at stake is the euro. Nothing less, nothing more. The future of so many generations is likely to be in your hands. Nothing less, nothing more. We are with you. Don’t settle for anything less than the death of austerity. 

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Combattere il declino come un alpino

Edmund Phelps, Premio Nobel per l’economia, statunitense, diceva qualche tempo fa che questa crisi, questa recessione, è una distrazione. Fumo negli occhi. Distrazione da fattori ben più preoccupanti. Lo preoccupava, e lo preoccupa tuttora, il declino dell’Occidente. Che ha cessato di essere da circa 30 anni la locomotiva del mondo, cedendo lo scettro ai paesi ex-emergenti (perché emersi sono).

In parte temo che abbia ragione, anche se questa recessione va combattuta con forza, specie in Europa, per i suoi drammatici risvolti politici e per il veleno che inietta nell’euro.

Cosa preoccupa ora gli americani come Phelps, al di là della crisi? E’ bene chiederselo, perché nel farlo si diviene preveggenti sul futuro dell’Europa che, a distanza di uno o due lustri, spesso si trova a fronteggiare fenomeni di lungo periodo simili a quelli dei cugini d’oltre Atlantico. La terziarizzazione, la finanziarizzazione e il contestuale calo dei risparmi, sono solo alcuni esempi di questi andamenti che l’America esporta inesorabilmente.

Ebbene l’America oggi – lo leggo troppo spesso per non notarlo – si interroga sul crescente divario tra individui con tanta istruzione ed individui che ne hanno meno. I dati forniti dall’ex consigliera di Clinton, Laura Tyson, mostrano come si sono evolute le remunerazioni orarie dei lavoratori Usa dal 1979 a seconda del loro titolo di studio. E non sono dati rassicuranti.

 

 

 

 

Dal basso verso l’alto: mancanza di diploma, diploma, un po’ di università, laurea, più della laurea.

Ma il dramma non è solo nelle remunerazioni. E’ anche nelle opportunità di lavoro.

Il dramma lo sintetizza, nel complesso, bene l’economista Rajan: “35% di coloro tra  i 25 ed i 54 anni senza diploma  non hanno un lavoro, e coloro che lasciano la scuola superiore hanno tre volte più probabilità di essere disoccupati degli studenti laureati … Più preoccupante, tuttavia, è il fatto che, negli ultimi anni, i figli di genitori abbienti abbiano avuto molte più possibilità di ottenere la laurea dei loro predecessori ricchi nel passato, mentre i tassi di completamento dell’università per i figli di famiglie povere sono rimasti, sempre, bassi. Il distacco tra redditi creatosi dal distacco tra livelli di istruzione tende a consolidarsi.”

Stiglitz nel dibattito con Monti ha ben spiegato lo spreco di risorse insito in questi numeri. Bassi salari sono segno di bassa produttività che dunque derivano da scarsi investimenti in competenze e conoscenze (spreco n. 1), ma bassi salari, accoppiati a scarsa mobilità, sono anche causa di scoraggiamento che spinge a non investire in competenze (spreco n. 2), rendendo gli individui più fragili e più pronti a scoraggiarsi definitivamente, uscendo dalla forza lavoro (spreco n. 3).

Gli americani stanno pensando ad una strategia complessiva che parta dalle scuole, si estenda alle università per completarsi in progetti di supporto ai giovani senza lavoro. Quando guardo ai numeri che li preoccupano qualcosa cattura il mio occhio. Guardatele nelle due figure sotto. Sono tratte dal rapporto McKinsey, in cui i consulenti si concentrano sulle debolezze Usa.

In questo grafico, i risultati nei test di matematica e di scienze degli studenti americani (in arancione).

Il secondo mostra i soldi spesi in istruzione per punti ottenuti nei test di cui sopra. Gli Stati Uniti spendono più di tutti per ottenere 1 punto in più, segno di mancanza di incisività nella formazione?

So che avete già notato tutto. Sì, l’Italia nel primo grafico è peggio degli Stati Uniti, e nel secondo è seconda solo agli Stati Uniti. Il loro dramma è il nostro dramma.

Badate bene, io che ho appena entusiasticamente firmato per un dipartimento con economisti, aziendalisti e filosofi, esperimento unico in Italia, non sono un fanatico della matematica nel dibattito che stupidamente la contrappone alle materie classiche. Credo tuttavia che probabilmente non faremmo terribilmente meglio nemmeno nelle materie umanistiche (un po’ meglio sì, d’accordo).

E che dunque quello che preoccupa l’America deve preoccupare noi, ultimi nelle classifiche europee nel tasso di laureati.

Dobbiamo mettere in moto la rivoluzione, ora, delle nostre scuole ed università. Ora. Perché possa incidere tra 20 anni. Sarà un processo lungo, armatevi di pazienza. Ma che va avviato, ora.

Ho appena letto un bel saggio di un professore emerito (oggi in pensione) di una università inglese, Alan Ponter, che all’epoca della rivoluzione Thatcher dei tagli all’università era Presidente dell’Associazione dei Professori Universitari (il sindacato dei professori) alla University of Leicester. Non pare essere stato né allora né oggi un fan di Margaret Thatcher. Eppure quello che scrive fa capire come da quell’iniziale uragano di riformismo è nato un fiore solido e duraturo che poco sembra avere a che fare con tagli alla spesa, quanto di riqualificazione delle spesa universitaria:

“Da 40 università che vi erano nel 1980 il loro numero è cresciuto a più di 100 oggi. Quando io andavo all’università solo il 5% della mia generazione riusciva ad andare all’università mentre ora siamo vicini al 40% ,un tasso che probabilmente non scenderà.”

Ecco quando andrò in pensione, se tutto va bene tra 20 anni, vorrei poter dire lo stesso del mio Paese. Assomiglierò, spero, a questo bellissimo alpino fotografato da Luca Giocondo all’Adunata nazionale a Torino nel 2011.

 

 

 

 

 

 

Ma soprattutto quello che conta è che avremo probabilmente vinto metà della battaglia contro il declino. Soprattutto avremo dato il sorriso a tanti nuovi alpini, come quello nella foto sotto, e allora e solo allora potremo veramente dire di avere meritato la nostra pensione.

Basterà avere combattuto con convinzione, sulle montagne esposte al vento ed alla neve, la nostra battaglia per dargli, a quei giovani, quella libertà che viene solo dall’avere ampliato le loro opportunità.

 

 

 

 

 

 

 

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The Smoke in our Eyes of this Recession

A few months ago my mentor at Columbia and Nobel Prize Edmund Phelps came to visit Rome for a Tor Vergata Conference. He warned against focusing too much on the current crisis, the one that started and did not end in 2008.

He called it “smoke in our eyes”, distracting us from a much larger and more persistent problem, the one of the “long slump”, the 40 years decline that has occurred in the average growth rate of Western civilization that has left the role of “locomotive of the world” to Asia and other emerging countries since the mid 1970s.

I might argue (and this blog argues) that there is more to this crisis than simply smoke in our eyes and that we should endlessly fight this recession. But Phelps is right: we should also focus into understanding the cause of our (Western long-term) decline.

Not an easy job. But I was reminded of all this when I saw this graph in a NYT piece by Laura Tyson, who served as chairwoman of the Council of Economic Advisers under President Clinton.

It speaks by itself. Scary. I was reading Rajan in Foreign Affairs and while on many things in his piece I strongly disagree with him, I cannot deny he is right when he interprets indirectly this graph by saying:

Think of it this way: when factories used mechanical lathes, university-educated Joe and high-school-educated Moe were no different and earned similar paychecks. But when factories upgraded to computerized lathes, not only was Joe more useful; Moe was no longer needed.

Not all low-skilled jobs have disappeared. Nonroutine, low-paying service jobs that are hard to automate or outsource, such as taxi driving, hairdressing, or gardening, remain plentiful. So the U.S. work force has bifurcated into low-paying professions that require few skills and high-paying ones that call for creativity and credentials. Comfortable, routine jobs that require moderate skills and offer good benefits have disappeared, and the laid-off workers have had to either upgrade their skills or take lower-paying service jobs.

Unfortunately, for various reasons—inadequate early schooling, dysfunctional families and communities, the high cost of university education—far too many Americans have not gotten the education or skills they need.

Others have spent too much time in shrinking industries, such as auto manufacturing, instead of acquiring skills in growing sectors, such as medical technology. As the economists Claudia Goldin and Lawrence Katz have put it, in “the race between technology and education” in the United States in the last few decades, education has fallen behind. As Americans’ skills have lagged, the gap between the wages of the well educated and the wages of the moderately educated has grown even further. Since the early 1980s, the difference between the incomes of the top ten percent of earners (who typically hold university degrees) and those of the middle (most of whom have only a high school diploma) has grown steadily. By contrast, the difference between median incomes and incomes of the bottom ten percent has barely budged.  The top is running away from the middle, and the middle is merging with the bottom.

The statistics are alarming. In the United States, 35 percent of those aged 25 to 54 with no high school diploma have no job, and high school dropouts are three times as likely to be unemployed as university graduates. What is more, Americans between the ages of 25 and 34 are less likely to have a degree than those between 45 and 54, even though degrees have become more valuable in the labor market. Most troubling, however, is that in recent years, the children of rich parents have been far more likely to get college degrees than were similar children in the past, whereas college completion rates for children in poor households have stayed consistently low. The income divide created by the educational divide is becoming entrenched.

We are discussing of a huge amount of resources – to use a Stiglitz’s expression – wasted, not only in the sense that many are not employed but in the sense that their capacity is, possibly, not put to full use. Low wages (for individuals with low human capital) are a sign of low productivity, yes in that sense, but also that low wages and more inequality depress these people and discourage them from putting to use their full potential. Yes I know, some people say that inequality encourages people to seek higher rewards, but the graph above to me tells a different story.

The more so the more globalization asks from the West to become the brain of the world.

Since what happens in  United States is often destined to happen in Europe after a few years, Europeans should work hard to avoid this trend from happening in Europe. Knowing that this cannot be solved with one decree but with a long-term strategy, that looks at the role of teaching, learning, training and re-training. Many organizations in the US are starting to discuss this (see also the Tyson piece). We Europeans should too.

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Dalla Mafia alle PMI, meglio che dalla Mafia alla Mafia

Leggo che il Ministro Cancellieri parla di un nuovo approccio alla gestione dei beni sequestrati alla mafia.

Dal Corriere: Anna Maria Cancellieri che in un’intervista al Sole 24 Ore e all’Unità arriva anche a prospettare la possibilità di vendere i beni sequestrati alle cosche. Un aspetto sul quale in passato c’è stata sempre molta cautela per il pericolo che gli stessi mafiosi potessero rioomprarsi, anche sotto falso nome, quello che è stato confiscato dallo Stato. «La legge che regola il sequestro e la confisca dei beni alle mafie va rivista -dice il ministro- perchè è stata concepita quando i sequestri erano pochi e soprattutto vanno rivisti i criteri base dell’Agenzia dei beni confiscati…Il rischio che tornino nelle mani dei clan esiste, ma vorrà dire che saranno nuovamente sequestrati e confiscati e lo Stato ci guadagnerà due volte». ».

Spero che l’approccio nuovo veramente non stia in tutto ciò. Sarebbe drammaticamente vecchio, per non dire di peggio.

Il Ministro Cancellieri potrebbe fare invece qualcosa di molto più innovativo e semplice. Usare questi beni immobili per affittarne gli spazi ad un prezzo molto conveniente (minore di quello di mercato) a nuove imprese, start-up, per un periodo non superiore a 3 anni, il tempo necessario per permettere a queste di dimostrare con meno ansia la loro bravura.

Lo fanno gli inglesi, Ministro, perché non possiamo farlo anche noi? Un piccolo sforzo per una grande battaglia di civiltà, Ministro, che ne dice?

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Vacanze Romane per il Fondo? IMF Visit: Roman Holidays?

Se non sbaglio Alessandro Leipold ha lavorato presso il Fondo Monetario Internazionale e quindi è quanto mai utile il suo ricordarci dell’atterraggio a Roma a breve della squadra di esperti del Fondo Monetario Internazionale per la verifica annuale dello stato dell’economia e della finanze pubbliche italiane.

If I am not mistaken Alessandro Leipold worked at the International Monetary Fund, and so his article reminding us of the soon to come visit from Washington of IMF officials to review Italian economic developments is a useful service.

Apprezziamo il tono diplomatico del suo discorrere, ma troviamo conforto che anche lui ritenga importante e auspicabile ”un approccio di critica costruttiva piuttosto che un’eccessiva smussatura degli angoli, con un linguaggio asettico privo di contenuti e di raccomandazioni concrete.”

We welcome his constructive tone in the article but we also appreciate and share his view that “an approach of constructive criticism will ultimately be preferable to an attempt to smooth any differences via aseptic drafting, devoid of practical content and recommendations.”

Il Fondo Monetario Internazionale ha un potere importante, quello di chiedere ed ottenere tutti i dati a disposizione dei governi. E lo fa in nome di un principio cardine per il Fondo: la trasparenza dei conti pubblici, ai quali l’istituzione ha dedicato un importante codice di condotta e di prassi corrette.

The IMF has an important power, the one of requesting and obtaining available data from governments. It does do in the name of the key IMF principle of transparency of public accounts, sanctioned by the important IMF Code of Good Practices. In it you can also read, among other relevant things that:

“Purchases and sales of public assets should be undertaken in an open manner, and major transactions should be separately identified…. The central government should publish information on the level and composition of its debt and financial assets, significant nondebt liabilities (including pension rights, guarantee exposure, and other contractual obligations)…”

In esso si può leggere per esempio che: “l’acquisto e vendita di attività pubbliche dovrebbe essere effettuato in maniera aperta … Il governo centrale dovrebbe pubblicare l’informazione sul livello e la composizione del proprio debito e di altre attività finanziarie, nonché su rilevanti importanti passività diverse dal debito (compresi diritti pensionistici, esposizione alle garanzie ed altre obbligazioni contrattuali)….”.

Quindi siamo certi che, contrariamente alle precedenti visite, il Fondo questa volta chiederà ed otterrà dal Governo italiano i dati sulle esposizioni in derivati ad oggi e sulle transazioni effettuate durante quest’anno. Nonché sullo stato delle garanzie pubbliche date alle banche in questi ultimi mesi. La mancanza di informazioni su questi dati certamente sta influenzando negativamente il livello dei nostri spread. E’ tempo di porvi rimedio ed il Fondo potrà certamente segnalare a Monti l’esigenza di pubblicare tutta l’informazione disponibile. O, in assenza di azione da parte anche di questo Governo, farlo esso stesso.

So we are confident that, differently from the previous visits, the IMF this time around will want to ask and obtain from the Italian Government the date on its derivative exposure and transactions, and also on the guarantees granted to banks in these past few months. Lack of information on these data is certainly negatively affecting our spread level with the German Bund. It is time to stop this ambiguity and no better actor than the IMF can signal to PM Mario Monti the need to publish all the available information. Or, in the absence of action even by this Government, to do it itself.

After all, the IMF is not here for its Roman Holidays. At least we hope.

In fondo, non dovrebbero essere Vacanze Romane per quelli del Fondo. O no?

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Il tempo dell’Europa

Pubblicato su Il Foglio di oggi.

E’ il tempo. Che non va. L’Europa e l’Italia hanno perso l’idea del significato e valore del tempo, lo hanno distorto, drogato, piegato.

E’ utile ricordare che i più grandi successi economici europei di questi ultimi trent’anni hanno avuto bisogno di, tanto, tempo. Parlo del Regno Unito, trasformatosi da economia incrostata e burocratizzata a flessibile centro di servizi avanzati per il pianeta – bancari, universitari, consulenziali – grazie addirittura a due governi di colore diverso, Thatcher e Blair, che hanno agito con un impossibile coordinamento spazio temporale con riforme coraggiose, specie nel settore pubblico, orrido negli anni 70 e oggi alleato intelligente di imprese e cittadini.

Stessa storia ha richiesto l’affermazione manifatturiera tedesca di fronte alla minaccia cinese e alla sfida europea, progettata da un cancelliere socialdemocratico e da una donna di ferro venuta dall’Est, erede di Kohl, assieme a imprenditori e sindacati maturi e pragmatici. Oggi per loro la Cina è divenuta opportunità e l’Europa leva politica. Ma quanti anni di paziente lavoro come formiche per tirarsi su.

Eppure la politica economica italiana ed europea oggi hanno perso il concetto del valore del tempo.

Lo vedo nella dipendenza drogata giornaliera da spread che attanaglia i giornali ma anche i politici. E’ nell’ansiosa rincorsa al suo altare che proponiamo ogni mese una ricetta diversa certi che stavolta funzionerà: prima le liberalizzazioni (quelle del “PIL che crescerà al 10%”, oggi non più, ci dicono 1%), poi la riforma del lavoro che in recessione permette più libertà di licenziamenti, ora la spending review, domani chissà. Dura un mese la loro notorietà, il tempo di riempire le prime pagine e non annoiare il lettore che vive momenti bui e si attacca a tutto, sperando che stavolta sia la volta buona.

E’ poi  nelle ricette semplici, che non richiedono tempo, che troviamo sollievo. In fondo basta un decreto e tutto tornerà a posto. Come la vendita degli immobili pubblici che abbassano il debito. Vien da ridere al pensiero che una economia con difetti strutturali come la nostra convincerà gli spread a scendere per questo. Come se una banca fosse più disposta a prestare ad un cattivo cliente se quest’ultimo ha appena ricevuto un’eredità inattesa che gli ha permesso di ripagare metà del suo debito esistente.

Ma il tempo distorto è anche quello che ci autorizza, per il tramite di Documenti di programmazione sempre più assurdamente rilevanti come il DEF, a dire (parafrasando Gaber) la crescita oggi … niente, domani nemmeno, ma dopodomani… con stime per il PIL 2014 che, se errate, non potranno mai essere rinfacciate a coloro che le hanno scritte, perché nessuno se ne ricorderà. Mentre il tempo che conta per evitare che muoia l’euro “perché la Grecia non ce la fa più” è l’oggi, non solo il domani delle pur necessarie riforme. E’ l’oggi delle vitali politiche fiscali espansive che, però, “non si possono fare”, e domani sarà troppo tardi per tornare indietro.

Cavalcatelo questo tempo. Ditelo ora e subito ai mercati, che la spending review è partita e non si fermerà e che nel fra(t)tempo la spesa sosterrà l’economia e vedrete gli spread, crollare.

Ma è anche una visione errata dello scorrere del tempo che ci condanna a sentire eminenti giuristi discettare sulla necessità di procedere ad una unione fiscale ora, come se oggi potessimo privarci, noi italiani, dell’ultimo strumento di politica economica ancora nelle nostre mani, la politica fiscale, e come se oggi da Bruxelles si riuscisse a governare meglio un continente sfaccettato di culture ancora così diverse.

Già le culture. Che bello Disraeli sul Foglio di mercoledì 25 aprile che ci ricorda cosa ci vuole all’Europa per vincere: tempo. Lo cito: “la via maestra per … l’unificazione culturale del continente … era di assumere come base le sue culture nazionali nella loro pienezza … sarebbe stata un’impresa titanica e certamente molto lunga … ma era l’unica via realistica e concreta”. Molto lunga, sì, ma l’unica. Il tempo, nemico ed alleato dell’Europa a seconda di come lo si capisce e rispetta.

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The European Sardana Starts Today

Last night Pepe Guardiola, this elegant man with a gentle smile that led his soccer team – Barcelona -to immense success and irresistible powerplay, has left.

He was celebrated at the end of the last home game by a never-ending standing ovation and was finally surrounded by his people. All his people: the players, the crowd, the Catalans. And they danced all together, in midfield, the sardana.

Yes, a sardana.

A dance open to everybody, believed to have been invented in Greece. Forbidden during fascism, symbol of pride and identity for Catalunya. People dance in a circle doing steps that are not hard but need to be precise: a small hesitation puts into jeopardy the perfect execution of the dance. The circle gets larger and larger and when it becomes very large it subdivides into many circles that dance contemporaneously, in harmony.

It is a spiritual dance of freedom, that wants to unite the people. Different people, from different races or social backgrounds, dance together, united, raising toward the sky their hands. The sole goal is to show the pride of being from Catalunya, to belong, no matter what the differences among them.
Today is Sunday, May 6th 2012. An important Election day.
And Europe, if we want it, will start dancing – united and proud, with no hesitation - its sardana.
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Stiglitz e l’austerità suicida

Pubblicato sul Manifesto di oggi.

Ascoltare il dibattito tra Monti e Stiglitz è stato emozionante. Potenti le cannonate dell’economista americano, che lasciano basita una platea abituata allo slang triste europeo. Al termine del suo discorso si sente lo spavento che pervade la sala, paura per una crisi che forse non passerà se non si faranno le cose giuste. Ecco, il linguaggio è stato incredibilmente diverso, come quello di un marziano. Tant’è che la migliore difesa che il Presidente dl Consiglio ha potuto montare è stata quella  differenziare l’America dall’Europa in termini di obiettivi. Non ha funzionato. L’Europa non deve solo crescere economicamente, come gli Stati Uniti, ma far crescere anche le sue istituzioni e questo può andare anche a scapito della crescita economica. Mi sono detto che non è così, che forse per uno o due o anche tre anni può essere così, ma nessuna nazione può tenersi in piedi, coesa socialmente, senza che le sue istituzioni siano dedicate solamente alla crescita del benessere dei suoi cittadini.

Un linguaggio che effettivamente non si sente più nel nostro Paese. Non è solo questione di diversa enfasi, no, ascoltare Stiglitz era rendersi conto che esiste là fuori una strada alternativa di cui in Europa è vietato parlare. Un nuovo “dibattito proibito”, per riprendere il titolo di un felice libro di Jean-Paul Fitoussi che uscì qualche anno fa. Era anche dare nuova linfa alle parole, come se queste fossero rose innaffiate dopo lunga aridità.

Prendete la parola più menzionata in Italia questi giorni. La parola spreco. Anche Stiglitz ne ha parlato. Di sprechi. Ma non parla di Bondi. No, parla del più grande spreco, quello vero, quello reale, dice Stiglitz: lo spreco immenso, trilioni di dollari, di tutte quelle risorse, naturali, materiali ed umane, uguali a quelle che avevamo nel 2008 e che da allora però non utilizziamo più a causa di questa crisi. “Ed è l’austerità che tiene vivi questi sprechi”. Tutti quei giovani, che oggi non lavorano. Che diventeranno alienati dal resto della società. Che se e quando, tra tanti anni – se continuiamo con la stupida austerità – troveranno forse un lavoro, ma a salari più bassi perché avranno disimparato a fare e avranno perso l’orgoglio e la voglia di affermarsi. Ecco lo spreco, dice il Premio Nobel. Ecco, è questo l’unico vero, grande intollerabile spreco di questa maledetta crisi che non vogliamo combattere.

Perché si può combattere. Con un nuovo approccio di politica economica. Nessuna grande economia mondiale, mai, è uscita da una crisi di questo tipo con l’austerità, dice Stiglitz che diventa subito un fiume in piena che abbatte le nostre magre argomentazioni europee affaticate dal fallimento. “L’austerità non funziona, basta guardare ai dati: essa smonta anche i rientri dei bilanci pubblici verso il pareggio”. Le riforme? Le riforme che servono anche nel breve periodo sono quelle che migliorano la situazione dell’accesso al credito per le piccole imprese e quelle che aumentano il sostegno alle università. Le riforme sono utili, ma hanno bisogno di tempo e, nel frattempo a volte riducono la domanda nel sistema, che già manca. Il mercato del lavoro americano è certamente flessibile eppure ciò non ha impedito che si raggiungesse una disoccupazione del 10%. In questa crisi non si creano posti di lavoro senza maggiore domanda aggregata. Bisogna fare politiche per il breve periodo. “E il breve periodo può durare a lungo se si mantiene l’austerità”.

Tutto qui? No, finiamo con la ricetta proposta dall’economista americano.

Primo, politica fiscale espansiva in Germania, anche con ampi deficit pubblici. Concordiamo. Secondo, in Italia, politica fiscale espansiva senza maggiori deficit pubblici. Il che significa più spesa pubblica con gli aumenti di tasse (già fatti) destinati a pagarci la spesa pubblica e non il debito pubblico. Oppure con i tagli agli sprechi che non devono generare maggiore austerità ma maggiore domanda da parte dell’unico attore che in questa crisi può domandare, lo Stato. Concordiamo. Senza toccare il deficit, il Pil sale, facendo anche scendere i rapporti deficit e debito su PIL. Grande ruolo per investimenti pubblici, spesa per l’istruzione e per la sanità. Terzo, tasse e spesa pubblica devono anche ridurre le disuguaglianze che specie in questa fase distruggono la crescita economica. Concordiamo.

Senza maggiore spesa pubblica anni ed anni davanti a noi di maggiore disoccupazione. Alle sue raccomandazioni aggiungiamo: vera spesa pubblica, monitorata e la cui qualità sia assicurata da competenze e assenza di corruzione.

Monti ha detto alla fine del dibattito: “sono desideroso di sapere come rispettare l’obbligo di bilancio in pareggio facendo diminuire il rapporto debito su PIL e soddisfacendo al contempo l’esigenza immediata di crescita”. Forse non se ne è reso conto, forse sì, ma questo “come” glielo aveva spiegato pochi minuti prima Stiglitz, che ha aggiunto: “i terremoti accadono. Anche gli tsunami. Non è colpa nostra se accadono. Ma perché a queste tragedie dobbiamo aggiungere dei disastri causati da noi stessi? E’ criminale questa ignoranza di quanto è avvenuto nel passato, l’economia deve essere al servizio della gente, e non viceversa.”

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Lo spread cala se la spending review non è una scorciatoia

I mercati vogliono, come gli italiani, riforme di lungo periodo credibili e sostanziali. E vogliono crescita economica, subito.

Ecco perché provo una qualche perplessità e preoccupazione per questi tagli di sprechi per 4,2 miliardi. Perché potrebbero rivelarsi recessivi e potrebbero non cambiare nulla nel modo in cui compra la Pubblica Amministrazione, finendo per spaventare i mercati invece di rassicurarli.

Ma forse mi sbaglio. Comunque meglio esprimerle, certe preoccupazioni, che tacerle.

Prima cosa. Non bisogna tagliare a casaccio. Come si fece coi tagli lineari che colpivano le amministrazioni pubbliche brave come quelle pessime, gettando le prime nel cinismo e non incoraggiando al miglioramento le seconde. Tagli senza dubbio recessivi che, riducendo le commesse pubbliche, hanno ridotto il PIL, l’occupazione e la sostenibilità delle imprese.

Se oggi tagliassimo la spesa di chi spende di più, rischieremmo di fare la stessa cosa: spesso (non sempre) quella amministrazione pubblice che paga di più è perché compra qualità e sa ottenerla dal fornitore. E chi compra a prezzo basso spesso lo fa perché punta a non garantire al cittadino i servizi necessari. Uccideremmo con spirito nuovamente non meritocratico le imprese migliori, acuendo nel contempo la recessione. E sminuendo l’impatto di qualsiasi blocco di aumento dell’Iva che volessimo finanziare con questi tagli di spesa.

Che fare dunque?

Ottenere i dati a livello centralizzato di ogni gara che si intende fare e soprattutto i dati di come è stata conclusa (prezzo/qualità in primis). E’ stata messa a gara da Bondi la piattaforma da comprare dove immagazzinare questi dati? Senza questi dati quello che potrebbe sembrare un taglio di spreco potrebbe solo essere un (recessivo) taglio di spesa, che sarebbe stato necessario e utile all’economia.

Avuti i dati, non basta. Potremmo scrivere tanti bei saggi scientifici avendo quei dati ma la politica qui non ci sta per fare ricco qualche professore ma per fare cambiamento. E allora dovremo immediatamente obbligare le singole stazioni appaltanti a ottenere l’autorizzazione a procedere con l’aggiudicazione solo una volta che si sia verificato che non abbia speso più del dovuto; confronto reso possibile dalla disponibilità in tempo reale dei dati. E’ stato fatto da Monti il disegno di legge che instaura tale obbligo di autorizzazione?

A questo punto, e solo a questo punto, siamo pronti per i tagli che non creano recessione ma espansione e che riformano per sempre la Pubblica Amministrazione, convincendo i mercati, facendo crollare lo spread, e lanciando il circolo virtuoso che ci tiene nell’area dell’euro.
Ecco come.

Immaginate due amministrazioni pubbliche regionali, una che compra una TAC a 100 euro ed un’altra a 300 euro. Spesa totale 400, spreco 200 euro. Bloccando lo spreco, si riduce il conto corrente all’estero della seconda azienda di 200 euro e si danno ai cittadini sempre 2 TAC, senza minori servizi sanitari. Ma si può fare di meglio. Usando i 200 euro risparmiati per comprare altre 2 TAC si aumenta la domanda pubblica, l’occupazione e il PIL. Ecco perché i tagli diventano PIL: e se la singola impresa ci perde dal taglio degli sprechi le imprese nel loro complesso guadagnano grazie alle maggiori vendite, le famiglie col maggiore reddito, i lavoratori con maggiore occupazione.

Ma c’è di più. Vi dicevo che la P.A. a quel punto subirebbe la rivoluzionaria trasformazione culturale che tanto stanno aspettando i mercati finanziari: la riforma di lungo periodo credibile e sostanziale. Di che parlo? Parlo del fatto che per la prima volta nessuna stazione appaltante sprecona potrebbe più urlare contro i tagli “perché io sono la più brava” e riuscire a bloccare il taglio degli sprechi.
Perché ci sarebbero i dati. Belli, puliti, chiari come una bella giornata di sole, ad illuminare i loro sprechi, a fare tacere e a rendere inverosimili le loro proteste, ad obbligarle a migliorarsi. E con loro, il Paese.

Avanti tutta dunque, ma senza scorciatoie e maquillage, ai quali il mercato è insofferente. Avanti con calma, organizzazione, senso della direzione, sicurezza, convinzione, integrità, leadership, merito. E il Paese ripartirà.