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La “mia” Consip e quella di oggi: rimpianti, ricordi, speranze

Parlare oggi della Consip, ora che questa è messa al centro della spending review, è parlare di un ricordo molto caro. Sono stato Presidente della Consip S.p.A. tra il 2002 ed il 2005, tre anni professionalmente incredibili, quando l’allora vice Ministro dell’Economia Mario Baldassarri, unico nel Governo Berlusconi di quel tempo, vide molto lontano e provò a fare quel che oggi finalmente un Governo, quello Monti, appare in procinto di progettare: il taglio degli sprechi di spesa, un taglio dunque non recessivo, che fa guadagnare spazio fiscale e credibilità per spendere nuovamente, meglio, per generare crescita e salvarci dalla tempesta perfetta di questa recessione.
L’avessimo fatto allora, quel che chiedeva Baldassarri, oggi l’Italia si troverebbe in situazione certamente diversa, più solida e vibrante. Ma le grandi gare Consip che facemmo, ottenendo significativi risparmi del 20%, come fu poi certificato da studi rigorosi a livello internazionale, non impedirono alla spesa di crescere: non c’era nessuna volontà ai vertici del Ministero dell’Economia di allora di chiudere i rubinetti della spesa. Così, mentre Consip risparmiava, i Ministeri – con i capitoli di bilancio vergini e mai ridotti – si trovavano a fine anno con più soldi a disposizione grazie agli sconti Consip e si affrettavano a spenderli (mai si sarebbero sognati di ridarli indietro!). Oggi invece quei tagli sono nel decreto. Era ora.
C’è di più. La legge di quegli anni prevedeva che nessuna amministrazione locale potesse farsi le sue gare aggiudicando a prezzi più alti di Consip, ma nessuno della Ragioneria Generale dello Stato controllò, come invece era (ed è) previsto dalla normativa.
Certo di guasti ne facemmo anche noi: le gare grandi misero in difficoltà le piccole imprese e non fummo sempre bravi a controllare la qualità della commessa di fronte a sconti sproporzionati. Ma certo era che per una breve frazione di tempo ci sentimmo al centro del mondo, 500 professionisti giovanissimi e pieni di entusiasmo e voglia di servizio pubblico, a scrivere le più belle gare che si siano mai scritte grazie ad una competenza straordinaria. Quella competenza così essenziale per ridurre gli sprechi, sostengono gli stessi studi internazionali: solo il 17% degli sprechi è dovuto alla corruzione, 83% all’incompetenza.
Certo è che Consip ha imparato dagli errori passati: le gare grandi non ci saranno, il nuovo decreto correttamente da grande stimolo alla creazione di tante Consip regionali, più vicine al territorio, con meno danni per le PMI. Le nuove merceologie per le quali è obbligatorio acquistare da una centrale acquisti, Consip o regionale, sono per mercati concentrati dove non ci sono molte PMI: energia elettrica, gas, carburanti rete e extra-rete, combustibili, riscaldamento, telefonia fissa e mobile. E per la qualità, ci sono da tempo certificatori della stessa che controllano i fornitori della P.A.
Il punto chiave di questa spending review non è la centralizzazione delle gare, anzi, ma quella delle informazioni sugli appalti. Così da poter controllare in tempo reale che nessuno spenda più di 5 quando c’è almeno una stazione appaltante che riesce a comprare a 5 quel bene. E bloccare eventuali sprechi prima che sia troppo tardi. Non c’è ancora l’obbligo di far fare alle stazioni appaltanti le gare sulla piattaforma Consip come sarebbe ideale, ma il modello di razionalizzazione dell’informazione è avviato, specie se Consip e Autorità dei Contratti Pubblici collaborano e condividono quanto a loro noto.
Non tutta la Spending Review è così intelligente. Per esempio uccide l’università e fa scappare i giovani bravi la riduzione dei fondi per l’assunzione di nuovo personale. Questi non sono tagli neutrali: sono tagli che peggiorano la maledetta recessione.
Resta che Consip è il miglior esempio di come vorremmo la Pubblica Amministrazione oggi: competente, flessibile, giovane. Ma per farla così bisogna spendere. Ecco il paradosso. La vera spending review, come quella britannica, coi tagli di sprechi finanzia la spesa là dove l’interesse nazionale lo richiede: ospedali e scuole.
Ma quale è oggi l’interesse nazionale italiano? Cosa persegue il Governo con questa spending review? A questo non può rispondere Consip.

Uscito oggi sul Foglio

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Perché il downgrade di Moody’s?

Io penso per un motivo semplice semplice. La stima del -1,2% di crescita 2012 contenuta nei conti pubblici è ormai a detta di tutti vetusta, se mai fosse stata realistica. Non vi pare normale reagire ad un raddoppio da -1,2% a -2,4% della DEcrescita rivedendo le aspettative di solvibilità di un debitore?

Io spero che il nostro Governo capisca che quello che conta per i mercati in questa fase è la crescita economica -maledetta e subito - quella che si ottiene con espansione fiscale della spesa (non degli sprechi!) pubblica in Italia e con l’abbassamento dell’imposizione fiscale in Germania che ha già infrastrutture di ottimo livello ma i cui lavoratori meritano di consumare un po’ di frigoriferi sinora solo prodotti ed esportati.

Senza la crescita subito i conti pubblici sono messi a rischio. Non è il debito che va curato, va curata la crescita, il debito scenderà di conseguenza. Date retta, sono mesi che lo diciamo, e la vostra ricetta, governanti europei, non convince i mercati e non abbatte gli spread: cosa aspettate per modificare strategia?

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Traslocare e tagliare costa, fatelo bene!

L’altro ieri a Porta a Porta ho chiuso ammonendo che non fare bene la chiusura delle Province in questo periodo di recessione avrebbe potuto comportare problemi, per i cittadini ma soprattutto per le piccole imprese, e che bisognava curare bene l’organizzazione del processo di chiusura se non volevamo aggiungere benzina al fuoco della recessione.

Su Twitter alcuni fedelissimi scettici mi hanno criticato.

Si vede che conoscono poco la macchina statale e burocratica. Ma non quella italiana. Quella presente in tutto il mondo.

Negli Stati Uniti da tempo stanno chiudendo le loro … province: le basi militari. Ebbene è notizia di pochi giorni fa che questo processo di chiusura, che è partito nel 2005 e doveva chiudersi a fine 2011, coinvolgendo 800 luoghi militari e spostando 125000 persone, ha generato un aumento rispetto alle previsioni di 21 miliardi di dollari di costi, 67 per cento, riducendo il valore presente del progetto del 72%. Nuove costruzioni, appalti imprevisti eccetere eccetera eccetera. Chissà perché.

Io immagino che l’occasione sarà ghiotta affinché nella creazione di questi nuovi uffici chiudendone di vecchi, anche nel nostro bel Paese, si finisca per spendere di più.

Non solo, ma che nel rimbalzarsi la cessione di competenze, imprese e cittadini che vorranno il loro certificato verranno a sbattere contro nuovi ostacoli e burocrazia e ritardi. E’ nella natura delle cose. Ma è anche preoccupante, specie in questo momento di grave recessione che impatta sui più piccoli molto di più che sui più grandi, che, come sappiamo, vincoli e regole fanno ben più presto a aggirarli o risolverli.

Non vuol dire essere contro i tagli delle province. Vuol dire pretendere i numeri e le quantificazioni precise del “trasloco provinciale”, monitorare il processo di cambiamento, verificare i costi e gli imprevisti, bloccare le spese inutili del “trasloco”.

Quello di bello che c’è nel documento degli Stati Uniti è che vi è una organizzazione, il GAO, il Government Accountability Office, che fa questo di mestiere e lo fa bene. Possiamo sperare che la nostra Ragioneria faccia altrettanto? Mi sia concesso di dubitarne.

Se non vogliamo che quello che è ovvio come risparmio si trasformi in ulteriore costo, è bene che Bondi o chi per lui siano delegati a supervisionare e rendicontare tutto ciò.

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The Movie: How Europe Won its Battle

Featuring:

the bystanders and movie shooters: the European politicians

the small buffalo: Greece and the likes

the Buffalo herd: the Europeans

the lions: your call, I have my opinion

the alligator: a European Commissioner passing by.

Enjoy till the end. It’s worth it.

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Quando gli uccellini della statistica vengono azzittiti muore la democrazia

Anni fa ebbi modo di scrivere un libro in cui, tra le altre cose, mostravo come uno dei tanti danni degli stupidi indicatori di finanza pubblica dentro Maastricht (3% deficit-PIL, 60% debito-PIL i più famosi), un danno sottile ma rilevante fosse quello di avere reso la statistica ufficiale, che tali indici misura per mandato, preda della politica e delle sue esigenze elettorali.

Non a caso mostravo come il dibattito su come contabilizzare le operazioni in derivati dei Governi, allora tema sensibile perché questi venivano usati con qualche … maquillage per rendere i conti pubblici compatibili con i requisiti di Maastricht, fosse stato allontanato da pure e corrette questioni scientifiche degli statistici a più materiali e scorrette argomentazioni degli esperti ministeriali interessati a tutt’altro.

La statistica è un bene pubblico di grandissimo valore. Là dove ci sono le dittature le statistiche non esistono o sono manipolate. Là dove le statistiche sono inesistenti o manipolate la democrazia fa fatica ad emergere perché gli elettori sono ingannati sullo stato delle cose. Le grandi democrazie hanno eccellenti uffici statistici e le rendono indipendenti e piene di risorse per lavorare bene.

In Italia la mancanza di fondi per la statistica fa male. Lo penso mentre ascolto la bella presentazione di Magda Bianco e Marco Tonello della Banca d’Italia in cui si mostrano slide come queste sulla corruzione:

dove l’indice di corruzione è calcolato con il rapporto denunce di reati contro la Pubblica Amministrazione e popolazione residente per 100.000 abitanti (valori medi 2004-2009).

Che c’entra, mi direte, con la statistica? Tanto. Sarà pur vero che stiamo facendo una riforma contro la corruzione ma è anche vero che più di quello che vedete nella figura sopra su di essa non  sappiamo. Già. Non ci sono altri dati disponibili. Al di là di chiedersi come si fa a combattere la corruzione senza conoscerla e dimensionarla, lasciatemi spiegare perché questi dati che vedete sopra non bastano per niente.

Primo. Perché le denunce non sono le condanne. E sulle condanne i dati giacciono inutilizzati nella pancia dei Ministeri (Interno? Giustizia? se ci siete battete un colpo).

Secondo. Perché i reati di cui sopra, ancora non disponibili, sono tracciati per anno di condanna e non di commissione del reato. Quindi anche se li avessimo dovremmo lavorarli per  fargli acquisire una minima capacità di rivelarci qualcosa.

Terzo. Perché i reati non sono un indicatore rivelatore di cosa sta succedendo al fenomeno: se crescono potrebbe voler dire che le cose vanno peggio oppure meglio (se cresce la sensibilità e la voglia di combattere la corruzione nel paese).

Ma perché, direte, anche questo minimo ammontare di dati non viene messo a disposizione dei cittadini e dei ricercatori? Bah. A voi la risposta.

Io credo che Corte dei Conti e Istat con qualche centinaia di migliaia di euro in più potrebbero assumere tranquillamente consulenti scientifici e fare un servizio al paese che vale forse miliardi di euro: un dato che possa credibilmente segnalare con precisione le aree a rischio di corruzione e le sue correlazioni con tante altre variabili, così da facilitare i controlli a campione dei controllori.

Eppure, altro che soldi in più. Qui i soldi li levano. E indovinate a chi? All’Istat. Sì, proprio a quell’Istat che il nuovo Presidente Giovannini (mio collega a Tor Vergata, che stimo moltissimo, quindi tenete conto del mio conflitto d’interessi nell’esprimere questo giudizio) ha rimesso a nuovo dandogli grande visibilità e combattendo tante battaglie meritevoli a favore dei dati e della loro valorizzazione.

Giovannini (che non ho sentito per questo pezzo) dichiara a Repubblica la sua preoccupazione. Lo dice col tono istituzionale che si conviene. Io che sono libero di dire quel che penso vi dico che è gravissimo.

E che all’Istat andrebbero aumentate largamente le risorse, di 10-20 milioni, soldi che varrebbero oro nelle mani dell’Istat di oggi. Ma a una condizione Presidente: 100.000 euro li dedichi a mettere subito on line i dati puliti e utili sull’andamento della corruzione. Il Paese gliene sarà grato.

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L’unica guerra che vale la pena combattere

Ecco un altro articolo (Usa) che sottolinea come la spesa pubblica per acquisti di beni e servizi aumenta il PIL mentre i trasferimenti pubblici … Cosa fanno i trasferimenti, come le pensioni o la spesa per interessi? Prendono a qualcuno e danno ad un altro? Esatto. Quindi rendono più povero uno e più ricco un altro: il primo vorrà consumare di più, il secondo di meno. In prima approssimazione (e non complico il quadro) la domanda complessiva di prodotti  non cambia e così il PIL.

Altre cosa è la spesa della P.A., intesa come domanda di beni e servizi, quella che facciamo con le gare d’appalto a cui partecipano le imprese. I trasferimenti sono una cosa diversa dall’acquisto di beni e servizi

Già il Centro Sudi di Confindustria ha avuto il merito di far vedere come in termini di spesa su prodotto interno lordo una volta esclusi i trasferimenti per interessi e per pensioni l’Italia spende meno che la media dell’area dell’euro.

Parliamone un attimo, di spesa pubblica. Ora spesso pensiamo che sia indifferente cosa ci facciamo con una certa spesa. Eh no. Immaginiamo di tassare (o prendere a prestito con debito pubblico) 300 euro. Ci compriamo ambulanze. Qualcosa di importante sia per i cittadini sia per le aziende che producono ambulanze e danno occupazione a lavoratori. Ora immaginate che con quei 300 ci si comprino 2 ambulanze identiche, ma una a 100 e una (per corruzione o incompetenza) a 200. Se fossimo bravi abbastanza ad identificare gli sprechi, taglieremmo di 100, da 300 a 200, la spesa in euro (la c.d. spesa nominale) comprando sempre 2 ambulanze (la spesa c.d. reale)  e quindi senza far perdere il posto di lavoro a nessuno: in questo caso il taglio della spesa non è recessiva. Quello che si è tagliato di 100 (anche se la contabilità nazionale non lo registra come tale) è un trasferimento: l’eccesso di profitto che guadagnava l’imprenditore che vendeva a 200 l’ambulanza va ora nelle tasche dei cittadini che pagano meno tasse (oggi o domani) a parità di servizi. Cittadini più ricchi, imprenditore più povero: è un mero trasferimento che porterà i cittadini a consumare di più e l’imprenditore a consumare di meno. Nessun effetto all’incirca sul PIL.

Ma ora immaginate che all’inizio si comprano sempre le due ambulanze, ma senza sprechi: costano ambedue 100. Se tagliassimo sempre di 100 la spesa perché non sappiamo identificare gli sprechi e prendiamo abbagli (tagli lineari?), beh, i conti son presto fatti: potremo permetterci una sola ambulanza e tutti perdiamo. Perdiamo occupazione (si producono meno ambulanze) e benessere per i cittadini (malati).  La spesa nominale cala ma così anche la spesa reale. La manovra peggiora il PIL.

Eccoci dunque alla spending review. Che taglia la spesa. Fa male o fa bene all’economia? Beh come abbiamo detto, dipende se becca gli sprechi o no. La mia opinione (poi ne parleremo ancora) è che non fa malaccio. Cioè ci sono dei (gravi) tagli di spesa reale ma si è anche messa in moto una serie di provvedimenti che potrebbero far sì che l’impatto (sempre negativo!) sul PIL non sia così alto, proprio perché molti sprechi saranno effettivamente individuati. Siccome questi tagli permettono di non aumentare l’IVA, ecco che stessa spesa, meno tasse, qualche impatto positivo sul PIL questa manovra ce l’ha. Siccome il risparmio di IVA è all’incirca di 6 miliardi, non mi stupisce troppo che Confindustria stimi un impatto positivo di 0,25%.

Ora la domanda ancora aperta. Siamo in guerra? Ok. Ma contro chi? Ovvio, contro il calo del PIL che generà instabilità anche nei conti pubblici. Una guerra di liberazione.

E allora la domanda chiave è: basta? Basta 0,25% di PIL? Di fronte ad un PIL che scende del 2,4%?

No. La spending review è una battaglia, forse anche vinta. Per vincere la guerra c’è bisogno ora di far entrare in campo le truppe corazzate che generino domanda subito. E dunque, il piano di manutenzione delle nostre infrastrutture suggerito dal Governatore Visco.

La Spagna ha negoziato un ritardo di 1 anno per 1% di PIL di manovra? Bene, noi negoziamo subito 1% di PIL di spesa pubblica produttiva in più. Ma niente ferrovie per favore, binari. Niente ponti sullo Stretto, sostegno al patrimonio, culturale, naturale, scolastico. Niente trafori che fanno buchi, prigioni pulite e decenti che non siano buchi angusti. La spesa va fatta subito, senza attendere: 1% di PIL con regole emergenziali come quelle che adottò il governo coreano nel 2008, bandite e aggiudicate in 1 mese invece dei soliti 3.

La stabilità e il benessere seguiranno e la guerra di Liberazione che sconfigge la recessione sarà vinta.

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Reti d’impresa, perché mi piacciono

Cinquantacinque anni dopo l’adozione dello Small Business Act negli Stati Uniti da parte dell’amministrazione Einsenhower, nel 2008, anche la Commissione europea adotta «Una corsia preferenziale per la piccola impresa – Alla ricerca di un nuovo quadro fondamentale per la Piccola Impresa (uno «Small Business Act» per l’Europa)». E nel novembre 2011 il Senato italiano emana lo Statuto delle imprese, volto a assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d’impresa, e di garantire la libertà di iniziativa economica privata in conformità agli articoli 35 e 41 della Costituzione. In esso ci si impegna, in particolare, a promuovere politiche volte all’aggregazione tra imprese, anche attraverso il sostegno ai distretti e alle reti di imprese.

Non c’è dubbio che quello delle reti è un tentativo di sbloccare l’impasse organizzativa interna a cui sottostanno le tantissime piccole imprese italiane, eterno baco mai diventato farfalla dell’economia italiana di questi ultimo ventennio di bassa crescita. Il perno su cui poggia il disegno di stimolo pare evidente e ben disegnato: l’idea di abbattere la prevalenza di quei costi fissi (spesso poco rilevanti per una grande impresa e invece soffocanti per una piccola impresa che cerchi di crescere e sviluppare) tramite l’alleanza con altre compagne di avventura. Specie nel mondo degli appalti pubblici e dell’internazionalizzazione ma anche nella ricerca, commercializzazione, marketing nonché nella ripartizione del rischio.

Dimostra, la proposta delle reti d’impresa discussa ieri martedì 10 luglio nel seminario organizzato da ItalianiEuropei e Formiche, anche una conoscenza delle debolezze di altri meccanismi sinora adottati. Il contratto di rete si pone infatti tra le filiere produttive, reti con scarsa collaborazione, e i gruppi (con relazioni di possesso di quote d’imprese) intese spesso come soffocanti dalle piccole che denotano una avversione a sottoporsi a vincoli: il sistema delle reti nasce da accordi flessibili in situazioni operative specifiche e potrebbe dunque risultare quel grimaldello che sblocca la naturale diffidenza del piccolo dal crescere unendosi con altri.

Potrebbe anche rivelarsi utile nel conferire maggiore potere negoziale ad ogni singola impresa della rete nel caso di contratti multilaterali di approvvigionamento e di credito bancario (con bond e rating di rete come possibilità concrete), anche se deve essere chiaro, per un appropriata durabilità dell’alleanza stessa, che non deve essere percepito come un obbligo quello di far riferimento ad un fornitore/banca specifici, ma ad un’addizionale opportunità. Le criticità non mancano, malgrado la notizia è che sono ormai ben più di 100 le reti d’impresa già formatesi con più di 500 aziende. Alcune di queste riguardano le stesse imprese di rete per il loro sopravvivere e imporsi, altre il governo per una buona politica industriale.

Primo di tutto, è ovvio che una buona parte degli investimenti di rete hanno caratteristiche immateriali: conoscenze, mercati, relazioni. Sarà essenziale capire come vengano condivisi i rendimenti di questi sforzi comuni.

Secondo, è ovvio considerare questa normativa per le reti permanente e tuttavia transitoria per le imprese che ne fanno utilizzo. Un po’ come lo Small Business Act condiziona gli aiuti alle imprese americane ad un periodo massimo di nove anni, finito il quale l’impresa deve affrontare il grande oceano del mercato da sola, così ci aspetteremmo sia previsto per quelle reti che aspirano a divenire grandi imprese.

Vi è poi la questione della partecipazione alle gare di appalti pubblici (che negli stati Uniti, lo ricordiamo, per il 23% ogni anno vengono riservati esclusivamente alle pmi). Il Codice dei contratti non annovera i soggetti sottoscrittori dei contratti di rete tra quelli legittimati a partecipare alle procedure di gara. Le imprese aderenti al contratto di rete potrebbero ricorrere allo strumento del raggruppamento temporaneo di imprese, certo, ma è invece ancora discusso se il contratto di rete possa valere ex se come “titolo giuridico” abilitativo alla partecipazione congiunta delle imprese facenti parte della rete. Da questo punto di vista, una prima criticità sorge con riguardo alla natura stessa del contratto di rete che non è finalizzato alla creazione di un soggetto giuridico distinto dai sottoscrittori, ma alla collaborazione organizzata di diversi imprenditori. Una soluzione potrebbe consistere nel valorizzare il rapporto di mandato con l’organo di rappresentanza comune (ove costituito), conferendogli espressamente, una tantum, il potere di presentare domande di partecipazione od offerte per tutte o determinate tipologie di procedure di gara. Resta fermo che i concorrenti che partecipano per mezzo della rete non potrebbero partecipare alla gara anche in forma individuale. Per quanto concerne i requisiti di qualificazione potrebbe ipotizzarsi il ricorso alle regole dettate, a tal fine, per gli Rti. Sarebbe inoltre auspicabile, anche se la normativa attuale rimane rigida la riguardo, permettere all’impresa aggiudicataria di poter affidare i lavori ad altre imprese con le quali avrà stipulato un contratto di rete senza che ciò costituisca subappalto, così da allargare la quota di appalti per le pmi senza ridurre la quota lavori subappaltabile. Un’altra riguarda quella parte dello Statuto delle Imprese così importante ma al quale tutt’oggi non è stato dato seguito in alcun modo è la riduzione degli oneri regolatori specie per le pmi.

Se pure non ritroviamo la stessa penetrante efficacia del Regulatory Flexibility Act statunitense che vieta la regolazione che incide in maniera asimmetrica sulla piccola impresa, questi passaggi, se effettivamente seguiti da una serie di precisi decreti attuativi (quali la creazione in Italia di una Small Business Administration che sorvegli appunto sulla regolazione amministrativa), avrebbero avuto l’importante ruolo di aiutare tutte le piccole, in rete e non, in questa fase di gravissima crisi, a respirare quell’ossigeno così essenziale per potere proseguire il loro percorso di crescita e di affermazione in mercati sempre più ampi ed internazionali.

Da Italia Oggi, oggi.

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Non si uccidono gli usignoli e i mimi

Il Congresso Usa ritiene e dichiara che: (…)

… leggi e regolamentazioni disegnate per l’applicazione ad entità di grande dimensione sono state applicate uniformemente alle piccole imprese … anche se i problemi che hanno giustificato l’azione del governo possono anche non essere state causate dalle entità più piccole;

… regolamentazione federali e obblighi di compilare documentazione hanno in molte situazioni imposto pesi eccessivi e non proporzionati alle piccole imprese, comprendendo costi legali, contabili e consulenziali;

… l’incapacità di riconoscere differenze nella scala e nelle risorse delle aziende regolamentate ha in numerose circostanze negativamente pesato sulla concorrenza nel mercato, scoraggiato l’innovazione e ridotto i margini di miglioramento della produttività;

 … approcci regolatori alternativi che non confliggono con gli obiettivi dichiarati  … possono essere disponibili, aiutando a minimizzare il significativo impatto economico sulle piccole aziende …

 … il processo tramite il quale le regolamentazioni federali sono sviluppate ed adottate dovrebbe essere riformato per richiedere alle agenzie di sollecitare idee e commenti da parte delle piccole imprese … per esaminare l’impatto delle regolamentazioni esistenti e proposte e per rivedere la necessità di mantenere le regolamentazioni esistenti.

Questo Jimmy Carter per voi, Presidente Usa fine anni 70. Si chiama Regulatory Flexibility Act, RFA, approvato nei lontani anni settanta per bloccare norme e regolazioni troppo costose per le PMI. Parliamo dunque di cose importanti. Cose pratiche, che servono alla vita di tutti i giorni delle piccole imprese. Per esempio:

visto che la Federal Communication Commission (FCC) aveva limitato l’utilizzo del fax per telemarketing a fini di privacy e visto che questa era una regolamentazione che prevedeva che prima di poter inviare un fax recante una pubblicità non richiesta bisognasse ottenere permesso scritto dal potenziale ricevente, dopo aver determinato un significativo impatto negativo per molte piccole imprese, l’Office of Advocacy ha spinto con successo la FCC per bloccare l’avvio di tale regolamentazione fino al passaggio di una legge (Junk Fax Prevention Act del 2005) firmata dal Presidente Bush che, grazie anche all’attivismo dell’Office per Advocacy, prevede che siano esentati i fax che contengono una possibilità di rifiutare di ricevere fax simili sulla cover page del fax stesso. La stima dei risparmi per le piccole imprese è stata valutata attorno 3,5 miliardi iniziali e 700 milioni di dollari per anno.

Già robetta. Ma essenziale. Il Regulatory Flexibility Act nel 1996 il Presidente Clinton dà potere alle corti giudiziarie di esaminare l’effettiva aderenza delle Agenzie federali con il RFA e permette all’Office of Advocacy di costituirsi, in eventuali processi in tribunale attivati da piccole aziende, contro le Agenzie e come amicus curiae delle piccole imprese, tramite memorie a supporto delle stesse.

Contro le Agenzie. Come se oggi lo Stato si schierasse a difesa delle piccole contro i Ministeri che regolano a vanvera o gli uffici delle Regioni con le loro determine. Pagandogli gli avvocati. Contro i Ministeri. Non male, eh?

Inoltre, per le regolamentazioni dell’Agenzia per la Protezione Ambientale e dell’Amministrazione della Sicurezza e Salute sul Lavoro la norma richiede che un panel composto da piccoli imprenditori e rappresentanti delle Agenzie debba riunirsi, prima ancora che la proposta di regolamentazione sia pubblicata per il dibattito formale, con le parti interessate per esaminarne l’impatto sulla piccola impresa.

Che meravigliosa cosa a supporto vero della competitività di un sistema di piccole imprese destinate a crescere con maggiore probabilità perché lo stato gli è vicino.

E da noi? Beh da noi finalmente nel 2011 ci siamo dotati dello Statuto per le Imprese. Bellissima legge,  volta a assicurare lo sviluppo della persona attraverso il valore del lavoro, sia esso svolto in forma autonoma che d’impresa, e di garantire la libertà di iniziativa economica privata in conformità agli articoli 35 e 41 della Costituzione. In esso ci si impegna in particolare:1. a valorizzare il potenziale di crescita, di produttività e di innovazione delle imprese, con particolare riferimento alle micro, piccole e medie imprese; 2. ad adeguare l’intervento pubblico e l’attività della pubblica amministrazione alle esigenze delle micro, piccole e medie imprese nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.

Lo Statuto prevede che si disciplini anche la questione della regolazione:

Lo Stato, le regioni, gli enti locali e gli enti pubblici sono tenuti a valutare l’impatto delle iniziative legislative e regolamentari, anche di natura fiscale, sulle imprese, prima della loro adozione, attraverso:

a) l’integrazione dei risultati delle valutazioni nella formulazione delle proposte;

b) l’effettiva applicazione della disciplina relativa all’analisi dell’impatto della regolamentazione (AIR) e alla verifica dell’impatto della regolamentazione (VIR);

c) l’applicazione dei criteri di proporzionalità e, qualora possa determinarsi un pregiudizio eccessivo per le imprese, di gradualità in occasione dell’introduzione di nuovi adempimenti e oneri a carico delle imprese,tenendo conto delle loro dimensioni, del numero di addetti e del settore merceologico di attività.

La relazione AIR dà conto, tra l’altro, in apposite sezioni, della valutazione dell’impatto sulle piccole e medie imprese e degli oneri informativi e dei relativi costi amministrativi, introdotti o eliminati a carico di cittadini e imprese. Per onere informativo si intende qualunque adempimento comportante raccolta,elaborazione, trasmissione, conservazione e produzione di informazioni e documenti alla pubblica amministrazione.

Certo, non siamo a livello Usa ma sarebbe un primo passo. Sarebbe. Dove stiamo con l’attuazione e l’applicazione di queste regole? Non è dato sapere. Ci faranno sapere al Ministero dello Sviluppo?

Certo, ci faranno sapere. Nel frattempo annotiamo come la stesse legge rilevi come il Governo: entro il 30 giugno di ogni anno il Governo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico presenta alle Camere un disegno di legge annuale per la tutela e lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese volto a definire gli interventi in materia per l’anno successivo.

Ebbene, sappiate, già dal primo anno di attuazione delle legge il disegno di legge NON c’è. Arriverà.

C’è un libro che amo molto, in italiano si chiama il Buio oltre la siepe, titolo originale, To Kill a Mockingbird. Il film tratto dal libro vede uno stupendo Gregory Peck come attore principale. Leggetelo ai vostri figli. Il titolo originale cosa significa? “Uccidere un usignolo” (in realtà è un “mimo”, simile ad un usignolo) tratto da questo passo del libro:

“Atticus said to Jem one day, “I’d rather you shot at tin cans in the backyard, but I know you’ll go after birds.  Shoot all the blue jays you want, if you can hit ‘em, but remember it’s a sin to kill a mockingbird.”  That was the only time I ever heard Atticus say it was a sin to do something, and I asked Miss Maudie about it.  “Your father’s right,” she said.  “Mockingbirds don’t do one thing except make music for us to enjoy.  They don’t eat up people’s gardens, don’t nest in corn cribs, they don’t do one thing but sing their hearts out for us.  That’s why it’s a sin to kill a mockingbird.

Traducendo io una parte:

Il papà che dice alla figlia: “è un peccato mortale uccidere i mimi.” E una signora conferma: “tuo padre ha ragione. I mimi non fanno null’altro se non musica bellissima. Non mangiano nei giardini delle persone, non fanno nidi nei campi di grano, null’altro fanno se non suonare con tutto il loro cuore per noi. Ecco perché è un peccato mortale uccidere un mimo”.

Ed ecco perché io penso che sia un peccato mortale lasciar morire le nostre piccole imprese nell’indifferenza della grigia burocrazia.

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L’anno che verra’, 1982.

30 anni sono passati. 30 anni.

Paolo, Andrea, Xavier, Pierluigi. La finale. Insieme.

Di tutti quei meravigliosi ricordi ne spunta curiosamente uno. Forse me l’ha ricordato un’intervista recente a Cassano dove diceva che non gli piaceva segnare ma passare per il gol.

Ecco, ognuno e’ fatto a modo suo. Anche a me piace il passaggio finale piu’ di tutti, il senso di squadra e’ al suo culmine. Da ragazzino avevo creato la classifica dei migliori “assist man”.

La vinceva sempre uno dei miei 2 eroi, Bruno Conti. Ecco perche’ mi torna alla mente prepotente quel passaggio di Gentile a Conti e quella cavalcata stupenda, accompagnata dalla voce gentile e stupefatta di Nando Martellini, sulla fascia destra. 2 volte alza la testa per vedere Spillo Altobelli mentre scivola sull’erba, volando. E poi. Il passaggio piu’ importante, cosi’ semplice che si puo’ sbagliare.

E poi si’ c’e'il gol, tutti abbracciano Spillo ma io non ero piu’ la’, guardai il mio eroe afflosciarsi con le braccia alzate, fece per sparire dentro la terra verde. Si vede per un micro secondo sullo schermo. Come se dicesse ecco, ho fatto la cosa piu’ bella della mia vita, il passaggio piu’ bello, ora tutto il resto sara’ per il meglio, posso riposare.

Poi si vede il mio Presidente piu’ amato che esulta. Ma chissa’ dov’ero a quel punto sotterrato da Paolo e Andrea, chissa’ se capivo quanto era importante un uomo come Pertini, ancora di piu’ di Bruno Conti e della sua cavalcata.

Li vidi poi tutti e due insieme sull’aereo che li riportava a casa – in bianco e nero – con la coppa ed il sorriso tutti e due del guerriero vincitore. Che poteva riposare.

Ora tocca a noi.

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Snow White and the 27 Dwarves

There are 27 countries in the European Union. Think of them as the 27 dwarves. Industrious, work-alcoholic, their backs bent at work in the dark caves of the mines, interested only in diamonds and little else. Some are more lazy than others, some stricter, some angrier, some gentler.

If only. If only they could stand straight and look above and not below. They would see beautiful Snow White Europe, with its fantastic project of cohesion, peace, freedom, diversity, history blended in its future.

If only. They would also fight for Europe, I am sure. Abandoning their airs and stiffness, they would fight. The mean Queen, the Crisis.

Till the Prince would come to liberate us. Fiscal Policy. Expansionary.