Primo. Non è un dubbio, è una certezza. La madre di tutte le riforme è quella della Pubblica Amministrazione, come dice il Presidente della Confindustria. La forza di una economia saldamente basata sulla libertà d’impresa ha bisogno di uno Stato forte e non invasivo a supporto. Se perdiamo la battaglia della competitività con Cina, Germania e Stati Uniti è perché a loro modo il loro Stato funziona (molto) meglio del nostro. Il che significa anche che lo Stato non si rottama, si restaura, operazione su cui dovremmo essere particolarmente portati.
Eccoli, i miei 10 dubbi.
a) I restauri non si fanno in emergenza ma con pazienza. Quando in emergenza per ridurre il debito vendemmo tanti gioielli di famiglia privatizzandoli, primi anni Novanta, senza prima liberalizzare il mercato di riferimento, perdemmo un’occasione trasformando monopoli pubblici in privati o lasciando oligopoli con pari concentrazione senza permettere a più imprese di entrare aumentando benessere ed occupazione maggiormente. Oggi rischiamo di fare la stessa cosa: invece di riorganizzare la Pubblica Amministrazione, tagliare. Buttando con l’acqua sporca (quanta?) il bambino dalla finestra.
b) Abbiamo già sperimentato la chiusura di enti pentendocene, come per l’Istituto del Commercio Estero. Non faccio nomi di altri Istituti a rischio che mi pare una follia chiudere, ma ci si pensi bene a chiudere quello che va rafforzato e razionalizzato ma che ci serve tanto.
c) Siamo in recessione. I tagli faranno aumentare la portata della recessione facendo ulteriormente crollare entrate aumentando deficit e debito pubblico.
d) Tagliare la spesa per non tagliare l’IVA? Mi fa un po’ … sorridere. Da sempre insegniamo ai nostri studenti che un taglio di spesa pubblica è più recessivo di un pari aumento delle tasse, non fosse altro che perché la spesa pubblica riduce direttamente il PIL con minore domanda a imprese e occupazione, mentre l’aumento delle tasse non si traduce 1 ad 1 in minori consumi delle famiglie perché in parte quel minore reddito si traduce in minori risparmi.
e) I tagli lineari fanno male perché, colpendo le amministrazioni buone e quelle cattive parimenti, deprime lo stimolo a migliorarsi. Quando leggo che i contratti in vigore nella sanità d’imperio vedranno ridotti del 5% il loro valore, a parte pensare alle imprese in questo momento in difficoltà di liquidità e alle prese con ritardati pagamenti, penso anche che non si distingue tra quei contratti fatti bene che hanno portato tramite la concorrenza in gara a prezzi vicino ai costi con quei contratti fatti male che hanno lasciato ampi profitti ad un potenziale cartello di imprese. Perché trattare ugualmente questi due casi? Perché ancora ci manca all’appello – dopo mesi che da questo blog lo chiediamo - la capacità di non aggiudicare la gara (futura, non passata!) in mancanza di trasmissione dei dati ad una unità centrale che può approvare o bloccare un contratto dal prezzo diverso da quello considerato “normale”? Una riforma piccola piccola e allora perché non farla? Abbiamo paura di ispezionare i cantieri? Non lo sappiamo fare? Avanti!
f) I sindacati fanno la voce grossa e in parte fanno bene a tutelare i loro iscritti quando questi vengono attaccati indiscriminatamente (tagli lineari anche per i dirigenti? Quelli più bravi come quelli meno bravi devono andare a casa?) ma non c’è dubbio che il grande sindacato, quello che dialoga nel manifatturiero con il padronato per trovare modi per migliorare la propria produttività e raggiungere moderazione salariale in una fase di difficoltà, quel Dr. Jekyll là, si trasforma in Mr. Hyde quando parliamo di settore pubblico. Là il sindacato difende i peggiori dipendenti, non emarginandoli e non distinguendo tra bravi e meno bravi. Sarebbe tempo che il sindacato si facesse una bella review interna, una bella review dei suoi peccati e lavorasse anche sul fronte pubblico a favore del Paese.
g) A proposito di sindacati, un’altra battaglia da fare sarebbe quella di ancorare i salari a Nord e Sud della Pubblica Amministrazione all’inflazione locale. Aumentare i salari al Sud dei dipendenti pubblici quanto quelli del Nord porta a salari reali pubblici troppo alti al Sud e dunque minore interesse dei giovani meridionali a lavorare nel settore privato che può pagare solo salari più bassi a causa della sua minore produttività. File chilometriche ai concorsi pubblici del Sud, da ridurre per ottenere maggiore imprenditorialità là dove ci sono tante energie e idee che spesso non diventano impresa.
h) La spending review inglese non è solo tagli: le prime pagine della SR del governo Cameron, non certo un governo a favore della spesa pubblica, mostra i settori strategici (scuola, sanità, ecc.) dove aumentare la spesa e solo dopo mostra dove trovare i soldi. Tagliando quei rami secchi ritenuti meno importanti. Dibattito assolutamente assente in Italia. E se i 200 milioni alle scuole ed università private sono esattamente questo, beh, allora avremmo gradito su tale materia un dibattito ben più trasparente ed importante. Ah, già che siamo in tema, leggo di fondere le piccole università. Beh ecco un ottimo esempio. Stiamo combattendo una battaglia per portare nel giro di 10-15 anni il tasso di laureati al 40% della popolazione. Oggi siamo 24° su 27 in Europa, con il 18%. Un vero problema. Sappiamo bene che per fare ciò abbiamo bisogno di tante piccole università non di ricerca e scuole professionali avanzate, altro che ridurre gli atenei. Questa è una riforma che fa male al Paese ma lo vedremo solo tra 20 anni, il danno che avrà fatto.
i) Ah un dettaglio. I sudditi britannici da tempo sono abituati a non sentirsi più dire “eliminare gli sprechi senza ridurre i servizi” ma “aumentare i servizi premiando chi si sforza”. Ecco, si dice a Roma che è fuffa, ma non credo: il modo in cui si porge un messaggio conta perché rivela come si intende affrontare un problema.
j) Non è vero che il nostro settore pubblico è ampio. Le slide di Confindustria mostrano un settore ben più piccolo di quanto non sia in tanti altri Paesi. Il problema non è ridurlo ulteriormente è di metterlo dove serve di più e pretendere che lavori meglio.