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P.S: EC Confidential

New report by the European Commission on Public Finances.

Startling discovery. The word “consolidation” or “consolidate” appears 222 times. There is also a definition for it:

Fiscal consolidation: An improvement in the budget balance through measures of discretionary fiscal policy , either  specified by the amount of the improvement or the period over which the improvement continues.

I propose to you a new definition, hoping the EC will endorse it in its next report.

Fiscal success: An improvement in economic growth through measures of discretionary
fiscal policy , either specified by the amount of the improvement or the period over which the improvement continues.

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Cutting costs of Italian Authorities: a Lost Opportunity to Improve State’s Effectiveness

Now. Italy’s is in the right path of cutting politician’s costs. There is a request coming from society to cut perks to high-ranked politicians, both local and state, officials, heads of independent authorities. Let’s focus on the latter.

The Budget Law proposed by Mr. Monti has selected 9 authorities and Commissions and reduced the number of persons in the board from 56 units to 31, almost a 50% cut. Many of these agencies will now consist of 3 Directors compared to a previous average of 6. A pity, my first reaction, we did not take his chance to foster gender empowerment by requiring that at least 1 of the 3 was a woman.

Anyway, that is a nice cut, of very little relevance once you look at the amounts of money saved and you compare them with the level of global spending. It is even made smaller by the fact that these lower numbers will be reached slowly over time, when these positions expire and will not be renewed.

There are however additional advantages: a lower number of cars and drivers to drive these people around and some saved administrative staff expenses and work-time. Most of all, a less complex process of negotiation among Commissioners in these bodies might ensure a more rapid agreement and more effective decision-making aptitude. However this too might not be true if those who are to leave are the best members of the Board and the worse are left with greater power (always under the assumption that an equally good guy would have arrived to replace the one leaving in the absence of cuts).

And here we come to what really bothers me. As usual, when we deal with public sector, we look at the input in the process (including expenses) and never at the output (including quality of performance). Who are this people that we are cutting? How have they done? Did they really deserve to be cut? More importantly, how did their Institution fare compared to what was expected from it?

Take the Italian Antitrust Authority. Has its mission been accomplished so far with the effectiveness we wished for it? Take the Italian Authority for Public Procurement: has it done the same? Take CIVIT the Authority on Transparency: what has it done so far? And why didn’t we take this occasion to force the creation of an Anticorruption Agency with vastly increased powers?

These are 4 hugely important authorities for our country and the occasion should have been taken to reinforce their powers and their accountability. Zero on this. A lost occasion.

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E’ o non è una manovra recessiva?

Appena tornato da una bellissima conferenza piena di dibattito al Premio Ezio Tarantelli conferito a Mario Baldassarri.

Bellissimo è stato il ricordo di Ezio Tarantelli della moglie Carol e di Mario Baldassarri, suo compagno di studi al MIT di Boston: era un uomo pieno di luce, speranza, carità, intelligenza critica, coraggio ed utopia costruttiva, tutte cose che mancano molto all’Italia di oggi, barbaramente ucciso da due idioti afferenti alle Brigate Rosse.

L’argomento dominante – alla conferenza - di chi difende la manovra Monti: NON è una manovra recessiva, perché altrimenti ci sarebbe stato il baratro e comunque guardate cosa è successo con lo spread.

Si chiama non sequitur. Cerchiamo di essere chiari. Non è recessiva perché prevede una crescita     -0,5% per il 2012 e zero per il 2013: queste sono stime “tendenziali” (OCSE) che valevano anche prima di questa manovra. Al massimo saranno state recessive, per quanto hanno contribuito (oltre al ciclo mondiale) a queste cifre, le precedenti manovre. Il ViceMinistro Grilli non ha voluto fornire ulteriori stime su come varierà il PIL dopo la manovra. Ha anzi detto che con le riforme il PIL migliorerà. Se avesse ragione la manovra non è recessiva. Io credo che sbagli. In questo senso, anche se i numeri ufficiali non lo rivelano, la manovra tecnicamente è recessiva perché peggiorerà l’andamento di una economia. Per di più di una economia già in recessione.

Ma mi interessa di più discutere della questione “altrimenti ci sarebbe stato il baratro e comunque guardate cosa è successo con lo spread”.

Altrimenti in che senso? Se non ci fosse stato Monti. Ma la questione non è questa. Senza Monti, già l’OCSE aveva chiarito dove andavamo (vedi sopra), un disastro. Ma Monti c’è e dunque devo giudicare se questo è il meglio che poteva fare, spread incluso (poteva scendere di più?).  E la mia risposta è: accipicchia se poteva fare di meglio, ma così tanto. Con tutti gli interventi pro-crescita che si potevano ideare e proporre (bastava finanziare con tagli agli sprechi – non nei costi della politica, ma quelli negli appalti pubblici - e l’IVA una forte e intelligente spesa pubblica produttiva), avremmo avuto una crescita non solo positiva ma compatibile con migliori dinamiche di debito e deficit, minore tassazione e minore iniquità. Cioè una manovra non recessiva compatibile con l’obiettivo di pareggio di bilancio 2013, con minore disoccupazione di breve e lunga durata.

Se vi pare poco.

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Autorità e tagli dei costi: le punture di spillo non scuoteranno il pachiderma

Art. 23 – Riduzione dei costi di funzionamento delle
Autorità di Governo, del CNEL, delle Autorità indipendenti e delle Province

1. Al fine di perseguire il contenimento della spesa complessiva per il funzionamento delle Autorità amministrative indipendenti, il numero dei componenti: a) del Consiglio dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è ridotto da otto a quattro, escluso il Presidente; b) dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture è ridotto da sette a tre, compreso il Presidente; c) dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas è ridotto da cinque a tre, compreso il Presidente; d) dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato è  ridotto da cinque a tre, compreso il Presidente; e) della Commissione nazionale per la società e la borsa è ridotto da cinque a tre, compreso il Presidente; f) del Consiglio dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo è ridotto da sei a tre, compreso il Presidente; g) della Commissione per la vigilanza sui fondi pensione è ridotto da cinque a tre, compreso il Presidente; h) della Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle  amministrazioni pubbliche è ridotto da cinque a tre, compreso il Presidente; i) della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali è ridotto da nove a cinque, compreso il Presidente.

2. La disposizione di cui al comma 1 non si applica ai componenti già nominati alla data di entrata in vigore del presente decreto. Ove l’ordinamento preveda la cessazione contestuale di tutti componenti, la  disposizione di cui al comma 1 si applica a decorrere dal primo rinnovo successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto.

Ecco uno degli articoli della manovra Monti. Volto a tagliare i costi della politica, o meglio delle posizioni apicali (commissari) delle Autorità. Sono 9 autorità che danno “lavoro” a 56 commissari che scemeranno (nel tempo!) a 31, un taglio di quasi il 50%, con quasi tutte le Autorità con Consigli di non più di 3 Commissari. Peccato non si sia colta quest’occasione, visto che la legge riformava il funzionamento dei vertici, per imporre quote rosa con la nomina di almeno uno dei 3 membri al femminile.

Meno auto blu? Meno compensi? Meno autisti? Meno segretarie? Certamente. E forse meno perdite di tempo in negoziati interminabili e ricatti reciproci? Forse. Perché nutrire allora dei dubbi sulla bontà di quest’articolo?

Perché, in fondo, quello che realmente conta è  che queste Autorità funzionino bene, no? Il valore per il Paese di una loro efficacia rispetto ad un loro fallimento è così vastamente superiore ai risparmi di costi conseguiti con questo articolo che ci saremmo aspettati una grandissima attenzione a questa variabile in sede di riforma.

Così non è stato. Siamo sempre attenti all’input (costi) dell’attività della P.A. e così pigri o spaesati quando si tratta di valutarne invece l’output, il risultato, per il Paese. Si prenda l’Antitrust, per esempio, istituzione potenzialmente chiave per far recuperare produttività alle nostre imprese e dunque il gap di competitività con i nostri amici tedeschi che tanto mette in crisi l’euro. Abbisognerebbe di avere più poteri, più fondi per svolgere indagini, più libertà di sanzionare. Ma dovrebbe anche saper dimostrare di avere adempiuto  ai suoi nuovi compiti con efficacia (la c.d. accountability). Oppure prendete l’Autorità dei Contratti Pubblici, a cui dovremmo dare l’arduo compito di certificare le competenze delle stazioni appaltanti con il conferimento di brevetti professionali, l’arduo compito di centralizzare tutte le informazioni sulle gare d’appalto in Italia ed individuare sulla base di queste dove svolgere le indagini a campione per verificare la qualità della commessa, o ancora generare un Piano Nazionale di Miglioramento della Performance di ogni stazione appaltante italiana. Questa sì che è roba seria e che mi importa a me se sono sette o tre i Commissari, purché facciano bene il loro (nuovo) lavoro. O La CIVIT (chi lo sa che esiste?), che così tanto potrebbe fare per permettere una efficace valutazione delle performance dei dipendenti pubblici? E perché Monti non ha usato il suo potere negoziale (massimo in questo momento) con i partiti per far finalmente partire l’Autorità Anti Corruzione in Italia?

Le punture di spillo non scuotono il pachiderma. Nascondersi dietro di esse è ipocrisia.

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Leonardo Becchetti: tassare le attività finanziarie, ecco perché.

Ho chiesto al mio amico e collega Leonardo Becchetti di scrivere un pezzo su questo blog su un tema di estrema importanza, quello della tassazione delle attività finanziarie. Grazie Leo.

Aggiungo (io) che userei questo gettito non per ridurre il debito o deficit ma per finanziarci spesa pubblica essenziale per la Ricostruzione del nostro Paese: prigioni decenti, ospedali decenti, scuole messe in sicurezza e piene di supporti informatici per l’apprendimento, patrimonio artistico esaltato e messo in risalto per i turisti e per noi stessi, campi sportivi per i ragazzi nelle periferie, progetti per migliorare e mettere in sicurezza il nostro territorio.

E’ opportuno interrogarci sul perché la posizione degli economisti e della società civile (a maggioranza favorevole nell’UE) nei confronti della tassa sulle transazioni finanziarie è cambiata nel corso degli ultimi anni. Lo scorso anno 130 economisti italiani hanno firmato un appello in suo favore (http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/17-globalizzazionesviluppo- ultinazionali/6663-perche-e-il-momento-di-una-tassa-sulle-transazioni-finanziarie.html?ml=2&mlt=yoo_explorer&tmpl=component) che è poi confluito nell’analogo appello di 1000 economisti di 53 Paesi consegnato ai ministri finanziari dei Paesi del G20  in occasione del vertice svoltosi a Washington il 14 e 15 aprile 2011 (tra i firmatari ci sono figure di primissimo piano come Dani Rodrik, Tony Atkinson, Joseph Stiglitz e Jeffrey Sachs) (http://www.guardian.co.uk/business/2011/apr/13/robin-hood-tax-economists-letter).

Due i principali motivi di questo cambiamento di opinione: gli eventi della crisi finanziaria globale e maggiore evidenza in materia che ha aiutato a superare alcuni pregiudizi. Con la crisi finanziaria globale i debiti pubblici di alcuni dei principali paesi occidentali sono significativamente aumentati per le operazioni di salvataggio degli intermediari in crisi (o per gli effetti indiretti della crisi) e sono successivamente diventati il nuovo obiettivo di attacchi speculativi. Una parte del mondo finanziario ha così privatizzato i profitti, socializzato le perdite e successivamente utilizzato i fondi pubblici impiegati per il proprio salvataggio per scommettere contro gli stessi salvatori. E’ comprensibile pertanto che la maggioranza dell’opinione pubblica sia dell’avviso che chi opera sui mercati finanziari debba contribuire a pagare i costi di questa crisi, per ora ridossati sulle fasce più deboli. Da questo punto di vista si ritiene che la TTF risponda ad un’esigenza di giustizia e sia addirittura urgente visti gli eventi più recenti per mantenere la coesione sociale a livello comunitario. Il secondo motivo dell’aumentato favore della tassa nasce dal superamento di un pregiudizio. Sino a poco tempo fa si è ritenuto che essa non fosse applicabile se non a livello globale pena la fuga di capitali dal paese che decidesse di porla in vigore. Questo pregiudizio appare infondato perché esistono ad oggi, come documenta un lavoro di ricerca del Fondo Monetario Internazionale, ben 23 paesi che applicano unilateralmente la tassa (nient’altro che un fissato bollato) senza che si sia verificata una massiccia fuga di capitali (Matheson T., Taxing Financial Transactions. Issues and Evidence, IMF Working Paper n. 11/54, marzo 2011, 8). Il paese con la tassa più alta è il Regno Unito che applica la Duty Stamp Tax su un solo tipo di attività finanziaria (tassa del 5 per mille sui possessori di azioni quotate alla borsa di Londra). La tassa consente di raccogliere circa 5 miliardi di sterline all’anno. Per via di quest’evidenza la proposta franco-tedesca fatta propria da Barroso di introduzione della tassa a livello UE parla correttamente di “armonizzazione” a livello europeo delle tasse sulle transazioni finanziarie e non di loro introduzione. Proprio la tassa londinese ha generato un interessante esempio di elusione: per non pagare la tassa una parte degli operatori sono usciti dal mercato azionario per costituire nuovi derivati OTC (contracts for differences) che consistono in scommesse sulle variazioni di prezzo delle azioni. Interessante dunque notare che la tassa ha separato in due diversi mercati gli interessati ad investire realmente nei titoli azionari delle imprese e gli operatori che giocano sulle variazioni di breve dei prezzi. Questo tipo di elusione è già implicitamente considerata nella proposta Barroso che estende la tassazione ai derivati (e quindi anche ai contracts for differences). Esse può essere altresì contrastata proibendo i contract for differences come avviene su un mercato non secondario come quello degli Stati Uniti.

Ancora sul piano scientifico, esistono numerosi lavori che misurano l’elasticità dei volumi di transazioni all’introduzione di tasse simili evidenziando coefficienti piuttosto contenuti e non tali da avvalorare l’ipotesi di fuga dei capitali. Un altro motivo per i quali la fuga non può avvenire è che proprio le operazioni ad altissima frequenza usufruiscono di un vantaggio di prossimità alla sede fisica della borsa da cui partono le informazioni in via telematica (New York Times (2009): Stock Traders Find Speed Pays, in Milliseconds). Spostare le operazioni lontano dai mercati principali comporterebbe la perdita di questo vantaggio.

Un’altra obiezione che appare infondata è quella dell’impatto della tassa sul costo del capitale. Per l’aliquota fissata dalla proposta Barroso i calcoli fondati sui modelli di capitalizzazione dei valori futuri attesi degli asset dimostrano che questo costo è pressochè nullo (vedasi ancora Matheson 2011). L’altra obiezione che la tassa diminuisca la liquidità dei mercati è anch’essa opinabile. Di quanta liquidità abbiamo bisogno ? Dean Baker in un suo commento sul tema dice che la tassa ci riporterebbe ai costi di transazione e alla liquidità di dieci anni fa, ovvero ad un periodo più florido di quello che stiamo vivendo (http://www.cepr.net/index.php/blogs/cepr-blog/ken-rogoff-misses the-boat-on-financial-speculation-taxes). La verità è che non esiste nessun evidenza certa sugli effetti della tassa sulla liquidità ma solo una serie di diversi modelli che trovano risultati opposti a seconda del tipo di microstruttura dei mercati finanziari e del modello di competizione ipotizzato tra gli intermediari.

Riassumendo le quattro principali obiezioni all’istituzione della tassa (non si può imporre se non a livello globale, non ci sarebbe gettito per la fuga dei capitali, la tassa aumenta significativamente il costo del capitale, la tassa riduce la liquidità dei mercati) sono false per l’evidenza dei fatti (le prime due) o infondate per mancanza di prove (le seconde due).

Per quanto esposto sopra la tassa sulle transazioni (pur non essendo ovviamente la panacea di tutti i mali) può rappresentare una tappa importante in quel riequilibrio dei rapporti tra istituzioni e finanza. In questo senso essa può favorire le altre riforme auspicate per prevenire nuove crisi finanziarie dalla legge Dodd-Frank o dalla commissione Vickers nel Regno Unito (Volcker rule, riduzione della leva degli intermediari too big to fail, penalizzazione nei requisiti di capitalizzazione per le attività più rischiose rispetto al credito ordinario) e il recupero di fiducia da parte della società civile nei confronti delle banche e delle istituzioni finanziarie di cui abbiamo urgente bisogno.

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Tenerezza, sfrontatezza e la crescita che non c’è

2012 2013
Settembre2009 2 2
Settembre2010 2 2
Aprile 2011 1,3 1,5
Luglio 2011 1,3 1,5
Settembre2011 0,6 0,9
Monti  -0,5 0

Ecco le previsioni sulla crescita 2012 e 2013 che il Ministero dell’Economia ha pubblicato dal 2009 ad oggi. L’ultima previsione è quella pronunciata dal Vice Ministro Vittorio Grilli alla conferenza stampa di domenica. Come vedete, mano a mano che passa il tempo e gli anni oggetto di previsione si avvicinano, diventa sempre più pessimistica la stima della crescita del PIL. Da dove vengono questi costanti cali nelle aspettative di crescita per il 2012 e 2013 col passare del tempo?

Una prima possibile risposta: il ciclo è costantemente peggiorato ed eravamo stati eccessivamente ottimisti nel non prevederlo.

Un’altra possibile risposta: non avevamo ben calcolato l’impatto sul PIL delle politiche restrittive che abbiamo approvato nel corso di questi anni. Cioè abbiamo prodotto politiche che riducevano il deficit e con esso la crescita, ma quest’ultima parte non l’abbiamo calcolata.

Come ben riassunto da Boeri e Panunzi sulla Voce:

L’aggiustamento sarà di 20 miliardi, che si aggiungono ai 60 delle manovre estive. Nelle intenzioni del Governo dovrebbero essere sufficienti per portare al pareggio di bilancio nel 2013 incorporando valutazioni più realistiche sull’andamento della nostra economia nei prossimi due anni (mia sottolineatura, NdR). Il viceministro Grilli nella conferenza stampa ha detto che il pareggio di bilancio verrà raggiunto con questa manovra in presenza di una contrazione del Pil dello 0,5 per cento nel 2012 e di una stagnazione nel 2013, in linea con le previsioni dell’Ocse. Ma le previsioni dell’Ocse ovviamente non contemplavano questa manovra (idem, NdR). Quindi il pareggio di bilancio verrà raggiunto solo se la manovra non avrà effetti recessivi, sulla qual cosa è legittimo nutrire non pochi dubbi: quasi un punto e mezzo di Pil, raccolto soprattutto con tasse più alte, non è cosa da poco.

Adesso questo impatto negativo sulla crescita di questa “manovrona” dunque non lo calcoliamo nemmeno, con un eccesso di ottimismo che fa quasi tenerezza per la sua sfrontatezza. Sfrontatezza perché evidentemente falso. Tenerezza perché meno male che non lo calcolano, è un vero atto di bontà.

Sapete perché meno male? Perché un atto di bontà? Perché, paradosso dei paradossi, se l’avessero calcolato, sarebbero stati obbligati a riconoscere che il pareggio di bilancio nel 2013 non sarebbe stato raggiunto a causa delle minori entrate. Allora avrebbero dovuto aumentare ancora più le tasse e ridurre ancora la spesa, riducendo ancora la crescita. E poi di nuovo e di nuovo e di nuovo….

La verità è una sola e non sarà rivelata che quando anche queste proiezioni si riveleranno sbagliate (a meno che la locomotiva mondiale non riparta inaspettatamente): solo politiche fiscali espansive (anche finanziate con tasse se vogliamo!) possono far ripartitre la crescita e così garantire il pareggio di bilancio grazie all’aumento delle entrate. That’s all folks.

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Miglioriamo le istituzioni e le regole, la politica fiscale farà lo stesso

Quando un paese si ritrova con un PIL in calo, la risposta che un governo “intelligente” può dare, non vi parrà strano, è aiutare l’economia a uscire fuori dalle secche con maggiore spesa pubblica e minore tassazione. PIL giù, spesa pubblica su. Si chiama proprio per questo politica fiscale contro- ciclica, perché la spesa va in direzione opposta al ciclo. Nel fare ciò aiuta a smussare le asperità del ciclo: più domanda pubblica significa più produzione, occupazione, reddito. Una politica pro-ciclica, PIL giù, spesa pubblica giù, è una evidente idiozia, a meno che non si sia a favore di una masochistica sofferenza e sacrificio delle persone (tra parentesi, brutta parola che va di moda, sacrificio, meglio dire sforzo, almeno si mette l’enfasi su di un moto di volontà e non di dolore, che porta veramente da qualche parte).

Il problema di chi fa politica contro-ciclica in tempi duri, e dunque opera bene, è che nelle fasi di espansione (tempi gai) ogni tanto viene preso da crisi di memoria su cosa sia una buona politica fiscale e da Dr. Jekyll diventa Mr. Hyde. Come? Semplice, facendo, in tempi di vacche grasse, una politica pro-ciclica: più PIL? Ok allora più spesa pubblica, dicono questi governi. Invece di mettere fieno in cascina, moderando la spesa quando è utile farlo, governi “cicala” spendono le tante risorse disponibili che sarebbero così utili in “inverno”. Potete ben capire che un governo contro-ciclico nelle recessioni e pro-ciclico nelle espansioni finisce per espandere il debito oltre misura: spende sempre! Un governo invece sempre anti-ciclico aumenta spesa e debito in fase di recessione e li taglia in espansione così da non poter far sorgere un problema di sostenibilità delle finanze pubbliche. Un Governo cicala presto o tardi si troverà nella difficile situazione di non poter espandere la spesa in una recessione perché … è finito il fieno in cascina e i mercati non gli concedono la possibilità di prendere a prestito ulteriormente.

Perché i governi finiscono per comportarsi come cicale? Perché questi governi “fanno la cosa sbagliata” a danno dei loro cittadini? Tre economisti di calibro, Jeffrey A. Frankel, Carlos A. Végh e Guillermo Vuletin, hanno da pochi giorni fatto uscire un lavoro che affronta proprio questa  questione.  La loro risposta? Sono i governi che hanno buone istituzioni che imparano o trovano più semplice effettuare le giuste politiche fiscali, e cioè quelle contro-cicliche. Sono i Paesi con  istituzioni di mediocre qualità invece ad adottare politiche fiscali pro-cicliche, sbagliate.

Cosa  intendo per paesi con istituzioni di buona qualità? Quelli che: 1) tutelano i diritti di proprietà, il rimpatrio dei profitti e il pagamento puntuale dei fornitori, 2) adottano politiche dure contro la corruzione, 3) tutelano l’ordine e fanno rispettare la legge (sistema giuridico imparziale) e 4) hanno una buona burocrazia con la dovuta professionalità che fornisce servizi ai cittadini in maniera puntuale e senza interruzione. Perché mai, vi potreste chiedere, Paesi con buone istituzioni dovrebbero adottare le giuste (anti-cicliche) politiche fiscali? Gli autori lo spiegano così con un esempio: pressioni politiche per spendere di più in tempi di vacche grasse sono difficilmente aggirabili e la costruzione di regole ed istituzioni che tendano a far sì che maggiori entrate fiscali siano “messe da parte” in periodi buoni aiuterebbero in maniera decisiva l’evitare politiche fiscali pro-cicliche. E perché poi sarebbero i paesi con cattive istituzioni a fare politiche pro-cicliche? Con parole degli stessi autori: “Una ragione importante per una spesa pro-ciclica  è che i governi, nelle espansioni cicliche che generano maggiori imposte, non riescono a resistere alla tentazione o alle pressioni politiche di aumentare tale spesa proporzionalmente o più che proporzionalmente.” A meno, appunto,che non abbiano messo su regole ed istituzioni che frenino questa miopia dei politici. 

Gli autori guardano all’esperienza di 94 paesi dal 1960 al 2009. I risultati sono mostrati dal grafico accanto che riporta sull’asse delle ascisse la qualità istituzionale media del paese e sull’asse delle ordinate la pro-ciclicità della politica fiscale misurata dalla correlazione tra spesa pubblica e PIL  (maggiore il suo valore, peggiore la politica fiscale effettuata). Cosa dimostrano i dati? Vedete sicuramente la relazione decrescente
tra le due variabili: maggiore la qualità delle istituzioni di un Paese minore la correlazione tra spesa pubblica  e PIL, ovvero migliore è la politica fiscale adottata. L’Italia, tra 1960 e 2008, è
21° quanto a qualità media delle istituzioni ed ha adottato nel tempo una politica fiscale di fatto a-ciclica, finendo per non adattarsi alle variazioni del ciclo e dunque comunque non sfruttando al meglio il potenziale della politica fiscale. Oggi

Dunque, cosa ci insegna questo risultato? Molto. Siamo sempre stati abituati a credere che una migliore qualità ed efficacia delle nostre istituzioni migliora i servizi al cittadino e che dunque ci si debba dar da fare per migliorare le stesse istituzioni e le regole del gioco sociale, introducendone di nuove o migliorando le esistenti. Ora sappiamo che vi è un’altra ragione per lottare contro la corruzione, la burocrazia asfissiante e in generale per migliorare l’azione del governo: ottenere una politica fiscale contro-ciclica che, tra le altre cose, ci garantisce che durante una recessione meno persone siano lasciate da sole, a soffrire di una disoccupazione che spesso può rivelarsi di lunga durata ed incurabile.

E dunque possiamo sperare che l’Unione Europea di sforzi ancora di più per avere istituzioni che funzionino così da far sì che venga impedito ai politici di svolgere politiche fiscali pro-cicliche dannose? Buona domanda. Non è cosa di cui non ci dovremmo preoccupare, e la ragione è presto spiegata. Gli autori del lavoro si preoccupano infatti di verificare che non vi sia, nella relazione mostrata dal grafico, una causalità inversa: che vada piuttosto dal tipo di politiche fiscali alla qualità delle istituzioni, e non viceversa. “Ad esempio, politiche fiscali pro-cicliche potrebbero aumentare le possibilità che un governo incontri problemi di sostenibilità del debito pubblico durante delle recessioni (immagino che ogni riferimento non vi risulti puramente casuale) e che queste necessità di finanziarsi portino a espropriazioni, ripudio di contratti o interferenze con altri poteri indipendenti come quello giudiziario o come la banca centrale (anche qui, tutto poco casuale). Per di più, il caos creato da crisi del debito potrebbe esacerbare la corruzione del sistema  politico, così minando le fondamenta di una pubblica amministrazione efficiente e professionale.

La preoccupazione in questo caso è che la crisi possa avere reso le nostre istituzioni peggiori quando queste hanno adottato le politiche fiscali sbagliate. Ma ciò non ci esime dal batterci per migliorare le nostre istituzioni, anzi rende il problema oggi ancora più cogente.

A cominciare, diciamo noi guardando a casa nostra, da riforme volte alla creazione di un’Autorità Anti Corruzione che non abbiamo, a una Civit che funzioni sul serio, a una soluzione al pagamento ritardato delle imprese creditrici della P.A., a una centralizzazione delle informazioni in tempo reale sulla spesa di appalti per beni, servizi e lavori al fine di una razionalizzazione e riqualificazione della stessa spesa, a una determinazione dei costi standard delle amministrazioni locali al fine di un decentramento amministrativo serio e rigoroso. Eccetera eccetera eccetera.

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Cari A&G, no, così proprio non va

Cari Alesina e Giavazzi no, così non va.

Concordo con le preoccupazioni di Alberto e Francesco nella loro lettera aperta “Caro presidente no, così non va” a Monti sul Corriere di oggi. Ma anche le loro proposte mi preoccupano assai (anche se un po’ meno di quanto non faccia la folle idea del Prof. Monti di tassare coloro che pagano le imposte). In corsivo le frasi tratte dal loro articolo.

Quattro erano i punti che a noi parevano essenziali. Primo, per quanto riguarda i conti, ridurre le spese, più che aumentare le tasse….. Tutti gli studi (sia accademici che del Fondo monetario internazionale che della Commissione europea) concordano sul fatto che gli aggiustamenti fiscali fatti aumentando le aliquote hanno creato recessioni più forti di quelli che hanno operato riducendo le spese. 

Quindi:  La richiesta di ridurre le spese crea recessione, anche se più debole di quella che avremmo aumentando le tasse.

Non solo: la spirale di aumenti di aliquote, recessione, riduzione di gettito, tende a creare un circolo vizioso in cui l’economia si avvita in una recessione sempre più grave. Quella di cui leggiamo è una manovra fatta per tre quarti di maggiori tasse e solo per un quarto di minori spese.

Quindi: Anche riducendo le spese partirebbe il circolo vizioso di cui sopra. Una recessione sempre più grave. Ma ci rendiamo conto di cosa stiamo proponendo?

La crescita. Molto più di un saldo di 25 o 15 miliardi, ciò che conta è un segnale di svolta sulle riforme strutturali. Come Lei ben sa, il nostro problema non è il deficit, ma il rapporto fra debito e prodotto interno. Per ridurlo non basta mantenere un saldo positivo al numeratore: occorre che aumenti il denominatore, cioè la crescita.

Quindi: facciamo recessione oggi perché dobbiamo farla, ma, concentriamoci a fare crescita. Che razza di messaggio è? Il loro argomento è: recessione oggi, ma espansione domani (quando?) con le riforme. Ma lo sappiamo che una recessione oggi crea disoccupazione permanente domani scoraggiando tante persone dal riproporsi sul mercato del lavoro? Cosa sono, per usare un linguaggio bellico, “vittime di fuoco amico”, “danni collaterali”, che dobbiamo sopportare per la causa? E perché mai?

E perché non agire coraggiosamente contro il peso di un impiego pubblico esorbitante e talvolta inutile? 

Sugli stipendi è quasi tutto bloccato nel breve periodo e, comunque, in una recessione tagliare gli stipendi, sì che è disastroso.  Ma perché in tutto ciò è assolutamente assente l’unica leva che può generare crescita e tagliare simultaneamente gli sprechi e cioè gli acquisti pubblici? Aumentare gli  acquisti pubblici finanziandoli con una riduzione di sprechi agli stessi acquisti pubblici non è una contraddizione in termini. E’ un modo di ridurre meri trasferimenti dai cittadini a imprese che corrompono o che colludono (gli sprechi) per usare questi soldi per comprare beni e servizi che fanno ripartire la domanda interna, l’occupazione, l’economia e, sì Alberto e Francesco, anche sconfiggendo il debito/PIL. Lo spazio di manovra è enorme.

Ma qualcuno ascolta là fuori?

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Is there anybody out there?

Here is depression for you. Depression is what unemployment creates. Beyond the wall, somebody must listen and care for these people. Economic policy for growth not for austerity.

Ecco cosa fanno le recessioni. Disoccupazione. E depressione. Non si fanno manovre “anche se” generano “milioni di persone destinati a soffrire a causa delle misure di austerità” (Guerrera, oggi sulla Stampa). Sono manovre sbagliate. Ma dall’altra parte del muro qualcuno ascolta?

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Sad Story of Masochism

After seeing this graph do we still need to talk about fiscal restrictions? Those who tighten their budget right now are meant to experience larger output losses. Wow, amazing obviousness.

Europe wake up. This nightmare has to end.

But Italy, stubborn to the point of masochism, tomorrow will approve raising the marginal  tax rate on middle incomes.

At least spend it on goods, services, works. No way. It will use it to reduce the public debt.  Sad story.