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Il piu’ grande taglio delle tasse della storia dell’uomo sarà recessivo

Qualche chiarimento sulla c.d. manovra.

Non è una manovra che aumenta il deficit di 11 miliardi. Il deficit si riduce, non aumenta. Non è questione da poco, anche perché dicendo che aumenta sembra che abbiamo ottenuto una grande vittoria sull’Europa. Una piccola vittoria l’abbiamo ottenuta nel senso che il deficit sì diminuisce, ma di meno di quanto inizialmente previsto. Mi direte: ma allora come fa il Premier a dire che aumenta il deficit di 11 miliardi. Oh, è un vecchio trucchetto della politica. Ma andiamo per ordine. Che il deficit diminuisca, in valore sia assoluto che percentuale di PIL non lo dico io: lo dice la Nota di Aggiornamento del DEF inviata in Europa (e ancora da scrutinare da parte della Commissione europea). Più precisamente mentre il deficit 2014 si chiude al 3% di PIL e con un valore di circa 48,8 miliardi di euro, quello del 2015 di Renzi è programmato chiudersi – ha deciso il Governo – al 2,9% di PIL, 47,7 miliardi. 1 miliardo in meno, altro che 11 in più. E da dove esce fuori 11 direte? Oh semplice, dal famoso valore “tendenziale” del deficit 2015, che il Governo ha stimato al 2,2% di PIL. Siccome il deficit come abbiamo detto nel 2015 sarà del 2,9% di PIL, la differenza, 0,7% di PIL sono circa 11 miliardi. Ma che cosa è questo tendenziale? Semplice, è il valore al quale avrebbe teso “naturalmente” il deficit 2015 se non fosse stato deciso da Renzi invece che andava rifiutato e modificato, con la sua manovra, appunto, al 2,9% programmatico. Il tendenziale? Il tendenziale non ha significato economico, è il mondo come sarebbe stato se non fosse che non è stato. Per capire come il Governo ha deciso di sostenere l’economia più dell’anno precedente viste le sue difficoltà dobbiamo guardare a come è variato da un anno all’altro il deficit, non da come è variato il deficit tra quello che avrebbe potuto essere quest’anno (informazione irrilevante che non tocca l’economia) e quello che sarà. Una manovra dunque, quella di Renzi, certamente non espansiva, ma apparentemente nemmeno recessiva: infatti la riduzione dell’indebitamento dal 2014 al 2015 deriva dalla riduzione della spesa per interessi di 0,2% di PIL e dalla diminuzione dell’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi) da 1,7 a 1,6%. Briciole, direte.

Un attimo per soffermarsi sulle famose slide di Renzi. Mi direte: ma come? Lui tra le cifre in entrata ha messo gli 11 miliardi di maggiore deficit! Sbagliato, come abbiamo visto il deficit diminuisce di circa 1 miliardo. Quindi le entrate non sono 36 miliardi ma circa 25. Che vanno a finanziare quali uscite? Non ha forse Renzi detto che le uscite sono pari a 36 miliardi? No, il conto deve tornare: se le risorse sono 25 miliardi, gli impieghi (le uscite) devono anche esse essere 25 per il 2015. E’ probabile che vengano dall’avere inserito nel 2015 delle uscite che in realtà erano già state decise nella legge di stabilità del 2013 e che già valevano nel 2014, e che sono state confermate nel 2015: in particolare i 6 miliardi di spese per missioni all’estero ecc. e 4 miliardi di bonus fiscale. Aggiungeteci che le entrate servono anche a ridurre il deficit di 1 miliardo e ci dovremmo essere. Comunque una bella cifra 25 miliardi, ma non 36.

25 miliardi di qua e 25 miliardi di là, manovra neutrale? Mica tanto. Perché se è vero che ci sono minori spese che finanziano minori tasse devono essere fatti alcuni distinguo essenziali. Primo, le minori tasse in una recessione come questa hanno certamente un effetto positivo minore dell’effetto negativo delle minori spese per appalti pubblici. Perché? Semplice. 1 euro in meno di spesa, specie se tagliato a casaccio – perché la spending review fino ad oggi non è mai stata fatta con il criterio che sarebbe stato necessario per individuare veri sprechi – genera riduzioni di produzione e occupazione immediati di pare ammontare: se lo Stato non domanda 100 ecomotografi, il PIL cade di 100 ecotomografi. E se l’azienda di ecotomografi fa meno soldi licenzia e/o paga meno i suoi dipendenti, che consumeranno di meno eccetera. Studi recenti su cui torneremo mostrano che 1 euro in meno di spesa pubblica in una recessione grave come la nostra tipicamente riduce il PIL di 1,2 euro. Fatevi i conti: se riduciamo la spesa di 15 miliardi, il PIL si abbasserà di circa 18 miliardi. “Ma ci sono le riduzioni della tassazione!!” direte voi. Certo. Ma non tutto il maggior reddito netto si traduce in consumi ed investimenti: tanto più si è pessimisti sul futuro, e in queste recessioni imprese e famiglie lo sono tanto, tanto meno se ne spendono, di quelle riduzioni. Se ipotizziamo ottimisticamente che l’effetto positivo delle minori tasse sia di 10 miliardi di PIL, abbiamo un PIL che calerà di 8 miliardi rispetto a quanto sarebbe stato senza questa manovra di Renzi: 0,5% del PIL attuale dunque, portando la crescita 2015 allo 0%, dallo 0,5% promesso da Padoan. Quarto anno di recessione consecutiva e debito su PIL che continua a marciare verso l’alto. Fate voi.

Certo che l’Europa ci guarda. Ma ci guarda benignamente ed è un’ingenuità pensare che sia effettivamente irritata con l’Italia per essersi rifiutata di raggiungere traguardi ancora più ambiziosi di finanza pubblica: la Germania sta finalmente soffrendo per la mancanza di domanda italica e francese, si sta spaventando e ha chiesto di chiudere un occhio se non due sulle apparenti infrazioni italiane all’idiotico Fiscal Compact, pur di evitare una recessione peggiore. Ma la recessione ci sarà, come abbiamo visto sopra. E ci sarà perché malgrado tutti gli appelli di Renzi a Confindustria, gli imprenditori non investiranno quanto vorrebbe il Premier. E non lo faranno per colpa di quello che il Premier ha scritto, sotto dettatura europea: e cioè che anche se il deficit italiano resta al 3% di PIL oggi, scenderà al 2 e poi all’1 e poi allo zero, in tre anni. Lasciate stare che sia vero o meno: l’ha scritto. A forza di annunci recessivi di maggiori tasse o minori investimenti pubblici, richiesti dal Fiscal Compact, crolla l’economia italiana, che non ascolta i richiami all’ordine del Premier, e con essa la speranza di un’Europa diversa.

Renzi aveva due opzioni soltanto: o a primavera di quest’anno far partire sul serio la spending, e con 15 miliardi di tagli di veri sprechi (manovra non recessiva in questo caso) finanziare maggiori investimenti pubblici – unica vera leva per far ripartire occupazione e produzione – senza muoversi dal deficit del 3% di PIL ed abbattendo il rapporto debito PIL; o, preso atto della sua incapacità di fare la spending in tempo, come è stato, effettuare investimenti pubblici per 1% di PIL, 16 miliardi, portando il deficit al 4% di PIL ma riuscendo comunque ad abbattere il debito sul PIL grazie alla maggiore crescita di quest’ultimo e senza preoccuparsi di multe che nessun leader politico europeo avrebbe mai avuto il coraggio di comminare al fondatore Italia. No, Renzi non ha fatto nessuna delle due cose: ha scelto la via semplice di lasciare il deficit al 3% senza fare né spending né investimenti pubblici. Così che la disoccupazione possa crescere, il PIL crollare, il debito continuare nella sua salita. Che l’abbia fatto perché glielo ha chiesto l’Europa lo esonera solo in minima parte: l’Europa siamo noi, specie in questo semestre di Presidenza europea, e sarebbe stato opportuno ricordarlo a Schauble, collega tedesco di Padoan, che ha recentemente parlato – in una importante intervista televisiva ai margini della riunione annuale del Fondo Monetario Internazionale – ben più a lungo del legale rappresentante dell’Unione, il nostro Padoan appunto, a cui spettava la parola. Tra pochi mesi saremo qui a chiederci come mai il PIL continua a crollare malgrado ci sia stato il più grande taglio delle tasse della storia dell’uomo.

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La mediocrità di far finta di non aver sforato e la vigliaccheria di non sforare come si deve

L’Europa delle ipocrisie contabili e della mancanza di trasparenza – che hanno generato la crisi dei derivati greci con Goldman Sachs avviando il fuoco dell’incendio della recessione che si è rapidamente esteso a tutto il continente europeo – è sempre al lavoro.

A guardare la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza con calma ma dotati di una lente d’ingrandimento – necessaria per accorgersi di “impercettibili furbate” – ci si renderà conto che da aprile di quest’anno quando uscì il DEF (oggi appunto aggiornato) la spesa per interessi è crollata clamorosamente senza che le ipotesi sull’andamento dei tassi d’interessi nazionali ed internazionali che vi stanno alla base si siano modificate.

Paragonando i nuovi dati con quelli del documento di aprile si nota infatti come la spesa per interessi in percentuale del PIL sia scesa di addirittura 0,5% (ogni anno) di PIL dal 2013 al 2015 e dello 0,6% nel 2016. Decremento dovuto per più della metà alla recente rivisitazione verso l’alto del PIL (una modifica che ha influenzato tutte le grandezze di finanza pubblica espresse in percentuale del PIL), ma, ed ecco qui la stranezza, anche al calo improvviso della spesa per interessi, di circa 4 miliardi di euro ogni anno, 0,25% di PIL. Le ragioni di tale calo? La rimozione dei costi dei derivati, sottoscritti dal Tesoro, dal capitolo della spesa per interessi, a seguito della nuova normativa contabile sovranazionale (SEC 2010) entrata ora in vigore. Una spiegazione succinta di ciò è alla pagina 25 della Nota di aggiornamento del DEF.

Strano destino quello delle normative contabili sui derivati nell’Unione europea delle ipocrisie. Nel momento (inizio dell’euro) in cui molti Paesi (come Grecia ed Italia) dovevano entrare nell’area della valuta comune e mostrare conti sani anche grazie ad operazioni derivate “ballerine” e “artificiose”, i loro effetti temporaneamente positivi dovevano e poterono essere contabilizzati nei deficit al fine di rientrare al di sotto del magico 3% di deficit su PIL.

Oggi che dobbiamo pagare (anche) i costi di quelle operazioni ballerine che battono, a distanza di anni, cassa per compensare le banche d’affari per i rischi corsi allora nel strutturarle, ecco che magicamente spariscono dalla contabilità pubblica e dalla spesa per interessi, aiutandoci nuovamente.

Tutto normale? Mica tanto, sotto due punti di vista.

Da un lato, quello microeconomico, perché ora sappiamo che ci sono 4 miliardi di spesa annuale per derivati che dovrebbe essere spiegata più nel dettaglio: un passo avanti, certamente, anche se involontario, nel dimensionamento del fenomeno che rimane tuttora oscuro e nascosto malgrado le promesse di Renzi e Padoan alla prima conferenza stampa governativa di fare chiarezza al riguardo. Ma rimane l’assurdità: ma è possibile che nessuno, a Via XX Settembre e/o a Bruxelles si preoccupi di spiegare l’origine di quel numero enorme al contribuente/cittadino? Spiegare quanta parte di quei 4 miliardi siano spese sostenute a causa dell’inevitabile andamento rischioso dei mercati e quanta parte a causa del rischioso (ed inopportuno) comportamento di precedenti gestori del debito? Spiegare a quali banche questi soldi sono dovuti, così da valutare se continuare ad intrattenere ulteriori rapporti con quelle banche, per evitare una concentrazione eccessiva dei rischi finanziari e di controparte?

Dall’altro, quello macroeconomico, perché se è vero che nulla è cambiato nella posizione reale del Paese con questo cambio di metodologia di contabilizzare i derivati nel bilancio pubblico, è anche vero che, paragonando mele con mele, ovvero usando sempre lo stesso metodo di calcolo della spesa nel corso degli anni, il vero deficit italiano per il 2015 non è il 2,9% annunciato da Padoan ma un vero e proprio 3,4% di PIL (2,9 più lo 0,5 dovuto ai nuovi sistemi di contabilità che ora nascondono il tutto).

E allora, mi direte? E allora, se tutti in Europa stanno facendo finta di non vedere che l’Italia in verità ha sforato il 3% di deficit su PIL, senza però riceverne alcun beneficio reale, non sarebbe stato molto meglio, infinitamente meglio, consentire lo stesso sforamento ma facendo sentire ai cittadini italiani il maggior benessere economico che avremmo potuto generare con quelle risorse aggiuntive? Non sarebbe stato infinitamente meglio battersi (per l’Italia) e consentire (per il resto d’Europa) uno 0,5% di PIL di investimenti pubblici italiani in più così da aiutare la piccola impresa e l’occupazione? Mettendo in sicurezza, con quegli 8 miliardi, il territorio delle tante Genova d’Italia? Riuscendo a ridurre grazie alla crescita addizionale, il rapporto debito pubblico su PIL?

E per quale motivo dobbiamo accontentarci della mediocrità di far finta di non aver sforato e della vigliaccheria di non sforare come si deve?

Per quale motivo?

Basta con queste ipocrisie. Basta. Sono queste che uccidono ogni giorno, come un veleno sorbito quotidianamente in piccole dosi, la casa comune europea.

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La battaglia contro l’austerità continua

Allego il comunicato stampa del Comitato Promotore della proposta referendaria Stop all’Austerità che ho l’onore di presiedere.

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Sedici europeisti, seppur con orientamenti politici e culturali diversi tra di loro, uniti nella critica all’attuale politica economica prevalente nel continente, dopo le elezioni europee hanno deciso di promuovere un referendum, “Stop Austerità”, per modificare la legge 243/2012, recante disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81 della Costituzione. È così che è cominciata la nostra battaglia all’ottusa austerità, con due idee forti di fondo a guidarci.

La prima è che non eravamo convinti che la ripresa europea fosse iniziata né che gli effetti depressivi dell’austerità fossero finiti. Avevamo ragione, come ha dimostrato il crescente drammatico andamento della disoccupazione e l’avvio della deflazione in Italia e in Europa.

La seconda era la convinzione della necessità di trovare un modo per far pronunciare il popolo italiano, facendogli esprimere il suo giudizio su quelle politiche di austerità approvate in Parlamento la vigilia di Natale del 2012, in tutta fretta e di nascosto. Il rischio era quello che l’attuale crisi economica si legasse sempre più ad una crisi sociale ed entrambe ad una vera e propria crisi della democrazia.  Un rischio sempre più reale col passare del tempo.

Nel mese di luglio è partita la raccolta delle firme nel silenzio dei mezzi di comunicazione. Da settembre siamo riusciti ad attirare sul referendum l’attenzione crescente dell’opinione pubblica, anche a fronte del peggiorare persistente delle condizioni economiche in cui versano il Paese e l’Europa.

Il quesito su cui abbiamo raccolto più firme (quello che intende abrogare la corrispondenza dell’equilibrio di bilancio con l’obiettivo a medio termine concordato in sede europea) ne conta circa 400.000.  I quattro quesiti hanno raccolto, nel loro complesso, poco più di 1.500.000 firme. Il nostro ringraziamento va a tutti i cittadini che si sono impegnati con la loro firma ed il loro lavoro affinché l’iniziativa avesse successo.

E’ un risultato importante che ci porta a non desistere e a rilanciare, per sostenere una linea di politica economica alternativa per l’Europa e l’Italia. Una politica economica espansiva, necessaria per i paesi europei ma anche per il mondo intero. Molti sondaggi ci confortano: la propensione di disponibilità a votare i nostri referendum è fra le più alte, negli ultimi vent’anni, tra tutti i referendum abrogativi testati (ed è significativamente più alta della partecipazione alle ultime elezioni europee).

L’attuale volontà di non rispettare appieno i dettami del Fiscal Compact, specie in Francia ed in Italia, mentre conferma la giustezza ed il tempismo della nostra iniziativa, non deve illudere: rimane nei programmi pluriennali inviati alla Commissione europea da parte di questi Governi l’ottuso annuncio di rientri a tappe forzate, nei prossimi anni, a forza di maggiori tasse e minori investimenti pubblici. Non è possibile che la domanda interna di consumi e investimenti privati ritrovi slancio all’interno di annunci così ambigui e poco rassicuranti. La sola soluzione efficace rimane quella della sospensione senza se e senza ma della costruzione del Fiscal Compact.

Per tutti questi motivi non possiamo che rilanciare la battaglia contro l’austerità, anche con l’appoggio alla raccolta di firme a sostegno della legge di iniziativa popolare per riscrivere l’articolo 81 della Costituzione, ad iniziative analoghe di modifica che dovessero essere promosse in questa direzione in sede parlamentare nazionale ed europea per rivedere radicalmente il Fiscal compact. Il Comitato promotore proseguirà inoltre nei prossimi mesi la sua azione contro l’austerità con una serie di iniziative politiche su tutto il territorio, fra le quali eventualmente anche la raccolta di firme. Per continuare a chiedere uno STOP ALL’AUSTERITA’. La battaglia per un’Europa capace di innovare e crescere nella solidarietà reciproca non si ferma.          

                                                 Il Comitato promotore dei referendum abrogativi legge 243/2012

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Il DEF di Don Abbondio

“Che bisogno avete di combattere il Fiscal Compact ancora? Non vedete che la Francia e l’Italia se ne sono staccati e la lotta contro l’austerità è ormai avviata?”

Ma per favore.

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In cosa consiste il Fiscal Compact? In una legge che detta ai Paesi di costruire un piano pluriennale di rientro di debiti e deficit pubblici senza se e senza ma.

L’orizzonte temporale di questo, tipicamente quattro anni (2015-6-7-8 nel nostro caso), replica alla perfezione quello sulla base del quale gli imprenditori fanno per i loro piani per valutare se investire in macchinari, tecnologie, ricerca e sviluppo. Se l’economia è tale in quegli anni da risultare incerta e/o poco profittevole quanto a vendite, l’investimento non verrà intrapreso.

I governi francesi ed italiani, nel presentare i loro piani ieri, hanno detto  due cose. Che per il primo anno (il 2015) non sosterranno un’austerità forte come quella annunciata lo scorso anno. Ed anche che dal 2016 in poi perseguiranno il rientro verso l’obiettivo di medio termine, che richiede minori e minori deficit, via maggiori tasse e minore spesa pubblica.

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 Minore austerità nel 2015.

Sapin, Ministro dell’Economia francese: “l’aumento nominale della spesa pubblica nel 2015 sarà dello 0.2%“, cioè in termini reali negativo, una diminuzione. Ovviamente andranno ad essere tagliati i progetti con meno difensori d’ufficio e più importanti per l’economia: gli investimenti pubblici. André Laignel, sindaco socialista a capo di un comitato di leader locali incaricato di negoziare i trasferimenti da Parigi afferma che “i tagli di €3.67 miliardi per le autorità locali l’anno prossimo porteranno ad un forte calo degli investimenti“. http://online.wsj.com/articles/france-2015-budget-to-curb-spending-1412150641

Senza queste misure, la spesa sarebbe cresciuta dell’1.7%”. E aggiunge, Sapin: “rimaniamo seri sul bilancio, ma rifiutiamo l’austerità”.

Uh? Cioè?

Mi metto nei panni dell’imprenditore che deve decidere di investire in Francia. Ci sarà la quasi garanzia di sufficiente domanda interna da garantirgli sufficienti vendite? Macché: con politiche siffatte l’incertezza regna sovrana.

Come in Italia, dove il deficit pubblico è lasciato “scivolare” per il 2015 verso quota 3% del PIL, ma dove la posizione di avanzo primario che denota la direzione della politica economica (spese pubbliche al netto di interessi e tasse) rimane immobile, scendendo dallo 1,7% del PIL allo 1,6%: di fatto scambiando la conferma del bonus di 80 euro che non verrà spesa da famiglie pessimiste sul futuro con un mini taglio a casaccio della spesa pubblica (probabilmente tagli lineari nei capitoli dei Ministeri), questo sì che inciderà (in negativo) sulla produzione delle imprese che avranno meno appalti pubblici da aggiudicarsi.

Se dunque la crescita del PIL 2015 era indicata a 0,5% dall’Ocse prima di conoscere la manovra del Governo, ora tale stima dovrà essere rivista al ribasso. Insomma, al contrario della solita … ottimistica previsione governativa di +0,6%, avremo un quarto anno di recessione consecutiva (2015) – record dei record. In fondo se in 6 mesi questo Governo ha sbagliato le stime di crescita 2014 addirittura dell’1,1% (prevedeva +0,8%, chiuderà a -0,3%), in 12 mesi cosa potrà mai combinare se non il doppio di errori?

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 Maggiore austerità dopo il 2015.

C’è qualcosa di tragicamente esilarante nella tabella programmatica della Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Essendo il Governo Renzi all’interno del Fiscal Compact che non rinnega, è obbligato a dire (dopo un tortuoso e immaginifico massaggio dei dati per mostrare che il deficit strutturale 2015 non peggiorerà rispetto a quello del 2014, rimanendo ad un quanto mai misterioso 0,9% di PIL elaborato secondo i dettami assurdi della Commissione europea) che dal 2016 in poi … ragazzi, yippie, si torna all’austerità (mai abbandonata come abbiamo visto sopra). Eh già.

Da 2,9 a 1,8. Da 1,8 a 0,8. Da 0,8 a 0,2. Eccolo il rapporto deficit-PIL che diminuisce di 2,5% di PIL in tre anni, dal 2016 al 2018. Con manovre annuali di 15 miliardi di maggiori tasse e minori investimenti pubblici.

Roba da far tremare i polsi a qualsiasi imprenditore che volesse investire in Italia: e quando mai lo farà, in un quadro così restrittivo e pieno di incertezze tendenti al negativo?

Ma non poteva mancare la goliardica ciliegina sulla torta. C’è, in basso alla tabella programmatica di pagina 2 della Nota di Aggiornamento (l’unica pagina che conta veramente perché rileva per la valutazione della Commissione europea) una piccola noticina che recita quanto segue (non è uno scherzo!):

nella legge di stabilità del 2015 è ipotizzata una clausola sulle aliquote IVA e sulle altre imposte indirette per un ammontare di 12,4 mld 2016, 17,8 2017, 21,4 nel 2018. Gli effetti di tale clausola, stimati con il modello macroeconomico ITEM del Tesoro, genererebbero una perdita di PIL pari a 0,7% a fine periodo dovuta da una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3%…

http://www.tesoro.it/doc-finanza-pubblica/def/2014/documenti/NdA_DEF_2014_PDF_UNITO_xon_linex_protetto.pdf

Dove può arrivare la follia umana? Il Tesoro, pur di accontentare la Commissione europea e fargli vedere che siamo dei “bravi scolari che fanno i compiti a casa” (oh sì che li facciamo), è disposto con lucida follia a rimarcare gli effetti recessivi delle sue politiche, così da deprimere ancora di più imprese e famiglie. Ma hanno mai studiato al Tesoro il ruolo delle aspettative e dell’ottimismo nelle scelte degli operatori??

E, badate, a poco vale dire “ma no, è tutta una finta, non faremo queste manovre”: nell’incertezza famiglie ed imprese staranno lontani dall’economia.

Il Fiscal Compact obbliga Francia e Italia ad annunciare a tutti una grande austerità per anni ed anni a venire. Va rimosso completamente, prima che sia troppo tardi.

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Una specie di Post Scriptum sulle scelte governative fatte con questa Nota di Aggiornamento. Questo aveva due opzioni ambedue valide per fronteggiare la crisi.

Prima opzione. Con una spending review seria, che andava avviata ben prima di oggi, individuava 1% di PIL di sprechi veri (non tagli a casaccio)  e destinava le risorse derivanti dalla loro eliminazione non ai bonus fiscali ma ad  1% di PIL di investimenti pubblici in più. Con i moltiplicatori stimati di recente dal Fondo Monetario Internazionale questi avrebbero generato un +1,2% di PIL in più per il 2015, lasciando il deficit su PIL al di sotto del 3% ed il debito su PIL in calo invece che, come annunciato, sempre in aumento. http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2014/02/pdf/c3.pdf

Seconda opzione. Prendendo atto dell’impossibilità di fare tagli agli sprechi ed evitando di fare tagli lineari a causa della mancanza di una seria spending review, uscire dal 3% di deficit su PIL con investimenti pubblici di 1% di PIL, per fermare il quarto anno di recessione (in questo caso il debito sarebbe con tutta probabilità rimasto stabile rispetto a quello previsto nella Nota, ma almeno avremmo avuto meno disoccupazione e più crescita).

Nessuno dei due progetti è stato scelto: si è invece preferito di lasciare il deficit al 3% senza spending review e senza investimenti pubblici. La peggiore, più timida e succube dei diktat europei, delle manovre. Da Don Abbondio. 

La lotta al Fiscal Compact continua, ma da fuori delle stanze del potere.

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Rien ne va plus

Ci siamo. Manca poco alla fine dell’era degli slogan di Renzi. Tra pochi giorni (due?) avremo il responso finale sul vero orientamento del Premier quanto a politica economica: con la nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (DEF) che sarà senza più alcuna ambiguità il “segno” del suo mandato per i prossimi 5 anni.

Se abbiamo dato retta a chi ci diceva di non giudicarlo dal DEF primaverile (“troppo presto, lasciatelo lavorare!”), malgrado l’assurdo contenuto di austerità che aveva, con il suo sussiegoso e montiano inchino all’ottuso Fiscal Compact, ora non ci sono più scuse: se scriverà per il Paese “austerità”, flessibile o meno, sarà da giudicare per quello che è, la continuazione in formato comunicativamente più piacevole dei suoi due disastrosi predecessori.

Nel rimanere in “trepidante attesa”, val bene ricordare al lettore, confrontandola con un appena sfornato lavoro scientifico nei quaderni della BCE di Francoforte, la posizione che abbiamo sempre adottato in questo blog, e la cui bontà è confermata dal lavoro in questione.

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Da sempre diciamo che: se ne esce solo con maggiori investimenti pubblici finanziati dal taglio degli sprechi di spesa pubblica in Italia. Per investimenti pubblici intendiamo non solo e non sempre le spese in conto capitale, ma anche stipendi più alti e posti per medici bravi, forze dell’ordine, ricercatori universitari e docenti scolastici di qualità, acquisti di beni e servizi ad alto contenuto tecnologico per ospedali e luoghi pubblici dove si effettuano attività altamente rilevanti per il Paese che necessitano, ad esempio, di ampia infrastruttura informatica. E così via. Per sprechi intendiamo acquisti ridondanti o non necessari e sprechi di prezzo, maggiore del dovuto.

Siccome l’individuazione degli sprechi è opera certosina che richiede essa stessa 1) investimenti in qualità del personale ispettivo – mai fatti (a Cottarelli non è stato dato personale, al Presidente dell’Autorità Anti Corruzione verranno tagliati i fondi di dotazione da 85 a 60 milioni) – ed in tecnologia – anch’essi mai fatti, come l’anagrafe unica per gli appalti pubblici che centralizzi i dati (non gli appalti, che altrimenti uccidiamo le PMI!)  in tempo reale di chi compra cosa quando ed a che prezzo – e 2) tempi lunghi, abbiamo chiesto con la raccolta firme del referendum che si arrestasse la macchina folle del Fiscal Compact che forza coi suoi tempi isterici la mano di chi comanda verso il tagliare la spesa linearmente a casaccio senza se e senza ma. Abbiamo anche chiesto che il deficit pubblico fosse mantenuto al tre per cento del PIL senza ulteriori riduzioni, così da permettere tali investimenti subito e non dovere attendere che gli sprechi si trovino, contrariamente a quanto promesso con l’idiotico DEF di inizio anno firmato Renzi-Padoan, che prevede di ridurre il deficit in recessione di quasi quaranta miliardi di euro in tre anni.

Il progetto governativo che attendiamo con ansia di verificare se verrà confermato o meno con la Nota di Aggiornamento, prevede tra l’altro a tutt’oggi (oltre all’invarianza della pressione fiscale) la riduzione degli investimenti pubblici dal 2010 al 2018 da 51,8 a 41,5 miliardi, cioè una riduzione del 31,3% in termini reali (dati Ragioneria Generale dello Stato) portandoli al minimo storico come peso nel bilancio pubblico, allo 1,4% del PIL. A questo si somma il costante taglio in termini reali di occupazione e remunerazione per medici, ricercatori, giudici, poliziotti, maestri. Tutto richiesto dal Fiscal Compact, per abbattere il debito su PIL, che ovviamente invece cresce perché crolla la nostra capacità come sistema Paese di generare crescita via investimenti ed innovazione.

Abbiamo anche più volte sostenuto come all’interno di una strategia europea la spinta espansiva non doveva essere solo italiana ma in primis tedesca, così da massimizzare l’impatto sulle esportazioni reciproche e così da evitare le critiche che approcci unilaterali all’espansione fiscale da parte dell’Italia avrebbero generato aumenti di spread e peggioramenti della bilancia commerciale.

Keynesblog (http://keynesblog.com/2014/09/01/il-referendum-contro-lausterita-e-un-regalo-alla-germania-ma-anche-no/ ) aveva correttamente aggiunto nelle scorse settimane un ulteriore elemento decisivo per mostrare l’efficacia di questa strategia di rilancio europeo vietata dal Fiscal Compact e negata finora da tutti i Governi italiani (compreso il Renzi di aprile): che gli investimenti pubblici, agendo sulla produttività delle imprese italiane avrebbero ulteriormente spinto la crescita via export e competitività (in fondo spendere di più per scuole, ospedali, forze dell’ordine, tribunali, strade, ponti, parchi non fa altro che rendere più facile la vita alle imprese, giusto?). Lo insegniamo al primo anno di economia politica, ecco il grafico dal mio libro di testo, dove con maggiore domanda pubblica per investimenti (AD si sposta a destra) contemporaneamente si sposta a destra la curve di offerta, generando maggiore prodotto (le mele!) ed occupazione.

E a nulla serve ascoltare la litania di chi da un lato propone la spending review e dall’altro sostiene che aumentare gli investimenti pubblici equivarrebbe a sprecare risorse. Perché chi propone la spending review propone uno Stato che sappia mettere un alt agli sprechi e dunque che sappia spendere bene: altrimenti l’ipocrisia del ragionamento sarebbe evidente, o no?

Dopo aver detto per la millesima volta tutto ciò, in attesa di un Governo Renzi che traduca queste considerazioni in politiche economiche che impattino veramente su occupazione e crescita senza trastullarsi con riforme poco rilevanti che non danno sollievo ma solo visibilità, vediamo un po’ cosa dice il lavoro dei tre economisti che hanno pubblicato il loro lavoro nei quaderni della BCE.

http://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1727.pdf

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La sintesi del lavoro BCE: “ridurre la spesa per investimenti produttivi porta a perdite di prodotto sia nel breve che nel medio periodo. Inoltre, una riduzione della spesa per investimenti pubblici riduce nel medio termine la competitività estera di un Paese, confermando l’evidenza empirica degli studi esistenti riguardo all’impatto della politica fiscale sul grado di competitività internazionale. E ciò vale sia che i beni capitali pubblici siano importati o prodotti localmente. Siccome l’investimento pubblico ha effetti positivi sulla produttività del capitale privato, riducendo i costi marginali delle imprese, anche gli investimenti privati declinano nel medio termine se calano i primi. L’implicazione di policy chiave del nostro lavoro è che una riduzione della spesa per investimenti pubblici, malgrado sia spesso la prima componente di spesa pubblica che viene tagliata, ha effetti indesiderabili nel medio termine.”

E per chiunque fosse preoccupato che spingere sugli investimenti pubblici possa mettere in difficoltà la nostra bilancia dei pagamenti, i tre ricercatori hanno parole di conforto: “per il contenuto di importazioni negli acquisti ed investimenti pubblici ci basiamo su studi scientifici che affermano come lo sbilanciamento (bias) verso la produzione nazionale è più forte nella spesa pubblica che in quella privata” di circa il doppio, la quota di import toccando al massimo il 10-12% per la spesa corrente ed il 25% per quella in conto capitale.

Un aumento degli investimenti pubblici – nell’ipotesi estrema che il loro contenuto sia ad alto peso di importazioni (e non deve esserlo se ad esempio rimettiamo a posto tutte le nostre scuole dando lavori pubblici a tantissime piccole imprese italiane) – “inizialmente porterà ad un aumento di importazioni e ad un deterioramento della bilancia commerciale. Quando l’accumulazione di capitale avrà effetto, le esportazioni aumenteranno e la bilancia commerciale entrerà in surplus”.

Parola di BCE.

E che succede se un aumento di investimenti pubblici dello 1% di PIL è finanziato da tagli di sprechi? Di quella che è la proposta chiave contenuta nel nostro blog i ricercatori BCE non possono che ammettere la bontà: “nel medio termine, la bilancia commerciale migliora sostanzialmente, il PIL aumenta in maniera permanente dello 0,25% ed il debito pubblico comincia a diminuire con effetti tutti persistenti nel tempo, e tutto grazie all’aumento degli investimenti pubblici  che porta ad una riduzione permanente dei costi aziendali”.

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E’ tempo di prepararsi. Non sarà convocata la segreteria PD per discutere della nota di aggiornamento del DEF, e questo fa francamente ridere dopo avere assistito ad uno scontro epocale per qualche centinaia di reintegri in meno o in più.

Ma non c’è dubbio che lo spartiacque sarà segnato tra chi predica contro l’Europa ma ne sottoscrive le logiche ottuse, portandola al suo disastro finale e chi ancora crede che la si possa salvare combattendo il Fiscal Compact e fermando questa macchina infernale.

Rien ne va plus, teniamoci forte.

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Il Fiscal Disfact? Le ragioni del referendum

Pubblicato sul Fatto Quotidiano di oggi.

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L’ottusa austerità imperante oggi in Italia ha una causa, ha un colpevole, dal nome e volto ben riconoscibile.  Qualcuno lo chiama formalmente Fiscal Compact, io lo chiamo “il Fiscal Disfact”. Non è mera ironia: “disfact” richiama disfatta, ricorda il verbo “disfare”, disfare quanto costruito in questi 60 anni di pace post-bellica europea, mettendo a rischio (ogni giorno che passa sempre di più) la coesione all’interno dei singoli Paesi e tra Paesi dell’area euro.

E’ per questo che contro di esso, nella sua versione importata nell’ordinamento italiano, la legge 243 del 24 dicembre 2012, abbiamo promosso quattro quesiti referendari per i quali stiamo terminando di raccogliere le firme, entro il 30 settembre, in tutte le piazze d’Italia (il sito del Comitato Promotore è su www.referendumstopausterita.it). Un referendum per l’Europa dell’euro, ma anche per un’altra Europa: non a caso il logo della nostra iniziativa ha i colori blu e gialli della bandiera europea ma anche il motto “Stop Austerità”. Sono quattro quesiti che se la prendono con quelle parti – austere anch’esse – della legge 243 che sono state aggiunte in più dal Governo Monti rispetto a quanto l’Europa richiedeva di recepire, e quindi non suscettibili di accusa di impossibilità ad essere oggetto di referendum. Sono quattro quesiti contro gli eccessi di zelo dei Governi italiani, sussiegosi verso la Germania che, quando ad esempio la norma europea ci permette di raggiungere a regime lo 0,5% di deficit strutturale su PIL ci porta,  in un impeto masochistico senza pari, ad aggiungere la parola “almeno”, facendolo diventare “almeno  lo 0,5%”, così tarpando le ali alla ripresa delle aspettative e dell’economia. Uno dei quesiti mira dunque ad eliminare la parola “almeno” dalla legge, obbligandoci a raggiungere lo 0,5% di deficit e non lo zero.

Se dunque certamente l’effetto dell’azione del Comitato Promotore del Referendum non è quello di mirare direttamente al Trattato Internazionale, non vi è dubbio che la nostra azione è comunque volta ad avviare in tutto il Paese ed in tutto il continente europeo per la prima volta un dibattito aperto e democratico sulle ragioni della ottusa austerità che il Fiscal Compact impone senza se e senza ma. Non sarà infatti sfuggita ai più la data di approvazione della 243: la vigilia di Natale 2012, a conferma della rapidità e della segretezza con cui la norma fu approvata dal nostro Parlamento, quasi all’unanimità e senza alcun dibattito all’interno del Paese.

Una decisione, quella del mantenere il dibattito “proibito”, quanto mai enigmatica, verrebbe da dire, se non fosse che il termine  è stato coniato ormai tanti anni fa dall’economista francese Jean Paul Fitoussi proprio per questo deficit di democrazia che sembra accompagnare dalla sua nascita l’Europa dell’euro, come se ne fosse una caratteristica intrinseca. E che spiega anche l’enorme resistenza dei vertici UE al ricorso allo strumento referendario: basta ricordare la proposta di Papandreou  di lasciare al popolo greco la decisione del se tenere la moneta unica o tornare alla dracma, che comportò la fine politica del Premier ellenico,  ma anche sottolineare come, per la nostra iniziativa, abbiamo incontrato in questi mesi un incredibile muro di gomma da parte dei principali media e dei partiti governativi, a conferma che l’austerità può anche essere flessibile ma deve permanere e non essere, come vogliamo noi, cancellata. Un muro che comunque l’appoggio del Fatto Quotidiano  al referendum Stop Austerità aiuta a scuotere.

Perché 16 persone, i membri del Comitato Promotore, di diversissima estrazione culturale e politica, ed altri intellettuali e parlamentari che sostengono l’iniziativa referendaria, si battono con così granitica e comune convinzione contro il “Fiscal Disfact”?Perché il Fiscal Disfact ha dentro di sé i prodomi della morte europea, e questo ce lo rende intollerabile.

Il Fiscal Disfact non permette di costruire quei ponti tra generazioni, chiamati investimenti pubblici, con i quali sono cresciute le precedenti generazioni dal dopoguerra. E questo checché ne dica Draghi: il Documento di Economia e Finanza prevede purtroppo che dal 2010 al 2018 questi calino da 51,8 a 41,5 miliardi, un calo del 31,3% in termini reali. Con questi investimenti avremmo potuto ristrutturare tutte le nostre scuole fatiscenti, dando lavoro a tantissime piccole imprese di costruzione e manutenzione, oggi soffocate dalla crisi, e avremmo aumentato la produttività di maestri e studenti, che in ambienti più consoni insegnano e studiano meglio. Se non lo possiamo fare è perché il Fiscal Disfact, senza se e senza ma, non lo autorizza.

Parrà curioso, ma il Fiscal Disfact non permette nemmeno di fare le riforme. Per esempio non permette di mettere fine al divario di remunerazione tra maestri di scuola tedeschi ed italiani, di un terzo inferiori, così bloccando quella che Draghi ha chiamato la sola riforma del lavoro capace di renderci competitivi nella sfida globale con i Paesi emergenti, una sfida da basare su istruzione e competenze, e non, utopisticamente, sul ribasso del costo del lavoro.

E sia chiaro che con la nostra iniziativa non stiamo chiedendo di diventare bruscamente degli spendaccioni, né di schierarci contro una vera spending review che ci pare anzi essenziale. Ma uno dei problemi più evidenti del Fiscal Disfact è che non permette di trovare le risorse per finanziare le necessarie spese per investimenti pubblici senza generare un’oncia di debito in più: con i suoi assurdi target numerici di riduzione del debito e del deficit in una situazione di recessione, infatti, mette una fretta isterica ai Governi. La fretta – si sa – è cattiva consigliera e ci costringe a mortali tagli lineari che sottraggono risorse a casaccio nell’economia, ai bravi e ai meno bravi.

E’ tempo di mandare a casa il Fiscal Disfact, firmate in tutte le piazze d’Italia il nostro referendum, c’è tempo fino al 25 settembre!

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Il trucco dei conti europei: pagano solo le popolazioni, non i colpevoli

Da Repubblica, pagina 2, tanto per non dimenticare, si cita Barroso a Cernobbio:

Qui si accusa la Grecia di aver truccato i conti, ma a bloccare i controlli di Eurostat fu proprio la Germania perché non si voleva che si svelassero i suoi, di segreti contabili“.

Al di là di ammirare il coraggio veramente leonino di Barroso che rivela segreti una volta fuori dalla Commissione europea da lui presieduta fino a qualche giorno fa, sarebbe facile ricordargli come, essendo stato Presidente dal 2004, avrebbe potuto tranquillamente forzare Eurostat lui stesso a effettuare i controlli sui derivati del Tesoro greco con Goldman Sachs, che scoppiarono in faccia all’Europa solo nel 2010.

La verità è che quando il mio libro sui derivati dei governi uscì (lo trovate su questo sito), nel 2001, denunciando le transazioni via derivati dei Tesori europei per imbellettare i conti pubblici, si sarebbe già potuto mettere fine a questa pantomima, risparmiando all’Europa molta parte dell’austerità che Draghi (a torto) ritiene sia stata necessaria per chetare i mercati finanziari.

Sarebbe interessante se Barroso sostanziasse e tirasse fuori le prove di quanto sostiene, ma non avverrà perché probabilmente coinvolgerebbe ancora oggi una fetta troppo grande di chi è al potere in Europa.

La verità di Barroso, per quanto ipocrita, serve tuttavia a confermare per l’ennesima volta l’assenza di una componente “morale” di questa crisi, con i buoni da una parte, i tedeschi, ed i cattivi dall’altra, l’area Sud dell’euro. L’avevamo detto in occasione delle rivelazione sugli acquisti greci dei sottomarini tedeschi, lo ribadiamo ora.

L’immoralità è stata bi-partisan, certamente, ma ha riguardato i dipendenti e i dirigenti delle tre istituzioni preposte al controllo dei conti europei (BCE, CE, Eurostat) nonché i diversi politici coinvolti, assieme alle banche d’affari che si lanciarono allegramente e senza scrupoli nel business dei derivati. La loro scriteriata dissennatezza ha causato sofferenza e miseria in tante famiglie, del Sud e anche del Nord d’Europa. Non pagheranno per questo, ma ricordiamolo.

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Scaldiamo le fredde riforme: quale istruzione?

Riforme. Che brutta parola, così vuota e fredda. Non la sopporto più. Provo ad attaccarmi a un briciolo di visione più ambiziosa per scaldarla.

Mario Draghi sostiene che la vera riforma del lavoro non è quella dell’art. 18 ma quella dell’investimento in istruzione. Concordiamo.

Romano Prodi sul Messaggero di oggi sostiene la necessità di imitare il modello formativo dei tedeschi, basato sulla scambio tra impresa e mondo della formazione, dando peso alle conoscenze tecniche. Ma il Premio Nobel per l’economia Ned Phelps aggiunge una dimensione a mio avviso essenziale e assolutamente marginalizzata oggi nelle scuole e nelle università italiane: quella del ruolo materie umanistiche.

I mercati del lavoro non hanno solo bisogno di maggiori competenze tecniche, ma richiedono sempre più “soft skills” come la capacità di pensare in modo fantasioso, di elaborare soluzioni creative per risolvere problemi complessi, di adattarsi a circostanze mutevoli e a vincoli nuovi.

E’ questo che l’istruzione deve trasmettere ai giovani. Gli studenti, in particolare, devono avvicinarsi e imparare ad apprezzare i valori moderni legati all’individualismo che sono emersi verso la fine del Rinascimento e hanno continuato a essere trainanti fino all’inizio del 900. Questi valori possono rinvigorire le economie di oggi esattamente come hanno alimentato il dinamismo passato.

Un primo passo necessario è quello di reintrodurre le materie umanistiche al liceo e nei corsi di studio universitari. Studiare letteratura, filosofia e storia sarà d’ispirazione ai giovani che aspirano ad una vita ricca, una vita che permetta loro di offrire dei contributi creativi, innovativi alla società. Studiare il “canone” sarà più importante che impartire a questi giovani una serie di competenze strettamente specifiche, plasmerà le loro percezioni, ambizioni e capacità in modi nuovi e corroboranti.

L’ascesa del mondo moderno è stata segnata dalle discipline umanistiche. Tutti i paesi del mondo possono sfruttarle per sviluppare o risollevare le economie che hanno guidato quell’ascesa, aiutando le persone a condurre vite più produttive ed appaganti.”

Ned Phelps, Premio Nobel per l’economia, tradotto dal Sole 24 Ore di oggi, da http://www.project-syndicate.org/commentary/edmund-s–phelps-argues-that-restoring-humanities-education-is-the-key-to-building-innovative-economies

E allora? Come la mettiamo? Qual è il disegno complessivo legato a questa parola così vuota e fredda, “riforme”? Dove vogliamo arrivare con la più importante di tutte, quella della crescita dei giovani in un mondo così aperto e così diseguale, così bisognoso di persone che lascino una traccia di bello nel mondo? Vogliamo lavorare per aiutarli?

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L’ambulanza in ritardo e mal diretta della BCE e le porte sbarrate del pronto soccorso europeo

Quasi mai si è felici al suono della sirena di un’ambulanza, tranne se la si aspetta con ansia perché chi sta male ci sta a cuore. Ecco, davanti a questa Europa malata, siamo felici di sentire la sirena dell’ambulanza di Mario Draghi avvicinarsi per portare soccorso. Paradossale.

Ma è una magra consolazione. E non solo perché l’ambulanza è arrivata in ritardo – viste le continue revisione tardive al ribasso delle stime di crescita e dell’inflazione da parte della BCE, che, come ha ammesso lo stesso Mario Draghi, sono errori sulla gravità della carenza di domanda e della crescita della disoccupazione – ma anche perché l’ambulanza da sola non può salvare un malato così grave: l’intervento della BCE non aiuterà la domanda di credito a risalire, non essendoci la fiducia di famiglie ed imprese per tornare a spendere.

Tre giorni fa parlavo con un banchiere che mi raccontava come un cliente importante gli aveva proposto di depositare presso la banca 500 milioni di euro, non una bazzecola. La banca dopo qualche momento di riflessione ha deciso di rifiutare tale deposito. “Perché non sapevamo a chi dare questa liquidità”, ha raccontato, e se “l’avessimo dovuta tenere parcheggiata sui conti della BCE avremmo pagato tassi d’interesse negativi, rimettendoci”. A dimostrazione che l’ambulanza serve a poco. Serve che funzioni l’ospedale dove verrà portato il paziente.

Perché arrivati all’ospedale ci potrebbero essere gli strumenti giusti per operare il paziente: quelli di una politica fiscale che stimoli la domanda interna via minori tasse e soprattutto maggiori investimenti pubblici. Ma c’è un altro problema: le porte del pronto soccorso sono sbarrate, dall’ottuso Fiscal Compact che impedisce dal 2011 ad imprese e famiglie di sperare nella ripresa e tornare a scommettere sul futuro investendo. E questo perché bisogna fare austerità nefasta.

Un’ultima annotazione: l’ambulanza sa bene che si sta dirigendo verso un pronto soccorso chiuso e sbarrato. Con la qual cosa intendo dire che le dichiarazioni di Draghi sono scientemente sbagliate: ogni volta che si dichiara, come ieri, http://www.ecb.europa.eu/press/pressconf/2014/html/is140904.en.html , a favore del Fiscal Compact, neutralizza la validità dei suoi annunci monetari, deprimendo le aspettative di ripresa. Perché se con una mano si dà, via moneta, e con l’altra si toglie, via maggiore austerità, il risultato netto è che si resta dove si è, peggiorando le condizioni del malato che ha bisogno di aiuto subito.

Il referendum contro la legge 243 che importa il Fiscal Compact in Italia è la nostra unica possibilità per far sentire la voce dell’Italia in Europa, una voce che potrà salvare non solo noi, ma tutta la costruzione europea. www.referendumstopausterita.it 

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La contabilità della solidarietà europea

Uno strano ma interessante dell’articolo dell’Istituto Bruno Leoni, http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=15313, quanto meno ansioso di dimostrare l’enorme generosità dell’Unione europea verso l’Italia e quindi, implicitamente, la bontà dell’attuale costruzione continentale e dunque, sempre implicitamente, la non necessità di fare qualcosa per migliorarla. E se non c’è da migliorare l’Europa, sequitur, tutto quello che c’è da fare è a casa nostra, con le riforme.  Di cui senza dubbio l’Istituto è diventato il paladino, spesso con merito.

Ma non in questo caso, come vi dirò. Non c’è bisogno, per essere paladini delle riforme, di negare il ruolo della solidarietà. A meno che non si sia solo liberisti e non liberali.

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Argomenta, il pezzo citato, come l’Italia, grazie all’azione della BCE, abbia negli anni di crisi goduto di una somma largamente eccedente l’entità del contributo italiano (peraltro non a fondo perduto) ai programmi europei.

A favore di tale argomentazione viene citato uno studio del Fondo Monetario Internazionale in cui si mostrerebbe come “nei sei anni intercorsi fra il 2008 ed il 2013 i trasferimenti impliciti all’economia italiana conseguenti agli interventi della Banca Centrale Europea sono stati pari, in media, a circa 60 miliardi di euro all’anno (qualcosa come quattro punti di prodotto interno lordo all’anno) … Nel complesso il trasferimento implicito a favore dei paesi della periferia dell’area dell’Euro (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna) si è aggirato – al netto delle loro contribuzioni – intorno all’1% del prodotto interno lordo di questi paesi.”

In realtà il Fondo (a pagina 25, Box 4) parla di tutti i Paesi messi assieme: l’Italia con la Spagna essendo il Paese che tra quelli citati ha sofferto di spread più bassi di Irlanda, Grecia e Portogallo, la cifra in percentuale del PIL per il nostro Paese è probabilmente più bassa, del circa 0,5% di PIL.

https://www.imf.org/external/pubs/ft/sdn/2013/sdn1309.pdf

L’aiuto all’Italia ha preso la forma di prestiti per più di 300 miliardi da parte della BCE. Capiamoci: non è che la BCE abbia acquistato titoli italiani in asta. Ha, invece, finanziato le banche italiane con prestiti a basso costo rispetto al tasso a cui queste sarebbero riuscite ad indebitarsi (alti perché i tassi delle obbligazioni delle banche italiane seguono l’andamento del costo della Repubblica italiana). Così facendo la BCE ha ottenuto due risultati: a) permettere alle banche straniere che possedevano BTP italiani di uscire dal mercato trovando dei compratori (le banche italiane) e quindi senza subire perdite, b) così calmierando gli spread, far sì che per finanziarsi il Tesoro italiano si trovasse di fronte ad un contesto di tassi più bassi.

E infatti, soprattutto nei mesi della crisi più acuta una buona quota del debito pubblico italiano passò in mano … italiana.

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Dobbiamo ringraziare l’Europa per questo “regalo”? Dipende da chi si crede abbia scatenato questa crisi: siamo sicuri che siano stati i cattivoni del Sud? Discorso ormai abbondantemente trito e ritrito su cui non voglio tornare. Mi basterà qui ricordare tre aspetti già svariate volte citati in questo blog.

Primo, che la crisi dei derivati greci (la famosa miccia della crisi dei debiti sovrani europei) fu dovuta ad una volontà politica di chiudere gli occhi di fronte a transazioni che imbellettavano i conti pubblici a partire già dalla fine degli anni 90, che furono denunciate nel mio libro nel 2001 e che nessuna autorità preposta a vigilare (né la BCE, né Eurostat, né la Commissione europea), malgrado ne fossero al corrente, cercarono di scoraggiare, sanzionare, vietare.

Mi basterà ricordare, per secondo, che gli spread cominciarono a scendere nella fine agosto del 2012 quando la Merkel rese nota a mezza bocca l’intenzione di tenere la Grecia dentro l’euro “a tutti i costi” (già, non fu Draghi…), a dimostrazione che quegli extra costi di spread potevano essere evitati tranquillamente con una Europa migliore, e che gran parte della loro esistenza è stata dovuta ad errori macroscopici della leadership europea, non dei brutti anatroccoli neri del Sud.

E infine mi basterà ricordare, come abbiamo già fatto notare in opposizione a quanto detto da Draghi nel recente discorso di Jackson Hole, che lo spread odierno, tuttora alto, è dovuto al persistere del Fiscal Compact e dell’austerità, che rendono sempre più rischioso detenere titoli di Stato di Paesi in cui sempre più forte è la disillusione sul valore del progetto dell’area euro, privo di solidarietà come invece sono altre aree monetarie uniche tra stati, quali ad esempio gli Stati Uniti d’America, dove gli spread tra Mississippi e Massachusetts è pari a zero.

In tal senso possiamo dire che è l’Europa ad avere imposto e a continuare ad imporre costi eccessivi ai paesi del Sud dell’area euro. In primis per quanto riguarda il costo del loro finanziarsi, in quanto per le politiche sbagliate gli spread sono stati e continuano ad essere superiori a zero come invece dovrebbero essere in ogni Unione monetaria tra Stati che funziona bene perché gestita in maniera vigile ed accorta. In realtà il Fondo giustamente ricorda che questi non sono i soli costi per l’Italia, sostenendo che questo tipo di aiuto “ex-post” della BCE, dopo che la crisi è avvenuta, ha comportato disoccupazione e recessione in assenza di uno schema migliore che era a portata di mano.

Ma gli amici del Bruno Leoni non sembrano notarlo. Il Fondo sì. Per il Fondo avrebbe potuto essere un sistema federale all’americana tra Nord e Sud. Per questo blog che crede che un governo federale europeo è qualcosa a cui dovremo aspirare solo quando avremmo una cultura europea decisamente più omogenea (tra 50 anni?) e che oggi sarebbe piuttosto una iattura, l’ennesima, anti democratica, la mossa sarebbe quella che rivendichiamo col referendum www.referendumstopausterita.it, ovvero una politica fiscale espansiva in ogni dove dell’area euro, di più in Germania, meno in Italia, con la fine dell’ottusa austerità. Una politica di solidarietà “realistica” date le differenze culturali ancora insuperabili, una politica che dà sia alla Germania che all’Italia, che permette di rimanere assieme e avvicinarci culturalmente, rafforzando il progetto di pace, sviluppo e coesione europeo.

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Ma c’è qualcosa di più che proprio non mi pare essere pienamente compreso da chi pensa che tutto va bene in questa Europa.

La parola “trasferimento” implicito è un’arma a doppio taglio se usata male. Il trasferimento deve essere inteso come quello che ogni anno avviene nel sistema federale statunitense, dove ogni anno il “progressista” Massachusetts viene incontro al “retrogrado” Mississippi con sussidi del 10% circa del PIL del secondo.

Siccome questo trasferimento avviene via bilancio federale con complessi meccanismi ormai automatici che dai più ricchi danno ai più poveri, potremmo chiamarlo “implicito”, nel senso che non è così visibile. Faremmo tuttavia meglio a chiamarlo esplicito, tanto è chiaro ai cittadini statunitensi, che magari non sanno come si calcola questo trasferimento, ma che lo considerano parte fondante del loro “contratto sociale” e che spiega anche il miracolo di avere finalmente, con grande fatica, avvicinato tra loro Stati così culturalmente diversi in partenza. Un po’ come tra Germania dell’Ovest e dell’Est dopo il 1989 o tra l’Italia meridionale e settentrionale.

Ecco come funzionano i trasferimenti espliciti: qualcuno decide di perderci, qualcuno sa di vincere, ma ad ambedue sta bene. Per un obiettivo spesso più alto, politico e culturale.

I trasferimenti di cui parla il Fondo, ma anche l’Istituto Leoni, sono “impliciti” per due ordini di motivi. Primo perché sono molto più invisibili e meno comprensibili di quelli di cui vi ho parlato poche righe sopra, secondo perché nessuno ci perde. E già. Non c’è un’Europa che dà e una che riceve, come vuol far intendere la nota dell’Istituto, che fa la contabilità della generosità, una pratica rara, ritenuta sconveniente, negli Usa dei trasferimenti espliciti.

Come è possibile direte voi? Abbiamo già detto che quando la BCE presta alle banche italiane a tassi bassi (permettendole di comprare i titoli di stato italiani dalle mani delle banche straniere), questa è una politica subottimale per il Sud dell’area nel senso che è tardiva e dominata da politiche migliori che non sono state effettuate. In realtà però è una politica vantaggiosa per il Nord.

Oddio, e come è possibile? Semplice. Per due ordini di motivi. Primo, perché sono somme – quelle della BCE – che aiutano a salvare le banche straniere dal rischio Italia. Nei limiti in cui alcune di queste banche erano olandesi, finlandesi, belghe, tedesche … ecco che l’operazione è certamente a loro vantaggio.

Ma c’è di più. La BCE non avrebbe emesso questi finanziamenti alle banche se non ci fosse stata la crisi degli spread. Effettuandoli, ha di fatto prestato a tassi bassi alle banche italiane che hanno promesso di restituire a questa gli interessi, bassi ma positivi. Siccome questi prestiti verranno di fatto tutti restituiti dalle banche italiane (perché queste non sono fallite), la BCE ha guadagnato somme non piccole anche su questa forma di finanziamento poco caro. E questi profitti della BCE a chi sono stati distribuiti? All’Italia certo, ma anche alla Germania.

Che ha finito per non perderci, ma guadagnarci.

Avete mai sentito di trasferimenti dalla Germania all’Italia che danno alla prima e tolgono alla seconda? Ecco, sì, sono il contrario dei trasferimenti espliciti dell’unica area monetaria che ha capito come funzionare, quella degli Stati Uniti. Forse per questo li chiamano “impliciti”. Farebbero meglio a chiamarli “illeciti”, almeno moralmente, almeno se il tuo scopo è quello di crescere grazie alla coesione che viene dalla solidarietà.