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Quella manovra 2020 che tra 20 anni chiameranno restrittiva e recessiva

Il mio pezzo sul Sole 24 Ore di oggi.

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Quando gli economisti del futuro studieranno le politiche fiscali dell’Italia, come guarderanno alla manovra finanziaria per il 2020? La considereranno espansiva o restrittiva? Responsabile di aver contribuito alla crescita o alla contrazione di produzione e occupazione nel Paese? Per rispondere si baseranno sui numeri a loro disposizione nelle svariate banche dati di organismi nazionali e sovranazionali, come quelle della Banca d’Italia, della Banca centrale europea oppure del Fondo monetario internazionale.

Vi saranno coloro che noteranno come il deficit italiano del 2019 fosse arrivato al 2% del Pil, mentre quello dell’anno successivo chiuse al 2,2%, così come previsto dalla Nota di aggiornamento al Def dell’autunno 2019. Una manovra dunque apparentemente espansiva, quella per il 2020, capace di far crescere il deficit, a supporto dell’economia.

In realtà, a tali economisti potrebbe venir fatto notare che per comprendere la posizione effettiva del governo dell’epoca riguardo al 2020 ci si doveva piuttosto chiedere quale sarebbe stato il deficit 2020 in assenza di misure governative. «Ah, il tendenziale!», esclameranno questi, richiamando un dato molto particolare, calcolato da sempre dagli uffici del Tesoro di Via XX Settembre. Ebbene, andando a scovarlo, quel dato di deficit tendenziale, si scoprirà che per il 2020 si attestava addirittura all’1,4 per cento. Insomma, il governo di allora con la sua manovra apparentemente portò il deficit dall’1,4% al 2,2% del Pil, una mossa ancora più espansiva, ancora più a supporto dell’economia!

Tuttavia, leggendo in polverosi manuali dell’epoca, qualche economista avrebbe potuto scoprire che le regole di calcolo del tendenziale del 2020 prevedevano – per motivi certamente poco comprensibili ai più – che questo comprendesse al suo interno le famigerate, per il tempo, “clausole di salvaguardia”, per le quali il governo, qualsiasi esso fosse, si impegnava ad aumentare l’Iva di 23 miliardi di euro (1,3% di Pil) per raggiungere, appunto, quota 1,4% di Pil. Dunque, in assenza di quelle politiche di aumento dell’Iva, ancora non attuate, il deficit si era inizialmente stabilizzato, sempre per il 2020, all’1,4% + 1,3% ovvero al 2,7% del Pil!

Qualsiasi economista assennato si sarebbe immediatamente convinto che questo solo era il dato rilevante e logico da utilizzare per comprendere la posizione dell’esecutivo. Ecco che il deficit 2020 dal 2,7% del Pil a cui si sarebbe ancorato in assenza di politiche governative si andò a stabilizzare, a causa di queste, al 2,2%. Una riduzione significativa, quella che qualsiasi economista chiamerebbe “una politica restrittiva” di 0,5 punti di Pil, circa 9 miliardi netti di maggiori entrate o minori spese. Netti, perché la scelta di allora del governo di ridurre il peso del cuneo fiscale di 3 miliardi implicò la ricerca di ben 12 miliardi di risorse da maggiori entrate o minori uscite.

Queste politiche restrittive da sempre hanno un solo effetto, commentò l’economista alle prese coi suoi dati finalmente corretti: riducono Pil e occupazione; e, nel caso dell’Italia di allora, da livelli di partenza già stagnanti anche in assenza di politiche di contenimento del deficit.

Trovare quei 12 miliardi non fu facile e, come spesso accadeva in quegli anni, l’economista notò come si fosse registrata anche nel 2020 una stasi significativa degli investimenti pubblici che, al contrario, sarebbero dovuti aumentare, dati i maggiori stanziamenti deliberati negli anni precedenti. Qualcuno al tempo parlò di lentezze burocratiche legate al nuovo Codice degli appalti, ma altri sui giornali dell’epoca segnalarono maliziosamente come i fondi stanziati per gli investimenti pubblici si trasformino in spesa solo quando sono effettivamente erogati e può ben darsi che la liquidità per avviare o continuare i cantieri non si materializzò proprio per ridurre il deficit dal 2,7% al 2,2% del Pil, finendo per bloccare quell’unica componente di bilancio pubblico a favore della quale le sue sole beneficiarie, le future generazioni, non possono manifestare perché ancora non nate.

Sarebbe stato possibile fare altrimenti ed evitare quella politica restrittiva che rischiava di far saltare il consenso per le forze moderate ed europeiste e per l’intero progetto federale europeo? Certo che sì. Sarebbe bastato far comprendere all’Unione europea come la recessione che sarebbe seguita a una manovra restrittiva di quel tipo avrebbe acuito le tensioni sociali, alimentando il populismo antieuropeo, e che ben meglio sarebbe stato portare il deficit al 3% del Pil, aumentando sì le tasse dell’1% del Pil, ma per dedicarle appunto all’erogazione di un pari ammontare di spese e di liquidità per l’avvio di ambiziosi programmi di investimenti pubblici che avrebbero dato lavoro e dignità a tantissime persone nei tanti cantieri che l’Italia avrebbe visto spuntare come funghi (prelibati) lungo tutta la penisola.

Ma questa, purtroppo, è un’altra storia.

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