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Salvare l’Europa rinnegando se stessi

Oggi sul Sole 24 ore, il  mio pezzo.

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Nell’attuale dibattito tra le forze parlamentari, la dimensione politica del “cosa fare” viene esaltata: tra chi spinge verso le elezioni subito, chi tra poco e chi predilige lasciar che la legislatura abbia il suo naturale, seppur travagliato, corso. Il convitato di pietra di questo dibattito, l’economia, marcia nelle retrovie: se non fosse per i turbamenti dello spread che ricevono qualche attenzione si direbbe che sia quasi assente.

Ed è ben paradossale se si pensa che la crescita travolgente nei sondaggi della Lega di Matteo Salvini in questo ultimo anno si spiega solo con due cavalli di battaglia della retorica del suo leader con evidenti implicazioni economiche: immigrazione e politica fiscale, dove l’enfasi è stata posta sui vincoli europei, addirittura portando il partito a negare il voto alla candidata, poi eletta, von der Leyen per la presidenza della Commissione europea, reputata evidentemente a favore dello status quo.

Per la verità in questi giorni la Lega, tramite il suo leader, è stata l’unica forza a comunicare ripetutamente cosa va cambiato nella gestione dell’economia: sforamento dei parametri di finanza pubblica europei, flat tax, investimenti pubblici, IVA stabile, lasciando per ora alle scorribande della base sui social e ai tweet di alcuni rappresentanti del partito la questione più delicata della permanenza nell’euro.

Gli altri partiti si sono distinti più che altro per una serie di dichiarazioni su cosa, per l’economia, “non” va fatto. Non si deve aumentare l’IVA, non si devono abbandonare i parametri europei, non bisogna tornare indietro sul reddito di cittadinanza. Troppo poco, verrebbe da dire. Una coalizione PD-5 Stelle, se mai possibile, dovrebbe interrogarsi rapidamente su che impostazione comune di politica economica dovrebbe caratterizzare l’alleanza, alquanto instabile di suo, per riuscire ad arginare la crescita del consenso sovranista in Italia e altrettanto rapidamente comunicarlo.

E’ evidente che ciò richiederebbe un’inversione ad U ad ambedue i partiti, ben maggiore di quella sottolineata sinora sulla stampa, legata alla reciproca antipatia così pubblicamente manifestata in quest’ultimo anno di lavori parlamentari. Un’inversione ad U rispetto alle politiche sinora abbracciate dai due movimenti, che hanno avuto in comune un evidente fallimento: la mancata ripresa della crescita rispetto al resto d’Europa.

Mentre Salvini propone in effetti un approccio nuovo, cosa portano 5 Stelle o PD se non ricette che quasi tutti giudicano nei fatti fallimentari come rispettivamente il reddito di cittadinanza – capace di generare (parole dello stesso Documento di Economia e Finanza del Governo Conte!) una misera crescita del PIL di 0,8% nel prossimo triennio o come il ritorno alla convergenza verso il bilancio in pareggio fatto di manovre austere che condannarono Renzi alla sconfitta politica del 2018?

Errare è umano, perseverare è diabolico, ed astenersi dall’elaborare una nuova piattaforma, diversa da quelle presenti nel DNA tradizionale di questi due partiti, è masochistico: se anche riuscissero ad arginare temporaneamente il ricorso alle urne autunnali, anche tra due anni il conto che presenterebbe un elettorato stanco di stagnazione, declino, mancanza di ripresa sarebbe inequivocabilmente favorevole a Salvini, al sovranismo e alla fine di qualsiasi sogno europeo.

E questo è ben chiaro anche a qualunque analista o politico europeo che si rispetti: il futuro dell’Europa passa per Roma e tirare la corda ulteriormente non farebbe che portare munizioni alla retorica di Salvini. Questo banale dato di fatto costituisce tuttavia anche un’opportunità per i due partiti: un’Europa terrorizzata dalla prospettiva sovranista è oggi disposta a concedere molto di più alle forze pro-europee italiane di quanto non abbia fatto sinora, rimuovendo l’alibi del “ce lo chiede l’Europa”.

Diventa dunque essenziale conoscere se esista una terza via per la politica economica, diversa da quella sovranista ma al contempo lontana da quella europea del Fiscal Compact che ha caratterizzato in maniera nefasta l’ultimo decennio, e tale da poter essere sposata da ambedue i partiti. E la risposta è sì, esiste.

Richiede innanzitutto un rispetto formale di alcune regole europee non negoziabili, in particolare quelle legate al deficit su Pil del 3% come linea Maginot degli sforamenti di bilancio in tempo di difficoltà. In cambio di questa concessione all’Europa, l’Italia di questa insolita coalizione dovrebbe richiedere di poter rimanere al 3% fino all’uscita definitiva dalla stagnazione, un’eccezione significativa al Fiscal Compact che richiede comunque e sempre una convergenza al bilancio in pareggio nel giro di tre anni. Nuovamente in cambio, l’Italia garantirebbe due ulteriori condizioni: che le risorse così liberatesi verrebbero usate solo per fare investimenti pubblici che stimolano al contempo domanda “per” e produttività “delle” nostre aziende e che ulteriori aumenti di spesa o diminuzioni di imposte avverrebbero via spending review.

Cosa implicherebbe questo patto per le manovre di finanza pubblica? Con un deficit-PIL, come quello odierno, già attorno al 3% in assenza di aumento dell’IVA, praticamente nulla: non vi sarebbe in effetti spazio per ulteriori investimenti pubblici (una spending review seria richiede tempo), e il vantaggio di questo accordo si limiterebbe solo ad escludere ulteriori danni da austerità, non a generare benefici, troppo poco per sconfiggere i sovranisti. Una soluzione c’è: lasciar aumentare l’IVA, guadagnando ben 23 miliardi di risorse che potrebbero essere usate per gli investimenti pubblici in tutto il Paese. L’impatto di questa manovra, chiamata anche del “moltiplicatore in pareggio”, è noto e positivo per la crescita: se è vero che la domanda privata sarebbe in parte depressa dall’aumento delle imposte indirette, l’impatto positivo dei maggiori investimenti pubblici lo sovrasterebbe, sia nel breve che nel medio periodo. E due anni sono quanto bastano a questa anomala coalizione per dimostrare la bontà di questa scelta all’elettorato, in termini di ripresa e sviluppo.

Europa o non Europa? Tertium non datur, ai partiti l’ardua scelta.

2 comments

  1. Perché secondo lei confindustria continua a spingere sul cuneo fiscale invece che negli investimenti medio/piccoli?

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    • E’ un’ottima domanda e alquanto rilevante. Ovviamente non ne ho la minima idea. Sospetto da un lato la tradizionale dominanza delle grandi, se la questione è quella della dimensione dell’investimento. Se invece la questione posta è: perché cuneo invece di investimenti pubblici, immagino che sia legato al fatto che cuneo tocca l’interesse di tutte le associate e gli investimenti pubblici solo di alcune (non a caso ance è a favore di investimenti pubblici). Quello che sfugge loro è l’impatto su produzione e reddito, che beneficia tutte: sicuro nel caso di investimenti pubblici (con effetto moltiplicatore) incerto come minimo nel caso del cuneo.

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